nucleo comunista internazionalista
interventi




ANNOTAZIONI SU ALCUNE RECENTI MANIFESTAZIONI

“Globuli rossi” ha titolato il manifesto del 12 ottobre e l’11 la presenza in piazza è stata numericamente significativa. Presenza di ogni età, giovanissimi e non (con un salto, ci è sembrato, per la fascia intermedia sui 30–35, sottorappresentata). Netta prevalenza del popolo del Prc, in ripresa di tono rispetto ai precedenti appuntamenti di piazza (svuotatisi nei tempi più recenti, fino a spegnersi del tutto nell’ultima era Prodi; a parte il 20/10/07, dove a dare un segno di presenza fu anche il popolo del Prc, ma non il partito più che mai avvinghiato al suo governo, al pari degli altri partners dell’Arcobaleno).

Sui numeri della manifestazione –“siamo 300/mila!”, si è detto– abbiamo rilevato un risultato ben più contenuto e verosimilmente pari ad un terzo (70–100/mila) della stima degli organizzatori, ma la questione è che –moltiplicazioni dei numeri a parte– sono assolutamente poco incoraggianti sia la presenza –mai in passato così scarsa– di volantini e stampa nella manifestazione, sia la chiusura autistica dei presenti verso un necessario bilancio collettivo. “L’importante è esserci; un passo per volta; i nostri problemi e il bilancio sul governo Prodi li affronteremo piano piano; il guaio è che ho visto in piazza tantissimi che hanno votato Pd!”. Questi i concetti ripetutici in uno scambio tra compagni più che emblematico.

Tanti “globuli rossi”, dunque (moltiplicazioni a parte). Tantissime bandiere rosse, è vero. Molti giovani, si è detto. Nondimeno la diagnosi di anemia è purtroppo azzeccata e a nulla vale nasconderla. Vale al contrario rilevarla e contrastarla, perché non si tratta di un destino inesorabile cui allargare le braccia, bensì del portato di reali difficoltà da prendere in carico e di precisi indirizzi politici cui dare battaglia.

E’ senz’altro vero che l’ “esserci” e l’ “esserci in piazza” è il positivo punto di partenza di ogni possibile ripresa di mobilitazione e ragionamento intorno ad essa. Non solo. Vogliamo comprendere lo stato d’animo di quanti, annichiliti dalla mazzata elettorale, in piazza ci sono andati riponendo delle aspettative sulla “svolta” di Ferrero, velenosamente bersagliato da molti angoli di quella stessa piazza. Vogliamo capire i timori per la tenuta del “nuovo corso”, con altri “co–azionisti” tipo Sinistra Democratica o la linea editoriale de il manifesto schierati per una “sinistra” che archivi ogni “vetero–comunismo identitario”, e con una fetta consistente dello stesso Prc che tira nella stessa direzione, per “la costituente di sinistra” e verso il 25 ottobre del Pd. Capiamo quanti temevano un flop della partecipazione e tengono ancora il fiato sospeso per capire se il popolo dell’11 saprà procedere verso il timidissimo bilancio abbozzato dalla mozione Ferrero, o si dovranno scontare altre lacerazioni, con un Pd che, dopo aver attratto molti voti utili, riesca a centralizzare alla propria iniziativa una buona fetta della fu Sinistra Arcobaleno, destinata per questo a ulteriori squagliamenti.

Ma, pur tutto volendo comprendere, nelle parole e –soprattutto– nei silenzi della piazza dell’11 francamente non c’era né solo né principalmente questo. Perché se questi fossero stati gli interrogativi di una massa frastornata ma determinata a uscire dal pantano in cui è finita dando forza al “nuovo” segretario e alla “svolta a sinistra”, non sarebbe certo la “cautela” sconfinante nell’atonia politica e nel silenzio a segnarne il passo di fronte alla grancassa (sparata ogni giorno a tutto volume fin dentro la manifestazione dell’11 dai vari Bertinotti, Rossanda, etc.) che ripropone la prospettiva politica già rivelatasi fallimentare fino alle estreme conseguenze (un nuovo centro–sinistra per un “nuovo” “governo Prodi”) come unico approdo possibile per una “sinistra” che si pretende comunque “alternativa”.

Il silenzio ammutolito di quella piazza è il portato del senso effettivo della “svolta” del Prc, operata da chi –e non ci interessano le performance più che trasformistiche dei leaders, perché pensiamo invece alla “massa” dei militanti– pur con i mugugni espressi nelle manifestazioni di piazza che contro il governo Prodi non sono mancate, ha però sostanzialmente voluto, accompagnato, condiviso –fino a un certo punto almeno– la collocazione del proprio partito nel governo Prodi, come approdo naturale del partito “comunista” “di lotta e di governo”.

Il fatto è che la “massa dei militanti” ha fatto propria da decenni la prospettiva dell’alleanza della “sinistra” con i settori “più avanzati” e “progressisti” della borghesia.

Ora questa “massa” ha misurato sulla propria pelle e nel rigetto assoluto della massa proletaria più ampia il segno anti–operaio del governo di centro–sinistra possibile, un governo rivelatosi indifendibile davanti alla propria classe. Poiché i voti sono spariti a milioni e si è andati fuori dal parlamento, non si può far finta di niente e quindi ben venga il mea culpa del ministro prodiano Ferrero. Ma: piano piano, un passo per volta; cautela e soprattutto silenzio sul governo Prodi; non andiamo a togliere gli scheletri dall’armadio per farli a pezzi e disfarcene per sempre, perché non è detto che un domani non si debba invece ritirarli fuori per indossarli di nuovo, magari in qualche più fantasiosa e fortunata versione.

Se si iniziasse un vero bilancio dal punto di vista degli interessi di classe e non delle alchimie elettoralistiche, la svolta a sinistra andrebbe fatta sul serio. Se si dicesse, traendone le conseguenze, che il governo Prodi ha tutelato gli interessi e i profitti dei padroni e che neanche il più svenduto partito finto–“comunista” ha potuto credibilmente tingerne di rosa (lasciamo stare il rosso) la politica che ha concesso fiumi di denaro alle imprese e risanato i conti dello Stato a spese dei lavoratori, allora, posto che è esattamente questa la politica che i vari partiti del centro–sinistra dichiarano e fanno da decenni (dagli ex–democristiani, ai “socialisti”, ai radicali, ai dipietristi, fino ai “democratici” neanche più “di sinistra” –che, dopo aver diligentemente bombardato la Jugoslavia, peraltro insieme a imperterriti “comunisti” “di lotta e di governo”, che si vergognino!, omaggiano ogni giorno ancora le superiori leggi del mercato–), bisognerebbe concludere che non esistono e anzi devono essere programmaticamente escluse ora e per sempre alleanze con costoro e la svolta andrebbe orientata decisamente verso una vera opposizione sociale e politica al padronato e a tutti i suoi governi, abbandonando la deriva istituzionale e costruendo alleanze e forza politica nostre esclusivamente nell’unificazione degli sfruttati sul terreno della lotta.

E’ questa svolta che i leaders –quelli “svoltanti” compresi– neanche si sognano, perché da decenni per costoro politica significa elezioni, parlamento e, possibilmente, governo con la “borghesia progressista” e neanche la ri–partenza dal cosiddetto “radicamento nel sociale” smuove questa prospettiva di fondo che non viene messa in discussione. Infatti a livello locale i partiti della fu Sinistra Arcobaleno confermano le alleanze nelle giunte di centro–sinistra, che anzi diventano le casematte da cui riparte il tentativo di recupero delle presenze istituzionali perdute; e, dove possibile, come in Abruzzo, si va verso accordi sempre più demarcati nella direzione di un elettoralismo senza principi, facendo un bilancio esattamente all’incontrario di quel che suggerirebbe la fine della precedente giunta centro–sinistra travolta nella vergogna da scandali e inchieste.

La realtà è che la piazza ammutolita dell’11 non intende ancora fare i conti su che cosa significa e dove porta l’alleanza politica, in funzione elettorale e di governo, nazionale e locale, con forze borghesi che tutelano dichiaratamente il capitalismo e le “necessità” del mercato, essendosi limitata per ora (solo questo possiamo registrare in positivo e lo facciamo) a marcare la propria presenza, ad “esserci” in piazza dopo che i propri rappresentanti sono stati messi fuori dal palazzo. Se facesse il bilancio –che resta necessario e impellente e che è dovere dei comunisti proporre senza nulla concedere a scappatoie di comodo–, si legherebbe le mani rispetto alle regole di quel gioco istituzionale che rappresenta tuttora il centro della visione e dell’illusione dalla quale fatica nonostante tutto a staccarsi.

Un riscontro di tutto ciò lo abbiamo visto nell’assenza di contenuti e riferimenti (lasciamo perdere gli slogan, assenti in assoluto) sui crolli di borsa e sulla crisi del sistema finanziario occidentale e mondiale; come se la “sinistra” che “riparte”, l’ultra–riduttivo e mistificante orizzonte “anti–berlusconiano” di cui si nutre, le sue “svolte a sinistra ... ma non troppo” potessero illudersi di delineare i propri percorsi fregandosene non solo di definire una precisa linea di battaglia di classe su tutto questo, ma anche di dire alcunché in proposito. Dunque una piazza ammutolita anche sul tema che nelle ultime settimane ha concentrato l’attenzione di tutti. Anche qui la nostra considerazione è duplice, perché sappiamo che il silenzio –o il balbettio– coinvolge su diversi piani sia le leadership che “la massa” scesa in piazza. Ovvero, non ne facciamo semplicemente una questione di linea politica delle direzioni, “comuniste” o “sinistre alternative”, il cui riformismo costitutivo rende ad esse impossibile mettere in discussione alla radice questo marcio sistema anche –anzi soprattutto– quando inizia a franare, perché a restare incredula, attonita e senza parole è la stessa massa: non solo del ceto medio (vittima immediata della distruzione di valori fittizi creati nelle capitalizzazioni di borsa e nei titoli manovrati dalle banche), ma lo stesso proletariato d’Occidente, disabituato da decenni a pensare al capitalismo come nemico storico della classe lavoratrice e sistema generatore di contraddizioni irrisolvibili, e per questo ben lontano oggi dal porsi di fronte alla crisi del capitalismo come il suo antagonista storico e non il capro sacrificale per il “salvataggio”.

Sappiamo bene, peraltro, che questa stessa massa proletaria, oggi così recalcitrante, dovrà ben presto iniziare a respingere colpo su colpo gli assalti aggiuntivi di padroni e governi che derivano dai contraccolpi della crisi. Sarà questo corso materiale a rimettere sempre più pressantemente al centro le questioni finora continuamente scansate.



Nella piazza del 17, convocata per lo sciopero dei sindacati di base contro la politica del governo Berlusconi e del padronato, si è detto: “non pagheremo la vostra crisi”.

La manifestazione di Roma (non l’unica nella giornata di sciopero) ha registrato una grande partecipazione, con al centro le scuole dell’infanzia ed elementari che hanno organizzato la presenza congiunta di lavoratori –insegnanti e amministrativi– genitori e bambini. È stato non solo un riuscitissimo sciopero della scuola, ma anche uno sciopero intercategoriale e generale, per la piattaforma di lotta e per la presenza significativa dei lavoratori di diversi settori; parziale quanto a effettiva capacità di mobilitazione dell’intero mondo del lavoro (in particolare dell’industria), ma nondimeno reale. Anzi sempre più reale, perché sempre più raccoglie la disponibilità a scendere in piazza di quanti non accettano le mani legate –se non la complicità con i governi– dei sindacati confederali e della stessa Cgil. Uno sciopero che non può essere liquidato come la protesta di “minoranze corporative” anche perché propone una risposta di lotta che allo stato dell’arte della pressione contro il mondo del lavoro è attesa come necessaria da molti lavoratori. Al di là dei numeri delle manifestazioni e dei dichiarati oltre due milioni di lavoratori in sciopero, questo è il senso del 17 ottobre e del percorso di organizzazione sindacale che negli anni lo ha reso possibile.

Nello sciopero del sindacalismo di base noi salutiamo, quindi, una sana reazione di classe alle politiche del padronato e dei governi, tale soprattutto in quanto i sindacati extra–confederali non hanno sospeso la lotta contro il governo Prodi, né gli hanno mai rilasciato vergognosi attestati di supposta “equità”. Lo sciopero del sindacalismo di base non ha la forza per colmare il ritardo dell’iniziativa generale del mondo del lavoro, ma è un concreto segnale che chiama in questa direzione. Non si tratta, a nostro avviso, della “risposta strategica” al problema della ricomposizione su basi di classe dell’unità di organizzazione e di lotta –politica e sindacale– del proletariato, come altri pensano, ma nondimeno è una risposta reale della quale tener conto e sulla quale confrontarsi in linea di principio e nel concreto (come ci siamo proposti di fare in “ I comunisti e la questione sindacale” cui rimandiamo), e giammai da liquidare con banalità che sanno di opportunismo.

La propaganda padronale e governativa, preoccupata per le piazze che si riempiono, ribatte da giorni lo stesso tasto: c’è chi irresponsabilmente sciopera e va in piazza a protestare, mentre noi siamo impegnati a difendere “la nostra economia” dalla recessione, per preservare i posti di lavoro nelle molte imprese che oggi ricorrono alla cassa integrazione e rischiano la chiusura. Si punta così a demarcare la distanza tra gli studenti “disinformati”, i maestri “che difendono i loro privilegi”, i pubblici dipendenti “fannulloni” da un lato e il proletariato industriale dall’altro che con ogni ragionamento e ricatto si punta ad aggregare al carro del padrone, a renderlo “partecipe” (in realtà schiavo) della sopravvivenza e della competitività della “propria” azienda e per questo favorevole alla “complessiva politica di governo” presentata come necessaria a tal fine. Un tentativo non privo di frutti se molti lavoratori hanno dato il proprio voto e danno tuttora il proprio consenso al governo Berlusconi e soprattutto alla Lega Nord.

Bene allora che i lavoratori che fanno riferimento ai sindacati di base, insieme agli studenti di ogni livello di istruzione confluiti in non piccola parte nello sciopero del 17, scendano in lotta a riempire le piazze. Ma perché questo possa essere un inizio reale di salutarissima collettiva reazione, ci permettiamo di dire che il “non pagheremo la vostra crisi” deve prendersi in carico una piattaforma più ampia da mettere bene in chiaro.

A nostro avviso, ad esempio, non è un bene che la piattaforma del 17 non abbia trovato il modo di dedicare neanche un cenno alla questione del federalismo (né abbiamo colto alcun riferimento o spunto di tal genere in piazza), come se non ci provenissero attacchi da quel versante e come se la promessa di margini di recupero –per un proletariato territorialmente segmentato– provenienti dalla “riforma federalista” (promessa veicolata in particolare dal governo di centro–destra e dalla Lega Nord) non incontrasse una corrispondente aspettativa tra la nostra gente, delusa dal governo Prodi e spinta a percorrere altre strade (ancora peggiori) per potersi difendere. Oggi la questione del federalismo avanza nella premessa, sancita nel primo provvedimento governativo, del dimensionamento della spesa non al livello dei servizi storicamente erogati ma a quello delle risorse effettivamente disponibili a livello locale, e questo principio viene brandito come fosse una spada contro il malaffare di Stato. Poiché invece si punta essenzialmente a tagliare servizi per i lavoratori ritenuti “spesa improduttiva”, per poter respingere l’attacco occorre una risposta di lotta che non sia circoscritta alla necessaria difesa dei lavoratori statali, ma che sappia parlare all’insieme del mondo del lavoro e che giammai lasci spazio a ragionamenti “anti–tagli” che puntano a preservare ciò che è indifendibile –e va anzi attaccato– dal nostro punto di vista di classe (ovvero gli sprechi e le ruberie appannaggio di ben precisi classi e interessi sociali che spetta a noi denunciare e non omettere).

Ugualmente, difendere il diritto allo studio per i figli dei lavoratori e tempi di scuola qualificata compatibili con i generali tempi di lavoro non significa difendere “la scuola pubblica”, dimenticando che essa non perde il connotato di scuola di classe a causa delle cure dimagranti prescritte dai governi; né significa semplicemente difendere “la categoria degli insegnanti”, chiamati invece a difendersi insieme a tutti gli altri lavoratori con le argomentazioni congrue a questa generale difesa, tutti insieme chiamati ancora a rivendicare con la lotta le aspettative generali della parte non sfruttatrice della società, sua gioventù e relativi “diritti educativi” compresi, senza peraltro illudersi o pretendere di poterne fare carico “alla sola scuola”.

Allo stesso modo pensiamo che la rivendicazione del diritto allo studio degli studenti deve saper parlare all’intero mondo giovanile, anche a quanti gli studi li hanno dovuti abbandonare o comunque, nel lavoro di fabbrica e nella generale precarietà del lavoro (ben rappresentata in piazza il 17), soffrono disagi non dissimili e soprattutto non collocati su altri pianeti. Non ci sembra che vada in questa direzione la sbandierata “unità dell’intero mondo della formazione” contro la riforma Gelmini.

Affrontando e non omettendo questi nodi, a nostro avviso, il “non pagheremo la vostra crisi” diventa più chiaro. Non si tratta di un “noi” che rifiuta il pagamento “per la propria categoria già a lungo tartassata”, disinteressandosi di tutte le altre; non si tratta di un “noi” che accampa titoli “specifici” anche di tutto rispetto (il “futuro dei bambini”, la “ricerca”, la “cultura”) illudendosi di mettersi in tal modo al riparo da una mannaia generale “che vada a colpire altrove”. Affrontando questi nodi anche una piazza che raccoglie essenzialmente lavoratori della scuola, del pubblico impiego, dei trasporti e dei servizi può dire all’insieme del proletariato: organizziamoci insieme per difenderci tutti insieme e far pagare ai padroni la loro crisi.

Ovviamente il compito dell’unificazione delle forze di classe per una generale risposta di lotta –e della battaglia politica necessaria a tal fine– non riguarda soltanto il sindacalismo di base. Esso spetta a tutte le forze che si richiamano al proletariato e ai lavoratori. In tal senso diciamo molto francamente a quanti iscritti alla Cgil guardano alla Rete 28 Aprile che cade come un pero secco tutta la battaglia di dichiarazioni contro il governo e Confindustria, come anche la critica alla politica della maggioranza, se nei passaggi topici di questa battaglia si mette la testa sotto la sabbia e si passa sotto silenzio lo sciopero del sindacalismo di base (l’unico sciopero intercategoriale e in genere l’unico sciopero tout court messo in campo dai lavoratori). Ben vengano oggi gli scioperi promossi dai sindacati confederali o dalla sola Cgil in alcune categorie, dei quali si tratta per noi di raccogliere la spinta alla lotta che sapranno convogliare per raccordarla allo stesso asse di ragionamento; ma è indecente che la Rete 28 Aprile, prodiga di dichiarazioni e commenti su ogni merito, non abbia indicazioni collettive da dare rispetto allo sciopero del sindacalismo di base. A maggior ragione lo è quando nella piazza del 17 sono presenti le RSA di Cgil–Cisl–Uil che in diverse scuole hanno deciso di stare in piazza con i Cobas. Su questo punto non ci interessa tirarla in lungo, perché non è il fumo della polemica che ci interessa. Diciamo però ai compagni della Rete che se si reclama lo sciopero generale dal proprio sindacato e questo –ieri contro il governo Prodi e oggi contro il governo Berlusconi– è tuttora ben lontano dal considerarlo, occorre dare seguito a questa battaglia con prese di posizione collettive e ufficiali che portino lo sciopero del sindacalismo di base nei posti di lavoro in cui si è presenti e tra i propri iscritti, senza accampare gli ostacoli di pretesi cavilli statutari, ma rivendicando e organizzando collettivamente l’adesione del più ampio fronte di lavoratori e comunque la battaglia politica in direzione della necessità della mobilitazione e dell’unificazione delle forze in un unico torrente di mobilitazione, al di là delle tessere sindacali e di pretese scuderie di appartenenza esclusiva.

29 ottobre 2008