La recente prolusione del cardinal Bagnasco al Consiglio Permanente della CEI (21–24 gennaio) in qualità di presidente ha dato la stura a tutta una serie di insurrezioni verbali da parte del “mondo laico” (al quale ormai è iscritta d’onore la “sinistra radicale”) per una supposta “invasione di campo” della Chiesa nel mondo della politica e ciò in contraddizione col supremo principio laicista della “separazione tra Chiesa e Stato”, organi entrambi sovrani entro le proprie, rispettive “sfere d’intervento”. Da bastian contrari marxisti dobbiamo dire che già questo punto di partenza ci suona del tutto risibile.
La separazione Stato–Chiesa, in senso astratto, “ideale”, viene proprio... dalla Chiesa, in quanto “a Cesare quel che è di Cesare” e in nome di un regno che “non è di questo mondo”. Principio rapidamente capovolto nei fatti, come ben sappiamo, col buon argomento che un braccio secolare ben indirizzato può servire a far meglio digerire alle “anime” il messaggio ecclesiale. La rivoluzione borghese ha posto in modo nuovo il problema affermando il primato della propria religione materiale, quella borghese, assolutamente sovrana in campo politico, economico e sociale, lasciando al foro interiore individuale il diritto all’”errore oscurantista” amministrato dalla Chiesa ad uso esclusivo, e separato, delle “anime”. Nel suo slancio iniziale, la borghesia, scontrandosi col peso conservatore e reazionario del passato, cui la Chiesa stessa era intimamente legata, arrivò sino al punto di svilire al massimo quest’ultima in nome della “dea Ragione” e di proclamarne la prossima morte. Purtroppo, la Ragione cui essa si appellava altro non poteva essere che la propria, l’alienazione borghese, elevata al rango di nuova religione “razionale”. Spentisi gli iniziali venti rivoluzionari, progressisti, la borghesia non poteva che riconoscere questo fatto e ritendere la mano alla Chiesa in vista di un do ut des profittevole per entrambe le parti in causa. La cosiddetta “separazione” risulta, a questa stregua, una pura separazione funzionale in vista di un unitario progetto conservatore (ed oggi apertamente reazionario): lo sdoppiamento tra “anima” individuale cristiana e cittadino borghese in carne ed ossa è una combinazione ideale per il mantenimento dell’ordine sociale alienato vigente nella maniera più indolore e tranquilla possibile. E’ significativo che questo percorso sia lo stesso che ha contrassegnato lo stalinismo ed i suoi epigoni, dal richiamo di Stalin ai “valori dell’ortodossia” (non quella marxista, ma quella dei pope) a quello del potere cinese attuale, prodigo di riconoscimento ai valori della fede buddista, dopo che già Mao aveva santificato come “religione” i precetti statalistici del confucianesimo. E non c’è alcun movimento “rivoluzionario” attuale, in quanto tuttora borghese, che non segua le stesse orme, Castro e Chavez compresi. Il modello di rapporto reale Stato–Chiesa si registra, non a caso, negli avanzatissimi USA, dove separazione e connessione intima tra i due termini è al massimo evidente (e gli USA sono storicamente più avanti e non indietro rispetto a Cavour buonanima). Per tutt’altri, ma consentanei, motivi l’Islam politico accentua questa direzione.
(Anche il movimento socialista ha evocato il termine “separazione”, e magari quello della restrizione del dato religioso a “fatto privato”, ma, a parte l’inesattezza teorica di una simile formulazione –come costantemente precisato da parte marxista–, le parole così usate a scopo di pura agitazione propongono un tutt’altro disegno: non è “lo Stato” a doversi rendere autonomo e sovrano in una sua (...privata) sfera dalla religione né si concede al “singolo” il diritto ad una sua privata autoalienazione: è la società finalmente umana che deve liberarsi dall’alienazione statale e religiosa come collettività. Il “diritto” personale all’esser religiosi (diritto tuttora democratico–borghese, come ogni diritto attuale,ammonisce Marx) vale solo, nella fase della “dittatura proletaria” come necessaria fase di trapasso alla realizzazione delle nuove condizioni strutturali in grado di inserire il privato homo religiosus nella sua naturale sfera collettiva, sociale, di per sé libera dall’”oppio” della religione stessa; scopo per il quale nulla sarebbe più inappropriato di un divieto per legge della religione, che o viene positivamente superata, o, come s’è visto storicamente, si ripresenta da sé, ineluttabilmente, nella doppia veste di uno Stato–religione e di una religione–Stato).
Dobbiamo per forza di cose riprendere dei passi di Marx.
Cominciamo da Per la critica della filosofia del diritto di Hegel: “Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un essere astratto, posto al di fuori del mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. (..) La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo del quale la religione è l’anima spirituale.”
Ne La questione ebraica Marx postula: la democrazia politica è cristiana (altro che “separazione” Chiesa–Stato!), e così argomenta: “La democrazia politica è cristiana perché in essa l’uomo, non soltanto un uomo ma ogni uomo, vale come essere sovrano, come essere supremo; si tratta però dell’uono nella sua forma fenomenica non educata, no n sociale, l’uomo nella sua esistenza casuale, l’uomo come vive e cammina, l’uomo guastato qual è da tutta l’organizzazione della nostra società, perduto, fatto estraneo a se stesso, posto sotto il dominio di rapporti ed elementi disumani, in una parola l’uomo che non è ancora un reale essere della sua specie. La finzione fantastica, il sogno, il postulato del cristianesimo, la sovranità dell’uomo –ma in quanto ente estraneo, differente dall’uomo reale– è, nella democrazia, realtà sensibile, presenza, massima mondana. (..) Noi abbiamo dunque mostrato: l’emancipazione politica dalla religione lascia sussistere la religione, anche se non una religione privilegiata.La contraddizione nella quale il seguace di una religione si trova con la sua qualità di cittadino è solo una parte dell’universale contraddizione mondana tra lo Stato politico e la società civile. La perfezione dello Stato cristiano è lo Stato che si riconosce come Stato e fa astrazione dalla religione dei suoi membri. L’emancipazione (formale, n.) dello Stato dalla religione non è l’emancipazione dell’uomo reale dalla religione: (..) Se voi (qui si parla agli ebrei, ma vale in generale, n.) volete essere emancipati politicamente senza emancipare voi stessi umanamente è perché l’incompletezza e la contraddizione (..) risiedono nell’essenza e nella categoria dell’emancipazione politica. Se voi siete rinchiusi in questa categoria, è perché partecipate all’universale soggezione”.
Il “laico” che protesta contro l’invasione di campo della sfera religiosa in quella politica ed a tanto si ferma non ha capito nulla della partita in oggetto e, al massimo, si rivolge all’arbitro capitalista–borghese pretendendo da esso il pieno rispetto dei “diritti civici” attinenti alla “politica” come supposta ed irreale “sfera separata”. Pertanto partecipa all’universale soggezione, spesso risolvendo la “contraddizione mondana” di cui sopra in un’esasperazione delle realtà concrete borghesi più alienanti, tentando di cancellare della religione magari quell’aspetto che è “l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale”. Vogliamo dire, in sintesi: tutto, del discorso di Bagnasco, è per noi marxisti irricevibile, ma in quanto parte del tutto “universale” di una realtà alienante che certe “antibagnascate”, semmai, ribadiscono ed esaltano.
Proviamo a leggere il testo della CEI. Tutt’altro che peregrino è il quadro che esso traccia della situazione italiana: “Questo Paese, che profondamente amiamo, si presenta sempre più sfilacciato, frammentato al punto da apparire ridotto addirittura “a coriandoli”, avvertono gli esperti” per una “complessa e comune incapacità di costruire uno sviluppo partecipato. (..) Sembra davvero che, bloccato lo slancio e la crescita anche economica, ci sia in giro piuttosto paura del futuro e un senso di fatalistico declino”. Esatto. Resterebbe da vedere da che siano capitalisticamente originati quello slancio e quella crescita e da dove, altrettanto capitalisticamente, nasca il blocco attuale. Questo il nervo vivo che la Chiesa, in ciò consentanea allo Stato, non intende toccare. E da che può trar forza uno “sviluppo partecipato”, per noi, che non sia una partecipazione antagonista contro questo tipo di “sviluppo”? Non lo chiediamo alla Chiesa, men che mai allo Stato.
Il documento si appunta poi, nel tentativo di offrire una sua risposta, sulla deriva “materialista” e “relativistica” secondo la quale “l’unica garanzia di una umana convivenza pacifica tra i popoli (è) il negare la cittadinanza alla verità sull’uomo sulla sua dignità nonché alla possibilità di un agire etico fondato sul riconoscimento della legge morale naturale”. Bene se si riconoscesse che il “materialismo” (assolutista al fondo, altro che relativista!) della società presente è contrario alla dignità dell’uomo per il suo essere capitalista. Bene se si dicesse che l’”agire etico” può aver valore solo in quanto agire sociale, concreto contro di esso. Bene se si dicesse che la morale “naturale” non è un valore “eterno”, ma il lavoro di riappropriazione da parte dell’uomo concreto della sua umanità in una società in cui umanità e natura possano finalmente congiungersi. Idem come sopra quanto a referenti Chiesa e Stato a tal fine!
Andiamo avanti. Benedetto XVI pone l’esigenza che “nell’autocritica da parte della modernità (due bestialità in una: la modernità come astrazione e l’ipotesi che questa concreta società moderna si “autocritichi” per ritornare ad una supposta legge morale naturale eterna, fuori dalla storia, n.) confluisca l’autocritica del cristianesimo moderno, che deve imparare di nuovo a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici”. Di qui il richiamo (del tutto teologicamente logico) a superare una visione del cristianesimo “spesso ripiegato solamente in ambito educativo e caritativo”. Non si nega, ovviamente, tale ambito, ma lo si vuol ricondurre a finalità “pastorali”, di “redenzione delle anime” e non di puro e semplice sollievo ai corpi che le “imprigionano”. E’ sempre Benedetto XVI a parlare: “La Chiesa sa che non è suo compito far essa stessa valere politicamente (la propria) dottrina (la sua fantomatica “antropologia razionale cristiana”, n.): del resto suo obiettivo è servire alla formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale”. Tutto sulle nuvole: giustizia disincarnata ed anime di bravi capitalisti cristiani disposti a dimettere i propri interessi! Riforma clericale delle anime che fa da pendant con la “riforma sociale” ipotizzata a suo tempo dal revisionismo socialista di una progressiva e pacifica “evoluzione” del sistema sociale presente verso il socialismo (“regno della giustizia” non dissimile da quello ecclesiastico tipo “giusto salario”, risposta clericale alla lotta socialita contro il sistema salariale, alla Leone XIII!).
Ma, a proposito di “antropologia cristiana” coerentemente “predicata”, ci permettiamo di chiedere qualche informazione. Ad esempio, Benedetto XVI, nel suo incontro col neo–convertito Blair, gli ha fatto presente la discrasia tra la sua ritrovata fede cristiano–cattolica ed il concreto ruolo di boia da lui assunto in Iraq? E quale “antropologia cristiana” si è applicata ai complici ecclesiastici dei boia cileni ed argentini, alla legittimazione papale dell’”intervento umanitario” delle armate occidentali in Somalia, all’attiva partecipazione del Vaticano nello squartamento della Jugoslvia? Sappiamo benissimo che questo ruolo di complicità non ha riguardato l’insieme della Chiesa–stato, e tantomeno la “comunità ecclesiale”, divisa tra carnefici, vittime e massa assente, ma dov’erano, o sono oggi, i reggenti di essa quando si trattava, o si tratta, di prendere concretamente posizione?
Nessun spirito “laico” si è sentito in dovere di aggredire questi postulati conservatori et pour cause: al di là del binomio fantastico capitalismo–giustizia nessuno di essi si sente di andar oltre!
Così la vera “pietra dello scandalo” sta altrove.
Prima bestemmia “invasiva”: “Sui temi moralmente più impegnativi (in politica; e per noi tutti lo sono concretamente, n.) assecondare nelle decisioni una logica meramente politica (banalità: la logica in questione è morale, se volessimo usare questo termine, per definizione, n.), ossequiente cioè le strategie o le convenienze dei singoli partiti (indipendentemente da logiche di sistema?, n.), è chiaramente inadeguato” per ragioni di una coscienza “già convenientemente formata”. Invasione di campo nella politica, si grida. Noi obiettiamo: gioco corretto, salvo a vedere a questa stregua in che consista in concreto la “dottrina sociale cristiana” (ma allora esiste?, e come mai essa, in quanto connessa ai fondamentali della fede, rinunzierebbe a farsi valere politicamente? Di fatto la Chiesa mai “si astiene”, ed allora vediamola all’opera nei fatti). La Chiesa ha tutto il diritto a richiamare i propri adepti investiti di potere politico alla coerenza coi suoi principi di riferimento ed, anzi, dovrebbe farlo con la massima forza, evitando il gioco di bussolotti dello sdoppiamento tra assoluto morale e “mero” politico, contraddizione in termini. Purtroppo, crediamo che, ove vi fosse questa determinazione posta come principio, non resterebbe più un solo esponente politico in grado di esser qualificato come cristiano, a meno che la Chiesa stessa non si decidesse a riconoscere come tale il sordido interesse “politico”, e cioè borghese, di riferimento nella prassi il che, come recitava una vecchia canzonetta, si fa ma non si dice.
Ma veniamo ai casi concreti tracciati nel documento per vederne la pratica traduzione.
Nessuno, speriamo, contesterà a Bagnasco le sue prese di posizione su alcuni temi.
Primo: la rilevazione della crescita di una povertà di massa in Italia (“accresciuto ricorso ai centri di ascolto Caritas e all’aiuto dei “pacchi viveri” da parte di anziani soli e soprattutto di famiglie con figli”; “l’Italia incoraggia le famiglie a non fare figli”). Dato indubitabile e su cui la Chiesa, con la Caritas, gioca un ruolo di supplenza –e, ovviamente, di rafforzamento di sé. In maniera, va sinceramente detto, non puramente strumentale e con efficienza assai migliore di tante organizzazioni non governative foraggiate dallo Stato che, spesso, sono pure e semplici organizzazioni big profit. Ed altrettanto vale per altre iniziative “caritatevoli” sul territorio. (D’altronde, anche per il passato, Marx ha riconosciuto questo ruolo assistenziale di lenimento della miseria svolto dalla Chiesa che la borghesia aveva cancellato in nome delle sue “autonome” leggi, con la conseguenza di un incremento della miseria stessa)
Così nessuno, speriamo, vorrà imputare a Bagnasco le sue parole sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e l’affermazione nitida che “il posto di lavoro non può essere messo in ballottaggio con la vita e il vero progresso non può tollerare condizioni tanto rischiose da compromettere ogni anno la salute e la vita di un elevatissimo numero di cittadini”, così come il richiamo finale: “la politica non può limitarsi alle parole o ai provvedimenti che nascono evasivi. (..) La popolazione è stanca di promesse”. Siamo alle solite: si denunziano degli effetti di un sistema e non se ne aggrediscono le cause, ma la pittata è precisa.
Altrettanto diciamo sulla questione dell’”emergenza rifiuti”, dove la denunzia è ancora più netta e precisa: un’emergenza che dura “da troppo tempo (..) senza che l’opinione pubblica riesca a capire come stanno effettivamente le cose: fino a dove c’entra la malavita organizzata e la complicità di cui essa gode, e dove comincia la mala–politica, la latitanza amministrativa, il palleggiamento delle responsabilità, l’ignavia delle istituzioni”, ovvero, per noi, la malavita del sistema. Ce n’è quanto basta per tutti. Bassolino, Prodi, Berlusconi... Basterebbe tirare i fili.
Ma la “pietra dello scandalo” del discorso di Bagnasco sta altrove, laddove si toccano i temi dei “diritti civili” (Dico, aborto etc.). Su questi temi, come su tutti gli altri, nessuno più di noi potrebbe riconoscersi diametralmente lontano dalle proposizioni cattoliche, ma anche qui vanno posti alcuni paletti che altrettanto ci distanziano da certe posizioni “laiciste”.
La Chiesa non ha torto quando condanna il “relativismo” cosiddetto progressista, per cui non esistono altre regole che non siano quelle della soddisfazione dei singoli appetiti individuali, quali che siano, equiparati in nome di una presunta “libera autodeterminazione”. Tutto va bene, a questa stregua, per il borghese decadente in quanto tali appetiti (tutt’altro che “naturali”, ma assolutamente indotti) creano dei mercati in grado di soddisfarli. Ci ricordiamo benissimo, ad esempio, del maxi–necrologio di Moana Pozzi sull’Unità con l’affermazione del “valore” della prostituzione come “libera scelta di vita”. Su un sito “anarchico” abbiamo di recente letto delle cose sul “diritto dell’individuo” di drogarsi, leggero o pesante, senza intromissioni da parte del Leviathan statale (ed, ovviamente, senza un conculcamento di tale “diritto” da parte della comunità sociale, presa come sinonimo di statolatria occulta). Il mercato capitalista incentiva tutti i bisogni più abnormi in quanto solvibili: ogni diritto è concesso a chi è in grado di pagare per i servizi offerti dal mercato: transex, sado–masochisti, coprofili, domani forse i necrofili e, perhé no?, gli stessi pedofili (dei quali persino dei “quartinternazionalisti” da manicomio o da fogna hanno assunto le difese in nome del “diritto dell’infanzia ad una propria sessualità”). Come acutamente annotava Erich Fromm in una polemica con Marcuse “la soddisfazione sessuale illimitata non è che un elemento del caratteristico aspetto del capitalismo del XX secolo: il bisogno di un consumo di massa, il principio per cui ogni desiderio deve essere immediatamente soddisfatto e nessuno deve rimanere frustrato. (..) Questo bisogno di un consumo immediato dei beni materiali va di pari passo coi bisogni d’un consumo immediato dei desideri sessuali” (quali che siano, e incentivati dal mercato stesso). “Credo –concludeva Fromm– che studiare le condizioni dell’amore e dell’integrità significhi scoprire le ragioni del loro insuccesso nella società capitalista” e,con ciò, un elemento potenziale di lotta contro di essa: “l’analisi dell’amore è una critica sociale”. Qui tutta la distanza tra noi e la polemica “antirelativistica” cattolica, che imputa ad un etereo “materialismo” sui generis le derive di cui è responsabile solo il crasso materialismo borghese. Ma, nel rimettere in piedi le cose, segnamo nettamente i confini che ci separano da certo laicismo relativista quanto a supposti “bisogni individuali” e pienamente assolutista in senso borghese.
E’ scontato che per Bagnasco l’amore di cui parla Fromm e di cui noi parliamo (senza poterci qui soffermare sul tema: ma, insomma!, rileggetevi i testi marxisti!) coincide con l’istituto matrimoniale. Su questo punto egli se la prende con Aldo Schiavone laddove questi afferma:”Quel che chiamiamo famiglia è una costruzione sociale che non ha al suo interno nulla di prestabilito in eterno. Tutto in esso è solo storia”. Detto ottimamente, per noi. Obietta il cardinale: “Certamente le forme culturali hanno il loro peso nell’espressività dell’uomo e persino nella definizione che l’uomo riesce a dare di sé, ma non arrivano al punto di manomettere la figura umana tipica e distintiva”. Solo che non si tratta di pure forme, ma dei contenuti stessi dell’evolversi e trasformarsi del suo essere (sociale). Dove starebbe il “tipico e distintivo” della “figura umana”? Il cardinale risponde: nel matrimonio in quanto corrispettivo della “indubitabile complementarietà tra i due sessi” e del bisogno dei figli “di entrambe le figure genitoriali”. Solo che entrambi i due dati si sono storicamente manifestati e tuttora si manifestano attraverso una continua trasformazione dei caratteri istituzionali–formali. Rinunciamo a svolgere il tema e rimandiamo al classico Engels sulla origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. La complementarietà tra i due sessi e la cura dei figli hanno avuto ed hanno storicamente contenuti diversi, passando attraverso pratiche costitutive di vario tipo (compresa la poligamia nella Bibbia, un “certo” ruolo assegnato alla donna ed ai figli etc. che non può essere ridotto a mera “formalità” non sostanziale; e, tra l’altro, non è assolutamente vero che questa complmentarietà sessuale abbia dato origine sin dal suo primo manifestarsi alla forma matrimonio, purchessia). D’altra parte, Bagnasco non può far altro che affidare la sanzione del “tipico e distintivo” ad un puro e semplice istituto formale, qual è appunto il matrimonio in quanto tale nella sua specifica forma attuale senza andare a scavare nel reale contenuto pratico di esso nei fatti. La sanzione giuridica matrimoniale evidentemente si limita a registrare e prescrivere delle norme astratte di convivenza (sino, almeno, al divorzio, che speriamo non ci si voglia toccare). Ma, dietro questa sanzione, ed indipendentemente da essa, tutto può materialmente starci, sino agli ultimi anelli di una effettiva degradazione umana (regola del vivere alienati nel capitalismo): “se la legge non può decretare la moralità, essa può ancor meno sanzionare giuridicamente l’immoralità” (Rjazanov). Il succo umano e sociale del vivere assieme non è in alcun modo assicurato da un dato istituto, e su ciò pensiamo non occorra spendere nessun’altra parola tanto i fatti parlano da sé. La sua sostanza sta altrove, sia per quanto attiene al ”rapporto complementare” uomo–donna, sia per quanto riguarda l’educazione dei figli, che nessuno oggi potrebbe pensare di limitare all’ambito strettamente familiare (con un bel progresso storico, secondo noi, almeno come “presupposto” di più elevati rapporti sociali anche in quest’ambito). Chiaro che la Chiesa, in quanto essa stessa istituto, “stato” in un certo senso, miri all’aspetto giuridico–istituzionale e lì si fermi: la critica alla teoria del diritto hegeliano di Marx si attaglia perfettamente ad essa, e su ciò ci fermiamo.
Da ciò deriva naturalmente il rifiuto cattolico dell’equiparazione civile della pura e semplice convivenza al matrimonio “legale” (forse anche solo civile, in mancanza di meglio), specie quando vi siano coinvolti soggetti diversi dalla tradizionale coppia uomo–donna. Qui entra in campo la questione dell’omosessualità. Su questo punto ribadiamo quanto già in precedenza scritto sul Che Fare (beccandoci da quattro squinternati l’accusa di essere “omofobi” e addirittura di preconizzare per gli omosex campi di sterminio alla nazista!!!): anche per noi l’omosessualità rappresenta una inclinazione sessuale deviata e non una “libera e naturale scelta” da parte dei singoli “individui”, le cui ragioni risiedono in determinate strutture sociali (diverse secondo luoghi e tempi: vedi l’omosessualità alla Socrate e congrega nella Grecia classica, vedi quella attuale, e quindi diverse in quanto valenza concreta), e con ciò stiamo dalla parte di studiosi marxisti del calibro di un W. Reich (che nessuno potrà mai, per questo, qualificare da “omofono”, tanto che, al contrario, egli vide acutamente nella repressione stalinista dell’omosessualità un segno distintivo dell’involuzione generale del sistema sovietico; e altrettanto vale per noi). Con due necessarie avvertenze ed una conclusione pratica. Primo: l’unione tra due esseri dello stesso sesso può benissimo dar luogo a rapporti umani, sociali, validi e significativi; così come, secondo: quella secondo l’inclinazione sessuale naturale, uomo–donna, può trasformarsi in pura fogna perché da questa o quella inclinazione non deriva di per sé la realizzazione o meno di un vero rapporto umano. E, di certo, non pensiamo –di conseguenza– a “curare” l’anomalia del primo caso con mezzi istituzionali formali (né con cure psichiatriche né, tantomeno, con la lapidazione biblico–islamica riservata ai “colpevoli” di questo “peccato”). Conclusione pratica: sul piano dei “diritti civili” chi sta insieme merita ed esige un trattamento eguale per tutti “a tutti gli effetti di legge” e, quindi (sia detto tra parentesi) pieno diritto dell’omosessuale a stare da compagno tra compagni. O, altrimenti, esigiamo un severo esame sulla validità umana o meno dei “matrimoni normali” (quello, ad esempio, del deputato cristiano che, lontano dalla moglie per doveri d’ufficio politico, sente il bisogno di “complementarsi” con due prostitute e rifornimento annesso di droga; oppure, ad onta di ciò, la “santità” del vincolo matrimoniale resta comunque salda?). Aggiungiamo che, in un certo periodo, il “movimento omosessuale” italiano (ed ancor di più in altri paesi) aveva posto correttamente la rivendicazione antidiscriminatoria ed antiescludente nei propri confronti in un quadro più generale, politicamente e socialmente corretto, contro l’oppressione sistematica della società presente rispetto ai “non conformi” od ai “costituzionalmente deboli”, addirittura rivendicandosi come movimento “rivoluzionario” antisistema. Il rifluire, poi, dell’onda globale di “contestazione” ha dato luogo ad una caduta verticale di queste istanze originarie per rifluire in un logica lobbista di mercato (così com’è successo anche al “movimento di liberazione sessuale” sessantottino, risoltosi in rivendicazione del diritto al consumo pronto ed illimitato della “merce–sesso –vedi ancora Fromm– e questo è, ahinoi!, il destino di ogni ribellione parziale e staccata dal nodo d’insieme. Il passaggio dal “preistorico” FUORI (il “Fronte omosessuali rivoluzionari” degli anni ’70), che, sparate “di genere” a parte, poneva correttamente il tema–antidiscriminazione, alle attuali grottesche e desolanti marce “gay pride” non a caso sponsorizzate da accorti operatori di mercato è emblematico in questo senso. Da quest’ultima parte –nessuno dei cui “operatori economici” realmente soffre di una reale ghettizzazione (che colpisce ben altre categorie di omosessuali e in tutt’altro ambito)– arriva oggi la richiesta di “leggi antiomofobiche” che pretenderebbero di inibire a chicchessia la possibilità di trattare il tema in termini diversi da quelli della pretesa “libertà dell’individuo (astratto) alle sue scelte sovrane” conformi alle leggi del mercato, alla sua “morale”, alla sua pretesa “scienza” pronta a tutto suggellare di ciò che il mercato stesso richiede.
(Diamo da parte nostra atto alla Chiesa di non essere pedestremente qualificabile come “omofoba”. Mentre essa rigetta l’”equiparazione tra tendenze sessuali” tipica del “relativismo” da libero mercato attuale, essa (anche sotto la pressione di problemi largamente diffusi al proprio interno; sia detto un po’ maliziosamente) “fermamente si oppone alle discriminazioni sociali poste in essere a motivo dell’orientamento sessuale”. Si è visto sino a che punto!, ma va riconosciuto la Chiesa non si limita a pure condanne morali, non esorcizza i soggetti “peccatori”, non tende ad espellerli né dalla società né dalla propria comunità. A suo modo, naturalmente, ma è bene non caricaturizzarne le reali posizioni: ricordiamo, di sfuggita, che tra le opere più importanti contro la discriminazione antiomosessuale ve ne sono alcune –vedi Gruppo Abele– di chiara impronta cattolica)
Il punto più dolente del documento di Bagnasco è quello riguardante la “difesa della vita”in chiave antiaborista ed antieutanasia. Non è una novità, anche se oggi la vecchia musica ritorna alla grande sull’onda di un attacco di ritorno alla grande, in particolare contro l’aborto, magari portato “laicamente” avanti da personaggi come Ferrara. Segnaliamo solo l’ingresso nel discorso ecclesiastico di una noticina un po’ più prudente del solito: dopo aver messo accanto pena di morte ed aborto come due forme di uno stesso procedere omicida, si scrive: “E’ vero che concettualmente non c’è perfetta identità tra le due situazioni, ma solo una stringente analogia”. “Delitto abominevole di per sé”, comunque, quello dell’aborto. A meno che non abbiamo inteso male, ed allora si leggerebbe: la pena di morte comunque sanziona (sbagliando) un colpevole; l’aborto colpisce di per sé un innocente indifeso (e quindi andrebbe punito... con la pena di morte).
Va da sé che noi riteniamo una conquista civile –con tutte le avvertenze limitatrici che tale termine di per sé comporta– la legge sull’aborto, realizzatasi grazie, innanzitutto, alla mobilitazione delle donne. Grazie ad essa, come ognuno ben sa, non si sono aperte le cateratte di aborti di massa fatti per puro diletto, quasi si trattasse di una qualsiasi “pillola del giorno dopo”, ma si sono sanate delle situazioni di pericolo e disagio (in precedenza sofferte od aggirate dolorosamente) sia in campo strettamente terapeutico fisico che psichico (termini per noi non dissociabili) e si è dato alla donna, finalmente, il diritto di decidere in prima persona, come soggetto responsabile e non puro oggetto prevaricato da altrui “padroni” per ciò che direttamente la riguarda a partire dal ventre (“l’inizio della libertà femminile”, diceva la De Beauvoir). Qual era la situazione in precedenza? Una caterva di aborti clandestini messi in atto nelle più traumatiche e pericolose situazioni di fatto, sanati “moralmente” dal pentimento della fedigrafa nel confessionale per ristabilire l’astratto “principio cattolico” antiaborista. (Sarebbe interessante sapere se il clero disponga di statistiche, sia pur informali, in tema per confrontare i dati tra le due realtà, dell’aborto fuorilegge e di quello legale).
Si diceva allora: “il corpo è mio e lo gestisco io”; slogan perfettamente congruo a rivendicazione di quest’esito, in chiave non di rottura con l’altro soggetto, il maschio, ma di sua corresponsabilizzazione nel problema e senza alcun disprezzo per il terzo termine in questione, l nuova vita, in quanto vita accettata se ed in quanto pienamente, umanamente accettabile e non sovrimposta come intollerabile peso. Se stravolto in altra chiave ed assolutizzata “privatisticamente” esso diventerebbe reazionario, perché, come ricorda Rjazanov, “un membro della società che considera il proprio corpo come una sua proprietà personale concepisce un’idea assurda”, stando almeno alla nostra Bibbia; tanto più evidente la cosa dal momento che il “mio” corpo si è congiunto con un “altro” e qualcosa di “altro” ancora ne è derivato: fatti sociali per definizione. Chiariti questi punti, ribadiamo che noi marxisti, a differenza di tanti laici assertori della “sovranità individuale”, miriamo al superamento della necessità dell’aborto per motivi non strettamente terapeutici in quanto promotori di un sistema realmente sociale che non inibisca materialmente la possibilità, e la gioia, di mettere al mondo dei figli. La conquista del “diritto” di cui oggi “godiamo”, così come di ogni altro diritto nell’ambito del sistema borghese, è semplicemente una panacea a situazioni angosciose che da esso derivano ed ha un senso solo in quanto mira a questo storico risultato. Altrimenti esso si limita, per forza di cose, ad un “lenimento” che sanziona la società presente e le sue miserie. Il diritto indiscutibile all’aborto anche “solo” per motivi “esistenziali” e non strettamente medici, scrive Trotzkij, va difeso per la donna sino in fondo, sino –cioè– alla realizzazione di una società umana in grado di superare lo stadio storico in cui “la crescita del potenziale produttivo umano si fa sulla pelle delle giovani e delle donne (scandalosamente mantenute nel ruolo di “galline ovaiole” (J. M. Brohm) nel nome degli interessi riproduttivi del capitale; “uno dei suoi diritti essenziali fin tanto che durano la miseria e l’oppressione familiare, contrariamente a quanto possano dire gli eunuchi e le vecchie zitelle” (in La rivoluzione tradita).
Su questo punto Bagnasco usa un’espressione bellissima, che noi sottoscriviamo perché nostra: siamo per una “comunità che non può continuare a considerare la maternità un lusso privato (da un lato, n.) e l’aborto una forma di risposta sociale (prevaricatrice, dall’altro, n.)”. Peccato che questa petizione, per diventare qualcosa di serio, debba tradursi in una precisa prassi sociale contro questa società: cosa che Bagnasco si guarda bene dal dire, riaffidandosi alla pratica “personale”, “privata”, sia pur supportata dall’”aiuto” dei vai “movimenti per la vita” –che la vita, contemporaneamente, affermano sul versante del nascituro e negano alla donna–. Così che il discorso sulla “difesa della vita” arriva fino a tradursi negli Usa, dove le contraddizioni sono più avanzate, in decine di omicidi e di attacchi intimidatori a medici (alcuni costretti a vivere sotto protezione) e donne che praticano l’aborto, nonostante le leggi ancora formalmente lo consentano.
Come in questo modo di produzione il prodotto sociale è sottratto dal Capitale, stiamo arrivando alla “confisca” della riproduzione naturale per gli interessi di una società e di una scienza borghesi, su ciò si apre una problematica reale quanto profonda su cui la Chiesa riflette interpretandone a suo modo inquietudini e preoccupazioni. Si veda un caso specifico di “aborto selettivo” eugenistico proprio del nostro tempo, della nostra società (cfr. in particolare il numero monografico di Humanitas dal titolo La sfida dell’eugenetica, n° 4 del 2004, estremamente ricco e ben argomentato: sia detto sempre ad evitare le caricature dell’avversario e per apprendere dall’avversario non le tesi. ma il corretto maneggio dei seri elementi fondanti di nostre controtesi); un caso che merita attenzione: quello di popolazioni di paesi sottosviluppati od in via di sviluppo in cui la popolazione non abbiente “approfitta” dei mezzi scientifici moderni che permettono di conoscere il sesso del nascituro per eliminare “selettivamente” le femmine a pro dei maschi. Si tratta, qui, del “singolare” incontro tra scienza ed una situazione patriarcale venuta traumaticamente a contatto con la “civiltà industriale” che non porta, effettivamente, a nulla di buono e “progressivo”, coniuga l’ultima parola della scienza con l’ultima dell’oppressione. Ma, per l’appunto, dove ne stanno le cause?, dove le soluzioni? Ritorniamo al punto di partenza. Quella sorta di “eugenetica” corrisponde agli imperativi di una malsana società borghese, quand’anche ne facciano uso (obbligato) i “poveracci”.
Resterebbe da vedere a fondo la questione della “sacralità della vita dal suo cominciamento alla sua naturale fine” secondo la Chiesa Cattolica. Argomento impervio, su cui qui ci limitiamo a brevissimi spunti. La vita di cui essa parla è per noi un “progetto” che, se vogliamo, nasce già con gli spermatozoi che mirano all’ovulo (ed uno solo ci arriva, quando arriva). Quel che ne deriva dopo è, esso stesso, la prosecuzione di questo progetto, che la natura stessa abbondantemente cestina coi suoi utili aborti spontanei selettivi. L’embrione o addirittura il pre–embrione solo nella fede cattolica attuale vengono assurti a “persona”. L’ebraismo (religione “vitalista” per eccellenza) ne ammette l’eliminazione entro i tre mesi, l’islamismo addirittura a quattro (con la curiosa trovata che solo al 120° giorno Allah insuffla all’embrione l’”anima”), e questo “in linea di massima”, posto che il limite in questione può essere superato in determinati casi (violenza carnale subita o pericolo di vita per la madre, per la quale si fa valere il diritto dell”aggredito” a respingere l’”aggressione” che viene dall’interno stesso del suo corpo).
La questione è estremamente impegnativa sul piano scientifico e “morale”, e qui possiamo solo limitarci a respingere l’”assolutismo” cattolico in materia. Tanto vale per la cosiddetta “eutanasia”: il mantenimento artificiale dell’”estremo soffio” vegetativo quando una vera vita è diventata ormai impossibile e chi ne soffre chiede che sia “staccata la spina” diventa una vana afflizione. Attualmente addirittura si parla di “rianimazione dei feti abortiti” e, domani, chissà si potrebbe parlare di “congelamento” dell’ultimo soffio per conservarlo tecnicamente. Ma ciò ha ben poco a che vedere con una concezione realistica della vita stessa quale si vede nei fatti naturali stessi e coi quali interagisce l’operare umano. Gli uni e l’altro “progettano” e, all’occorrenza, “staccano la spina” quando manchi la prospettiva di una vita vera a venire degna (cioè messa nelle condizioni) di essere vissuta. Ma, torniamo a dirlo, l’argomento andrebbe ulteriormente e più a fondo affrontato. Per il momento lasciamo alla Chiesa il diritto di parlare di “persona” ed “anima” a partire dall’incontro tra spermatozoo ed ovulo per “insufflamento” istantaneo, o dalla venuta alla luce di esseri mostruosi privi di capacità cerebrale propria (“anima” a parte), od entro il puro stato vegetativo terminale (idem come sopra).
E’ “curioso”, poi, che anche di recente (vedi il caso Jugoslavia) la Chiesa si sia nel concreto talmente discostata dai suoi “assoluti” a favore della “singola”, irrinunciabile, persona umana al punto di ribadire il concetto bimillenario di “guerra giusta”. Una guerra in cui a perdere la vita non sono embrioni o pre–embrioni. E lasciamo da parte l’argomento (storicamente superato nelle sue vecchie forme) dei roghi di eretici e “streghe” o di “cristiane” guerre coloniali di conquista, oppressione e genocidio. Alla prova dei fatti, la difesa assoluta della vita si rivela, a ben vedere, molto elastica!
Alla base di tutta la “morale” cattolica in materia di aborto, in particolare, sta l’ossessione antisessuale (in quanto espressione di un naturale bisogno umano) in una visione del sesso come “cosa sporca” (in quanto “corporale”) riscattabile solo in quanto funzionalizzata al superiore (ed esterno) obbligo riproduttivo dettato da Dio, un’infrazione al quale sarebbe anche l’uso di contraccettivi, salvo quello “naturale” (ma allora anche la natura contraccetta?) Ogino–Knaus. Una strada inevitabilmente fattrice, come direbbe Reich, di una corazza oppressiva individuale da sottoporre all’arbitrio non di Dio, ma di una determinata società alienante. Sarà interessante, e lo faremo in altra sede, studiare le ragioni di questa particolare fobia cattolica che tende ad espropriare l’uomo della sua stessa umanità essenziale per ridurlo ad una pedina passiva di sistemi “legalistici” a lui estranei. Lo stesso discorso vale per la cosiddetta “eutanasia”. In entrambi i casi, la vita non appartiene all’uomo, ma ad una potenza, ad una serie di potenze esterne; in particolare a “Dio”, che la “dona” a suo piacimento, la protrae come finzione quando gli pare, la cancella quando gli aggrada con diluvi universali e punizioni collettive a larga scala.
Questi, a nostro sommesso parere, i temi da affrontare e le modalità del loro
svolgimento. E poi a ciascuno il suo ruolo, il suo “mestiere”, senza
interdizioni di sorta quanto a “diritto” di esprimersi. Noi pretendiamo di
svolgere su questo terreno una nostra battaglia, non di legare le mani a
chicchessia, tanto meno in forza di una giuridica “anticlericale” (perfettamente
impotente, tra l’altro e di sovente più codina e sordida di quella cui si
vorrebbe reagire in nome delle eterne leggi... del mercato). Solo da qui,
sostanzialmente, viene la possibilità di battere le chiese (tutte le
chiese, quella “laicista” borghese compresa).Un discorso troppo “concessionista”
su alcuni punti verso la Chiesa? Noi crediamo sia vero il contrario, ma ognuno
giudichi da sé; ragionando –se possibile–.
1 marzo 2008