nucleo comunista internazionalista
note




affiche

La scomparsa
della Sinistra Arcobaleno
dal parlamento
non significa
scomparsa del proletariato
dalla scena sociale,
dove è chiamato
al protagonismo di classe
e alla riconquista
del programma comunista


Abbiamo pubblicato sul sito una serie di commenti sulle elezioni di aprile, ora raccolti in opuscolo. Invitiamo i nostri lettori a prenderne visione e richiederli, a utilizzarli come contributo di discussione sul nuovo quadro politico volto a favorire una vera opposizione sociale e politica all’attacco del padronato e del governo Berlusconi.


A tal fine occorre un bilancio del voto di aprile che sappia indicare basi solide per la ripresa di iniziativa e di lotta degli sfruttati, contrastando il disorientamento ulteriore indotto dai colpi di coda della “sinistra radicale”, i cui congressi post–voto, diversi tra loro, si sono concentrati essenzialmente sul decidere con quali nomi, con quali simboli, con quali alleanze presentarsi alle prossime elezioni. La mozione risultata vincente nel congresso del Prc, che muove alcune critiche parziali alla conduzione dell’ultimo periodo con spunti non disprezzabili sull’analisi della sconfitta elettorale e del nuovo quadro politico, nondimeno conferma l’impianto “teorico” e programmatico comune alle contrapposte mozioni e si pone in sostanziale continuità con l’intero corso della “rifondazione del comunismo” (in tempi non sospetti abbiamo parafrasato: “ri–affondazione”), continuando a demarcare distanze incolmabili da un vero programma di classe. Essendo sideralmente lontani dagli stizziti commenti dei bertinottiani disarcionati e di quanti ancora esterni al Prc fanno muro contro il “minoritarsimo identitario” che attribuiscono alla sua nuova maggioranza, al tempo stesso non accreditiamo i “ripensamenti” –figuriamoci le “svolte a sinistra”– di chi dal giorno alla notte è passato dal convinto sostegno della propria presenza nel governo Prodi al mea culpa per “l’errore commesso” solo dopo averne misurato gli effetti disastrosi per il proprio bottino di voti.


Un disorientamento che –lo diciamo con la migliore attenzione verso tutto ciò che di buono venisse proposto– difficilmente troverà risposte da quanti sono saltati giù dal Titanic all’ultimo momento, dopo averne condiviso l’ultradecennale navigazione; o da quanti ancora, da sempre “autonomi” da esso, di fatto se ne erano messi al seguito, non sapendo concepire azione politica del proletariato se non in funzione della “sponda istituzionale” sulla quale suppostamene “far leva”.


Abbiamo già scritto che, a seguito del licenziamento della Sinistra Arcobaleno dal parlamento, non per questo sparisce dalla scena sociale il proletariato, sempre più chiamato a darsi voce e rappresentanza sue proprie al di fuori dei palazzi istituzionali.


A fronte delle prime avvisaglie di una politica di ordine e disciplina del nuovo esecutivo (contro gli immigrati, i rom, gli abitanti dei comuni campani che non gradiscono discariche e inceneritori), abbiamo messo le mani avanti contro chi grida al ritorno dei fascisti, per chiarire che non di questo si tratta, ma del dispiegamento pieno del contenuto capitalisticamente totalitario e unico della democrazia, che abbraccia e unisce l’arco che va dal fascismo al riformismo proclamato da sinistra. (Questa specifica un tempo sarebbe stata incomprensibile; è divenuta d’obbligo da quando le “riforme” della sinistra –soprattutto se governativa– si muovono, sostanzialmente, in una direzione di marcia non dissimile da quella propria delle “riforme” caldeggiate dalla destra e dai padroni; che dunque a ragione vantano anch’essi titoli “riformisti”).


Abbiamo quindi rimarcato quanto sia deleterio invocare la trincea costituzionale e antifascista, così delineando ancora l’obiettivo e l’orizzonte di un compattamento pro–democrazia, pro–Stato, pro–costituzione, inutile e dannoso in quanto cerca protezione e alleanza nei lidi e nei soggetti dai quali proviene l’offensiva contro i lavoratori e per questo indebolisce una potenziale opposizione sociale contro di essa, contro un attacco che è da definire nei suoi termini reali, sgombrando il campo dalle tante bufale in circolazione. Una tra tutte: il richiamo formalistico alla  necessità di ”radicamento nel sociale e nelle lotte”, che torna in auge solo dopo l’estromissione dai parlamenti (e nella speranza di potervi tornare). “Radicamento” di per sé giusto, ma che viene ora strumentalmente rinfacciato nelle risse congressuali, e comunque riproposto vuoto dei contenuti sui quali ci si dovrebbe radicare, oppure pieno dei contenuti ritriti di una politica già rivelatasi fallimentare; in ogni caso lontanissimo da ogni accenno di bilancio su un intero corso politico di svuotamento del carattere militante dell’organizzazione, in funzione di partiti “leggeri” e quant’altre velenose fesserie sia stato possibile diffondere.


Da ultimo abbiamo suonato l’allarme sulla questione della riforma federalista, ancor più decisiva e centrale a misura che la minaccia del nuovo giro di vite o salto federalista alle porte o non viene avvertita affatto dai lavoratori o non viene considerata tale da una parte non secondaria di essi, e marcia per questo indisturbata in un contesto di frantumazione della nostra classe. Avendo noi di mira, lo ribadiamo, la salvaguardia dell’unità materiale e politica del proletariato –non tanto negli attuali e piuttosto bassi coefficienti, che la “riforma federalista” punta a precipitare a zero, quanto nelle potenzialità della sua integrale ripresa– contro ogni ipotesi di jugoslavizzazione sostanziale o formale della nostra classe, e nulla fregandoci invece dell’unità della nazione.


Finora l’azione del padronato e del governo non ha incontrato ostacoli (ci facciano il piacere dipietristi e girotondini). Si è avvalsa in una prima fase delle reciproche promesse di disponibilità e dialogo con le opposizioni parlamentari sulle “riforme da fare”, e quindi poi della riesplosa cagnara su lodi e processi che ha garantito sostanziale copertura bipartisan sull’attacco al mondo del lavoro che intanto va avanti con il giro di vite sugli immigrati, con il peggioramento delle condizioni di precarietà, con le direttive europee sugli orari, con il quotidiano bollettino di operai che muoiono lavorando, con gli input governativi e confindustriali per rinnovi contrattuali ben al di sotto dell’inflazione. Mentre urge riprendere la discussione e l’iniziativa su tutti questi temi, la Cgil ha esordito con un sì alla riforma della contrattazione e ora è tirata per la giacca perché dia seguito effettivo all’esordio “unitario”, regolando i conti con chi recalcitra tra i suoi ranghi. 

Aprile 2008: una tornata elettorale come tante?

Il voto di aprile, per chi “a sinistra” non se lo voglia nascondere, ha segnato la scomparsa dal parlamento –e non solo– del Partito Comunista Italiano, ovvero –per capire di che parliamo– di ciò che ancora recentemente ne rimaneva, cioè delle forze che si erano opposte alla svolta della Bolognina; forze non proprio misere in partenza quanto a coefficienti reali e ancora elettoralisticamente congrue in tempi molto recenti (la Sinistra Arcobaleno era astrattamente accreditabile di un oltre 10% di voti).


Il proletariato è oggi “orfano” di una rappresentanza parlamentare “di sinistra” in qualche modo riconosciuta come “sua propria” (ché nel Partito Democratico i lavoratori stanno piuttosto in coabitazione con molti altri preponderanti com–proprietari e proprietari reali) o è piuttosto frantumato in varie rappresentanze parlamentari più o meno “bastarde” sulle quali ha scelto di far confluire e di far in qualche modo pesare i propri voti.


Giulietto Chiesa negli articoli a commento del voto visionabili sul suo sito ci spiega che insieme ai parlamentari della Sinistra Arcobaleno “non è scomparsa l’Italia democratica e di sinistra”. Egli invita gli sconfitti a non “strapparsi le vesti” e a “ricostruire un movimento popolare di resistenza democratica”. Se nelle urne “molti lavoratori che tradizionalmente votano a sinistra hanno scelto Lega”, nondimeno “la sinistra” “azzerata nel parlamento”, non lo sarebbe  “nel paese”. Nella sinistra “non azzerata” Chiesa ci mette dentro “ampie masse popolari –non solo e non tanto ‘operaie’, ma grandi masse di individui, molto differenziate, di cui la classe operaia è solo parte, includenti artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, etc.–“; “masse popolari” che nel voto di aprile “sono andate a cercare protezione altrove”. L’obiettivo indicato al “popolo di sinistra” (“da ricostruire”) è ambizioso, se si evoca la necessità di un’ “alternativa all’attuale organizzazione sociale che sta entrando nella sua agonia storica”. Ma il contributo di Chiesa è in definitiva ben misero, se la “ricostruzione” passa per la “difesa del territorio”, che suona piuttosto come ritiro dalla politica e dallo scontro generali per far leva a livello locale sulle sponde istituzionali che tuttora vi “resistono”, e per l’ “affermazione della supremazia del Bene Comune” (?!), che –se comprendiamo il senso di un richiamo fin troppo ambiguo– è vuoto e imbelle antiberlusconismo di ritorno.


Ben altrimenti, noi diciamo: dopo il voto di aprile non è scomparso –e non può scomparire– il proletariato (differenza non di mero lessico con l’autore citato). Che per noi non significa gettarsi dietro le spalle il dato di fatto della batosta elettorale del centro–sinistra, della Sinistra Arcobaleno e del Partito Democratico. Né, soprattutto, significa omettere il peso negativo sul proletariato della politica delle “sinistre” democratiche e “comuniste”, che, per serrare e funzionalizzare l’azione politica dei lavoratori nel letto di Procuste della democrazia dei padroni e delle sue compatibilità, fino al risultato estremo dell’approdo nel partito “democratico” e della scomparsa della “sinistra radicale”, hanno lavorato a deprimere e smobilitare la capacità organizzativa e di azione politica già messa in campo dalla classe operaia. Un risultato questo che comunque non addebitiamo in toto e neanche per la maggior parte a questi signori, che, in vario modo, alcuni con totale consapevolezza e altri meno, lo hanno voluto o hanno concorso a determinarlo.


Il nostro soggetto dunque c’è, quand’anche in parlamento non rimanga traccia della sua storia, ma è attualmente inerte e disarmato di fronte a un “soggetto” avverso che è contro di noi coeso e determinato. Per favorirne l’organizzazione e la capacità di reazione e di difesa contro il padronato e il nuovo esecutivo di centro–destra, è necessario –come sempre lo è stato– dare battaglia a tutti gli eredi del fu grande Pci, per presentare ad essi, davanti e tra i lavoratori, il conto non già del deludente risultato elettorale, ma dello stato di disorganizzazione e imbrigliamento nel quale hanno ben contribuito a condurre il proletariato, spegnendone la capacità di lotta nelle conte elettorali anti–berlusconiane e nell’appoggio imbelle a governi presuntamente amici. Il che ci consegna oggi non tanto e non solo maggioranze bulgare dei poteri forti nei palazzi, non solo un Berlusconi al cubo, ma una accresciuta forza politica del fronte borghese contro il mondo del lavoro, un supporto sociale e trasversale di massa alle sue politiche d’ordine e rigore capitalistici, la situazione più favorevole da molti anni a questa parte per sferrare attacchi al nostro soggetto cogliendolo in grande difficoltà di difesa e di azione politica; non per i numeri che in parlamento gli mancano, ma per quelli che già precedentemente aveva smobilitato e azzerato nella società, confidando di potersi parare con governi amici ovvero per favorirne l’avvento prima e per non comprometterne la tenuta istituzionale dopo.


Noi, che mai abbiamo campato all’ombra del partitone, certo non ci demoralizziamo né ci sentiamo orfani di rappresentanze istituzionali. Ma... stai a vedere che non è successo niente?


Alle forze politiche e sindacali che a vario titolo provengono da quella storia –senza ovviamente mettere tutti sullo stesso piano, da Veltroni a ... Chiesa, dai vertici della Cgil alle sue varie opposizioni– non va concesso spazio né alle argomentazioni minimizzanti, tipo quelle che riportiamo nelle righe che seguono, e né ad altre tiritere che invece cavalcano il “salto epocale” e la “sconfitta” di aprile, ma solo per riproporre se stessi come candidati e portabandiera buoni per tutte le stagioni, per i quali non viene mai l’ora di un bilancio collettivo da imporre a questi signori per i fallimenti della loro politica e come prima capacità dei lavoratori di iniziare a reinvertire veramente la rotta.


“Prodi non si è fatto capire dalla gente”. “Non ha saputo comunicare”. “Berlusconi ha tolto il 100% dell’Ici, perché altrimenti la gente si sarebbe accorta che Prodi ne aveva già tolto il 40%”. “La sconfitta elettorale del 2008 è figlia della mancata vittoria del 2006, a sua volta figlia di una sciagurata campagna elettorale”. Etc., etc. ....  Noi siamo impegnati a dare battaglia tra i lavoratori a queste psuedo–argomentazioni minimizzanti ed elusive, portate da chi aveva bensì garantito 5 anni di stabilità e sostanziale pace sociale al governo Prodi e ora si rammarica perché ciò non è bastato e deve rifarsi precipitosamente il trucco in un quadro politico andato per aria in tutt’altra direzione. Ma quintali di cerone sulla faccia di questi signori non cancellano l’incombere di una riflessione seria sul voto, attraverso il quale molti lavoratori hanno bocciato senza appello il governo di centro–sinistra. Se durante la campagna del 2006 Prodi si era spiegato male, ha poi avuto due anni per farsi capire, ora non più sulle intenzioni ma sui fatti, e i fatti sono stati che il suo governo ha risanato i conti dello Stato a spese dei lavoratori (con tanto di riconoscimento delle istituzioni europee che hanno cancellato la procedura d’infrazione a carico dell’Italia per deficit eccessivo), ha abbassato le tasse alle imprese, ha riconfermato il quadro della precarietà, e tutto ciò in tempi in cui l’inflazione reale mangia drammaticamente il salario dei lavoratori. In particolare, poi, i lavoratori nell’urna hanno dato un calcio alla sinistra “radicale” dicendole che non serve a niente. Che non c’è più spazio per le mascherate di “comunisti” ultrafasulli che votano Si nei parlamenti, mentre –aggiungiamo noi– è sempre più necessaria la ripresa di una vera politica di classe. Stesso dicasi a quanti nel sindacato ed essendo stati un tempo opposizione in Cgil, avevano rilasciato, sempre in funzione di quel patto di stabilità governativa del centro–sinistra, attestati di cambiamento di rotta della Cgil confluendo nella maggioranza, mentre invece la Cgil nei due anni di Prodi ha sostenuto la finanziaria per il 2007, ha aperto il fuoco della polemica contro ogni iniziativa di lotta, dal 4/11/06 al 20/10/07, ha sottoscritto il protocollo sul welfare, etc..


Se ai sinistri radicali va imputato di aver dilapidato un patrimonio di organizzazione e di lotta dei lavoratori in cambio di mosche, neanche i veltroniani possono cantare vittoria. Certo non è poco per costoro non aver più diliberti e giordani tra le palle e molti lo dicono anche apertamente, ma resta il fatto che il governo Prodi, la sua politica di rigore dei conti pubblici a spese dei lavoratori, la sua cascata di denari alle imprese senza alcun ritorno tangibile per chi arranca ogni giorno di più, l’arroganza sul Dal Molin e le alleanze con i Calearo di Confindustria, etc. hanno ricevuto anch’essi una vistosa bocciatura da quella parte di società che nei progetti di costoro avrebbe dovuto sostenerli. Da qui, per quanto ci interessa, si riparte: dall’indisponibilità dei lavoratori –attualmente manifestata– ad assumere i panni di capro sacrificale per il cosiddetto risanamento caricandosi sulle spalle il governo di centrosinistra da sostenere. Un’indisponibilità che beninteso rileviamo e valorizziamo, così come la precedente opposizione al governo Berlusconi, nei passaggi di mobilitazione che ci sono stati, se non tutti contro il governo di centro–sinistra, pur sempre però critici e di pressione verso di esso: le manifestazioni del 4/11/06 sulla precarietà e del 20/10/07, il milione vero di no al referendum sui protocolli, le manifestazioni di Vicenza, il 9 giugno “contro Bush e Prodi”, etc.. Si riparte al tempo stesso dalla necessità, se veramente si vuole evitare questo copione, di non cadere adesso nelle promesse del centro–destra e nella trappola federalista e di rendersi conto il prima possibile che la “cacciata” di Prodi/Padoa Schioppa sulla base non già di un movimento di lotta organizzato e in piedi, bensì di una protesta improvvidamente affidata nell’urna elettorale alle destre e alla Lega, lascia i lavoratori senza difese di fronte al nuovo esecutivo (cui Prodi e i suoi fans hanno spianato la strada). Un esecutivo, quello di centro–destra, che, all’unisono in questo con Confindustria e spesso con il via libera della stessa “opposizione” del Pd, si appresta a colpire ancor più duramente il mondo del lavoro.

La sconfitta del centro–sinistra non significa di per sé sconfitta del proletariato

Di batosta elettorale, quindi, si tratta, con tutte le nostre precisazioni del caso in tema di elezioni e di batoste ad esse relative da mettere bene in chiaro. Che non siano però volte a omettere come bazzecola di poco conto il fatto che le forze richiamantisi al socialismo e al comunismo non entrano in parlamento, dopo che per oltre 100 anni vi sono state sempre rappresentate, e idem dicasi per le forze eredi dell’Ottobre e del terzinternazionalismo. Non perché queste forze siano di casa nei parlamenti, che anzi nella stragrande maggioranza dei casi vi sono state e vi sono assenti, sì invece perché in Italia nei parlamenti ci sono state per un intero ciclo storico; e come si trattava –e ancora si tratta– di capire in quali condizioni questo accadeva e cosa significava, a differenza di altri paesi dove ciò non accadeva, così ora si tratta di capire da che è data la scomparsa. Un conto è dire che il centro dello scontro è nella società e non nei parlamenti e nelle urne –sacrosanto–, altro è saltare a piè pari il dato di fatto dell’eclissi elettorale di forze politiche di sinistra che nell’urna avevano da molti e ininterrotti decenni trovato la delega di gran parte di lavoratori e proletari.


Sulla testa di chi cade la batosta elettorale? Dov’è la sconfitta, se c’è? E di chi è? E’ la sconfitta della sinistra istituzionale e dei suoi ultimi miraggi di preteso riformismo pro–lavoratori come lo avevamo conosciuto per decenni (il che non esclude che possa assumere nuove e “opposte” vesti). Sicuramente è la sconfitta degli Arcobaleni. Ma anche degli ex diessini ora nel Pd e anche della maggioranza della Cgil, che pur acquistano forza –gli uni e gli altri– nei confronti delle minoranze recalcitranti alla loro sinistra. Sconfitta del riformismo, che non significa di per sè sconfitta del proletariato, il quale, però, per non aver dato seguito con la stessa intensità –prima in vista e poi dopo le elezioni del 2006– alla mobilitazione e all’iniziativa già intraprese, si ritrova oggi esposto in condizioni di grande difficoltà agli attacchi di un fronte padronale e governativo ulteriormente rafforzato e coeso dalla caporetto del centro–sinistra.


E allora. Punto primo: la scomparsa dei parlamentari “comunisti” non significa scomparsa del proletariato dalla società. Punto secondo: la sconfitta del centro–sinistra, del governo Prodi, della Sinistra Arcobaleno e del Pd non significa affatto e di per sé sconfitta del soggetto nostro. L’opzione del Pd per un capitalismo ordinato che affronti con politiche di rigore e austerità la crisi capitalistica è oggi perdente perché né riceve il consenso necessario dal popolo del centro–sinistra, né, dopo la scelta coraggiosa di andare da soli, guadagna l’autosufficienza cui tende dopo la scontata amputazione di alleati e consensi a sinistra da sostituirsi con nuovi voti e nuove alleanze al centro. Ovviamente le sconfitte dei sinistri radicali e del Pd si pongono su piani diversi: la prima assomiglia a una débacle definitiva, aggravata dalle risse in corso nell’assenza di spunti utili per un bilancio fino in fondo del fallimento non degli ultimi mesi e dell’ultima elezione, ma di un intero ciclo storico del riformismo; la seconda è suscettibile di convertirsi nel prosieguo in un nuovo e diverso punto di approdo vittorioso. Già oggi il Pd ha accennato a cantare vittoria per i consensi erosi a sinistra. Ma si tratta di consensi ancora parziali e insufficienti: se è vero che molti elettori della Sinistra Arcobaleno dietro il ricatto del voto utile hanno votato Pd, così seguendo fino in fondo la logica di sottomissione alle necessità del capitalismo già in essi introiettata dalla stessa inerzia politica della Sinistra Arcobaleno, è anche vero che molti voti persi mancano all’appello, e –di questi– quelli, non pochi, confluiti o ri–confluiti a destra e nella Lega non sono dati in segno di accettazione di quel destino, ma semmai nel tentativo illusorio di resistervi in altro modo.


Non si tratta, invece, della sconfitta del proletariato. Il proletariato non ha dato battaglia –purtroppo– e finora –almeno– non è stato sconfitto. La sconfitta del 13/14 aprile non è una sua/nostra sconfitta. E vediamo di spiegarci.


Se è sempre vero che le conte elettorali sono fatte apposta per dividere e ingabbiare il proletariato –e mai questa verità è stata così visibile come nella conta di cui stiamo parlando–, di sconfitta proletaria si potrebbe parlare all’esito di uno scontro reale. Sul piano dello scontro reale, allora, il proletariato ha accennato alla mobilitazione nel 2002 quando ha riempito la piazza di Roma contro l’attacco all’art. 18. Quella mobilitazione ha raggiunto il suo obbiettivo immediato e minimo, quello di sbarrare al governo Berlusconi la strada dell’attacco diretto e frontale al mondo del lavoro. Da allora il proletariato ha smobilitato quella piazza e ha evitato lo scontro generale: dapprima perché la forza già messa in campo, secondo i voti delle sue riconosciute direzioni, doveva rientrare nei ranghi ed essere funzionalizzata a una lontana rivincita elettorale (che poi non c’è stata se non per un soffio), e, poi dopo, perché non si poteva dichiarare guerra al governo di centro–sinistra, e comunque, dato il disarmo precedente, le ruote erano state fin troppo sgonfiate perché le proteste contro la prima finanziaria Prodi e gli accordi successivi (scalone e soprattutto welfare) si trasformassero in ripresa della lotta: di ciò si è visto solo qualche accenno preparatorio (... per chi non aveva gli occhi coperti dalle fette di prosciutto e continua ora a nascondere la propria narcosi, accreditando una narcosi dei lavoratori durante i due anni di governo Prodi che invece in quei termini non c’è stata).


Dunque il proletariato non ha ingaggiato una battaglia che si sia conclusa con la sconfitta del 13/14 aprile. Bruciata semmai attraverso l’esperienza di questi fatti dovrebbe essere l’illusione che la soluzione dei  problemi possa essere trovata nell’urna, nell’affidarsi a coalizioni prodiane o consimili, l’idea che la mobilitazione –quando, alle strette, diventa infine necessaria– debba valere piuttosto come prova muscolare utile a cambiare un vento sfavorevole e allontanarne il soffio, ma giammai debba essere dispiegata sul serio, perché invece l’ola di partecipazione e consensi che essa suscita deve essere tutta indirizzata non all’organizzazione e alla lotta vera, ma alla prossima, pur lontana, conta di voti.


Il proletariato non ha dato battaglia e finora non è stato sconfitto. Rischia –e di brutto– di essere sconfitto perché non dà le sue battaglie. Non dando le sue battaglie non cementa la sua unità. Non mettendo in campo la sua lotta, la sua politica, lascia spazio e corso libero tra i suoi ranghi sempre più sbrillentati alle politiche della borghesia in tutte le sue varianti, non solo alle presunte soluzioni suicide del centro–sinistra, ma anche alle suggestioni e alle promesse veicolate dalle varie destre (non escluse quelle interne al centro–sinistra stesso) e direttamente dal padronato. Continua a disgregarsi e frammentarsi, mentre il fronte nemico si rafforza e si compatta contro di esso.

Continua rigenerazione dell’opportunismo

Mario Tronti e il Centro Studi per la riforma dello Stato hanno elaborato “11 tesi” sullo “tsunami” elettorale (vedi anche su il manifesto dell’11/06/08) e su di esse hanno chiamato a convegno i cocci della “sinistra” maremotata (vedi il resoconto anche su Liberazione del 28 giugno) per “ricostruire un campo di forze in grado di portare un progetto di trasformazione strategicamente pensato e tatticamente agito”. Nel riferirci a questo dibattito, non possiamo fare a meno di stigmatizzare un linguaggio per noi insopportabile, a copertura di uno spessore di ragionamento prossimo a zero, a dispetto –o proprio in forza– dell’aureola pseudo–intellettuale messa continuamente in mostra. Sicché non sarà mai troppo tardi quando gli sfruttati toglieranno la scena a questa genia di ricostruttori, rimettendo al centro il proprio protagonismo di lotta, la propria scienza collettiva e il programma di classe, che sono bensì da riconquistare, ma non da “ripensare” a scadenze sempre più ravvicinate per demarcarli sempre di più nel loro contrario!


Le 11 tesi non minimizzano il “tratto di discontinuità”, il “salto” segnato dal voto di aprile. “Dopo di esso” –vi si legge– “non si può riprendere il discorso dall’ heri dicebamus”. Fatta questa premessa, però, la rilevazione del “salto” serve solo a caricare ancor di più (di aria fritta) la continuità di una politica fallimentare, omettendo in effetti la sostanza reale del “salto”. Errore della Sinistra Arcobaleno sarebbe stato di ”aver marcato una posizione alternativa con una grande ambizione e una piccola forza”, perché “non si può essere troppo a lungo anticapitalisti e deboli, antagonisti in pochi” (?!). Avrebbero perso, par di capire, perché deboli e pochi e nondimeno anticapitalisti e ambiziosi (alla romana “pidocchiosi e presuntuosi”) e ora Tronti e compagnia ci spiegherebbero –...se solo fosse possibile afferrare il fumo– con quale “diversa” politica si sarebbe in tanti domani. Giammai hanno perso, molto più semplicemente, perché sono stati a fare il palo a un governo antioperaio senza avere contropartite da spendere a giustificazione della propria presenza. Il che certo li qualifica, ma innanzitutto identifica la fine di un ciclo e della base materiale di tante “studiate” chiacchiere a vuoto, il cui rumore poteva andar giù per buono alle orecchie operaie solo in quanto da altre materiali sponde arrivava almeno qualcosina in solido apparentemente connesso a quelle chiacchiere.


Se Giulietto Chiesa ci rassicurava che non era scomparsa insieme ai suoi parlamentari “l’Italia di sinistra” interclassista e popolare (“non solo e non tanto la classe operaia...”), questi studiosi sono più espliciti e ci dicono papale papale che oggi siamo al “dopo la classe”, al “dopo il movimento operaio”. “Un tempo” –scrivono– “c’erano le grandi classi ... che esprimevano grandi interessi”, ma ora “quando le classi si disgregano ... il volto nuovo della sinistra è produrre legame sociale e produrlo attraverso il conflitto o meglio i conflitti” (!?). Non una sinistra “residuale .. arroccata nei passati simboli e nelle antiche identità ... ma una grande sinistra moderna, critica, autonoma, autorevole, popolare”: più si soffia nella tromba, più lo sguardo si allarga a comprendere la dimensione del vuoto che la ispira. Infatti –proseguono le tesi– “non si può concedere che l’anomalia italiana si ripresenti oggi nella forma dell’eccezione di un paese senza una grande forza politica che rivendichi con orgoglio questa funzione” (?!). Ma cosa è questo imbroglio di parole che cita le questioni per confondere verbosamente le carte?! La cosiddetta anomalia c’era ieri con partiti e forze “comuniste” presenti in parlamento e a portata di poltrone governative; oggi dovremmo essere, invece, a quel “paese normale” di cui parlava d’Alema. Come si fa a lamentare entrambe le anomalie? proletarierQuanto alla “grande sinistra moderna” –si legge ancora nelle tesi– “entrambe le tradizioni comunista e socialdemocratica sono esaurite. Né per questo si deve credere che per i bisogni della sinistra sia allora viva la tradizione liberaldemocratica. Il partito del popolo della sinistra è oltre tutta intera questa storia”. Chi cercava lumi è servito. Se poi non ha capito niente, si rassicuri sui  propri quozienti intellettivi pur al cospetto di queste cime “inarrivabili”, perché la spiegazione è la più semplice: non c’è niente da capire.


Fortunatamente il coordinatore di Sinistra Democratica Fava ci sintetizza il sugo delle 11 tesi, in chiave anti–ferreriana: “Il paese ci ha notificato che non serve una somma di derive identitarie e che così non siamo utili a nessuno” (n.n. verissimo il grassetto, nostro). Per cui se vince la mozione Ferrero (n., che vuole “mantenere il recinto” del PRC e non “andare oltre”) in ogni caso si andrà  verso una costituente di sinistra e verso una fase di verità umana e politica (??)”.  Ferrero, dal canto suo, vuole “ripartire” dagli esempi della capacità di reinsediamento sociale della chiesa, nel lavoro degli oratori dopo le sconfitte sull’aborto e sul divorzio, e dell’esercito, “che uscì dall’antimilitarismo degli anni ’70 mettendo in campo una capacità di lavoro sociale nei terremoti del Friuli e del Belice”. A parte il capo offerto al repentino cospargimento di cenere, su quali contenuti si darebbe il “reinsediamento”? Qui la mozione scivola molto, ma molto, nel vago su parecchi punti decisivi. Infine ha detto la sua anche Ermanno Rea su il manifesto dell’ 11/06 e noi la riportiamo perché sintetizza emblematicamente l’interrogativo che rimbalza e a cui si risponde con svolazzi retorici e sostanziali conferme della programmata esclusione di ogni neanche pensato ri–orientamento in senso classista: oggi, quando “si aggira in Italia il fantasma della sinistra che non c’è più e si cerca un punto dal quale ripartire”, Rea, in un articolo sulla spazzatura di Napoli che chi vuole può andare a leggere, si chiede “se questo punto di partenza non possa essere la stessa unità nazionale dell’Italia”. Amen.

 

La parabola fallimentare del riformismo

Dei cambiamenti registrati dal voto d’aprile è d’obbligo parlare per il verso giusto e in modo chiaro, per tenere stretto il bandolo della nostra matassa, contro le affabulazioni prive di spina dorsale, che contribuiscono soltanto a debilitare le energie tuttora disposte ad ancorarsi a una prospettiva di alternativa anticapitalista e di lotta.


Il panorama politico–istituzionale italiano è cambiato, perché finisce l’anomalia che per oltre mezzo secolo ha differenziato l’Italia dagli altri paesi d’Occidente. E’ cambiato non certo perché identifichiamo la politica con i colori presenti in parlamento e nelle istituzioni. Piuttosto perché sappiamo riconoscere una fase storica nella quale, in Italia e altrove, difettano da tempo un’azione politica della nostra classe e relative sue forze organizzate di un certo peso agenti sul terreno extra e anti–istituzionale. Il che registriamo senza affatto sottovalutare le potenzialità –datesi a tratti anche in questo lungo periodo– di un vero movimento di lotta che “improvvisamente” ri–diventi soggetto politico tornando a calcare da protagonista il vero campo di gioco.


Oggi, dopo le elezioni di aprile, il quadro della politica italiana assomiglia molto di più a quello degli altri paesi occidentali. L’Italia è diventata quel paese “normale” che voleva il bombardatore D’Alema: i comunisti archiviati, un centro–destra che non veda e denunci comunisti a ogni angolo di strada e magari dialoghi responsabilmente con l’opposizione, tutti insieme  appassionatamente per i colori della nazione; ora si potrà bombardare “normalmente” gli “incivili”  tipo serbi e consimili, come hanno sempre potuto fare le “normali” democrazie di Stati Uniti, Gran Bretagna o Francia.


L’esito attuale, che riteniamo in buona parte inatteso nel risultato estremo della cancellazione della “sinistra” da senato e camera, ci chiama a riprendere il filo della nostra analisi sulla parabola storica del riformismo. A distanza di molti decenni, infatti, sparisce l’ipotesi di finto “comunismo” addomesticato per come lo abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi 60 anni,  durante i quali esso ha tenuto banco –in Italia– fino a sfiorare maggioranze relative di consensi, per lasciare in piedi un partito democratico che presenta connotati e personale ancor più destri della stessa socialdemocrazia, essendo definitivamente e insieme scomparse anche le vestigia residue del fu partito socialista. Sicuramente da molto tempo Boselli e Bertinotti/Diliberto erano ectoplasmi residuali, ma, se ci si volge un attimo all’indietro (quanto è necessario per mettere a fuoco gli elementi necessari del contesto e della battaglia attuali) veramente sembra archiviata un’epoca. Crediamo sia sbagliato non valutare fino in fondo questo passaggio. Non per crogiolarsi in nostalgie (di che?), né per insospettabile suggestione elettoralistica al contrario, ma per attrezzarci al meglio a dare battaglia nel presente contro quanti, cacciati dai palazzi e orfani del governo cui avevano garantito un quinquennio di sostanziale pace sociale, ora, come se niente fosse, minimizzano l’“incidente di percorso” (transitorio?), lo piegano a proprio comodo, tornano a dedicare attenzioni “ai movimenti” e “alla piazze” che regnante Prodi dovevano restare vuote e mute, per dispensarvi  con la presenza dei propri comunque soverchianti apparati la politica avvelenata e deleteria di sempre.


Non è sbagliato, per il nostro metodo e la nostra battaglia, inquadrare l’ “epilogo” “italiano” alla luce del generale corso storico dell’organizzazione di classe e del partito. Del che indichiamo qui una traccia che dia il senso del lavoro che proponiamo e per cui ci proponiamo; e all’occorrenza potremo stilare in ogni dettaglio le nostre “11 tesi”, già in buona parte scritte.


Secondo le quali le battaglie teoriche e politiche della Prima Internazionale (e prima di essa della Lega dei comunisti) hanno avuto per merito e compito la definizione del programma. Dopo la Comune e nel corso degli anni ’70 il marxismo ha conseguito nell’ambito delle organizzazioni operaie e democratico–rivoluzionarie d’Europa la vittoria teorica e pratica delle proprie tesi contro le altre correnti già in esse presenti e agenti, ormai d’intralcio sulla strada dei compiti ulteriori (anni ’70 dell’ 800; e al diavolo quanti si affannano a segnare demarcazioni anti–comuniste anche dalla cosiddetta “sinistra novecentesca”, sembrandogli ancora troppo poco le proprie abiure del comunismo delle origini ... e di sempre). Sicché la Prima Internazionale si sciolse e fu sciolta, perché le forze, nella nuova fase, andassero “naturalmente” a concentrarsi e applicarsi a un nuovo compito storicamente rivoluzionario, quello della costituzione, necessariamente su base nazionale, dell’organizzazione separata e distinta della classe lavoratrice nella società borghese. Il periodo storico della Seconda Internazionale si applica al raggiungimento di questa meta, che vede nascere in Europa i primi grandi partiti socialisti, così come estendersi e radicarsi i sindacati dei lavoratori. L’organizzazione sindacale è data ovunque. Il percorso del partito presenta tratti anche molto diversi da paese a paese –non solo nelle tempistiche– in relazione ai diseguali presupposti strutturali. Il punto più forte sembra essere in Germania e certo non sarà tempo perso fissare i tratti comuni e quelli differenziali (differenziali in relazione a quali fattori e a quali battaglie attraversate?) dell’organizzazione di classe, politica e sindacale, nei paesi europei e nel mondo più ampio allora effettivamente collegato e unito in una prima comunità internazionale di lotta con primi modesti ma reali coefficienti maturati a questa scala.


La borghesia, inizialmente atterrita dall’organizzazione di classe che vedeva crescere ovunque, imparò in seguito a combatterla anche dal di dentro, a operare in ogni modo per poterla corrompere. Se il percorso storico rivoluzionario aveva visto le forze socialiste e proletarie applicate nelle prime battaglie alla definizione e affermazione del programma e quindi poi all’organizzazione della massa proletaria, alla prova della guerra e della crisi non fu possibile, se non nell’arretrata Russia, congiungere i risultati già conquistati del programma e dell’organizzazione delle masse per fonderli in un'unica arma vincente della battaglia anticapitalista. Nei paesi centrali d’Europa quella forte organizzazione autenticamente proletaria rispondeva in buona e decisiva parte a direzioni che avevano voltato le spalle al programma del socialismo, come fu chiaro alla prova dei fatti. E fu scontro tra le direzioni della Seconda Internazionale e le ali rivoluzionarie, che si scissero fondando nuovi partiti comunisti e aderendo alla Terza Internazionale.


Come reagiscono i partiti e i sindacati europei di fronte al tradimento dei vertici della Seconda Internazionale? Quali sono i connotati, la consistenza e la successiva tenuta dei partiti e delle forze –di vario tipo– che aderiscono alla Terza Internazionale? In quali paesi la prima guerra, l’Ottobre e gli anni ’20 concorrono a gettare il seme costitutivo di partiti comunisti di un certo peso? In quali altri no e perché? In Germania lo scontro è cruento. Le forze e i settori proletari che aderiscono e danno forza al partito comunista si lanciano all’assalto del potere. E’ guerra civile, con la socialdemocrazia –anch’essa con seguito e consenso di massa alla sua azione– schierata sul fronte borghese, contro l’assalto delle masse e dei comunisti con esse. In Italia lo scontro sociale non è altrettanto cruento. La contesa tra il vecchio Psi e il nuovo Pci non giunge a scontri frontali a misura che non c’è l’assalto rivoluzionario per la conquista del potere. In Francia, dove più diverse forze e partiti avevano dichiarato la propria adesione alla Terza, il fronte democratico e popolare tra socialisti e comunisti è già ricomposto e cementato negli anni ‘30.


Nel secondo dopoguerra qual è lo scenario? La Germania è messa a ferro e fuoco. Il nazismo prima, la divisione in due della nazione e del proletariato poi costituiscono la base di un’azione di lungo periodo nella quale le potenze dei due fronti nemici concorrono a incatenare il proletariato tedesco già rivelatosi così forte e minaccioso. La socialdemocrazia –anche in virtù del seguito di una base operaia che non aveva mai perduto, pur quando si era resa complice della borghesia assassina– riprende nel dopoguerra il centro della scena senza concorrenti di rilievo a sinistra. Rosa e Carlo vengono commemorati periodicamente con manifestazioni molto partecipate, ma solo di recente entra in campo un “nuova sinistra” formata dal vecchio partito “comunista” dell’Est e dalla nuova sinistra scissasi all’Ovest dalla Spd, sulla cui comparsa varrà la pena soffermarsi in altra sede, fermo che con Rosa e Carlo essa non ha nulla a che vedere.


Cosa accade in Italia? [vedi anche il nostro “ La sinistra in Italia”] Cosa rappresenta dal dopoguerra ad oggi la lunga parabola, ora conclusa, del Pci, che, dopo gli anni cruciali, si snoda attraverso la seconda guerra, la resistenza, il dopoguerra, il grande partito comunista “italiano” di massa, di lotta e di governo, nell’alveo del capitalismo occidentale e dell’alleanza atlantica? Dopo la sconfitta degli anni venti e il riflusso della fase rivoluzionaria è venuta meno da allora la possibilità di una base di massa per un partito o comunque per forze organizzate su posizioni rivoluzionarie e classiste. Nella resistenza e nell’immediato dopoguerra è il Pci a imporsi come partito con un crescente seguito e consenso tra le masse proletarie e contadine. E, una volta archiviati gli esperimenti di fronte popolare con il Psi di Nenni, i due partiti si incamminano ciascuno per la propria strada. Il Psi verso il Midas e Craxi, ovvero verso l’assunzione senza se e senza ma degli imperativi del capitalismo nazionale, ivi compreso quello di scardinare –giammai più di allearsi e offrirgli sponde– l’anomalia rappresentata da un Pci e un sindacato esclusi dall’area del governo e del potere diretto, ma pur sempre troppo forti e condizionanti la politica nazionale. Il Pci per tre decenni almeno tiene banco in ottima forma (iniziando sin da allora a corrompere e svuotare l’originaria consistenza proletaria e classista della propria organizzazione di partito e l’afflusso di energie verso di esso); resiste agli attacchi di Craxi che puntava a togliergli il terreno da sotto i piedi con qualche anticipo sui tempi che poi realmente si sono dati; e quando infine programma la sua Bolognina vede comporsi a sinistra il coagulo di forze non insignificanti decise a non abbandonare i simboli e la lotta.

Il corso del capitalismo italiano e le vicende dello scontro di classe che lo hanno segnato hanno potuto coniugare nel secondo dopoguerra la tenuta di una capacità organizzativa del proletariato e lo sprigionamento di genuine energie di lotta, non dimentiche delle battaglie precedenti quand’anche incanalate entro binari saldamente riformisti, con la rappresentanza e il contenitore del Pci ovvero di un partito erede della Terza Internazionale e dell’Ottobre. La Germania è stata l’epicentro dello scontro e della sconfitta –degli anni 20 e della seconda guerra (due tempi di una sconfitta sola)– e il cammino del proletariato tedesco è per forza di cose ripartito dall’azzeramento del riferimento alla Terza e a quella storia, dall’annientamento programmato di ogni velleità politica del proletariato in direzione del comunismo e del comunismo vero, prima attraverso il nazismo e poi con la mannaia dell’amputazione e divisone di quella classe proletaria che unita aveva dato battaglia (una battaglia che con il solo esordio, tanto per dire, aveva pensionato il terribile kaiser).


graffitiIl comunismo stalinista italiano (alla lunga “antistalinista” –da destra–, proprio in quanto coerentemente stalinista) da quel dì ha abbandonato alle ortiche il programma e la teoria veri del comunismo. Su queste basi ha coltivato il rapporto con le masse in una lunga fase controrivoluzionaria e in tal senso è stato contenitore reale dell’organizzazione di classe in espansione e radicamento effettivi in Italia nel secondo dopoguerra. Quell’organizzazione è via via divenuta un intralcio pesante al capitalismo nazionale e gli amendola, napolitani e macalusi vari hanno preparato e infine non si sono lasciati sfuggire le occasioni “date dalla storia” (o dalla sua fine, come altri scemi hanno detto) per raccogliere finalmente gli inviti del fronte avverso a ridimensionarla opportunamente e quindi a scioglierla.


Se in Germania la socialdemocrazia ha ripreso il sopravvento sul comunismo a seguito di una battaglia eroicamente data da masse proletarie e dai comunisti –veri–, in Italia gli eredi degeneri delle battaglie degli anni ’20 hanno potuto compiere un lungo viaggio nelle istituzioni e nello Stato, che si completa ora con l’autoscioglimento senza assalti e senza neanche più riformistica lotta: un vergognoso corso ed epilogo in stile molto italiota, foriero di aggiuntivi problemi per la residua tenuta di una classe che fino all’altroieri continuava a far leva e a cercar sponde in un edificio ora definitivamente crollato in macerie.


Quale battaglia politica affinché la caporetto del centro–sinistra non si traduca in sconfitta del proletariato

Ai titolari di questa storia va presentato il conto della parabola di fallimenti e la sintesi che precede non vuole essere una lezioncina di storia fine a se stessa. La parabola del riformismo ha una valenza politica attuale ben precisa. Nella versione “moderata” o democratica ora approdata nel Pd punta a spegnere l’antagonismo storico del proletariato contro il sistema del capitale per “traghettarlo” nella sottomissione agli imperativi della propria azienda–paese, della quale garantire le prioritarie necessità di competizione per poterne meritare in subordine quel tanto che è possibile di compassionevole attenzione verso i più deboli. Nella versione cosiddetta “radicale” l’antagonismo viene rivendicato (sempre meno) a parole, alle quali consapevolmente non viene dato  alcun seguito reale, concludendosi nella dimostrazione fattuale che solo il primo approdo sarebbe possibile. Da qui si apre la porta acché gli sfruttati si auto–annullino come classe, come soggetto politico, come partito unico e distinto nella società del capitale, per dividersi e all’occorrenza contrapporsi alla coda di tutte le più diverse varianti della politica borghese. A sostegno di questo bilancio e di questo esito finali la borghesia schiera interi eserciti e apparati di politici, scienziati, professori, “esperti”, giornalisti... e –tra essi– una pletora di “intellettuali di sinistra”. La nostra storia, conosciuta e letta con le nostre lenti, serve a riaffermare la prospettiva che costoro vorrebbero per sempre seppellita, quella dell’antagonismo di classe, che cova sotto la superficie –perché inseparabile dalle aspirazione più profonde dell’umanità lavoratrice contro un sistema inumano– e della rivoluzione di classe che rappresenta per gli sfruttati l’unica soluzione “da sinistra” alla sua crisi, la sola via d’uscita che non sia un drammatico suicidio per gli sfruttati stessi.


Ai rifondatori del comunismo, quindi, a tutte le 8/9 e più mozioni –interne e fuoriuscite–, va detto: «Voi avete disperso e azzerato la disponibilità che ancora alla data del ’91 era in piedi, disposta a organizzarsi e battersi contro la Bolognina e contro il capitalismo. Avete blaterato per 20 anni circa di rifondazione senza mai delinearne i contorni, che restano soltanto quelli sufficientemente chiari di una cancellazione completa di simboli e sostanza per difendere i quali eravate suppostamente nati. Avete picconato ogni contenuto programmatico e organizzativo di una possibile tenuta di classe. Il partito doveva essere leggero (ma, secondo i vostri desideri, non così alleggerito di scranni parlamentari come pure è ora accaduto), mentre i circoli –guai a parlare di sezioni– erano troppo “militari”: e ora invece sono semplicemente vuoti di quei proletari che inizialmente erano disposti a frequentarli per discutere e partecipare alla lotta (ma non a una lugubre smobilitazione). Mentre il capitalismo non ha cessato un solo istante di vomitare contro gli sfruttati del mondo intero la sua criminale violenza di classe, voi non avete trovato di meglio che filosofare contro la violenza degli oppressi, con ciò assolvendo il capitalismo, omettendo la denuncia dell’imperialismo e delle sue guerre e anzi andando a cercare violenti e nemici sul fronte opposto da cui demarcarvi e da cui disertare (gli algerini di ieri, i palestinesi di oggi). Avete, da ultimo, votato fedelmente le missioni militari dell’imperialismo italiano, con tanto di premesse –a giustificazione di ridicoli distinguo– sulla solidarietà e il conforto nazionali che mai devono essere fatti mancare a quei bravi ragazzi, nonché “lavoratori”, che sarebbero i “nostri” soldati in giro per il mondo. Come avete accettato, senza mai sognarvi di dare un serio e reale altolà (anzi pronti a processare chi osasse rompere le righe), la politica antisociale dell’ultimo governo Prodi, esecutore delle direttive dei cosiddetti “mercati”, ovvero quella cerchia criminale dei poteri capitalistici cui, nei fatti, i governi ai quali avete partecipato hanno garantito e tutelato la piena libertà di manovra (mentre il cosiddetto risanamento dei conti è onere di cui sempre far carico ai lavoratori)».


Questo e altro va detto ai bertinottiani e a quelli che ora “svoltano a sinistra”. Il manifesto, invece, salva i primi (e se stesso), se condisce il proprio disappunto (da destra) per l’esito dell’ultimo congresso con lamentose e più che truccate divagazioni sulla vicenda del “comunismo italiano”. Sul numero del 27/07/08 Gabriele Polo, a commento del congresso del Prc, protesta sconsolato che “il comunismo italiano non ha fatto nulla per meritarsi l’epilogo cui sembra costringersi in questo inizio di secolo: non i crimini e le illibertà staliniane, né le burocratiche oligarchie del grande Est”. Anzi reclama che “fino all’89” era riuscito a “rinnovarsi”, a “condizionare la politica nostrana migliorando la vita a milioni di persone”, era stato “un grande soggetto di alfabetizzazione culturale di massa e, persino, uno strumento in cui potevano confluire non solo le passioni, ma anche le energie e le idee”... grazie a “una dialettica continua con le altre parti del movimento operaio, mai chiusa nel guscio istituzionale o in pulsioni settarie”. Perché dunque –si domanda Polo– il comunismo italiano deve crollare ora come il muro di Berlino, se non ha mai commesso i “crimini di Stalin”?


Il “comunismo italiano”, con buona pace del manifesto, ha demarcato col tempo crescenti distanze dal “comunismo di Mosca” proprio perché ha coerentemente sviluppato il programma “stalinista”, applicandolo –secondo programma– alla costruzione del capitalismo “progressivo” della propria nazione. In secondo luogo, il vero crimine degli stalinisti di ogni paese di fronte agli sfruttati del mondo intero non sta nelle “illibertà” che ad essi ascrive la democrazia imperialista d’Occidente –e i manifestini al seguito–, sì invece nell’abbandono, la sfigurazione e lo sputtanamento del nostro programma di emancipazione delle classi sfruttate contro il capitalismo. Questo comune crimine li conduce tutti, “illiberali” e non, alla (più o meno consapevole; per i più coerenti, voluta e programmata) autodistruzione in quanto partito comunista e per ogni più sbiadito e lontano riflesso della propria origine. Non senza, purtroppo, conseguenze all’immediato disastrose per la tenuta del proletariato, che in quelle sfigurazioni sempre più marcate ha pur sempre riposto aspettative, passioni ed energie.


Il “comunismo italiano”, quindi, pur “scevro dai crimini di Stalin”, giunge ugualmente a rovinoso epilogo, dopo aver prosperato sul corso affluente del capitalismo occidentale (debitore dello schiacciamento dei popoli oppressi) e sulle lotte operaie. Vi giunge non già inspiegabilmente in assenza di “illeberalità” consumate, ma –spiegabilmente– perché è ormai erosa nella struttura mondiale del capitalismo la base che ha sostenuto fino all’altroieri l’ “anomalia italiana” di un “comunismo” sostanzialmente allineato agli interessi del capitalismo nazionale, ammesso –sia pur con dei limiti– nelle sue istituzioni e “mantenuto” quanto a leadership di Stato nel diritto democratico di “essere comunisti” nella società del capitale, avendone accettato, appunto, i fondamenti di patria, Stato, democrazia e mercato. A chi da decenni ha archiviato, magari come esuberanze di gioventù, la rivoluzione proletaria, l’abbattimento violento del capitalismo, la dittatura del proletariato e quant’altro connota l’abc del comunismo, ora il corso del capitalismo e della sua crisi si incarica di ricordare che senza quei connotati costitutivi, “a un certo punto” e nonostante tutte le anomalie anche di lungo corso, non c’è “comunismo” addomesticato e nazionale che possa rimanere in piedi e che non sia costretto infine a contorcersi nelle più ridicole negazioni delle forme che intanto non abbia dimesso, pur avendole da tempo svuotate del contenuto proprio.


Oggi –dirà Polo, e sappiamo bene anche noi–, crollato questo “comunismo” fasullo, non ce ne è un altro alle viste, se non per sparsi e “insignificanti” frammenti; ma intanto il corso del capitalismo segna un bel tratto di cancellazione sulla menzogna continuamente revisionata, svoltata, rifondata e disegna, invece, le basi per la potenziale ripresa della battaglia politica per la riconquista del comunismo vero. Noi per questo ci battiamo. E pensiamo che la questione della “sinistra radicale” e dei suoi congressi, della partecipazione al governo Prodi e della sconfitta elettorale, etc., che involge all’opposto la prospettiva del comunismo non falsificato, debba essere discussa tra i lavoratori nel modo giusto, quello che serva a ri–orientare positivamente le energie disponibili e non a sfiduciarle e debilitarle ulteriormente. A tal fine è necessario un bilancio collettivo senza i trucchi alla Polo né gli arzigogoli alla Tronti, ma secondo la chiara e vitale essenzialità di una riflessione utile, ancorata ai fatti e che recuperi i nostri fondamenti di battaglia teorica e politica. Solo in tal modo questo bilancio diventa possibile e diventa possibile proporlo ai lavoratori e discuterlo collettivamente in direzione della riconquista –su questa e su ogni altra questione– del distinto punto di vista della nostra classe. In difetto di che, chi non vede che oggi (oggi, non  indefinitamente; un “non indefinitamente” che spetta, però, a noi conquistare) i nostri nemici di classe possono approfittare di spazi fino a ieri impensati per veicolarvi bilanci di opposto segno, con i quali spingono alla archiviazione di ogni velleità di emancipazione e antagonismo delle classi sfruttate e alla rassegnata accettazione del capitalismo come unico mondo reale? Ecco perché ci ostiniamo a ripetere che è necessario un bilancio del voto di aprile, niente affatto contingente e per nulla centrato sulle opportunità elettoralistiche delle prossime conte, sì invece sugli squarci che esso apre sulla condizione dei rapporti di forza e dello scontro reali della nostra classe, considerata come sezione del proletariato internazionale, senza del quale riferimento ci si ritrova inesorabilmente infilati nel più buio dei vicoli ciechi. Solo in tal modo diventa possibile misurare per bene i nostri compiti in una situazione all’immediato sufficientemente complicata per la nostra parte, ma non priva di potenzialità nella prospettiva.


Per questo non ci piacciono gli umori che ora chiamano a “mettersi alle spalle la sconfitta elettorale” perché “c’è da mettere in campo l’opposizione contro il governo Berlusconi e il padronato”. Questi umori circolavano all’assemblea delle opposizioni in Cgil tenutasi il 23 luglio scorso a Roma, che ha registrato il dato positivo di una buona partecipazione di lavoratori (e –per quanto ci riguarda– un’incoraggiante diffusione dei nostri materiali) e dove la parola, però, l’hanno avuta prevalentemente –ma non solo– leader e leaderini sindacali che sono reduci freschissimi da due annetti di sostegno –“critico”, perbacco!– al governo Prodi (il che vale in particolare per quelli di Lavoro e Società – Cambiare Rotta). La scorciatoia di un unitarismo di stati maggiori che metta al centro, come comune denominatore, la priorità anti–berlusconiana, quand’anche pensato per accelerare i tempi della chiamata alla lotta contro chi la rimanda alle calende, non porterà lontano, mentre siamo convinti che l’opposizione potrà essere corroborata, anche nelle tempistiche, mettendo al centro i contenuti di classe ed efficaci strumenti di lotta con i quali sostenerli e sui quali soltanto è dato costruire unità e opposizione reali. Proprio perché condividiamo la stringente necessità della mobilitazione, occorre sgombrare il percorso dagli ostacoli che si frappongono alla ripresa di iniziativa. Questi ostacoli stanno nel disorientamento e nella divisione del proletariato, di cui farsi carico. Un proletariato che, anche attraverso la débacle della “sinistra radicale”, vede oggi seriamente indeboliti e svuotati i propri tradizionali riferimenti per la mobilitazione unitaria delle proprie forze. I partiti della “sinistra” e la quasi unanimità delle direzioni della Cgil –ossequienti da quel dì alle compatibilità del capitalismo– hanno appoggiato fino all’altroieri anima e cuore le politiche antioperaie del governo Prodi. Il risultato, reso lampante dal voto, è che ha ripreso a galoppare con forza rinnovata e crescente il processo (che data un paio di decenni almeno) di frantumazione e divisione della nostra classe, spinta e risospinta sempre di più dalla nullità politica delle “sinistre” e dalla fallimentare conduzione del sindacato alla coda di mille diverse sirene borghesi e capitalistiche, cioè alle soglie del precipizio. Tanto ciò è vero che il governo Berlusconi, contro il quale è necessario e urgente organizzare la lotta, è stato votato da molti lavoratori; tanto ciò è vero che un massiccio voto operaio è andato alla Lega, il che non costituisce soltanto un addendo di rilievo nella crescita elettorale del centro–destra, perché sancisce l’abbandono delle vie fino a ieri praticate e la ricerca di una difesa possibile alla scala ridotta del proprio territorio; tanto ciò è vero che questi lavoratori nutrono ora verso il governo di Berlusconi, delle destre e della Lega aspettative reali, illusorie e suicide, ma intanto avvalorate e rese “realistiche” dalle politiche del centro–sinistra spacciate per “equitative” e dalla nullità di inesistenti contrappesi “di sinistra”. 


E’ verissimo che l’unico rimedio efficace contro questa deriva di frammentazione sta nella ripresa della mobilitazione. Ma sta anche e necessariamente nei contenuti e nelle gambe che la mobilitazione si dà. Per questo non basta elencare in dettaglio i misfatti del governo di centro–destra – ché se si trattasse solo di questo li troviamo spiattellati sulle pagine di una Repubblica o di un Espresso, i quali tanto sbavano di livore anti–berlusconiano quanto sono intimamente e da cima a fondo antiproletari ed anticomunisti e in questo loro carattere non dissimili dai Di Pietro, dai girotondini alla Travaglio, MicroMega & company – (quando fin troppi si sono ben guardati dal farlo quando piovevano le “carezze” di Prodi e sempre che ora non lo si faccia a scoppio ritardato, dopo aver provato a chiudere tutti e due gli occhi), senza ancorare questa denuncia –necessari entrambi, denuncia e ancoraggio, ieri contro Prodi e oggi contro Berlusconi– ai contenuti politici che segnano il discrimine tra sindacalismo (tra l’altro a corrente alternata e senso unico) e azione politica –di classe– dei lavoratori, tra antiberlusconismo “unitario” e anticapitalismo. Esiste o no un dato di sfiducia e disorientamento dei lavoratori che non sarà recuperato dai sermoni anti–berlusconiani di quanti –e si tratta dell’intera “sinistra” ieri al governo e del quasi 100% delle direzioni Cgil, compresi carrellate di “svoltanti a sinistra” e “oppositori” fulminati sulla via del voto di aprile– fino a pochi mesi fa tacevano e assolvevano le misure antioperaie di Prodi? Siamo noi inguaribili estremisti, oppure i “sentimenti” reali che attraversano gli sfruttati vedono non pochi di essi dare fiducia (non per sempre) al centro–destra che hanno votato e assecondare le illusioni di ripari individuali per pochi, che il governo in carica rilancia insieme alla destrutturazione drastica delle tutele generali, dopo che la “sinistra” ha dimostrato di non saperle e di non volerle difendere? Se ancora poi i lavoratori non scivolano via nel disimpegno del “sono tutti uguali”, che è anche peggio?


E’ sicuro che proprio per poter arginare e reinvertire questo corso occorre organizzare la lotta contro l’offensiva del padronato e del governo di centro–destra e noi lo faremo a dovere. Innanzitutto denunciando la bubbola fuorviante di un’anomalia berlusconiana da combattere “unitariamente” su questo terreno tutti insieme appassionatamente (cioè mettendo dietro le spalle ciò che “può dividere”), per aggredire invece le vere radici internazionali e niente affatto personal–berlusconesche dell’attacco e del peggioramento in corso, da contrastare con una battaglia anticapitalista che punti alla vera unità degli sfruttati sul terreno della lotta e non alle ammucchiate anti–berlusconiane di screditatissimi, inutili e dannosi stati maggiori. Secondariamente chiamando le aspettative dei lavoratori verso il nuovo esecutivo alla prova dei fatti della concreta verifica delle sue politiche; e in questo saremo senz’altro aiutati dal necessario incedere dell’attacco del capitalismo. Ma sarebbe un errore imperdonabile farla facile e aspettare semplicemente che il procedere oggettivo delle cose ci regali una ripresa vera, potendosi risparmiare i “candidati oppositori” il lavoro proprio che è quello di una battaglia politica a tutto campo contro il capitalismo. Sarebbe del tutto sbagliato pensare che il governo, pur a fronte dell’incedere del proprio attacco, sia di già senza argomenti che possano far presa su settori non insignificanti di proletari e lavoratori. Oggi questa presa c’è –e più di un riscontro lo conferma– perché la nullità politica della “sinistra” ha regalato al padronato e al centro–destra un vantaggio insperato per poter legittimare le proprie soluzioni agli occhi dei lavoratori; vantaggio che si riflette nella scomparsa dei “comunisti” dal parlamento, ma che consta dell’assenza attuale di ogni organizzato avversario di classe nella società. E dunque la necessaria denuncia delle misure antioperaie del centro–destra deve essere sorretta da una battaglia politica che non ometta ambiguamente la questione di classe pestando allo spasimo la grancassa anti–berlusconiana, e invece contrasti l’attacco con contenuti e argomenti di difesa della nostra classe che non lascino spazio al tempo stesso alle controsoluzioni “equitative” alla Prodi. Contro Berlusconi, Marcegaglia e la Lega, certo! Ma in quale prospettiva? Quella di un imbelle anti–berlusconismo che riduce a tale stregua la sostanza dei problemi e l’attacco che i lavoratori sono chiamati a fronteggiare, nulla demarcando sul piano dell’affermazione intransigente degli interessi di classe, oppure la necessità di questa demarcazione? Contro il governo di centro–destra e i padroni –sicuro!–, ma anche contro gli orfani di Prodi e le loro opzioni anti–operaie, che, dopo averci colpito dal governo, vorrebbero dettarci oggi l’agenda di un’ “opposizione” intanto da rimandare alle calende e comunque da irreggimentare in una “guerra totale” al personaggio Berlusconi, sul confermato presupposto dell’accettazione totale delle necessità del capitalismo nazionale!


La rappresentante della maggioranza Cgil che è intervenuta all’assemblea del 23 luglio per lanciare ad essa i suoi moniti, perorava che “non è sufficiente chiamare alla mobilitazione” perché occorrerebbe invece “smontare tutto ciò che ha portato a votare a destra”. Concordiamo con costei sugli smontaggi, salvo il piccolo particolare che “ciò che ha portato a destra” non sono i “deficit di cultura democratica e costituzionale” di cui blatera la Piccinini (per incanalare l’opposizione dei lavoratori nel vicolo cieco di cui sopra), bensì la bruciante verifica degli effetti concreti del governo Prodi e la rabbia per il sostegno ad esso dato dalle direzioni politiche e sindacali della “sinistra”. E’ dunque questa politica che deve essere “smontata” e combattuta tra i lavoratori, se veramente si vuole mettere in campo l’opposizione di classe contro il governo Berlusconi. Non farlo, mettersi dietro le spalle la battaglia politica anticapitalista, significherebbe non avere argomenti credibili nei posti di lavoro e nella società per chiamare alla lotta e per recuperare all’iniziativa anche quanti lavoratori si sono voltati a destra; significherebbe lasciare corso libero, in nome di una rancida e imbelle “unità anti–berlusconiana”, ai responsabili della frantumazione e dispersione delle nostre forze e del rafforzamento del padronato e dell’esecutivo contro di noi.

Per la ripresa dell’iniziativa di classe contro l’attacco del padronato e del governo Berlusconi

Le elezioni del 2008 non sono state una tornata elettorale come tante e la borghesia non ha mancato di accorgersene. Dopo il voto è stato tutto un rincorrersi di congratulazioni reciproche sul “nuovo clima di dialogo” che si renderebbe ora possibile –come ha chiosato Marcegaglia– grazie alla scomparsa dal parlamento delle forze “anti–impresa, anti–crescita, anti–sviluppo”. La borghesia italiana ha passato oltre 60 anni ad arginare la presenza di rappresentanze “comuniste” eccessivamente ingombranti e stonatissime nelle proprie istituzioni. Ora, dopo l’inattesa disfatta della Sinistra, ritiene di poter avere le mani libere.


Noi non consideriamo consegnati per sempre al nemico di classe i lavoratori che hanno dato il voto a Berlusconi, alla Lega Nord e alle destre nazionali. Riteniamo sbagliate e pericolose le considerazioni di chi “a sinistra” guarda al voto operaio e proletario dato, in queste condizioni, al centro–destra e alle destre come segnale di colpevole rozzezza politica. Perché, nello scenario dato, non hanno espresso di meglio né il cosiddetto voto utile al Pd, sintomo di rassegnata sottomissione alle “necessità” del capitalismo nazionale, né la neo–astensione di chi ha sempre votato, che rischia di essere il prodromo di un ritiro sfiduciato piuttosto che la presa in carico della lotta fuori dal palazzo. Paradossalmente, nello scenario dato, proprio i voti a destra possono esprimere la volontà della nostra gente di non mollare e di volersi difendere in altri modi; che si riveleranno suicidi, ma che appaiono oggi più realistici dopo l’esperienza del  governo “amico” e la nullità della “sinistra radicale”.


A questi lavoratori –ma non solo ad essi– noi diciamo che sarebbe un errore micidiale condividere anche per un solo istante gli entusiasmi della Marcegaglia, quando le vere forze anti–sociali distruttrici di ogni possibile equilibrio umano e naturale abitano i consigli di amministrazione delle “imprese”, le presidenze confindustriali, i palazzi istituzionali ad essi asserviti. Forze che esaltano ogni giorno una competizione cannibalesca, dove competizione –a volerne ammettere un senso positivo– non sta per “superare i limiti della condizione umana per migliorarla a vantaggio di tutti”, ma, barbaramente, significa: guerra degli uni contro gli altri per il profitto di alcuni. Assunta, tra l’altro, come se si trattasse di una legge divina, e non già del sigillo del tornaconto avido di una minoranza di sfruttatori.


Quanto al governo di centro–destra che anche questi lavoratori, cui noi ci rivolgiamo, hanno promosso, ora se ne dovranno difendere insieme agli altri lavoratori che non lo hanno fatto e prima si inizierà a farlo insieme e meglio sarà per tutti. Perché, a dispetto degli entusiasmi della Marcegaglia e proprio a causa di essi, pesano sul presente e sul futuro dei lavoratori le difficoltà dell’economia capitalistica e la caparbietà con la quale le “forze pro–impresa, crescita e sviluppo” (dei propri conti in banca) sono determinate a non perdere una sola oncia dei propri profitti e del proprio potere, scaricando tutti gli effetti negativi innanzitutto sui paesi più poveri e, in casa propria, sui lavoratori. Il governo di centro–sinistra ha “risanato” i conti pubblici frugando a botta sicura nelle tasche dei lavoratori. I vertici di Cgil–Cisl–Uil hanno avallato, mostrando determinazione solo per attaccare quei pezzi di sindacato e i settori di lavoratori (non pochissimi in verità) che avevano iniziato a manifestare in piazza contro le politiche sociali del governo “amico” (di chi?). In questo modo, come era prevedibile, è stata spianata la strada al Berlusconi quater e le forze capitanate da Montezemolo–Marcegaglia colgono l’opportunità del nuovo quadro politico per tentare di imporre una nuova drastica resa dei conti al mondo del lavoro e contro di esso.


Oggi il governo di centro–destra non ha buchi da dover risanare all’immediato e si può permettere addirittura di gettare fumo negli occhi con le Robin Tax, mentre prepara i suoi piatti forti: un ulteriore giro di vite nelle relazioni capitale/lavoro e il federalismo. Dove sarà bene ricordare le puntate precedenti, per tenere a mente –come non si fece in occasione del referendum contro la devolution del centro–destra– che già la riforma del 2001 –targata centro–sinistra– ha introdotto, nero su bianco nella famosa costituzione “da difendere”, l’autonomia impositiva di regioni e comuni. Ma ora si va al sodo, perché la pressione fiscale è già ben alta e l’ola federale, che ha conquistato il principio della autonomia di imposizione degli enti territoriali rispetto al centro, bussa concretamente a coppe e pretende la spartizione di quote assolutamente rilevanti del gettito statale. Intanto il governo non è stato con le mani in mano e in pochi mesi, nel silenzio dei girotondini –che al fondo avallano–, ha ulteriormente peggiorato la precarietà del lavoro, per i lavoratori immigrati e in generale, e, ha stabilito l’inflazione programmata al 1,7% a fronte di un’inflazione reale che supera il 4%. Il che sta a dire che mentre ogni speculatore, ogni imprenditore, ogni gestore di servizi, ogni commerciante può alzare il prezzo della propria merce per non vedere intaccati rendite, profitti e interessi, invece i lavoratori stessi sono e devono restare merce che l’attacco del padronato e del governo s’incarica inoltre di svalorizzare. C’è da augurarsi che la massa dei lavoratori sappia trarne, subito prima che dopo, le necessarie conclusioni sulla necessità di riprendere una lotta vera. Il che, lo ripetiamo, non sarà facile, perché il fronte padronale e il governo Berlusconi stanno disseminando il terreno –non da oggi né da soli– di ogni sorta di trappola che frantumi l’unità della classe e ne imbrigli la capacità di mobilitazione. A questo serve la riforma federalista, a cui si arriva con un successo della Lega Nord carico di consensi e di aspettative operaie di poter riprendere qualcosa da lì. Ma ancora a questo punta la cosiddetta riforma della contrattazione, con la quale si promette qualcosa in più ai lavoratori della aziende “competitive” e ai singoli individualmente “bravi”.


Come contrastare questo attacco nella portata e nelle condizioni reali in cui è dato è quello che abbiamo inteso chiarire anche a scapito delle ripetizioni, che non ci spaventano se si allacciano coerentemente a un’analisi e a una battaglia fondate su solide basi di classe. E dunque ripetiamo che non si può isolare un “caso italico” e ridurlo al recinto nazionale; che il nemico non è il solito “berlusconismo” come “anomalia” nazionale, né siamo di fronte al “vecchio” quadro berlusconiano “classico”, ammesso che di ciò si potesse anche prima parlare in certi termini. I più attenti commentatori borghesi vedono che, nel “quadro nuovo” di questa destra, mai come oggi essa può fare a meno della centralità del “personaggio” Berlusconi. Vediamo di rendercene conto anche noi per quanto ci compete sull’opposto fronte. Egli resta capo–cordata, è vero, ma il quadro su cui la compagine si regge è diverso che per il passato. Innanzitutto per la massiccia presenza della Lega, interprete a suo –controrivoluzionario– modo di esigenze popolari ed anche settorialmente proletarie (alla coda del capitale); in secondo luogo per l’emergere di un’attivizzazione dal basso (vedi i “circoli della libertà” della Brambilla) non necessariamente sempre prona alla “linea” del capo e presente su molte tematiche “populiste” spinte (tipo schieramenti locali pro–De Magistris). Ancora poi dovrebbe essere chiaro che a dettar legge, a maggioranza ed opposizione, ognuno coi suoi ruoli “diversi”, sono esattamente in gioco gli imperativi impersonali del capitalismo italiano entro un quadro mondiale generale, e la prima e forte applicazione di ciò si è avuta proprio con Prodi (annotiamo di passaggio che in un recente dibattito televisivo, il direttore del Sole–24 ore rendeva omaggio al “coerente monetarismo” del governo Prodi, “scordatosi” però, nel frattempo, della “classe operaia” –testuale!–, alla faccia del “secondo tempo” promesso sulla base di inesistenti tesoretti mai sdoganati a tempo e modo!). Così ancora è impressionistica e ridicola la stessa riduzione di questa forza a puro e semplice cane da guardia pro–Usa (lo si diceva anche di Sarkozy, apparentemente più “amico stretto” degli Usa, ma, in effetti, formidabile giocatore in proprio, francese ed europeo). Gli ottimi rapporti con la Russia e quelli non infami con la Cina dicono qualcosa. Frattini che dichiara che un attacco Usa all’Iran costituirebbe una tragedia “per tutto il Medio Oriente, per Israele e per noi” idem. Il Jerusalem Post che commenta l’apertura di una sede Fiat in Iran come una “minaccia più grave che gli stessi missili iraniani” bis in idem. La presunta gaffe di Bush al G–8 relativa alla diffusione del dossier–Italia non è un fatto casuale, un “incidente”. Cerchiamo di vedere oltre le apparenze immediate. Non si dia  spazio al classico sotterfugio delle nostre “sinistre”, in e out, che dicono: Berlusconi fa solo i suoi interessi, non pensa ai problemi reali (che noi...) e costituisce l’anomalia–Italia etc. etc.. Perché siamo invece a un peggioramento nei rapporti di classe, tutto a nostro sfavore, che questo governo traduce in italiano secondo le leggi oggettive di un capitalismo internazionalmente in stato di crisi. Il problema è strutturale: qui sta il nodo politico da affrontare sulle nostre basi.


Questo peggioramento si configura in un ulteriore spezzettamento del nostro fronte, se non debitamente contrastato su tutta la linea, anche con un gioco di contrapposizioni tra diversi settori di esso alla coda del capitale. In questa malaugurata ipotesi, non è fra l’altro detto che tale peggioramento debba avvenire attraverso un immediato e generalizzato arretramento di tutti e ciascuno, perché l’operazione antiproletaria di fondo del governo Berlusconi presenta delle provvisorie ed illusorie contropartite quantomeno settoriali, od extra–proletarie (“i cittadini”, comprendendovi ed annacquandovi in essi i proletari stessi). Quand’anche il centro–destra lanci campagne sui buchi “lasciati ovunque dal centro–sinistra” (che certo non aveva tesoretti nascosti), la verità è che il grosso buco che doveva essere riparato immediatamente lo ha appena riparato Prodi, come Bruxelles e tutti hanno confermato. Il governo di centro–destra si avvale di questo. E si avvale inoltre dell’opportunità di capitalizzare la débacle della sinistra per far avanzare senza reazioni immediate il suo programma di attacco generale e a fondo contro l’insieme degli sfruttati, a petto del quale gli è dato di poter spacciare per “politica di sinistra” (se “sinistra” era quella che ha sostenuto Prodi!) ogni attenuazione parziale e per pochi del peggioramento che intanto porta avanti in generale e per tutti e dal quale ricava i margini per le stesse attenuazioni.


Anche certi attacchi frontali, come quello contro i lavoratori del pubblico impiego, marciano su questa lunghezza d’onda e un sondaggio su Sky dà un 79% di favorevoli alla stretta sugli statali. La cosa va capita per poterla contrastare con un’adeguata battaglia, mentre ci sembrano del tutto inconsistenti certe iniziative che ripropongono il trito e ritrito “antiberlusconismo” fine a se stesso (Berlusconi che toglie le mutande ai lavoratori) promosse dalle Rappresentanze di Base, che giustamente promuovono l’iniziativa di piazza (che sia tale e con contenuti adeguati!). Naturalmente, tutto ciò non ci esime dalla denuncia della natura dei tagli di spesa (che seguono il modello americano, o francese; ma ce n’è per tutta l’Europa, vedi Gran Bretagna e persino Spagna). E’ sicuro che su istruzione e sanità ci si viene a colpire in solido, secondo i dettami generali imposti dal mercato globale (all’americana, per l’appunto), ma sarebbe sciocco confondere questo dato essenziale con la possibilità/necessità che riguarda anche noi e dovrebbe costituire un campo nostro di battaglia, dal nostro punto di vista, del taglio a sprechi e sinecure: se la Sicilia ha una spesa sanitaria del 30% superiore a quella di tutta la Finlandia evidentemente c’è qualcosa che non va per entrambi i distinti ed opposti soggetti. Non è che di per sé una politica di tagli comporti un attacco solo ai nostri interessi immediati: l’antisocialità di essa va esattamente considerata nel concreto (e qui, certamente, non ce ne mancano le occasioni).


Il peggioramento sta nell’ulteriore disarticolazione del nostro fronte, di cui l’onda federalista, assieme a quella del “superamento” (conseguente) del contratto nazionale, è l’indice reale. A questa stregua la “trovata” dell’ “inflazione programmata”, anch’essa non precisamente italiana ma eurocomandata, non punta, crediamo, a fissare l’1,7% come muro invalicabile per gli “aumenti” salariali (nominali), tendendo piuttosto a frammentarli secondo regole di compatibilità aziendale e produttività ad essa relativa escludendo ogni vecchia forma di automatismo. E’ una vecchia storia che ricordiamo dalla fine della scala mobile. Non ci sono, non possono più esserci degli “scudi assicurativi”; il che se oggi come oggi gioca pesantemente sulle nostre tasche, avvicina anche la resa dei conti sulle regole intrinseche del capitalismo che vanno spezzate da cima a fondo. Per farlo non ci incorre di ignorare la crisi in atto, limitandoci ad “esigere una perequazione” a nostro favore indipendentemente da essa (come fa anche Cremaschi che chiede che i padroni paghino, coi conti a posto o meno, astraendo dalla questione centrale sul tappeto, che è quella sistemica). In presenza di una crisi strutturale del capitalismo i comunisti non possono limitarsi a rivendicare “redistribuzioni”, specie se del nulla, ma debbono porre il tema nodale del sistema e del suo rovesciamento rivoluzionario, o si condannano da sé all’impotenza.


In questo scontro noi siamo schierati sulle posizioni complessivamente esposte, sulle quali chiamiamo all’intervento e al confronto, perché la lotta contro Berlusconi e sodali possa essere data seriamente e fino in fondo, perché non manchi (né si affievolisca) la battaglia politica dei comunisti –veri– alla ripresa di lotta, necessaria.



A margine: una nota critica al che fare

Abbiamo letto sul che fare cose oggettivamente in controsenso rispetto a questo bilancio e ne scriviamo di seguito perché ci stimolano ad approfondire il merito della nostra riflessione. Quanto diciamo qui è la prosecuzione di un dibattito, malamente conclusosi, all’interno dell’OCI, i cui materiali possiamo mettere a disposizione dei compagni strettamente interessati alle questioni politiche toccate e non al pettegolezzo da corridoio, da cui per metodo rifuggiamo.


Si legge sul n. 69 che sarebbe stata la Confindustria a licenziare il governo Prodi, perché scontenta della “pallida redistribuzione” (?) da esso operata. I nostri ex–compagni hanno dapprima sostenuto che il governo di centro–sinistra restituiva qualcosa ai lavoratori dopo cinque anni di salassi berlusconiani. Poi hanno rettificato scrivendo che l’ “equità” stava nella “redistribuzione dei sacrifici e delle perdite” (quindi non restituzioni ma sacrifici, questa volta però ridistribuiti e accollati un po’ più democraticamente a una platea più ampia). Ora esce fuori nel n. 69 la “redistribuzione pallida” che, sfumando ..., mette insieme le due cose e tende ad accreditare in retrospettiva quanto già scritto, avvalendosi del fatto che il nuovo governo è indubbiamente più avanti del precedente quanto a determinazione di attacco contro l’insieme dei lavoratori (lo sono il quadro politico –internazionale e interno– e le forze in esso promosse in avanscena). Queste curiose ricostruzioni, ripetute anche a fronte della realtà che platealmente le smentisce, non giovano e anzi indeboliscono una battaglia che certo non pensiamo di condurre in proprio né da soli.


A leggere i nostri ex, i padroni di Confindustria a inizio 2008 avrebbero preso atto di alcune cose, facendo la croce su Prodi e decretandone la caduta. Oltre alla redistribuzione pallida, non avrebbero mandato giù né “le promesse di detassare i salari”, fatte a fronte delle proteste operaie “iniziate nell’autunno inverno 2007–2008 dopo un anno e mezzo di paralisi”, né il contratto metalmeccanico che sarebbe stato ”pilotato dal governo di centro–sinistra verso un accordo di compromesso”.


“Dopo un anno e mezzo di paralisi”? Proteste iniziate “nell’autunno–inverno 2007–2008”? Ma se i proletari di Mirafiori le proteste già le avevano fatte nel dicembre 2006 contro la finanziaria cosiddetta “di equità”, se i lavoratori già erano scesi in piazza contro la precarietà a novembre del 2006 e ancor prima in partecipate iniziative promosse dal sindacalismo di base, se già in dicembre 2006 e febbraio 2007 (non autunno–inverno 2007–2008, semmai quello dell’anno precedente, se le stagioni non sono un’opinione) si sono svolte a Vicenza manifestazioni partecipate e significative? Come è possibile che comunisti rivoluzionari non vedano che nel 2006 la paralisi/narcotizzazione dei lavoratori di fronte al governo di centro–sinistra ha avuto per forza di cose –e meno male!– tempi e margini più stretti del ’96 (primo governo Prodi con Pds e Prc dentro) e non valorizzino per il giusto questo dato? E quale accordo di compromesso per i metalmeccanici avrebbe pilotato il governo Prodi, se si è trattato di recuperare a malapena l’inflazione ufficiale, mentre quella reale galoppa a cifre raddoppiate?


Certo lo scenario del governo di centro–sinistra non è quello che contempla attacchi frontali all’art. 18 e accordi separati con Cisl–Uil (operando comunque con particolare energia contro i lavoratori sul terreno del risanamento dei conti) e dunque, in un quadro di crisi che avanza, si potrà sempre sostenere retrospettivamente che il governo di centro–destra riprende il timone per portare l’attacco più a fondo, avendogliene spianato la strada il predecessore. Ma in questo modo si perde di vista un dato importante che la batosta subita dal centro–sinistra evidenzia: i  tempi storici per gli accordi di compromesso sono finiti. Lo andiamo scrivendo da un paio di decenni, ma  nel 2008 il che fare –la cosa non ci rallegra– continua a vedere governi di centro–sinistra che restituiscono qualcosa ai lavoratori (senza che la reale assenza di “restituzioni” significhi  affatto omologazione di destra e sinistra dello schieramento borghese). Tanto è vero restituzioni non ce ne sono, che i cittadini elettori lavoratori, in una non piccola frazione risultata decisiva nell’ultima conta, ne hanno tratto le conseguenze, revocando il voto al centro–sinistra e alla Sinistra Arcobaleno: se non ci garantite niente, se non potete più fare compromessi a nostro favore –modesti magari, ma reali–, se, in assenza di ciò, siete voi per primi gli alfieri di un risanamento che ci colpisce, allora toglietevi di mezzo; noi non possiamo rinunciare a difenderci dentro questa società, non possiamo rinunciare a un riformismo “per noi” –illusione estrema–, e poiché voi non lo garantite più andiamo a cercarlo altrove, magari a una scala locale più ridotta, andiamo a condizionare con il nostro voto chi a parole si mostra meno sordo di voi ai nostri problemi, chi voi stessi state rimettendo in sella al potere, chi dunque avrà il potere di decidere qualcosa anche per noi mentre voi dimostrate di avere soltanto il potere di colpirci ....


Indubbiamente il governo Prodi si teneva con lo sputo sia per la eterogeneità delle forze coalizzate, sia per gli esigui margini al senato che mettevano ogni giorno all’evidenza la sua debolezza. Indubbiamente la presenza nella coalizione di Prc e Pdci era per definizione fonte di disagio, imbarazzo, instabilità, soprattutto in tempi di cure drastiche a favore del capitale, anche se costoro se ne sono stati zitti e buoni e mai hanno accennato ad aprire crisi nonostante gli sberleffi infiniti al solenne programma di coalizione. Possiamo ancora dire che comunque i “comunisti al governo” hanno catalizzato indebitamente su di esso la pressione di piazze che si sono riempite, limitatamente è vero, ma in modo non insignificante e in netto anticipo sui tempi registrati dal che fare. E possiamo infine aggiungere che l’eterogeneità ha impedito la coesione delle forze di governo e anche di quelle che –esclusi i “comunisti”– avrebbero potuto collaborare, e che per questo non è stato possibile tenere a freno la querelle Di Pietro–Mastella e infine gli agguati targati Dini o Mastella (fino a prova contraria è stato quest’ultimo e la sua banda di campanile a far cadere il governo e non ci sembra francamente realistico che Confindustria abbia delegato a Mastella il compito di licenziare Prodi).


La Confindustria, accontentata dal centro–sinistra su punti centrali del suo programma ben più di quanto il centro–destra non avesse potuto fare –riduzione sostanziosa del cosiddetto cuneo fiscale–, non poteva non valutare con ansia triplicata l’instabilità del quadro politico (i padroni, che respirano il ritmo del mercato e su di esso misurano i propri battiti, visto che corrispondono a quattrini che gli cascano nelle tasche, sono sempre ansiosissimi ed è sempre troppo poco quanto viene fatto per essi). La Confindustria invero non ha dimissionato il governo Prodi, né tantomeno il Pd, per ributtarsi sul cavaliere. Aveva invece iniziato a manovrare per uno spostamento del quadro politico nel medio periodo o quando Prodi fosse caduto di suo, caldeggiando innanzitutto lo smarcamento dell’ Udc dalla Casa delle Libertà, ritenuta non meno inaffidabile dell’eterogeneo centro–sinistra alla luce delle esperienze precedenti, e quindi poi lo smarcamento del Pd dagli alleati di sinistra. Insomma aveva iniziato a pilotare una sorta di grande coalizione al centro che facesse leva sulle forze rivelatesi capitalisticamente più affidabili, elidendo ali estreme e comunque senza riconsegnare il pallino a Berlusconi. Il cavaliere ha capito l’andazzo e, nel dopo elezioni, con il vento in poppa sia del suo successo e sia della novità per tutti della scomparsa dei “comunisti” dal parlamento (una novità e un capitale inattesi per tutte le forze della borghesia, sui quali riassestare e accelerare i programmi), si è presentato non a caso con un vestito nuovo.


In linea con le ricostruzioni di cui sopra, il supplemento al n. 69 di che fare scivola sciattamente sul risultato elettorale. Ne viene omesso o comunque contraddetto (il che fa lo stesso) un dato –né scontato e né insignificante– che abbiamo messo al centro della nostra riflessione e che ancora una volta ripetiamo: con il voto di aprile le ultime vestigia del Pci spariscono dal palazzo, come riflesso e sanzione della scomparsa dei suoi ultimi epigoni già precedentemente avvenuta nella realtà dello scontro, che invece è andato avanti mentre “lorsignori” stavano a guardare e votare Si dagli scranni. Scomparsa dovuta all’esaurimento degli ultimi margini di mediazione (e infatti il governo di centro–sinistra non ha ridistribuito niente e di consenso ne ha perso e non guadagnato) e di rappresentanza possibile della mediazione stessa da parte di queste forze, che, nella nuova situazione, si rivelano incapaci di reinvertire in senso classista la marcia già intrapresa in direzione della conciliazione istituzionale, incapaci di organizzare qualsivoglia reale opposizione contro una politica che nei fatti penalizza e non di poco i lavoratori, comunque non disposte a condurla, incamminate a conservarsi una nicchia di testimonianza sempre più distante e svuotata di ogni contenuto classista e senza ricadute utili per i lavoratori e i proletari, quand’anche al governo ci sia il centro–sinistra con essi dentro. Il risultato di aprile parla di questo. Un bilancio serio di queste cose è necessario per condurre e non omettere un’efficace battaglia: lo era ieri contro il governo di centro–sinistra, lo è ancor più oggi, in un quadro politico più minaccioso, per poter organizzare le nostre forze contro il governo di centro–destra. E’ necessario per contrastare il trasformismo di ritorno di quanti il governo Prodi lo hanno in un modo o nell’altro sostenuto, per evitare che la sfiducia dei lavoratori in direzioni screditate che contestano a Berlusconi (quando lo fanno) quello che hanno taciuto a Prodi non si traduca nella passività e nella rinuncia a lottare.


Il che fare registra “un pressoché insignificante travaso di voti proletari dal centro–sinistra al centro–destra”. Leggiamo: “I voti (960mila) che guadagna la coalizione di Berlusconi (soprattutto attraverso i partiti leghisti della Lega Nord e dell’Mpa) provengono dall’Udc, dall’Udeur e, in misura minore, dai settori moderati del Pd. I due milioni e 800mila voti perduti dall’Arcobaleno, una vera disfatta elettorale!, sono quasi interamente finiti nell’astensione (oltre un milione), nei partiti della ‘sinistra radicale’ (380mila) e, soprattutto, nella coalizione guidata da Veltroni, che aumenta i suoi voti rispetto al 2006 di oltre 800mila unità”. 


Con buona pace del che fare il confronto dei dati delle elezioni 2008 con quelli del 2006 conferma altre cose. Scorrendo con attenzione i risultati da tutti visionabili sul sito del Ministero dell’Interno, ci sfugge innanzitutto attraverso quale gioco di specchi si possa accreditare una “coalizione veltroniana che aumenta i voti di ben 800mila unità”! Perché invece il Pd ha perso, comunque la si giri, ma soprattutto se si considera che le forze che nel 2006 sostennero Prodi hanno complessivamente perso per strada più di 3 milioni di voti: alla faccia del “consenso dei lavoratori” all’ “equità” di Prodi! Se poi restano dubbi sui guadagni elettorali del PD, si possono allora vedere i ballottaggi delle amministrative o le elezioni amministrative in Sicilia. Facciamola finita: gli stessi del Pd parlano della “legnata di aprile” riferita a se stessi e non solo alla coalizione. “Insignificante travaso di voti proletari dal centro–sinistra al centro–destra (960mila)... provenienti da Udc, Udeur e settori moderati del Pd”? Ma se le destre messe assieme e pur  defalcando i voti persi dall’Udc registrano una crescita netta di oltre un milione e 640mila voti? La Lega, poi, cresce da sola di un milione e 256mila voti: travaso insignificante? e anche questi voti verrebbero da Udc e Udeur? Nonostante la perdita dell’Udc, la destra in tutte le combinazioni possibili guadagna. C’era attesa sconsolata per un esito elettorale che –si pensava– avrebbe comunque riconsegnato l’empasse al senato, cioè un pareggio senza maggioranza, ed ecco invece che il “porcellum”, che con i suoi distinti 20 premi di maggioranza su base regionale non consente al centro–sinistra di governare, va benissimo al centro–destra e gli assicura maggioranze sicure anche al senato. Avete più sentito parlare di riforma della legge elettorale? Sì, ma non per cambiare la legge elettorale del senato, bensì per mettere gli sbarramenti anti–Sinistra Arcobaleno anche alle europee. Che i voti andati a lievitare il bottino delle destre non siano solo quelli moderati di Udc, Udeur e settori moderati del Pd lo si legge anche, a contrario, dagli ammanchi a sinistra. La Sa ha perso la bellezza di 2 milioni e 741mila voti. Un milione sono le astensioni (nulla da riflettere al riguardo?). 384mila le “sinistre sinistre”. Manca ancora un consistente residuo di un milione 300mila circa. Dove è andato a finire? Una parte al Pd, il quale prende da sinistra e perde al centro e verso destra, con un risultato comunque lontanissimo dalla “crescita” di cui favoleggia il che fare; ammessa –e non concessa– la quale, di quei due milioni e 741mila ne mancherebbe sempre un bel pezzo. Sono svaniti nel nulla o dove sono andati a finire?


Il dato che leggiamo è quello di un settore di centro–destra che complessivamente avanza di grosso, ridimensionando l’Udc –il cosiddetto, per qualcuno, “perno” capitalista– e facendo fare un balzo enorme alla Lega, di cui ci preme sottolineare il significato non semplicemente assommandolo genericamente al “blocco”. Leggiamo il dato di un elettorato che da sinistra si sposta verso la sua destra più vicina (da Sa al Pd, dal Pd all’Udc, dall’Udc alla Pdl: ecco perché i diellini del Pd parlano di legnata e registrano che il Pd “ha mancato lo sfondamento al centro nell’area cattolica”); ma anche di una fetta significativa (altro che insignificante) di voti che da sinistra, più o meno estrema, fa il salto e finisce a destra e soprattutto alla Lega (la Lega, che aumenta di 1.256mila, da dove li prende, dall’Udc? No: li prende in significativa parte da sinistra e da lavoratori, e anche da lavoratori che fino a ieri avevano votato a sinistra o che erano tornati a farlo nel 2006; molti ne prende dai verdi). Che dire in merito ai tanti casi documentati dalla stampa e nei servizi televisivi, raccolti nei commenti all’uscita delle fabbriche e nei posti di lavoro, nella rossa Emilia Romagna dove la Lega ha ora messo radici, di lavoratori che dichiarano papale papale che la sinistra ha fatto schifo e che hanno dato il voto alla Lega? O di delegati sindacali di grandi fabbriche che per disperazione transitano in blocco dalla Cgil all’Ugl? Una dinamica che esprime una situazione di difficoltà e di pericolosa frammentazione della classe operaia, ma al tempo stesso il tentativo di reagire a una situazione senza sbocco a sinistra, laddove a sinistra si vede solo l’Arcobaleno. Non avevamo forse letto, a commento delle ultime elezioni negli Stati Uniti, finanche i consensi elettorali dati e riconfermati a Bush da parte di settori proletari e popolari come il tentativo di reagire alla difficoltà della propria condizione e di trovare soluzioni “realistiche” ai propri problemi, mentre la propaganda dei democratici rimaneva fin troppo lontana dalla cruda realtà dei fatti per prospettare ad essi soluzioni credibili?


Che dire, dunque, ai nostri compagni del che fare? Che in questi ultimi passi leggiamo la conferma di quanto giustissimamente non abbiamo condiviso: ovvero la tesi d’ordine mai verificata nè seriamente discussa, sempre smentita dai fatti e nondimeno ribadita con incredibili forzature e distorsioni della realtà, secondo la quale ai 5 anni di salassi berlusconiani dovesse per forza seguire nel 2006 un governo di centro–sinistra che restituisse qualcosa ai lavoratori; il che sottende l’idea di un corso del capitalismo e della sua crisi (e della ripresa di classe) paragonabile a quello di un disco incantato che invece di andare avanti ritorna sempre allo stesso punto tra un centro–destra che compie massacri sociali e un centro–sinistra che restituisce e pratica l’ “equità”. A commento delle elezioni del 2006 si era pur parlato di “vittoria di Pirro” del centro–sinistra e nondimeno nella ricostruzione di per sé organica dell’ultimo che fare (disorganica rispetto alla realtà e a tutta la nostra precedente e per noi sempre valida elaborazione sul corso del capitalismo –con relativa traduzione politica nella stampa e nel complessivo intervento dell’OCI–, pur con tutte le complicazioni e i fattori aggiuntivi da considerare) leggiamo l’idea che in qualche modo il proletariato ed in particolare “i giovani” avessero impresso nella consultazione elettorale del 2006 una sterzata a sinistra sia pure di second’ordine, destinata ad essere recepita in terz’ordine dal centro–sinistra (arcobalenato), come si sarebbe dimostrato con le “parziali ricadute” in positivo ottenute dopo gli sfracelli berlusconiani precedenti. (e da qui, in quart’ordine, si sarebbe tentati di pensare oggi una ripresa, vista la dimensione degli attacchi odierni che si profilano e il supposto mantenimento dello “zoccolo duro” non transitato a destra!).

9 agosto 2008