Non siamo, fortunatamente, i soli a dirlo, anche se in scarnissima (e, poi, non sempre conseguente compagnia): “Dalla parte della rivolta dei braccianti neri senza se e senza ma”.
Quasi nessuno ha osato rovesciare apertamente la sostanza delle cose dando addosso ai rivoltosi neri quali colpevoli in prima persona delle violenze registratesi a Rosarno, nessuno potendo negare le condizioni infami dello sfruttamento economico, del degrado delle condizioni abitative, dell’isolamento, l’indifferenza e persino l’odio (sino all’uso delle armi!) strette attorno a loro da parte di ogni genere di istituzione pubblica, dell’opinione pubblica, della popolazione locale. Per primo Feltri, con ben avvertita percezione politica, ha titolato Il Giornale (9 gennaio): “Ma questa volta... Hanno ragione i negri”, sviluppandone per ben quattro pagine, molto intelligenti, gli argomenti. Come, d’altra parte il cardinal Bertone, Feltri condanna il carattere violento della risposta “negra”, “ma non si può sorvolare sulle cause che l’hanno provocata”. La ricetta curativa, naturalmente, è da cima a fondo una risposta d’ordine(capitalistico) in tutti i sensi, e poi la vedremo. Ma, in questo, ha il vantaggio sui supposti fautori dell’”accoglienza” di una ricognizione concreta sul problema materiale sottostante. Quelli che “a sinistra” fanno finta di schierarsi con le buone ragioni degli immigrati, sempre d’accordo con Bertone che le buone ragioni diventano cattive se imboccano la strada della violenza, non sanno che cosa farfugliare quanto alla questione di come trattare sul serio il problema dell’immigrazione e dei suoi annessi e connessi, limitandosi a predicare un universale “diritto” all’autoespulsione di masse affamate dalle proprie terre per venire qui a godere di una ideale, ma fantomatica accoglienza. Quale? Quella che, per l’appunto, conosciamo e che, per chi volesse toccare le cose con mano, può meglio “vedere” (vedi materiali prodotti su http://sollevazione.blogspot.com/). Quella di cui certi collitorti danno la colpa alla solita ’ndrangheta o alla scarsa “coscienza civile”, “culturale”, “antirazzista” delle popolazioni locali, trascurando un minimo particolare: l’assenza di una risposta di classe da parte, putacaso, non solo –ed è ovvio– del governo centrale, ma dei governi locali, magari “di sinistra” (la Calabria dopo la Campania), dei partiti “di sinistra”, dei sindacati “di sinistra” (tutt’altro che un semplice “ritardo”, come inopportunamente scrive la Rete dei Comunisti, in un comunicato per altro condivisibile quanto a indicazioni su cui torneremo in seguito). E dove stavano gli ispettorati del lavoro, la forza pubblica (vero, ministro Maroni?) cieca di fronte al fenomeno di questo semi–schiavismo, o, meglio, preoccupata di garantire che esso si svolgesse in “buon ordine” (salvo, poi, dover accorrere a “spegnere i disordini” da ciò derivati)? E dove stava la famosa nostra prima garante, la Magistratura, così solertemente occupata a sanzionare i gesti di corna o una telefonata dopo mezzanotte?
Ci si accorge, anche all’”estrema sinistra”, delle cose solo quando scoppia la rivolta –guarda caso!– , non andando al di là dello “stupore”, dell’”indignazione” e delle prediche astratte sul “dovere caritatevole” da parte di fantomatici “uomini di buona volontà”. Il tutto senza mai toccare il tema del perché dell’esodo di massa da paesi più che poveri impoveriti dal capitalismo, perché ciò significherebbe andare al fondo materiale, di classe, delle questioni. (In questo senso, risulta persino più concreto il discorso del Giornale che, attraverso la penna di una ben nota Ida Magli abbozza che Dovevamo aiutarli in casa loro: posizione fariseisticamente più “a sinistra” di quella dei fautori “ultrasinistri” Facciamoli venire qui... ma trattiamoli bene; salvo che non abbiamo mai visto né mai vedremo i carnefici dell’Africa venire in aiuto in aiuto di coloro che essi stessi hanno interesse ad espellere dal loro focolare oggetto di spoliazione sistematica!). Il trattarli beni si riduce, di fatto, al permesso di esser supersfruttati esteso anche ai clandestini con cui ignobilmente se la prende Maroni. Noi, sia chiaro, siamo per la regolarizzazione incondizionata di tutti quelli che sono qui a lavorare, declandestinizzandoli incondizionatamente. Ma di sicuro la clandestinità (non i cosiddetti clandestini) va combattuta come premessa di una sottrazione di queste forze–lavoro a condizioni di perpetui e schifosissimi ricatti da parte di padroni e padroncini, mafie extrastatatali, parastatali e di Stato e una possibilità più ampia di organizzazione di classe a livello generale di classe, tanto degli immigrati che dei lavoratori indigeni e per un fronte comune tra essi. Mantovano ha abbozzato un discorso di “regole” in questo senso, arrivando a dire: il lavoro deve essere anche qui, d’ora in poi, “regolarizzato”, aggiungendo, però, contestualmente: “i clandestini debbono andarsene”. Staremo proprio a vedere quali regole verranno applicate contro il lavoro nero che riescano, nella logica capitalista, egualmente o più profittevoli per i padroni! Crediamo sarebbero comunque leggi di divisione, apartheid e supersfruttamento “regolarizzato” per gli extracomunitari! Contro ciò siamo chiamati a batterci.
Per i fatti di Rosarno pressoché tutte le parti (politiche e mass–mediatiche) che contano, poco o tanto (vedi “extrasinistra”) hanno trovato comodo ricorrere all’”anomalia” ’ndrangheta.
Troviamo appropriata la considerazione di M. Pasquinelli del Campo antimperialista a proposito dei contro–insorti bianchi di Rosario (vedi il nostro articolo “Col sangue agli occhi”), “non giannizzeri della ’ndrangheta, che ha invece interesse, proprio come la morigerata borghesia padana, alla pace sociale ed al buon rendimento dei suoi soldi ’sporchi’ (virgolette atte a chiederci: dove sono, entro questo sistema sociale, i soldi puliti?, n.n.) riciclati nell’agricoltura”. Esatto: la borghesia italiana non è programmaticamente “contro l’immigrazione”, ma per una sua ferrea regolamentazione entro un quadro bene ordinato (!) di “pace sociale”, e persino di “integrazione” selettiva, corporativa, sempre e comunque antiproletaria. Insomma: Treviso capitale dell’accoglienza utile, necessaria ed... ecocompatibile. Quali “alternative” a ciò dalla “sinistra”?
La cosiddetta “guerra tra poveri” ha assunto qui l’aspetto di una separazione tra popolazione locale welfaristicamente protetta a suon di misure finanziarie clientelari “contro la disoccupazione” (presunta), cioè ad evitare un lavoro da bestie a infimi salari ed un’immigrazione chiamata a colmarne i vuoti a queste vergognose condizioni a favore dei giusti profitti padronali. Ed è ovvio che i clientes stiano a guardare da lontano e dall’alto in basso chi ne tutela il proprio status, senza, è altrettanto ovvio, alcuna “socializzazione” con chi glielo assicura ed, anzi, pronti ad armarsi contro le loro legittime rivendicazioni in quanto minaccia a questo “ordine costituito”. Da quel che sappiamo proprio l’emergere di siffatte rivendicazioni ha acceso la miccia. “Chiedevano di più”, ha affermato uno dei proprietari di agrumeti, e noi “non possiamo darglielo”. Non possiamo darglielo mantenendo integro questo sistema perverso di “protezioni sociali” clientelari da una parte e supersfruttamento dall’altra; non possiamo darglielo senza far saltare il quadro generale. Chi ci metterà mano? Qualche buona legnata ai clientes–come suggerisce Pasquinelli– non andrebbe male per permettere ad essi di trasformarsi in proletari a tutti gli effetti.
“Dalla parte della rivolta senza se e senza ma”. Perché? Perché essa ha manifestato con forza una capacità di organizzazione di classe(e non di “emarginati” o “diversi”) che, per affermare le proprie imprescindibili ragioni, ha trovato in sé le proprie armi, non salendo sui tetti ad invocare l’attenzione dei mass–media, della “gente” e, in definitiva, delle istituzioni “sorde al proprio grido di dolore”. Ci sembrerebbe del tutto riduttivo dire che “l’unico elemento identitario, auto–riconosciuto (dei rivoltosi, n.) è quello etnico e per alcuni religioso” (come scrive la succitata Rete). E’ chiaro che essi si sono mossi come massa di “negri” (per dirla malamente alla Feltri) e con alle proprie spalle una fede religiosa, magari, islamica. Ma questa è stata e rimane una lotta proletaria indotta non da convinzioni da negritude o islamiche, bensì dalle condizioni di classe(se volete, un segmento di classe, e diremo subito perché) tragicamente vissute sulla propria pelle. Ed essa è stata e rimane un potente appello ad una mobilitazione sempre di classe rivolto a chi ci sta, bianco o nero che sia, indigeno od immigrato che sia, cattolico islamico o non–credente che sia. Una “rabbia che si scaglia contro tutto, perché tutto è precluso”? No, una rabbia che chiama alla non preclusione da parte dei lavoratori indigeni rispetto ad una causa che tutti ci riguarda (per quanto scontando anche all’interno della nostra classe gli effetti del combinato e diseguale del sistema di generale oppressione). “Contro tutto” e quindi rivolta sbalestrata? No, contro tutto ciò che costringe il segmento a rimaner spezzato dalla retta che s’imporrebbe. Su ciò troviamo appropriato questo periodo della Rete. “Fintanto che non si dimostra perché è utile per un lavoratore italiano unirsi ad un lavoratore immigrato e viceversa, gli elementi identitari e razzisti (cioè la segmentazione indotta dal sistema all’interno della nostra classe,n.n.) avranno sicuramente la meglio”. Male che si parli di “un soggetto che è di fatto espulso dalla ’civile democrazia’” (obiettivo da ristabilire?) e di una “cronica mancanza di organizzazione e di strumenti sindacali di difesa” (non offensivi?). Noi non siamo certamente di quelli che, in nome di un ribellismo purchessia, sono per il “contro tutto”, in quanto ciò sta solo a testimoniare della debolezza d’insieme del movimento, ma sappiamo benissimo come la rivolta aperta anche di un solo segmento della nostra classe sia suscettibile di aprire un fronte di lotta generalizzata, selettiva, politicamente orientata contro il capitalismo, “civilmente democratico” o meno. Sempre, beninteso, a determinate condizioni, cui i lavoratori neri di Rosarno hanno dato, da parte loro, il massimo che potessero dare chiusi entro il proprio separato recinto (da cui per primi, immaginiamo, vorrebbero fuggire) ed a cui spetterebbe ora a noi fare la nostra parte. L’eco dei fatti di Rosarno è rimbalzata ovunque i nostri fratelli di colore ne avvertono il senso comune e sappiamo, ad esempio, che a Roma si è dato luogo a manifestazioni di “solidarietà”, anzi meglio: di comune impegno di lotta, in cui accanto ad una certa fetta di immigrati pronti a diventare collettività operante si è manifestata la... prossimità di nostri compagni di pelle bianca (sperabilmente indirizzati non al caritatevole con gli “altri”, ma alla costituzione di un fronte comune entro cui riconoscerci –bianchi e neri– compagni, eguali per posizionamento di lotta ed obiettivi, anche se sappiamo benissimo diseguali in partenza quanto ai “privilegi” che il sistema accorda a noi “autoctoni”, per meglio fregare gli altri e... noi stessi–).
Per il momento, su autorevole indicazione di Napolitano (“facciamo prima cessare tutte le violenze, e poi si discuta”), lo Stato si preoccupa di “mettere in salvo” i rivoltosi neri, cioè a deportarli altrove, poi si vedrà. Maroni assicura che i “clandestini” saranno rimpatriati in quanto colpevoli di essersi abbondantemente spremuti per profitti altrui neppur tanto clandestini (che si sicuro non verranno intaccati né tampoco sanzionati). Lavoratori regolarmente sfruttati che vanno assolutamente difesi e “regolarizzati”, nel senso che va dato ad essi il “diritto” di continuare a lavorare qui per vivere in condizioni da uomini e non da bestie e di organizzarsi liberamente (per quanto la nostra forza lo permetta entro i limiti del capitalismo) in quanto parte di un potenzialmente comune fronte proletario, oggi di difesa, domani di offesa aperta.
Questo l’impegno
cui ci chiama la splendida fiammata di Rosarno, “piccola scintilla” preannunzio di
ben altri incendi. Tutto il resto è chiacchiera “umanitaria”, al massimo destinata a
replicare (più in verbis che nei fatti) filosofie pontificie (e, come necessario
pendant) il mantenimento di questo putrido “ordine sociale”.
12 gennaio 2010