nucleo comunista internazionalista
note



NELLA DEBACLE DEI PARTITI “DI SINISTRA” LE “SUPPLENZE POLITICHE” DEL SINDACATO SI RIVELANO ILLUSORIE.

I COMUNISTI E LA “QUESTIONE SINDACALE”.



Più d’uno ha voluto riconoscere alla Cgil, da Cofferti in poi e con particolare riguardo all’azione di contrasto dei governi di centro-destra nel quinquennio 2001-2006, un’azione di supplenza dei partiti della “sinistra” che sono andati azzerando le residue vestigia di una propria politica pro-classi lavoratrici.

Quando parliamo di partiti di “sinistra” ci riferiamo a quelli che ampie masse di lavoratori hanno riconosciuto e accreditato a lungo e ancora recentemente come tali. E dunque la “supplente” Cgil avrebbe surrogato le assenze delle costole scisse del Pds/Ds/Pd da un lato e del Prc-Pdci dall’altro.

Nostra tesi di sempre è che la difesa degli interessi immediati del proletariato giammai è sufficiente per poter dare fisionomia, gambe e numeri alla prospettiva storica delle classi sfruttate che noi identifichiamo con la rivoluzione e il comunismo, perché, in difetto dell’azione politica del partito nostro, la coscienza di classe non può essere conquistata dalle masse attingendola spontaneamente dalla sfera dei rapporti economici immediati e dall’esperienza dello scontro con il padrone.

Ma, a ben vedere e per ragioni in parte molto diverse, del corrispondente partito non può fare a meno neanche una politica riformista effettiva della classe operaia, che ambisca ad avere una qualche voce e peso anche solo come classe per il capitale nel ciclo della sua affluenza, laddove la mentalità “del minimo sforzo”, attinta naturalmente dalla sfera della lotta economica, è parte di una politica generale che allude a una data versione, regolata e “popolare” -quanto la fase storica consente-, del capitalismo. Stanno a dimostrarlo oltre sessant’anni di storia del Pci: partito riformista da cima a fondo, non privo però di coefficienti di partito di tutto rispetto (secondo quel programma e a quel fine), ivi compresi quelli di un’organizzazione sindacale “cinghia di trasmissione”  della sua politica.

La mera difesa economica degli interessi immediati non è sufficiente neanche alla borghesia, la quale ha affermato e imposto il proprio protagonismo storico e la propria istanza di potere via partito e via rivoluzione. Essa detiene ogni leva di potere economico, politico, militare, ideologico e puntella la propria dittatura di classe con agguerrite macchine di Stati e istituzioni nazionali e internazionali (non escluse quelle di chiesa). Nondimeno è costantemente impegnata a coltivare e selezionare il proprio partito politico, perché necessita, ben oltre l’azione associata a difesa dei profitti, dello strumento di azione che propagandi a ogni passo la visione di un mondo fatto sotto ogni profilo a immagine e misura di quegli interessi e che sia impegnato ad accreditarlo in ogni ambito e contesto come il migliore e l’unico possibile.

Se questo è vero -e lo è- per la borghesia, noi non rinunceremo mai a pensare che sia vero per il proletariato, il quale non possiede alcuna delle leve di potere materiale sulle quali si appoggia il padronato, e che si vorrebbe privare dell’unico strumento di forza, quello del proprio partito, che sia in grado di unificare e organizzare teoricamente e politicamente l’insieme degli sfruttati, non per una più equa redistribuzione della ricchezza nel sistema del capitale, ma per la propria alternativa di un nuovo mondo finalmente umano alla quale saldare la difesa degli interessi immediati.

E’ questo da sempre un primo asse della nostra impostazione, da rimettere in piedi ogni qual volta la difficoltà del presente disponga a ragionare a vanvera di supplenze di sindacato a partito o di “primati” rovesciati del secondo sul primo. Un asse cui ancorarsi, per poter contrastare efficacemente l’attacco incessante della borghesia su questa questione decisiva. 



Il sindacato “cinghia di trasmissione”


Schiere infinite di cantori borghesi articolano in tutte le versioni possibili come assolutamente “consigliabile” per la classe proletaria la ricetta che ne ammette -fino a un certo punto- la tutela collettiva degli interessi economici, ma ne vieta o ne “sconsiglia caldamente” ogni indebito sconfinamento nella politica, e ancor di più nella politica generale che nulla avrebbe a che fare con quegli interessi. Secondo questa ricetta il proletariato non ha bisogno e non deve puntare a dotarsi di un proprio e distinto partito (che attenterebbe di per sé alla collaborazione tra le classi e alla coesione della nazione), potendo scegliere invece come e dove accodarsi a questa o quell’altra frazione e partito della borghesia.

Perché, poi, non abbia a ricadere nel “viziaccio maledetto” della politica in proprio (e per sé), soccorre -scritta negli statuti e comunque operante, spesso per mano di zelanti tutori “di sinistra”- la regola successiva, che vieta al sindacato di “proporsi come soggetto politico” e gli impone di restare sempre “autonomo” dalla politica e dai partiti. Volendosi affermare con questi richiami non già la necessità -prioritaria e, per intenderci, “pura”- di partito della classe operaia, bensì l’idea di una supposta difesa degli interessi dei lavoratori che, per essere veramente tale e nell’esclusivo interesse degli stessi, dovrebbe essere “autonoma” da ogni e qualsiasi politica. Quando in realtà l’unica “autonomia” che si persegue è “autonomia” della classe operaia dalla politica di classe, dal proprio distinto punto di vista sugli interessi complessivi degli sfruttati, che non sono solo di carattere economico, perché attengono alla propria distinta e contrapposta visione della società umana; e dunque si tratta di “autonomia” dal (e annullamento del) proprio antagonismo storico e dalla vera indipendenza politica del proletariato, suscettibili di tradursi -a date condizioni- in lotta rivoluzionaria.

Ecco allora la nostra tesi ulteriore: l’azione sindacale del proletariato e le relative organizzazioni sono suscettibili di assumere due diversi svolgimenti a seconda che a dirigerne l’azione sia il partito rivoluzionario oppure no, fungendo nel primo caso da “strumenti del movimento rivoluzionario del proletariato” e nel secondo da “strumenti ausiliari del capitalismo imperialistico per subordinare e disciplinare gli operai e per bloccare la rivoluzione”.

L’opportunista dirà subito che si tratta di una tautologia priva di riscontro reale per entrambi gli opposti prospettati. Per noi, invece, la questione ha implicazioni molto concrete. La difesa degli interessi economici del proletariato può assumere due diverse valenze: o si salda alla lotta rivoluzionaria in quanto si difendono gli interessi immediati della classe contro un sistema disumano e come parte della lotta politica generale contro di esso per il socialismo; oppure si limita a perseguire il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato all’interno della società borghese, come lotta per una migliore contrattazione della merce-lavoro nella perpetuazione del sistema basato sulla produzione mercantile. Questa seconda opzione risulta pagante nella fase affluente del capitalismo, ma si traduce poi, nella fase di crisi, nella smobilitazione delle forze e ciò consente al padronato di riprendersi quanto prima aveva dovuto concedere (del che abbiamo sotto gli occhi la più cruda delle conferme con riferimento alle precedenti conquiste in particolare del proletariato d’Occidente). Per questo, si disse, il vero ed unico risultato della lotta è “l’unione sempre più estesa degli operai”.

Cosa ne è, dunque, di questa tesi quando il partito rivoluzionario è assente e la rivoluzione lontana? Poiché questa lontananza non ha mai sollevato le classi borghesi dall’incubo del  comunismo quando la base materiale ne fucina di continuo le condizioni oggettive a scala più ampia, e poiché ancora l’assenza di cui sopra non ha mai significato assenza dei comunisti impegnati nel lavoro collettivo da e per il partito rivoluzionario, balzerà sempre all’occhio la differenza tra il “sindacalista” organico al riformismo, e in fondo allo Stato e al sistema del capitale, per il quale la difesa dell’interesse immediato (l’aumento di salario) è il fine stesso della propria azione, sul quale comporre e rinsaldare una “collaborazione” tra le classi, e quello del comunista, per il quale questa azione è il mezzo -imprescindibile- per dare corpo a una generale politica di classe, per accrescere -e non al contrario deprimere- il senso di unità e di forza del proletariato in quanto classe per sé, ovvero la sua coscienza di classe.

Questo il senso generale e nostro della tesi, strettamente collegata alle precedenti, che vuole l’organizzazione economica dei lavoratori -alle condizioni che lo rendono possibile- “cinghia di trasmissione” del partito rivoluzionario; e, nelle condizioni attuali, necessario -non esclusivo- campo d’intervento del lavoro organizzato per esso e, ove possibile, terreno per l’applicazione di coerenti indicazioni di lotta politica e di difesa immediata: la sostanza di fondo non cambia. Un senso che la borghesia e lo Stato da sempre hanno puntato a combattere e deprimere, contrastando in tutti i modi  l’influenza del partito comunista (e dei comunisti anche senza partito, ma giammai senza teoria e organizzazione propri) nell’organizzazione sindacale e tra i lavoratori.

Una battaglia ingaggiata innanzitutto contro l’azione del partito rivoluzionario, ma che non risparmia il partito riformista, della cui opera la borghesia si avvale senza lasciargli il campo libero tra le fila proletarie (perché l’inquadramento dei proletari in un’organizzazione “propria” costituisce pur sempre un rischio e un ostacolo, quand’anche il contenitore unitario ne sia l’organizzazione riformista).

Una battaglia, dunque, che è sempre in corso, pure in assenza di un barlume di partito comunista vero, e con i partiti della cosiddetta “sinistra” (quelli “suppliti” dalla Cgil) mai giunti a un punto così basso della propria influenza tra i lavoratori. Una battaglia che si sostanzia, tanto per dire, nell’accreditamento legale e istituzionale dei sindacati ufficiali e di una miriade di sindacati di ogni diversa radice, più o meno politica, ma comunque antitetica alla radice di classe. Accreditamento che, al lato opposto, funge da sbarramento contro le forze e i sindacati che puntano a organizzare l’antagonismo dei lavoratori. (E così -per fare esempi recenti- la Cgil conduce la sua “supplenza” firmando accordi insieme al sindacato dei dirigenti d’azienda tipo il protocollo sulle pensioni del luglio 2007 che pone il deficit del fondo pensionistico dei dirigenti a carico della “solidarietà generale” cioè dell’Inps -nel momento in cui si peggiorano le pensioni per i lavoratori e le si cancellano per i giovani-, ma è pronta a sbarrare la strada ai sindacati auto-organizzati, cui si nega, in combutta con lo Stato e con le aziende, l’agibilità nei posti di lavoro, e contro le cui mobilitazioni si lanciano attacchi indecenti per impedire l’adesione di settori più ampi di lavoratori disposti a scendere in lotta).

Una battaglia che ancora si avvale di una miriade di altre “regole” di sbarramento: come quella che vorrebbe obbligare chiunque prenda la parola tra i lavoratori a intervenire sul “concreto” (perché “è quello che interessa ai lavoratori”), senza mai trasbordare dal tema sempre ben delimitato al mero aspetto economico, insomma a “non fare politica” perché “non è quella la sede”, o ancora a non invadere il campo di questioni che interessano categorie o aziende diverse dalle proprie e via di questo passo.

In tutto ciò è per noi evidente che l’alternativa non è tra il sindacato cinghia di trasmissione del partito e della politica di classe e l’ ”autonomia” del sindacato come supposta garanzia per una efficace tutela “concreta”; perché l’alternativa è ben altrimenti data tra la nostra tesi e la tesi nemica -inconfessabile, ma reale- del sindacato cinghia di trasmissione dello Stato e di una politica di conservazione dell’ordine borghese, all’occorrenza per il tramite del partito riformista, ma -se possibile- senza di esso e per il tramite più diretto di altri meno ingombranti attori.



La Cgil come sostitutivo dei “partiti di sinistra”?


Da quanto detto risulta chiaro che, in tema di “questione sindacale” e come primo punto di essa, noi consideriamo la teoria-antipartito alla stregua di una deformazione devastatrice. Essa poté farsi strada sin nel cuore della Terza Internazionale e nella  veste “ultra-sinistra” del comunismo tedesco è stata finanche il riflesso condizionato dell’alta maturità dello sviluppo capitalista e dell’esercito proletario, di cui sarebbe stato sufficiente assecondare l’auto-organizzazione di massa, che il movimento si sarebbe affermato “inevitabilmente” e “spontaneamente” in forza della sua sola spinta oggettiva (con i risultati catastrofici da noi analizzati altrove).

Oggi, peraltro, l’anti-partitismo -più che mai in auge- non ha niente a che vedere con premesse, contenuti e istanze degli assalti proletari della Germania degli anni ’20. Oggi, anno 2008, la necessità del partito di classe è ai minimi storici nella “coscienza” degli sfruttati per motivi molto diversi da quelli che animavano le tedesche unioni autonome del lavoro. Allora il partito era ritenuto inessenziale da settori proletari che si lanciavano nello scontro a morte con la borghesia, oggi la disaffezione dei lavoratori (e della più gran parte dei “rivoluzionari”) verso l’idea stessa di partito è un aspetto primario dell’attuale nullità politica del proletariato. Disaffezione dei lavoratori che si alimenta ulteriormente (all’immediato di questo si tratta) dello stesso auto-scioglimento del partito riformista e del venir meno -in parte- dei suoi precedenti legami con il sindacato e la Cgil.

Una indagine dell’Ires-Cgil del novembre 2006 ci mostra una classe lavoratrice, soprattutto tra i giovani, con una debole propensione verso motivi di “identità di classe” ed un’ancor più debole visione antagonista (il 26,5% nell’80, l’11% oggi), molto spostata verso la “cooperazione” lavoratori-industrie e la soluzione individuale dei propri problemi salariali. In questo quadro il 65% dei lavoratori intervistati raccomandano al proprio sindacato una non eccessiva politicizzazione, un’unitaria azione contrattuale terra-terra, “equilontana”, come dice il rapporto, dai poli politici. (Non dubitiamo dell’autenticità dell’inchiesta, in linea con la condizione della classe operaia ai giorni nostri, all’esito di decenni di riformismo politico e di “supplenze” sindacali).

Voler leggere questo rapporto per vedere nell’ “ancora di sicurezza” sindacale cui oggi si aggrappano molti lavoratori un’approssimazione dei lavoratori stessi alla visione della necessità di una propria politica di classe o, addirittura, alla concezione di quella di un proprio partito (anche questa abbiamo sentito da lidi già a noi molto vicini) significa scambiare lucciole per lanterne, perché la richiesta di “equilontananza” dai poli e dalla “politica ufficiale” molto difficilmente può essere contrabbandata per petizione di indipendenza politica della classe operaia, essendo piuttosto manifestazione di indifferenza alla politica. Soprattutto significa assunzione -da parte di chi accredita questa lettura- del fattore-sindacato come alfa e omega, cui dare, eventualmente, maggior sostanza -tipo “facciamoci sindacato noi lavoratori!”- e di cui la questione partito diventa una sorta di appendice derivata, perché partito verrebbe ad essere il sindacato stesso se ed in quanto agito in prima persona.

Per noi le cose stanno in altro modo. Negli anni “gloriosi” del “grande Pci”, la Cgil veniva vista dai lavoratori come la “cinghia di trasmissione” del partito, il suo braccio agente sul terreno delle lotte immediate e questa sarebbe stata una visione conforme anche alle nostre posizioni, e da riscattare oggi, se non fosse stato per la topica colossale di vedere nel Pci l’autentico antagonista partito di classe. Quest’impostazione è andata perduta in seguito alle “rivoluzionarie trasformazioni” intervenute nel partitone, ineluttabilmente destinato a concludere la sua traiettoria opportunista prima, collaborazionista poi, nell’attuale pantano del “partito democratico” attraverso i vari Berlinguer ed Occhetto e via dicendo. Si può allora dire che ripartiamo dal basso, dall’infimo, ovvero dalla petizione (irrinunciabile) di una misera tutela sindacale “compatibile” col sistema. Su ciò, ovvio, anche noi ci misuriamo, ma non certo per cullare i lavoratori nella melma in cui si sono adagiati, meno che mai suggerendogli che va bene l’indifferenza in materia politica o contrabbandando per punta avanzata di ripresa di coscienza il ritiro nella riserva indiana sindacale (inestricabilmente legata al sistema borghese attraverso “regole” e dettami di cui si è accennato).



I sindacati di base come sostitutivo del partito di classe?


Ricalca suggestioni non dissimili (lo metteremo in chiaro più avanti) il documento della Rete dei Comunisti di maggio 2008 Per una proposta politica ai comunisti e alla sinistra anticapitalista (di cui apprezzare il contributo, pur parziale e sbrigativo, per un bilancio politico dopo il voto di aprile). Il che dimostra che l’ humus “anti-partitista” (comprendendovi -per capirci- ogni posizione che sottovaluti o non sappia collocare a dovere la questione del partito) si caratterizza, sia nelle fasi alte dello scontro sia in quelle che tali non sono, come pericolosa via semplificata alla pretesa soluzione “concreta” dei problemi. Ci viene comodo, allora, rimandare un attimo la verifica della cosiddetta “supplenza” della Cgil, di cui si è appena detto, per soffermarci prima su questo testo.

Vi si dice che al giorno d’oggi “il conflitto di classe materiale è politicamente più avanzato del conflitto direttamente politico, che peraltro oggi è praticamente inesistente”; mentre i “conflitti sociali”, sia come “lotte nel territorio” che come “elemento di rottura delle gabbie della governabilità”, “si sono spesso autonomizzati e addirittura scontrati con le sovrastrutture politiche esistenti”. In alcuni casi questo avrebbe prodotto “una maggiore compattezza e radicalità sociale (Tav, Vicenza, vertenze territoriali, lotte dei precari e degli immigrati), in altri casi ha prodotto elementi di totale impossibilità di direzione e organizzazione politica (vedi le banlieues napoletane sui rifiuti)”. Ne consegue -conclude la tesi- che “un processo di ricomposizione di una sinistra anticapitalista e comunista non può che muovere i suoi primi passi da questa dimensione che ne diventa oggi anche la principale condizione di maturazione politica”.

Pur comprendendo il senso di una battaglia indirizzata alle componenti “più a sinistra” di quell’ “orizzonte riformista” dal quale si rivendica una ben strana “autonomia” tutta giocata sulla contesa autoreferenziale piuttosto che sui contenuti, non vediamo quale “concreta” utilità possa mai venire dal fotografare malamente alcuni aspetti della realtà presente per ricavarne incerti dualismi di principio tra “conflitto materiale, politicamente più avanzato” e “conflitto direttamente politico, praticamente inesistente”. Questa fotografia -corretta come lo è l’istantanea che omette ogni dinamica- si ferma al dato parziale di una spinta immediata all’origine della lotta e della indifferenza in materia politica dei soggetti costretti a organizzarla, unita a diffidenza verso la politica di quanti, ora dal governo ora dall’opposizione ora al seguito di questi, condividono le responsabilità dell’attacco materiale contro cui ci si organizza. Ma la fotografia elide sia le potenzialità -altrettanto reali- di maturazione e chiarificazione insite in ogni lotta (e soprattutto in quelle citate, non tutte strettamente “sindacali”), sia -due cose in una- l’intervento dei comunisti che sia in grado di darsi secondo contenuti e modi di una coerente politica di classe.

In che senso lotte che si pongono come “elemento di rottura della gabbia della governabilità” o che “si scontrano con le sovrastrutture politiche esistenti” sarebbero, quando non difetti l’intervento nostro, non solo non “direttamente politiche”, ma anche eternamente refrattarie alla politica di classe? La questione si chiarisce meglio nel riferimento alla necessità dello scontro con le “sovrastrutture politiche esistenti”. Per noi, nel 2008 e pur con tutti gli sbarramenti dovuti alla presenza di sindacati di Stato e partiti “di sinistra” votati alla conciliazione di classe e nonostante le conseguenti disaffezioni e indifferenze attualmente radicate nella massa, non esistono barriere insormontabili tra “lotta materiale” e “lotta politica”, né dualismi tra classe e partito, così come è sbagliato rilevarli impressionisticamente osservando la sola superficie, ed è priva di senso ogni teorizzazione intorno alla preminenza dell’uno sull’altro termine.

Il che non significa assenza di antagonismi tra la classe e un dato partito o una data politica che si richiami ad essa, la cui rilevazione ci approssima all’ordine delle questioni.. E dunque la maturazione politica avverrà certo non separatamente dalle lotte materiali, ma anche senza poter prescindere dalla definizione di un rigoroso bilancio della controrivoluzione su cui tessere le proprie fila teorico-programmatiche ed organizzative (e le proprie proposte), fondando su di esse il lavoro nelle lotte proletarie e in direzione delle masse. Questo ci insegna la nostra concreta esperienza, con il risultato utile di positivi riscontri all’intervento dei comunisti -che tale sia e alle reciproche condizioni oggi possibili e date-, per quanto concretamente c’è da fare e per l’altrettanto concretissimo orientamento politico della lotta.



Perché ci iscriviamo alla Cgil (come indicazione né assoluta né esclusiva)


La visione di presunte supplenze di sindacato a partito e di petizioni di indipendenza politica (e, al fondo, di partito) che i lavoratori esprimerebbero via sindacato (supplenze da altri riferite alla Cgil che si è eretta a “baluardo anti-berlusconiano”), la ritroviamo nel documento della Rete dei Comunisti, questa volta riferita al sindacalismo auto-organizzato di base, laddove si dice che esso “in molti casi risponde (n. corsivo nostro) all’esigenza di una identità politica e di classe dei lavoratori ancora più chiaramente di quanto abbia saputo fare la ‘politica’ (n. corsivo nostro) dei partiti della sinistra cosiddetta radicale”. Data questa premessa/conclusione il discorso stringe sulla “scelta dell’organizzazione e del rafforzamento del sindacalismo di base, indipendente e alternativo a quello concertativo e collaborazionista di Cgil Cisl Uil, come progetto strategico” (pur non volendosi “sancire strappi ... con un tessuto di compagni e delegati combattivi ancora all’interno dei sindacati ufficiali”).

L’iscrizione dei comunisti (che sono innanzitutto organizzati sul piano politico proprio alle condizioni oggi date) alla Cgil, purché effettivamente praticata secondo i principi qui esposti, è per noi indicazione tuttora valida in generale -non come assioma assoluto in tutti e in ciascun caso-, trattandosi dell’iscrizione al sindacato nel quale è concentrata la parte più ampia e potenzialmente combattiva del proletariato industriale, per condurvi la nostra battaglia di classe e promuovere l’auto-organizzazione diretta dei lavoratori. Indicazione quindi che può tradursi e si traduce nell’iscrizione al sindacato di base che nella situazione data soddisfi utilmente quella effettiva condizione e che non sia il veicolo di auto-separazioni che non ci siano state imposte o di pretese “specificità” categoriali (talvolta prese a bandiera anche da sindacati auto-organizzati che semplicemente replicano nel rapporto con i lavoratori i passi del sindacato “concertativo e collaborazionista”).

Da un bel pezzo la validità di questa indicazione, però, non ha nulla a che vedere con “la linea che punta a modificare la linea collaborazionista dei confederali” per spingere “verso un ribaltamento delle scelte o delle direzioni politiche”, come mostrano di credere i compagni della Rete, secondo i quali il ribaltamento in questione sarebbe oggi impossibile a causa di “contraddizioni materiali che non hanno certo un carattere di rottura” (e per questo essi ne inferiscono altre “scelte strategiche”), ma -curiosamente- potrebbe divenirlo nuovamente domani “in momenti storici di forte conflitto politico e sociale”. Questo si legge nello scritto in esame.

In realtà è da quel dì che non è più data la possibilità del ribaltamento (né all’immediato e né in prospettiva) e il testo che commentiamo, che pure archivia o ripensa questo e quell’altro del nostro bagaglio teorico-politico, si porta appresso invece, in quanto presuntamente funzionale a una tesi più che discutibile -così accreditando di sorprendenti resurrezioni il “sindacato collaborazionista”-, un cascame effettivo, questo sì “superato” per sempre: l’idea che vede il sindacato tradizionale come “indipendente” e “autonomo” dal sistema borghese e dallo Stato e del quale sarebbe dato tuttora ai comunisti di ribaltare direzioni e politica. Idea e realtà di un “sindacato rosso” esclusivamente propria del periodo secondinternazionalista, dove peraltro non significava affatto garanzia di una collocazione di classe e rivoluzionaria successivamente persa dal sindacato, perché altro non era che il portato di un’evoluzione capitalistica non ancora giunta alle conseguenze estreme dell’imperialismo.

In tali condizioni ben poteva la Terza Internazionale puntare alla “conquista” dei “posti di responsabilità e di direzione” nei vecchi sindacati e ipotizzare di poterli convertire nel fuoco dello scontro in fattore rivoluzionario. Allora (non più oggi -né domani-) era lecito pensare che il sindacato “neutrale” potesse essere deneutralizzato dall’azione dei comunisti per farne la cinghia di trasmissione del partito. Ma già nel ’40 Trotskji correttamente considerava definitivamente tramontata l’era democratico-riformista dello sviluppo capitalista e, con essa, quella della “neutralità” sindacale. Sicché noi, che riteniamo corretto portare tra i lavoratori la nostra battaglia di dichiarati militanti comunisti anche essendo (in totale subordine a ciò) iscritti alla Cgil, collochiamo il futuro risorgere delle associazioni economiche di classe al di fuori di ogni non rieditabile schema secondinternazionalista (e solo in una fase di accentuata ripresa rivoluzionaria quello di organismi immediati realmente classisti) e riteniamo che la necessaria direzione di un vasto movimento economico delle classi sfruttate e delle sue organizzazioni da parte del partito comunista nulla avrà a che fare con una trasformazione, riconquista o rigenerazione (o anche formazione ex-novo) dei sindacati tradizionali, dei quali si è da un pezzo completata l’integrazione nello Stato.

E dunque, ferma la validità della tesi che chiama a lavorare anche nei sindacati “reazionari” se e in quanto contenitori reali della massa operaia e del tutto a prescindere da possibilità di “ribaltamento” (dove peraltro l’intervento tra i lavoratori userà la leva delle contraddizioni materiali e non pietirà “spazi democratici” che per definizione potrebbero essere del tutto esclusi), va però dato atto alla Rete dei Comunisti che essa non sbaglia nel dire che fin troppi “compagni e delegati combattivi” si fanno “assorbire da una interminabile battaglia interna di minoranza (n.n. in Cgil) che non ha mai conseguito e stabilizzato livelli reali di organizzazione autonoma sul piano delle lotte e della prospettiva”. Laddove a nostro avviso è doveroso distinguere tra la pletora di quadri sindacali della componente “Lavoro e Società - Cambiare Rotta” che conducono una pantomima di finta opposizione che vanta “cambiamenti di rotta” e “spostamenti a sinistra” dell’intera Cgil che sarebbero dovuti alla propria agitazione (non ci credono neanche loro, ma è lo sgabello utile per rosicchiare cariche e ruoli di direzione nella commedia indecente del “governo unitario” della Cgil); e un’opposizione più seria, quale quella che oggi si raccoglie essenzialmente attorno alla “Rete 28 Aprile”. La quale, pur criticando la politica della maggioranza, a misura che fa proprie le “regole del gioco” della confederazione, disperde le energie dei compagni in una defatigante battaglia nell’apparato gabellata per battaglia condotta “tra i lavoratori”, ai quali invece nei momenti decisivi ci si presenta, in virtù di quelle accettate regole, con la bocca cucita e il divieto di intervenire se non per riferirsi alla “posizione unitaria” (come è accaduto nelle assemblee che hanno preceduto l’ultimo referendum sui protocolli su pensioni e welfare)!?!? (Compagni affetti anch’essi dal vizio imperante di vedere nel sindacato alfa e omega di un agire politico che in tal modo riuscirebbe a relazionarsi direttamene alla massa operaia, superando le attuali separatezze tra politica rivoluzionaria e classe).



Radicalismo sindacale e frontismo politico o indipendenza politica e fronte-unitarismo di massa sul piano della lotta immediata?


In questo contesto, senza nulla togliere al riconoscimento e alla partecipazione che rivolgiamo a ogni seria reazione di classe (sentita e rivendicata come nostra), noi riteniamo in genere molto dubitabile e per nulla risolutiva la cosiddetta “scelta strategica” del sindacalismo di base, il quale peraltro sbaglierebbe ad auto-attribuirsi le stimmate del sindacato di classe, in assenza del corrispondente partito (qui il vero “progetto strategico” cui dedicare corpo e anima) e in base alla sola vantata “alternatività ai confederali”. (Altra cosa è il compito di promuovere in ogni lotta e in ogni passaggio di partecipazione collettiva l’auto-organizzazione e il protagonismo degli sfruttati, scontrandosi all’occorrenza con tutte le “sovrastrutture” votate alla collaborazione di classe che li osteggiano, apparato Cgil ben compreso).

In quanto diciamo, beninteso, non c’è alcun invito a sostituire la “scelta strategica” del sindacato alternativo qui ed ora con quella di costituirsi e dichiararsi qui ed ora partito di classe, comunista e rivoluzionario, quando ne difettano i coefficienti essenziali (né noi ci siamo mai sognati, neanche in tempi migliori, di farlo, e oggi siamo semplicemente nucleo).

Epperò: perché sarebbe strategico il sindacato di base e non anche la presa in carico di una politica che voglia dichiararsi e sappia inoltre definirsi da cima a fondo alternativa alle “sovrastrutture politiche esistenti”, demarcando nettamente la distanza da esse -tutte!- sui piani decisivi della teoria, del programma e dell’iniziativa? Che significa indefettibile alternativa sindacale ai confederali messa sempre in primo piano e verticale alternativa politica alle “politiche esistenti” (a tutte esse, quelle finto-“comuniste” comprese, e non al solo Pd!) mai messa in chiaro fino in fondo? Perché sarebbe d’obbligo il “fuori e contro” Cgil-Cisl-Uil e l’andare ben separati nelle azioni di lotta e negli scioperi dalla massa dei lavoratori che vi si organizzano, quando invece si va (o si vorrebbe andare) fin troppo a braccetto con Prc e Pdci e loro ali “più a sinistra” -ai quali si rivolgono infinite profferte di comune iniziativa-, quando non con gli stessi Ds/Pd via Arci e consimili (vedi le manovre “fronte-unitarie” dei Cobas o addirittura gli appelli al governo Prodi “perché rispetti gli impegni presi con il movimento”!)? Forse per smascherare quelle “sovrastrutture politiche” e rivolgersi alle rispettive masse? Ma se questo fosse, non consiglierebbe la medesima finalità di non concorrere a separare le iniziative di lotta dei lavoratori e di portare la battaglia contro la politica fallimentare di Cgil-Cisl-Uil nella massa di un movimento di classe che anche sul piano della difesa immediata uno solo è? La “scelta strategica” del radicalismo separatista sul piano sindacale accompagnata da frontismo sul versante politico costituisce il ribaltamento esatto di ogni sensato criterio -e dovere- di battaglia politica e di politica fronte-unitaria di classe! Il che, beninteso, non significa cedere le armi al manovrismo del sindacato confederale quando esso chiama alla mobilitazione con tempistiche ad hoc volte a sgonfiare la partecipazione all’iniziativa indetta dal sindacato di base.

Soprattutto oggi, che la parabola del riformismo “operaio”-borghese volge -in Italia, ma per dinamiche strutturali di portata internazionale- a indecoroso epilogo, la priorità strategica è quella di dichiarare il nostro impegno e dedicarsi, senza la fretta di immediate direzioni delle lotte (ben pronti ad assumerle), alla riconquista della teoria e della politica rivoluzionarie, necessariamente “alternative”, “indipendenti”, contrapposte da cima a fondo alle “sinistre tradizionali” e alle loro “politiche esistenti”, non solo per le scelte contingenti rispetto a questa o quell’altra più recente collocazione governativa ma per i cardini di riferimento della propria parabola di lungo corso. E’ quella di fare piazza pulita delle ambiguità che derivano dal “demarcarsi” ancora rispetto al Pd, continuando però a lanciare ponti a Pdci-Prc e loro componenti “svoltanti a sinistra”. Ciò impegna i comunisti non semplicemente ad abbozzare questa necessità (quando pure lo fanno), ma a definire senza ambiguità la sostanza -prima ancora che i rappresentanti fisici- del riformismo e a demarcarsene nella visione complessiva dello scontro e della prospettiva nostra, ovvero a praticare veramente il “fuori e contro il riformismo” sul decisivo piano teorico-politico e della organizzazione di forze corrispondente a quel piano. Siamo convinti anche noi che la maturazione politica non avverrà se non sul terreno della lotta e dell’organizzazione della nostra classe, ma -lo si è detto- non senza accingersi a un lavoro teorico e politico -per il partito-, per fondare su questa base il nostro intervento organizzato in ogni lotta, sul posto di lavoro, in ogni contesto sociale e “nel sindacato” (inteso questo -tanto per riprendere il filo- come istanza reale dell’organizzazione di difesa dei lavoratori e non come istanze d’apparato dove volersi illudere di condurre battaglie “rivoluzionarie” “tra la massa dei lavoratori”).

A questa stregua, mentre respingiamo ogni demarcazione contro i sindacati auto-organizzati che a sentire finanche certe “sinistre” Cgil sarebbero “un partito politico” ... “il che non sta bene” (e perché?), riteniamo noi in tutt’altro senso insufficienti e contraddittorie rispetto alla necessità di cui sopra sia l’ibridismo sindacal-politico del sindacalismo di base, che assume alcune istanze politiche in chiave di battaglia contro il sindacato confederale, ma pur sempre all’interno di una visione essenzialmente sindacale dell’organizzazione e della lotta degli sfruttati, scartando continuamente compiti politici più ampi; sia ancora le proiezioni di altre componenti di sinistra della Cgil (tipo 28 aprile) che, a mero contorno di un’opposizione e azione puramente sindacali e a conferma della priorità ed esaustività di essa, non disdegnano di fare qua e là alcune puntate su questo e quell’altro terreno extra-sindacale (vedi la partecipazione della Rete 28 aprile al “Patto contro la guerra”). Sia chiaro: battaglie e iniziative in genere condivisibili, ma non come sostitutivo e palliativo dell’organizzazione politica e della necessità di assumersene (e non di scartarne) il compito, del tutto prioritario.



Il proletariato reale e la necessità di relazionarsi ad esso


Altro passaggio molto discutibile, assunto con troppa leggerezza dalla Rete dei Comunisti -soprattutto perché “funzionale” alle tesi da essa sostenute-, è quello che allude alla Cgil e al sindacato confederale come a un sindacato di pensionati (che ne costituiscono in effetti una parte numerica di tutto rilievo) ormai svuotato di ogni presenza della base proletaria lavorativamente attiva. Laddove “la modifica della composizione del mondo del lavoro” -noi riteniamo- non “riduce” semplicemente “la rappresentanza dei sindacati storici”, perché rende più difficile in generale l’organizzazione sindacale degli sfruttati e soprattutto quella dei settori più penalizzati e ricattati.

Nondimeno e riservando ad altra sede un’analisi a fondo sulla composizione degli iscritti ai diversi sindacati, che certo darà spunti utili e verifiche essenziali per questa discussione, noi intanto richiamiamo il dato significativo -e non unico- di 680.000 lavoratori immigrati sindacalizzati alla data del 2006 (1/5 della popolazione straniera regolarmente soggiornante e un terzo della forza lavoro; dal XVII Rapporto sull’Immigrazione della Caritas, anno 2007), di cui 530.000 iscritti a Cgil e Cisl. Pensionati anche questi?

Aggiungiamo poi che, se è drammaticamente vero -linguaggio a parte- che “i comunisti e i militanti anticapitalisti devono costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i lavoratori ed i settori popolari nel nostro paese”, e se è ancora vero che “molti lavoratori si iscrivono alla Fiom ma poi votano per la Lega”, si balla irresponsabilmente sull’orlo del precipizio quando se ne deduce, come fa la Rete dei Comunisti, che “i compagni combattivi che ancora si attardano in Cgil” dovrebbero da ciò prendere atto che “la contraddizione c’è tutta e non può continuare ad essere elusa dalla soggettività comunista”: ovvero -traducendo- che l’ “internità combattiva” in Cgil avrebbe fallito sia sul piano sindacale che su quello politico (“se votano Lega?”) e la soluzione starebbe ora in una “soggettività comunista” che finalmente si concentri nel sindacato di base, lasciando nella Fiom e alla Lega gli operai che a quest’ultima hanno dato il voto.

Noi non la pensiamo affatto così. Innanzitutto anche questo accenno alla dura realtà di lavoratori Fiom che votano Lega contraddice la tesi del sindacato di soli pensionati. Secondariamente, non si dovevano “costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i lavoratori ed i settori popolari nel nostro paese”? E i “settori popolari” di fabbrica -e non solo- che hanno votato Lega o comunque centro-destra (non pochissimi pare) sono esclusi forse da questa nostra necessità di relazione e intervento? Sul piano politico vanno bene pure gli appelli al governo Prodi, su quello sindacale si prende atto che gli operai votano Lega e si promuove il sindacato di soli coscienti e puri? A che serve sperare di guadagnare al proprio sindacato qualche compagno o qualche nuovo iscritto, se si persegue questo risultato voltando le spalle al proletariato reale che oggi (in parte non insignificante) è drammaticamente collocato nel modo che i compagni pure rilevano, ma non per questo definitivamente perso alla propria causa storica? E se lo si fa in procinto di un devastante (per la nostra classe) salto federalista in corso, dove quella collocazione dimostra l’illusoria aspettativa che verso di esso nutrono settori di lavoratori schifati dal governo Prodi e dalle “sinistre”, non significa questo lavarsi le mani di una battaglia che invece è da assumere? Come potrà farsi questa battaglia se si prescinde dal “costruire e rafforzare la concreta relazione” con i lavoratori pro-federalismo e pro-Lega, per dissuaderli da illusioni suicide e recuperarne l’iniziativa sul terreno della difesa unitaria di classe e contro il contenuto anti-operaio del cosiddetto “federalismo fiscale”?

Noi riteniamo, tutto al contrario, che anche il sindacalismo di base è chiamato a dare seguito -essendo tra l’altro tra i pochissimi a poterlo fare- alla propria opposizione al governo Prodi, rivolgendosi non solo alla “soggettività comunista” ma all’insieme della classe reale, a prescindere dalla sua attuale piuttosto bassa “soggettività”, lasciando perdere il trito anti-berlusconismo che non attacca e dando forza invece alla prospettiva di una via d’uscita da sinistra all’attacco strutturale del capitalismo che non sia la fregatura e lo schifo del centrosinistra di Prodi, Veltroni e Bertinotti, puntando a separare su queste basi il destino dei proletari dalle politiche del centro-destra in direzione della generale e unitaria ripresa di lotta. Saremmo fottuti se veramente la “soggettività comunista” voltasse le spalle ai propri compiti di intervento tra e verso i settori di classe ora ammaliati dal centro-destra e dalla Lega, mentre l’attacco anti-operaio (sul federalismo e sul resto) vedrà proprio lì il decisivo terreno di soluzione in un senso o nell’altro.



“Supplenza politica” della Cgil? Facciamo un bilancio.


Riepilogando fin qui: lo sbandieramento di “supplenze” del sindacato che i lavoratori avrebbero accreditato e accrediterebbero a petto di un riformismo tradizionale che si auto-liquefa (e di un partito rivoluzionario lontano da venire) ribalta la sostanza delle nostre tesi in punto di partito di classe e di “sindacato”; sostanza cui noi ci leghiamo e che per niente avvalora una stereotipa invarianza delle forme già date, come abbiamo chiarito altrove e, in parte, anche qui.

Verificare la “supplenza politica” della Cgil (da cui è partito il nostro ragionamento) sul piano dell’ “attualità”, dopo averla pesata in generale su quello dei principi, è quanto qui ci resta di fare.

Quanti, ammaliati dalla “chiamata alle armi” di Cofferati contro il governo Berlusconi (Circo Massimo di Roma, anno 2002), iniziarono ad accreditare da allora la cosiddetta “supplenza”, si sono presi la briga di misurare i propri assunti alla luce dei fatti? Di che genere di “supplenza” si sarebbe trattato? Soprattutto: che fine avrebbe fatto nei due anni del governo Prodi (2006-2008)? Sarebbe continuata o sarebbe finita, causa ritorno alla cattedra dei “titolari suppliti”? Nel secondo caso -si deve ammettere- si tratterebbe quantomeno di una “supplenza” a corrente alternata e senso unico, che si accende e si spegne a seconda dei colori dell’esecutivo, dove il pathos pro-lavoratori si anima solo se e quando è il centro-destra a governare. Diamo atto allora che la “supplenza politica” rivendicata dai sindacati di base -sballata e illusoria anch’essa per altro verso e per quanto detto- è scevra da queste indecenze schizofreniche!

E’ ben vero che i vertici della Cgil di Cofferati non sottoscrissero insieme al governo Berlusconi e Confindustria il “Patto per l’Italia” firmato da Cisl e Uil (dopo aver sottoscritto quello “Per il lavoro” patrocinato dai precedenti governi di centro-sinistra) e raccolsero la spinta (e anche -dicemmo a suo tempo- chiamarono) alla mobilitazione contro l’attacco sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. E’ ancor vero che la Fiom non si piegò al ricatto congiunto di Confindustria e governo di centro-destra, organizzando contro la firma separata di Fim e Uilm per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici la battaglia dei pre-contratti; una battaglia che non mirava a rilanciare la lotta generale, perché più modestamente puntava a rendere ingestibile l’accordo separato, aprendo vertenze aziendali per il recupero della differenza solo nelle grandi fabbriche. Possiamo ancora prendere atto che attraverso quella mobilitazione fu fermato l’attacco frontale sul punto specifico dell’art. 18 e mandata di traverso al padronato la via, oggi riproposta, degli accordi “con chi ci sta”; il che sicuramente non è poco e ne va dato atto alla capacità di tenuta dei lavoratori metalmeccanici sul piano generale e contrattuale di categoria.

Ma ogni ulteriore discorso che da questi dati prendesse il via per farneticare di un “sindacato supplente” e di una massa operaia che nel raccomandarsi ad esso manifesterebbe il bisogno della propria “indipendenza politica”, si è rivelato, per la nostra modesta esperienza, deleterio. Il che non scriviamo per ripeterci sulle divergenze all’origine della nostra separazione dal che fare (che spiattella questa pseudo-lettura ancora nel supplemento al n. 66 di dicembre 2006), ma perché oggi potrebbe ripetersi uno scenario non dissimile, con tutti i fattori di accelerazione oggettiva dello scontro maturati in avanti (mentre il ritardo soggettivo nostro aumenta). 

Andando al sodo, le direzioni della Cgil non hanno supplito, non suppliscono e non suppliranno nient’altro se non una politica borghese di salvaguardia dell’azienda-Italia, del mercato e dello Stato (e questo a noi spetta di dire “alla massa operaia” senza ambiguità opportunistiche e codismi), con la variante massima di una presa in carico di essi che non cancelli del tutto l’esistenza residuale e subordinata dei lavoratori -rectius di una parte di essi- (non anche della loro voce in capitolo e men che meno della loro voce d’insieme come classe) in una fase di crisi quale è quella nella quale sempre più ci si avvolge (senza fissare al dopodomani il “crollo finale”, pur con le scosse potenti di questi ultimi tempi).

La Cgil e la Fiom si guardarono bene allora dall’organizzare la lotta fino in fondo contro il governo Berlusconi per cacciarlo dalle piazze, come sarebbe stato possibile (e non sarebbe male ricordare che a farlo cadere fu poi la Lega Nord, il che non significa elevare quest’ultima a “supplente” bensì considerare il peso reale della sua base operaia). La loro “supplenza”, da antico programma della scuola riformista, contemplava che la lotta dovesse essere capitalizzata  esclusivamente e interamente sul piano della conta elettorale, della quale peraltro rispettare le lontane tempistiche. Insomma la mobilitazione a difesa dell’art. 18 e le stesse lotte dei meccanici furono incanalate in funzione della riscossa elettorale dell’Ulivo e del centro-sinistra e quindi spente nell’acquasantiera del voto; non senza la consapevole accettazione della massa operaia (lungi da noi risolvere la questione del riformismo a mero fatto di direzioni “che tradiscono” (!?) -se poi le si accredita di “supplenze politiche”, allora si sragiona nell’opposta e ancor più deviata direzione-).

Per questo la Cgil non diede seguito reale alla manifestazione del Circo Massimo (se non con la classica raccolta di “milioni di firme” per proposte di legge più che prone alle richieste del padronato) e in questo contesto la stessa battaglia dei pre-contratti, ma mano che la fine del quinquennio e il voto si avvicinavano, diveniva d’intralcio alla ricomposizione con Cisl e Uil, necessaria alla ripresa di una ”proficua e unitaria collaborazione” con l’atteso governo Prodi. Di che meravigliarsi se, in queste condizioni, la “supplenza Cgil” ha fatto acqua da tutte le parti e lo statuto dei lavoratori, difeso nella lettera dell’articolo 18, proprio in quegli anni è stato definitivamente svuotato di ogni efficacia dall’attacco padronal-governativo andato avanti a 360 gradi? Se poi, a fronte di questa sostanza di cose, arrivano gagliardi rivoluzionari ad accreditare una Cgil come referente e veicolo di una effettiva “petizione di indipendenza politica” della “massa operaia”, veramente verrebbe da pensare che il sindacato riformista abbia sfornato una ciambella dal suo punto di vista perfetta e completa di buco!

Il buco, invece, è stato fatto nei residui argini di difesa del proletariato. Buco che, lungi dal “supplire” la nullità politica delle “sinistre radicali” contro il governo Berlusconi prima e nel governo Prodi poi, fa il paio esatto con essa! Buco profondo sul piano del protagonismo politico di  classe prima ancora che su quello della difesa immediata, se è vero che l’unità con Cisl e Uil è stata ricomposta per offrire a Prodi collaborazione e pace sociale e per spegnere la “supplenza” antiberlusconiana (ma in realtà la lotta dei lavoratori) nella genuflessione ai diktat del medesimo capitalismo nazionale e del suo nuovo governo di centro-sinistra!



“Svolte a sinistra” della Cgil? Una menzogna contro la ripresa di classe.


Nondimeno gli “eroismi” anti-berlusconiani della maggioranza Cgil sono stati sufficienti a quei bei campioni di “Lavoro e Società - Cambiare Rotta”  per accreditare un “cambiamento di rotta” “a sinistra” dell’intero vertice della Cgil. Sicché, sparito dal logo il cambiare rotta (fatto! rotta cambiata!), questi signori al XV° congresso di marzo 2006 da “sinistra di opposizione” che erano sono confluiti nella maggioranza. Il congresso venne celebrato prima del voto e si gabellò anche questa come “prova di autonomia” della Cgil che prendeva le sue deliberazioni congressuali a prescindere dal vincitore. Mai menzogna è stata più spudorata: se il congresso si fosse tenuto dopo solo i primi sei mesi del nuovo governo sarebbe stato quasi impossibile per Patta e sodali continuare a cianciare di “svolte a sinistra” e “rotte cambiate”, mentre i Cremaschi e Rinaldini sarebbero stati messi nella condizione di dover dare un qualche seguito reale alle proprie riserve nella sede congressuale, salvo rimangiarsele davanti alla platea. E così, dopo oltre 20 anni, si è tornati al congresso a tesi uniche, con le “sinistre sindacali” che o attestavano la “svolta a sinistra” della confederazione confluendo in maggioranza (Lavoro e Società), o comunque, in questo contesto, affidavano la propria “opposizione” a qualche emendamento, lavandosi sostanzialmente le mani dall’iniziativa di una mozione alternativa (Rinaldini e Cremaschi).

Perché ricordare oggi questi trascorsi? A chi possono interessare queste manovre d’apparato, riferite inoltre a un quadro “superato”? Per quanto ci riguarda occorre chiamare alle loro responsabilità davanti ai lavoratori sia i partiti del centro-sinistra e della “sinistra radicale” accorpatisi nella compagine prodiana, sia i vertici della Cgil e le sue “sinistre” confluite nella maggioranza in funzione di un patto di stabilità e pace sociale di legislatura con il governo di centro-sinistra (sintesi perfetta di questo “movimento sinergico” del riformismo sindacale e politico -movimento di supplenza reale della borghesia e del capitalismo nazionale- il citato Patta, già portavoce nazionale di “Lavoro e Società”, andato a ricoprire incarichi nel governo Prodi). Altro che Cgil che supplisce i partiti “di sinistra”: tutti insieme hanno manovrato, ciascuno per il suo, dapprima perché la lotta operaia contro il governo Berlusconi non andasse oltre l’argine segnato dai propri programmi di rivincita elettorale e di governo, e poi per garantire al governo Prodi l’annullamento politico del proletariato e la sua incapacità di reagire e difendersi sul piano immediato contro un attacco dell’esecutivo di centro-sinistra -e del padronato-, che, lungi dal garantire “restituzioni”, è andato avanti nella direzione del peggioramento della condizione proletaria a maggior gloria del capitalismo! Pare che i proletari -a differenza di certi rivoluzionari- se ne siano accorti, dando purtroppo un seguito limitato al piano suicida di una protesta improvvidamente affidata nell’urna a forze ancor più ferocemente anti-operaie.

E ora? Ora da qui si riparte.

Per una ripartenza reale, che non ricalchi all’infinito i sentieri fallimentari del riformismo votati al disastro della nostra classe, tutti i meriti che abbiamo qui trattati non possono essere “messi dietro le spalle”, perché invece è la stesa dinamica dello scontro a riproporne, a condizioni in parte variate, la medesima sostanza. Noi ripartiamo dalle lotte reali -non travolgenti, ma questo oggi è- che il proletariato ha messo in campo sia contro il governo Berlusconi (2001-2006) e sia contro il governo Prodi (2006-2008). Altri “capitali” a nostra disposizione non abbiamo, eccetto quelli di una teoria che ci permette di valorizzare per il giusto la premessa che vediamo in ogni lotta reale, e di un programma che ci impone di dare battaglia alla battaglia di quanti puntano a spegnere quelle premesse nell’urna o nell’incapacità sfiduciata di inquadrarne il seguito in un percorso di antagonismo. Percorso che non è circoscritto all’Italia, perché invece trae e trarrà la sua linfa, se i comunisti sapranno organizzarsi a tal fine, dalle convulsioni cui il capitalismo va incontro (senza prenotarne l’esito per dopodomani), dalle sofferenze e dalla forza insieme che esso già oggi suscita ovunque e soprattutto nei paesi e nelle masse schiacciati dal giogo occidentale. (In tal senso l’unico argine contro il ricatto della concorrenza internazionale tra lavoratori sta nel promuovere il collegamento e l’unità con i lavoratori -oggettivamente concorrenti- degli altri paesi -cominciando dagli immigrati-, per conoscere e supportare con avido interesse e fiducia le lotte operaie in corso nell’Europa dell’Est, in Cina, in Egitto, in Corea del Sud, etc.. Da una seria proiezione in questa direzione non ne verrebbe all’immediato la possibilità di sottrarsi alla competizione, ma di questa potenzialità ne indicherebbe la prospettiva e preparerebbe il terreno di concreti passaggi di unificazione dell’iniziativa contro identificati nemici comuni).

Certo, dunque, che è necessario organizzare la mobilitazione contro il governo Berlusconi e noi vogliamo farlo veramente! Ma: mobilitazione per cosa? Per contrastare e diminuire sul piano reale la forza del governo di centro-destra e l’aggressività contro gli sfruttati in cui si traduce e per buttarlo giù dalla piazza se sapremo darci forza contraria e programmi adeguati a questo obiettivo, oggi fuori portata; oppure per fare ancora una volta i supporters del Partito Democratico o preparare il ritorno a palazzo di una “sinistra radicale” che ha indegnamente sperperato tutti i titoli precedentemente conseguiti per rappresentare gli sfruttati sia lì (ammesso che ancora abbia un senso) che altrove? Insomma, di quali contenuti deve sostanziarsi la ripresa di mobilitazione: dell’unitarismo anti-berlusconiano (fino al “compagno Di Pietro”, ieri fino a Dini...) vuoto dei nostri contenuti perché misurato a riaccreditare un centro-sinistra impresentabile e i suoi programmi anti-operai confusi a ipocrite dichiarazioni di facciata pro-lavoratori, quando al governo si è fatto l’esatto contrario; oppure per demarcare una nostra politica di classe che ci disponga in campo, non a quinquenni alternati, come una forza che recuperi il proprio antagonismo non solo “contro Berlusconi” ma contro il capitalismo, a prescindere dal colore dei governi e mettendo nello stesso conto le soluzioni alla Prodi, e rivolgendosi su queste basi all’insieme della nostra classe oggi dispersa e ammaliata dietro le più diverse sirene nemiche?



Attacco “alla Cgil” o all’organizzazione di classe?


Come si vede, le questioni “di ieri” sono quelle di oggi (ribadiamo: in una scena che procede in avanti e non s’incanta sullo stesso fotogramma). Vediamo allora di non “metterci dietro le spalle” proprio niente, per non spianare la strada a chi vorrà rifilarci le stesse ricette e fregature di ieri come suppostamente necessarie per “unire tutte le forze” e “contrastare il regime Berlusconiano” se non addirittura “il fascismo”! Questo è per noi necessario, se si vuol lottare veramente contro i padroni, il governo di centro-destra e l’intera borghesia.

Un discorso che ha i suoi chiari rimandi sul cosiddetto “piano sindacale”, dove noi sommessamente consigliamo (a chi lo ha fatto girare fino all’altroieri) di non riattaccare il disco della Cgil che supplisce la “politica di sinistra”, dell’unica organizzazione proletaria di massa che si metterebbe di traverso ai disegni del padronato e dello “sceriffo di Nottingham” (supponendone, tra l’altro, integro lo “zoccolo duro”, che invece a furia di “supplenze” è fin troppo ammollato e disperso), dell’ “attacco alla Cgil” che piove da ogni sede, istituzione o istanza dei poteri forti e via di questo passo. Prima di riattaccare il disco, si misuri dove è andata a finire la precedente suonata e si capisca infine a che serve e dove porta quella musica, al cui coro giammai (o mai più) associarsi!

Di questa non gradita replica, infatti, ci sarebbero oggi “nuovamente” in campo tutte le precondizioni (a proposito che le ”questioni di ieri” ci stanno davanti e non dietro le spalle). La Cgil, “supplente” reale del governo di centro-sinistra e corresponsabile della gragnuola di colpi piovuta a bruciare di rabbia le aspettative dei lavoratori, ha esordito nella nuova fase sottoscrivendo la proposta unitaria delle tre confederazioni per la “riforma” del modello di contrattazione come richiesto dalla Confindustria. Visto l’esordio, “Emma” ha potuto raccomandarsi a “Guglielmo” di “fare il buono”. Al momento in cui scriviamo, il seguito non è ancora scritto. La Cgil accenna anzi a ri-“mettersi di traverso”, in particolare sulla “riforma” della contrattazione. Non sul federalismo, dove è impegnata a “rivendicare una legge su un federalismo fiscale equo e solidale, rispettosa del dettato costituzionale, che migliori l’efficienza della spesa pubblica senza ridurre la qualità delle prestazioni e non aumenti il carico fiscale sui cittadini” (documento approvato “all’unanimità” dal direttivo nazionale del 9/09/08).

E se la Cgil “si mette di traverso”, ecco ripartire gli attacchi dei poteri forti contro di essa (invero proseguiti anche durante il governo Prodi, cui la Cgil avrebbe dettato l’agenda!?). Ne citiamo uno solo, del ministro Brunetta: “Dal ’94 ad oggi la Cgil ha assunto un ruolo di partito politico e non di sindacato”. Nel codice borghese è il più grave delitto di cui i lavoratori e il sindacato -non anche la borghesia e la sua Confindustria- possano macchiarsi: la politica è affare di padroni e non di operai, che stiano dunque al loro posto! “Questo stato di cose -prosegue il ministro- è un’anomalia italiana...”, ma un sindacato “antagonista non è utile al sistema di relazioni sindacali” (Corriere della Sera del 17/09/08).

Non si tratta di negare che questi attacchi si diano. Anzi. Si tratta di non circoscriverli alle dichiarazioni al vetriolo dei rappresentanti borghesi o a scomuniche indirizzate a questo o a quell’altro leader. Di denunciare dove parano e contro chi e per cosa sono veramente diretti, e, se sono diretti -come lo sono- contro il protagonismo dei lavoratori che potrebbe riaccendersi laddove i vertici della Cgil non collaborino fino in fondo ad annullarlo, si tratta anche, se veramente si vuole  rilanciare il protagonismo di classe, di non omettere di denunciare quanto viene fatto nella stessa direzione da quei leaders “sotto attacco” e dalle loro politiche. Insomma di non montare all’infinito una maleodorante panna acida che con l’enfasi puntata sulla “Cgil sotto attacco” mette in sordina fin troppi passaggi di una coerente posizione di classe, che neanche di fronte agli “attacchi contro la Cgil” potrà mai vedere schierati nella stessa trincea contro i poteri forti del capitalismo Cofferati/Epifani e i proletari che si organizzano e lottano per potersene difendere. Non è così? Per noi è così, da quel dì e definitivamente!

Se non scorgiamo male, già si vedono i primi effetti di questo accenno di osannata “resistenza anti-berlusconiana” di ritorno da parte dei vertici cigiellini: direttivi nazionali che approvano all’unanimità documenti in cui si apre a un inizio di mobilitazione (vedremo), ma al tempo stesso se ne appiattiscono i contenuti sulle ipocrite parole d’ordine del Pd, per tutto quello che non ha fatto -e la Cgil non ha rivendicato- quando era Prodi a governare; la componente di “Lavoro e Società” che “ricambia rotta” e, dopo aver segnato nella assemblea dello scorso del 23 luglio quello che i suoi stessi promotori hanno presentato come un passaggio di unificazione delle opposizioni in Cgil, ora invece torna a cianciare di “spostamenti, svolte e ancoraggi a sinistra“ della Cgil (e del suo segretario “che non subisce diktat e ricatti”) e lascia aperta “la possibilità di mantenere il governo unitario della Cgil sancito con il XV° congresso”! Trasformismo indecente rotto a ogni commedia.



Chi attacca chi.


Quale che sia il seguito dello scontro tra governo di centro-destra (e Confindustria) e la Cgil, sono invece già scritte le dorsali del nostro intervento. Le resistenze e le supplenze anti-berlusconiane di Cofferati ed Epifani non ci hanno mai incantati e non ci occorrono sforzi eccessivi per collocarle al loro posto e inquadrarne il contenuto.

Dunque non correremo all’ “unità anti-berlusoniana” per soccorrere con le nostre forze -modeste, ma serie- la “Cgil sotto attacco” (né per altri soccorsi), essendo ben pronti a difendere l’organizzazione di classe reale ovunque essa sia attaccata e quale ne sia il nome. Nè porteremo acqua dall’esterno e “da sinistra” (estrema?) a questo a noi avverso mulino, dando fiato all’allarme generale (che putacaso riguarderebbe allo stesso modo Epifani e i precari asiatici licenziati questa estate dalla cooperativa Global Logistica di Pomezia per essersi iscritti alla Cgil) e lasciando in second’ordine gli argomenti di battaglia contro la politica delle direzioni Cgil che hanno concorso un bel po’, a suon di “Patti” e “Protocolli” sottoscritti e difesi, a mettere i lavoratori per strada. Né ancora ci inventeremo che certi toni di allarme ci sarebbero suggeriti dai “sentimenti” di una massa operaia che riconoscerebbe nella Cgil l’ultimo proprio baluardo di difesa cui affidare l’istanza di un’ “indipendenza politica” dei lavoratori. (Lettura ancor più risibile dopo il voto di aprile, dove fin troppi lavoratori e proletari hanno dato dimostrazione rabbiosa -e peggio che impotente- del proprio livore verso il governo Prodi e verso chiunque lo abbia sostenuto, Cgil compresa, e -saltando a piè pari le sue “supplenze”- sono andati o sono tornati a rivolgersi in maggior numero e con preoccupante maggior convinzione alle destre di ogni tipo).

Se la Cgil confermerà fino alla fine che non è possibile sottoscrivere la “riforma della contrattazione” servita da Confindustria o digerire allo stesso modo le altre portate padronal-governative già previamente avallate da Cisl-Uil e Ugl (vedremo poi con quale reale impegno per la ripresa di lotta), noi staremo nella mobilitazione sulle nostre posizioni di sempre, senza doverle rivedere o correggere per questo.

Dell’ “attacco alla Cgil”, infatti, va chiarita la sostanza che ci interessa e contro cui difenderci da un punto di vista di classe. Giammai per rimettere in sella nel gioco istituzionale (prospettiva lontana e questa volta non solo nelle tempistiche) le leadership politiche e sindacali del centro-sinistra cui fare da supporto. Ove, infatti, si accettasse di funzionalizzare ancora una volta la nostra lotta a quel gioco, si rinuncerebbe a rafforzare il nostro protagonismo e l’organizzazione di classe, che unicamente devono starci a cuore e che sono il vero obiettivo dell’attacco in questione  da difendere. Né dobbiamo sposare le “soluzioni” propinateci da quelle leadership perché presi dal panico nel vedere un centro-destra che stravince: la vittoria del centro-destra ha senz’altro conseguenze negative per la nostra classe, ma esse possono essere combattute solo sul terreno dello scontro reale e con le armi adeguate, cominciando a dotarci di un programma e di una prospettiva opposti a quelli dei supporters del centro-sinistra, che hanno spianato la strada al centro-destra e al padronato. Solo in questo modo sarà possibile ricomporre l’unità di lotta dell’insieme dei lavoratori, oggi disorientati, divisi e -per i non pochi che lo hanno fatto- tuttora niente affatto pentiti di aver votato il centro-destra.

L’attacco alla Cgil che recalcitra ai disegni padronal-governativi (del governo di centro-destra) non ha principalmente né essenzialmente di mira l’istituzione di Corso Italia (peraltro ben integrata nello Stato), ma l’idea stessa che gli sfruttati possano organizzarsi sulle proprie basi di classe per difendere i propri interessi contro quelli dei padroni e ogni concreto tentativo in questa direzione, così come l’unità e l’organizzazione per questa via da essi conquistate. Un attacco che in genere non ha ragione di indirizzarsi contro i vertici della Cgil, che anzi fin troppe volte vi collaborano. Anche questo è un “particolare” che non può essere né omesso né derubricato in nota. Se è sbagliato separare le “direzioni” dalle “masse” (come se le prime si sovrapponessero alle seconde suppostamene in tutt’altro modo orientate), ancor di più lo sarebbe identificare tout court l’istituzione sindacale e il suo apparato con le centinaia di migliaia e i qualche milione di iscritti alla Cgil e ai sindacati tutti e ancor di più con l’auto-organizzazione e il protagonismo di lotta che i lavoratori, con o senza tessera, hanno più volte dimostrato di saper mettere in campo. Teniamo a mente quanto si è visto in occasione della manifestazione del 4/11/06 sulla precarietà indetta dai sindacati di base insieme alla Fiom e alle sinistre della Cgil (“Rete 28 Aprile” e “Lavoro e Società”), quando i vertici di Corso Italia hanno aggiunto la loro voce a quella del governo Prodi e all’orchestra dei cosiddetti poteri forti per inscenare una vergognosa canea contro una parte non insignificante del mondo del lavoro e contro forze sindacali e settori della stessa Cgil che avevano osato chiamare alla mobilitazione di piazza per difendere gli interessi dei lavoratori. Come la mettiamo? Chi e cosa sono “sotto attacco”? Chi attacca chi? Noi difendiamo e rilanciamo l’organizzazione di classe e la mobilitazione di piazza anche contro le direzioni e gli apparati della Cgil che, in linea con i contenuti delle proprie politiche, non disdegnano e all’occorrenza si incaricano di attaccare i lavoratori!



La “rotta” delle direzioni Cgil porta al disastro. Il proletariato deve ritrovare la propria rotta di classe.


Il sindacato della “contingente necessità” di bombardare la Jugoslavia o, tanto per dire, della campagna per destinare il Tfr ai fondi pensione (mentre le borse fanno su e giù e lo stesso Cometa -fondo pensione complementare per i metalmeccanici- è colpito dal fallimento della Lehman Brothers...), da quel dì -lo annotava Trotskji nel 1940- ha preso una “rotta” che non può più essere cambiata da nessuno.

Quale cinghia di trasmissione del riformismo, esso, negli anni dell’affluenza economica, ha conteso al padronato non insignificanti margini della redistribuzione possibile. Oggi questi margini si azzerano e la finta “sinistra radicale” si squaglia. Ma ciò non omologa il riformismo tradizionale, o quel che oggi esso è, alle soluzioni borghesi “di destra”. Nel progredire della crisi e quando nessuno può spendere redistribuzioni ormai impossibili alla scala generale e di massa, anzi a petto di “soluzioni” che nella sostanza si avvicinano perché tutte rispondenti agli stessi imperativi del capitalismo nazionale e del mercato, nondimeno non si placa la contesa -reale- tra le frazioni borghesi che si accorpano, scompongono e riaccorpano su un fronte “di destra” e uno “di centro-sinsitra” o semplicemente “democratico” (la sinistra, dopo l’epilogo di decenni di mascherate, potrà rimetterla veramente in campo solo il proletariato).

Questa contesa non si placa oggi, che il proletariato è politicamente assente dalla scena, esso stesso accodato ai “contrapposti” fronti borghesi. Ma anche domani, quando il proletariato tornerà a unificare le sue forze e a rivendicare il suo posto da protagonista in proprio, ci saranno tutte le soluzioni borghesi a contendersi il campo e a contenderlo unite al proletariato, pronte a spendersi in successione per sbarrargli la strada.

Se, dopo aver digerito bombardamenti e accettato di far ballare in borsa i soldi dei lavoratori (volendo limitare gli infiniti esempi che si potrebbero fare), i vertici della Cgil e i partiti di “sinistra” mostrano (e mostreranno) di non gradire la “complicità” pretesa dal padronato e dai governi su questa o quell’altra richiesta ulteriore (più complicità di quella già data!), ipotizzando su questo o quell’altro strade diverse del tutto interne alle compatibilità del mercato cui subordinare gli interessi degli sfruttati, noi non ci facciamo (e non ci faremo) neanche sfiorare dal pensiero che ciò significhi “spostamento a sinistra”. Neanche se la massa operaia dovesse aggrapparsi a una siffatta illusione accreditandola come soluzione utile per i propri problemi sempre più acuti. Ma, confrontandoci tra i lavoratori anche nel merito di quella illusione (quando oggi, invero, le illusioni dei lavoratori guardano ancor più pericolosamente altrove e con esse ci si deve confrontare), ci schieriamo (e ci schiereremo) di conseguenza senza nulla variare rispetto alla sostanza qui esposta.

4 ottobre 2008