Tutti i compagni un tantino soltanto attenti alla realtà complessa del quadro sociale e politico internazionale, oltre l’angustia dei confini patrii e quelli delle locali consorterie “comuniste” entro cui racchiudersi, sono a conoscenza di quell’importante movimento manifestatosi in seno alle comunità cristiane dell’America Latina che va sotto il nome di “teologia della liberazione”. Di che si tratta, detto in due parole? Di comunità “di base”, fortemente radicate nell’ambiente degli oppressi, che mirano ad una lettura dei Vangeli e connessi in chiave salvifica, redentrice, hic et nunc, su questa terra e non (solo) nell’aldilà, sulla base di una azione concreta di ribellione “cristiana” contro una ben connotata ingiustizia a questa stessa materialissima scala, senza rifuggire da giuste risposte “violente” (con buona pace dell’irenistico Bertinotti!) quando si tratti di far fronte all’ingiustizia e spazzarla via. Come definire questa via redentrice se non col nome del socialismo? E, di fatto, i teologi della liberazione postulano un socialismo cristiano (o un cristianesimo socialista) quale loro orizzonte. L’elaborazione teorica in materia è stata ed è estremamente ricca e complessa, accessibile anche in italiano, attraverso l’opera editoriale di gruppi cattolici e non solo (vedi le pubblicazioni della Chiesa Valdese) attenti ad essa, ed è unicamente l’ignavia intellettuale (e non solo) vigente tra molti gruppi e compagni “comunisti” che ha fatto sì che non la si prendesse adeguatamente (e criticamente, certo!) in carico. Noi, da parte nostra, consideriamo l’opera, poniamo, di Leonardo Boff più socialmente e politicamente pregante e, come si usa dire, stimolante per la nostra inequivoca prospettiva comunista delle opere omnia di Bertinotti o... Diliberto. Tra i pochi che se ne sono “seriamente” interessati segnaliamo qui il vecchio Programma Comunista, con l’inconveniente di una ridicola conclusione mirante a contrapporre in astratto l’”ideologia” della teologia della liberazione a quella del comunismo e a concluderne che la prima costituirebbe semplicemente un estremo baluardo controrivoluzionario all’affermazione del “vero” comunismo, quasi che in America Latina esistesse un autentico movimento comunista dritto verso i suoi scopi e soltanto “frenato” o “deviato” dall’oppio di tale teologia. Tradotto in italiano, converrebbe concludere che Zanotelli e soci costituiscono questo “estremo baluardo”. Noi diciamo, invece, che l’irruzione dell’esigenza socialista nel campo “cristiano” degli oppressi costituisce un utile terreno di confronto dialettico da parte nostra per l’avanzamento di un concreto movimento liberatore comunista. Il che, ovviamente, non significa affatto condividerne presupposti e modalità, teoriche e di azione. In breve: siamo di fronte a veri compagni potenziali, non contrapposti per definizione al nostro orizzonte e tutt’altro che trafficanti contro di esso, anzi, spesso, provvisoriamente (e, certamente, inadeguatamente o peggio), colmanti un vuoto nostro. Come scrive Marx, non importa quello che gli oppressi si configurano ideologicamente come “Idea”, ma ciò che essi fanno, sono costretti a fare, ciò su cui ci si misurerà nei fatti.
Com’è noto, perlomeno per i pochi attenti alla materia, il Vaticano ha condannato la teologia della liberazione come una deviazione “materialista”, “anticristiana”, al fondo persino vagamente atea. Una prospettiva socialista, comunque connotata, sta al di fuori del quadro dogmatico ecclesiale. Il che, come diremo, è perfettamente in linea con la concreta, storica, teologia cristiana ortodossa. Come dice il Vangelo, le nostre parole devono suonare sic sic, non non. La teologia della liberazione sta a metà con un sic evangelico ed un non socialista. La contraddizione è evidente. La nostra simpatia va verso il non per riportarlo ad un sic sic socialista partendo da un potenziale reale di rivolta anticapitalista; e questo non significa affatto adeguarsi a possibili “compagni di strada”, ma condurre verso di essi una reale battaglia fraterna di chiarificazione nella lotta per arrivare ad una “liberazione dalla teologia” di chi, in quest’ambito, sinceramente e coraggiosamente si muove.
Novità recente. Mentre Leonardo Boff, esorcizzato dal Sant’Uffizio (Ratzinger in primis) prosegue rettilieamente per la sua strada “socialista cristiana”, suo fratello Clodovis, già a suo tempo esponente primario di questo movimento, si è convertito ad una severa critica dei postulati di esso in linea con la dottrina tradizionale della Chiesa cattolica. Non –dobbiamo dirlo– per ignorarne le esigenze “buone”, che anzi vengono “riscattate”, ma per rimetterle sui cardini della fede religiosa autentica. Di che si tratta? La teologia della liberazione postula che il Cristo è l’emblema ed il portaparola degli oppressi e che chi incontra un oppresso incontra Cristo e del Cristo si assume il messaggio in quanto se ne assume quello degli oppressi da liberare qui ed ora. La divinità, facendosi umanità, si assume il carico di quest’ultima a questa scala, storica, materiale. Cristo avrebbe scelto di nascere povero tra i poveri quale portabandiera di essi e ciò costituirebbe la prova del messaggio concretamente liberatore dei Vangeli. Il discorso “teologicamente” non regge. Cristo è nato anche uomo e non donna, israelita e non romano od altro, ad esempio. Che la sua prima “base” fosse costituita da “umili”, non compromessi con gli interessi (mammoneschi) delle caste sacerdotali ebraiche può anche essere un fatto –da comprovare– , così come il fatto che il messaggio cristiano si sia inizialmente diffuso tra questi strati, soprattutto fuori Israele. Ma il messaggio di redenzione non ha per soggetto gli oppressi, bensì i “peccatori”, figli di uno stesso Adamo, da ricondurre alla vera fede ultraterrena (“il mio regno non è di questo mondo”), e che ad accoglierlo siano gli “umili” in prima istanza non va oltre questo quadro che accoglie ed interpreta il “gemito degli oppressi” (per dirla con Marx) senza mai andare programmaticamente oltre questo stadio (cosa, per altro, storicamente impensabile per il luogo e l’epoca della sua diffusione). Ci si richiama al “beati i poveri”, ma già di questo assioma c’è in uno dei Vangeli la precisazione: “beati i poveri in ispirito”, cioè coloro che sentono la propria insufficienza umana e la raccomandano a Dio; essi figurano nella tradizione cristiana originaria come “beati” (potenziali) in quanto privi degli “allettamenti materiali”, la vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste che allontana dalla strada della Fede, che è rinunzia e contrasto con le ragioni del “corpo”, del concreto quaggiù. I deprivati di beni materiali sono suscettibili di elezione beatificante in quanto accettano questa loro condizione come rinunzia alle sirene del “corpo” a favore dell’”anima” (logica presente anzitempo nel Fedone platonico, ottimo terreno di cultura del cristianesimo ebreo–ellenizzante). La condanna cristiana della ricchezza come fonte di ingiustizia va letta in questa chiave e, d’altronde, la si ritrova paro paro in alcuni testi dell’Antico Testamento, vedi Michea (738–693 a.C.) che, ci avverte un’accorta introduzione di parte cattolica alla Bibbia, “pone a nudo la crisi sociale del Regno di Giuda, causata dal latifondismo, dall’oppressione dei poveri, dagli abusi della classe dirigente e dalla corruzione generale” (quasi... marxista!), ma sempre su questa lunghezza d’onda di “purificazione delle anime” in vista dell’ultraterreno redentore. Michea parla infatti di “abominevoli rendite” e dei potenti del suo tempo dice: “Essi bramano i campi e li usurpano, le case e le prendono; fanno violenza all’uomo (..) Siamo spogliati di tutto! (..) Per un niente voi estorcete un pegno esorbitante (..) Essi strappano la pelle di dosso alla gente, e la carne dalle ossa del mio popolo”. La redenzione, però? Verrà il regno di Dio ed “Egli reggerà numerose nazioni, sarà l’arbitro di popoli possenti, anche lontani, ed essi trasformeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Una nazione non impugnerà più la spada contro l’altra, non impareranno più a fare la guerra”. Una sorta di Internazionale, “futura umanità”, da affidare alle mai di Dio, sia pure protestando qui ed ora contro l’ingiustizia terrena.
Certamente il seguito maggiore del primo cristianesimo va registrato tra i poveri (per quanto –vedi le biografie degli Apostoli– in maniera non assoluta). Da questo punto di vista esso rappresentava sociologicamente il “gemito degli oppressi”, e ciò già era di per sé un grido di protesta e per quanto possa dirsi che esso valse a corrodere i marcescenti istituti sia del tradizionalismo conservatore e reazionario ebraico sia, ancor di più, quelli dell’Impero pagano romano fondato sulla schiavitù. Fatto dunque rivoluzionario entro limiti ben precisi per contenuti e nel tempo (e pertanto destinati a rovesciarsi nel proprio contrario in seguito) e ad onta delle sue premesse teologiche.
Paolo rimanda lo schiavo cristiano fuggiasco al suo padrone schiavista cristiano indicandogli la via dell’ubbidienza ad un dato ordine sociale emendabile cristianamente attraverso rapporti “cristiani fraterni” tra padrone e schiavo. Quel che è successo dopo, nel corso della storia, lo sappiamo fin troppo bene. Si può ben predicare, od anche cercare di attuare, delle relazioni “fraterne” nell’ambito dei credenti, ma senza mai mettere in causa l’ordine delle cose materiali, che, anzi, si assumono come regola fissata da Dio stesso. “Date a Cesare quel che è di Cesare” (il potere non si tocca) e “a Dio quel che è di Dio” (a scala ultramondana). Già le prime gerarchie cristiane si acconciavano all’ubbidienza al potere, promettendo preghiere e voti di benedizione per lo stesso Nerone, purché rimanesse integro il diritto dei cristiani a non sentirsi parte di questo mondo (come rivendicano oggi i Testimoni di Geova, “neutrali” rispetto alle cose politiche mondane che non li riguardano). Per questa via, come vedremo, si può arrivare persino ad una critica, oggi, del capitalismo, purché i suoi “valori” vengano contestati attraverso una diversa “coscienza” (individuale ed ecclesiale, comunitaria), ma non si traducano mai nel negare a Cesare quel che gli spetta, o si prende da sé, attraverso un’azione sociale rivoluzionaria. Teologicamente parlando, ha ragione Clodovis quando dice che la via teologicamente ortodossa è quella che va da Cristo al povero e non il contrario, dal povero a Cristo. Le prime comunità cristiane s’informavano ad un comunismo ecclesiale che contemplava, all’interno della comunità la comunione dei beni, ma come rifiuto di questo mondo ingiusto nell’attesa –vista come imminente, checché ne dicano i commentatori attuali– di una parusia del Cristo “prima che passi questa generazione” (eloquentissimo a tal proposito San Giovanni!) e, con essa, ad un governo mondiale retto direttamente dal Cristo stesso. Già nel tardo Ottocento socialisti ingenui (o... furbastri, in vista della conquista delle masse credenti) s’industriavano a presentare quel “comunismo” cristiano come un’anticipazione o un dato omologo al socialismo tour court, un po’ alla Leonardo Boff. Molto poetico –ci cadde anche un Lunacarskij!–, ma poco realistico! Una lettura del cristianesimo in chiave terrestremente liberatrice, ovviamente, ha rappresentato un dato ricorrente nella storia di esso come tentativo di attualizzare materialmente gli imperativi etici rivolti alle singole anime individuali: ovvio perché le ragioni materiali premono comunque con forza. Ecco perciò mille e disparatissimi esempi storici di “teologie della liberazione”, tutte significative di un’autentica volontà materiale (spiritualizzata), ma tutte destinate ad infrangersi col nodo centrale della questione: la necessità di liberarsi dalla teologia, di darsi armi acconce socialiste scientifiche.
L’espertissima Chiesa Cattolica lo ha ben capito anzi tempo! Già nel 1846 Pio IX nell’enciclica Qui pluribus condannava la “nefanda dottrina del cosiddetto comunismo”, “funestissimo errore” come poi, nel ’64, si leggerà nella Quanta cura. Pio XII, nel 1949, opportunamente scomunicava “i fedeli che professano la dottrina del comunismo, materialista ed anticristiano” e se ne fanno militanti, alla faccia delle lugubre lamentazioni dei nostrani picisti fautori della “conciliabilità delle due dottrine” (oggi vedi Niki Vendola!). Il tanto decantato papa Giovanni XXIII nel ’59, con apposita Dichiarazione del Sant’Uffizio, ribadiva: “La pacificazione che la Chiesa auspica non può in alcun modo essere confusa con un cedimento o un rilassamento della sua fermezza nei confronti di ideologie e sistemi di vita che sono in opposizione conclamata ed irriducibile con la dottrina cristiana”, concedendo che ciò “non significa indifferenza di fronte al gemito che arriva ancora sino a noi dalle regioni infelici”. Nella Mater et Magistra (1961) ancora una volta si riconferma il giudizio dato da Pio XI nella Quadragesimo anno: “Tra comunismo e cristianesimo, il Pontefice ribadisce che l’opposizione è radicale, e precisa che non è da ammettersi in alcun modo che i cattolici aderiscano al socialismo moderato (!!, n.): sia perché è una concezione di vita chiusa nell’ambito del tempo, nella quale si ritiene obiettivo supremo della società il benessere; sia perché in esso di propugna una organizzazione sociale della convivenza al solo scopo della produzione (!!, n.), con grave pregiudizio della libertà umana, sia perché in esso manca ogni principio di vera autorità sociale”.
Le Chiese cristiane, preso atto che i tempi della ricomparsa di Cristo e del suo governo celeste sulle cose di questo mondo ritardavano all’infinito, si sono dovute occupare sempre più di politica spicciola, per quanto “conformemente ai Vangeli”. Per questa via esse hanno accompagnato e benedetto i poteri feudali prima e quelli borghesi poi (chi ci è arrivato prima –il protestantesimo– chi dopo –il papato–, nessuno dei due migliore o peggiore dell’altro, ma conforme a situazioni storiche determinate). Come abbiamo detto sopra, questo non significa che Chiesa e potere “mondano” coincidano. Se Michea protestava ad alta voce contro gli “ingiusti” del proprio tempo, altrettanto hanno potuto fare, in vari modi ed a diversi gradi, le Chiese cristiane successive. Salvati quelli che per esse sono i capisaldi dell’”ordine naturale”, cioè prescritto da Dio stesso ad aeternum –proprietà privata, famiglia, Stato–, si può ben criticare ogni e qualsiasi ordinamento presente, capitalismo compreso. Uno scritto, tra i tanti, di Bordiga sulla questione religiosa - «Sorda ad alti messaggi la civiltà dei “quiz”», pubblicato su Programma Comunista N.1/1956 (1) - lo indica benissimo attraverso le alate parole di Pio XII. Ne raccomandiamo la lettura per non doverci qui ripetere col poco di nostro.
Nella Pacem in terris (1963), Giovanni XXIII introduce un’interessante ed eloquente distinzione: le dottrine marxiste sono intrinsecamente diaboliche, ma i “movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche” di protesta e contestazione contro il presente ordine mondano possono contenere “elementi positivi e meritevoli di approvazione (..) nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana”. Paolo VI, nella Octogesima adveniens (1971) chiude la porta cristiana sia all’ideologia marxista (“al suo materialismo ateo, alla sua dialettica di violenza e al modo in cui essa riassorbe la libertà individuale nella collettività, negando insieme ogni trascendenza all’uomo e alla storia”), sia a quella “liberale”, cioè capitalista. Che molte istituzioni cristiane (non solo cattoliche; pensiamo, ad esempio, a certi gruppi riformati o agli Avventisti) lavorino nel concreto contro le regole sistemiche del capitalismo è un dato di fatto incontrovertibile e su cui assolutamente non sputazzare, specie se da parte nostra si registra un vuoto spaventoso di presenza su tale terreno. Sin dove esso può sospingersi? Sino, magari, a disegnare tratti di “movimenti di retta intenzione” (rovesciamo sui nostri interlocutori la distinzione giovannea tra “ideologia e movimenti”), salvo a ritrarsi dall’azione rivoluzionaria di classe, da sostituirsi con la Caritas, e sia pure sino allo spasimo in certi casi (vedi l’azione di cattolici intrepidi tra i senza casta indiani –col rischio di essere arsi vivi dai fondamentalisti reazionari indù– o l’azione dei Zanotelli e molti altri qui tra i diseredati e la “feccia” prodotta dal sistema spesso riscattata umanamente, materialmente in nome del “trascendente” riscatto evangelico).
In una conferenza del ’77 o ’78, l’eminente gesuita
Bartolomeo Sorge si è spinto sino all’estremo di dar ragione a certi
postulati marxisti prima e come condizione della completa ripulsa di
esso. Parole alte, illuminanti, e ovviamente controrivoluzionarie (si veda il
nostro intervento precedente su
Bagnasco). Leggiamone qualche formidabile passo:
«Rilevare il valore superiore del lavoro umano nei
confronti del profitto, e la sua funzione elevante per l’uomo e per la società,
è “scientifico”; ma assolutizzare il lavoro produttivo di beni economici fino ad
affermare che esso costituisce l’attività suprema e totalizzante dell’uomo, che
esso è all’origine della dignità della persona (e non viceversa), tutto ciò e
“ideologico” (..) Rilevare l’esistenza della lotta di classe all’interno
della società capitalistica è “scientifico”; ma assolutizzare la lotta di classe
fino a considerarla l’unico motore della storia e criterio unico della moralità
dei comportamenti sociali è “ideologico”» . «In conclusione: si può giustamente
affermare che l’analisi di Marx contiene alcuni importanti elementi
scientifici», ma devianti poi in “ideologia”, falsa coscienza, e, soprattutto,
la prassi che ne consegue, ad essa intrinsecamente connessa, è per sua
natura e per sua stessa confessione anticristiana: «Tutti (!!!)
vogliamo la liberazione dell’uomo dallo sfruttamento capitalistico (che Marx ci
ha fatto conoscere meglio con la sua analisi critica); ma di quale liberazione
si tratta? Quale tipo di uomo libero e di società libera vogliamo costruire?
Attraverso quale strategia del cambiamento? Con riferimento a quale scala e
priorità di valori?». Il problema è perfettamente posto.
Su queste precise basi, teologicamente incontrovertibili, il Sorge fonda la sua critica ai vari tipi di “socialcristianesimo” che ,negli anni ’70, si faceva sentire vivacemente non solo in America Latina, ma anche in Italia. (In notevole anticipo su questo fronte “modernista” si erano schierati i Valdesi, navigando a vista tra Vangeli e Capitale: con tutte le migliori e lodevoli intenzioni, ma insufficienti sia in cristianesimo che in marxismo, quest’ultimo accolto in versione stalinian–togliattiana) Non è in questione, scrive il Sorge, il confronto, il dialogo e neppure il riconoscimento dei giusti dati scientifici apportati dalla critica marxista al capitalismo da cui “tutti vogliamo liberarci”, ma la linea d’indirizzo: o si parte dalle fondamenta cristiane per “toccare” anche i marxisti, o si parte da Marx per inglobarvi il cristianesimo.Perfetto! E con lui ha teologicamente ragione Clodovis.
Bella la descrizione dei tre tipi di “commistione” fuori dalle regole. La riportiamo pressoché integralmente sia perché ben descrive il fenomeno italiano di allora, oggi assai più striminzito, sia quello latino–americano di cui qui espressamente si discute:
a) «Alcuni, che si potrebbero definire “cristiani marxisti”, accettano –“criticamente” e non “dommaticamente”, come dicono– tutte le principali tesi del marxismo» sino allo stesso ateismo visto, come scriveva G. Della Pergola su Rocca (15 marzo ’75) «come necessario momento negativo della religiosità per recuperare la fede nella sua pienezza» (percorso alquanto dubbio);
b) Altri pretendono di assumere il metodo di analisi marxista della società capitalista e la prassi rivoluzionaria che ne deriva (esattissimo!, n.), senza però aderire alla filosofia e all’ideologia sottostante (contraddizione patente, n.). E’il caso dei cosiddetti «Cristiani per il socialismo, i quali, da un lato rifiutano ogni concezione spiritualistica della fede, e identificandola con la politica, affermano il primato del temporale sullo spirituale, chiedono al marxismo (al PCI in realtà, n.) di rivedere il problema del materialismo dialettico e il suo giudizio sulla religione» (E il PCI lo ha fatto, a patto però di rinnegare il postulato della liberazione dal capitalismo! Marx e Cristo insieme alle ortiche!);
c) «Altri, infine, introducendo, invece, una separazione netta tra fede e politica, rivendicano la possibilità di accettare la linea politica dei partiti marxisti, militando in essi o votandoli, senza traumi per la loro coscienza cristiana e senza problemi di implicazione ideologica». Così, ad esempio, dei cristiani sui generis passati al PCI si dichiaravano all’Unità (13 maggio ’76): «La scelta che abbiamo fatto è politica ed appartiene al regno della relatività e della storicità della politica», senza toccare i problemi di fede poiché «i confini della comunità di fede sono più ampi dei confini di un partito, e le due realtà (..) non sono né identificabili né sovrapponibili».
Delle tre tipologie, quest’ultima è la peggiore: né per la Chiesa né per il marxismo può valere questa bubbola “laicista” della separazione Chiesa–Stato ipostatizzata in separazione Fede–marxismo. Ha avuto ragione di recente Bagnasco a ribadire che non si può pretendere impunemente di ghettizzare il cristianesimo entro le mura ecclesiastiche ed a rivendicare il diritto cristiano a promuovere una sua politica conforme ai dettati della fede. Di che confini di fede più ampi si parla se questi risultano poi talmente meschini da non comprendere la “relatività della fede” ed, anzi, farsene fissamente cacciar fuori?
E’ ovvio che per noi un Leonardo Boff risulta più, diciamo così, “simpatetico”.Questo perché egli ed i suoi promuovono una ribellione concreta, materiale e materialistica, che, anche se parte da presupposti fideistici cristiani in quanto “ideologia”, rappresenta una premessa dello scioglimento dei nodi di fondo che, su opposto versante, rivendicano i Sorge e i Clodovis. Si tratta a questo punto, però, di porre l’aut aut che ne consegue: o teologia della liberazione o liberazione dalla teologia. Tertium non datur. Perciò noi marxisti, adottando le direttive giovannee, diciamo: non ci chiudiamo affatto al dialogo coi credenti e ad essi riconosciamo come “scientifico” l’assunto che “tutti gli uomini (dovrebbero) essere (diventare) fratelli”. Su questa terra, ragionando e lottando da creature umane, da collettività e non “anime personali”, e non da creta plasmata ed insufflata da un Dio da cui aspettarsi giudizi universali e giusti governi mondiali a venire..
29 agosto 2008
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(1) Oltre allo scritto di Bordiga che riportiamo, rimandiamo alla raccolta "Chiesa e fede, individuo e ragione, classe e teoria", edita dai Quaderni Internazionalisti, ora N+1, presso quel sito rintracciabile e richiedibile.