Altro che “crisi del comunismo” in Italia! Al momento in cui scriviamo (e non finisce lì...) siamo in presenza di almeno cinque partiti “comunisti” derivanti dal vecchio ceppo PCI, senza contare le mille costituenti più o meno nuove e mettendoci di mezzo anche noi tra i “gruppettari” che possono anche avere delle “idee” comuniste corrette, ma cui manca un seguito “di massa” e qualche trombone da esibire in pubblico via media disponibili. Anzi, noi stessi, sentendoci in dovere di mettere qualche puntino su certe non irrilevanti “i” e trovandoci di fronte a un muro impermeabile all’interno dell’OCI di provenienza, ci siamo presi il lusso di aumentare la “frammentazione tra i comunisti”, “vicini” compresi. L’unità dei comunisti è certo una bella cosa, un obiettivo permanente da perseguire, e l’attuale rissa tra varie sigle è altrettanto una brutta faccenda.
Ma la presente situazione di atomizzazione e nullità di peso politico in pratica non deriva dall’”in sé” della divisione, bensì dalla mancanza di un vero asse di orientamento realmente comunista, marxista. Questa mancanza si è potuta benissimo nascondere per lungo tempo, allorché un certo rivendicazionismo proletario (essenzialmente riformista, dichiarazioni “di principio” a parte) poteva combinarsi con un corso del capitalismo ascendente o comunque stabile, epperciò concessivo. Nel tempo in cui, invece, tutti i nodi del sistema capitalista cominciano a venire al pettine lo stesso succede per le compagini autonominantisi come comuniste: le catene più o meno dorate si trasformano in catene da spezzare (o... rafforzare, a seconda delle scelte, ed una maggioranza di dirigenti ex-“comunisti” a ciò oggi risponde), il che comporta dei ben precisi strumenti teorici, politici ed organizzativi comunisti sul serio. L’unità dei comunisti? Il problema non si pone alla maniera dei borghesi risorgimentali: facciamo l’Italia, l’Italia è fatta, adesso facciamo gli italiani; facciamo un bel partito comunista di cui abbiamo nome, simbolo, inno e, possibilmente, finanziamenti pubblici e poi facciamo i comunisti. Anche nel piccolo (sia detto senza offesa alcuna!) di certi assemblaggi ultra-minoritari notiamo la stessa fisima. All’odg il che fare? Noi all’odg poniamo il chi siamo, cosa vogliamo (pietra di paragone del che fare).
Il problema che noi poniamo si fa comunque sentire, in un modo o nell’altro, in maniera generalizzata. Molte le vie di fuga tentate, ma il diavoletto non si lascia esorcizzare.
Non spendiamo qui troppo tempo ad esaminare i risultati dei congressi o assisi che dir si voglia dei ben tre raggruppamenti “trotzkisti” usciti da Rifondazione (un quarto vi rimane ben installato in attesa dei dividendi rivoluzionari dell’azienda riformista di appartenenza). I più teoricamente armati di essi tentano oggi, una volta liberi dal “giogo” (precedentemente autoimpostosi ed autocelebrato come “tattica-ponte”) del PRC e dalla compartecipazione obtorto collo alle sue responsabilità politiche non indifferenti, di dichiarare un proprio programma comunista, mettendo persino in primo piano l’esecrando termine di rivoluzione. Ma siccome la rivoluzione non è precisamente dietro l’angolo sembra che occorra rincorrerla tanto più “tatticamente” quanto più essa appare lontana, lasciando da parte le “inutili” analisi strutturali del corso capitalista mondiale e delle condizioni, contenuti e forme della ripresa comunista attraverso la “leva” di supposti “programmi di transizione” su cui ci siamo già espressi a suo tempo. In termini spiccioli: il tutto si riduce ad un tentativo di mobilitazione “antiberlusconiana” di massa entro cui presentarsi come i movimentisti più decisi ed i “raggruppatori” più fruttuosi di “compagni” di buona volontà.
L’internazionalismo, poi, si riduce al sostegno (e siamo nella stessa logica!) delle “punte più avanzate” dei movimenti altrui; campo in cui ognuna delle formazioni “trotzkiste” suddette può liberamente scegliere a seconda della “tendenza” di appartenenza: c’è chi starà con Chavez, antesignano del “socialismo del XXI° secolo”, chi lo indicherà come il “peggior nemico” del movimento rivoluzionario internazionale, e così via. Ripetiamo: ci fa tutt’altro che schifo che una piccolissima minoranza di compagni non digiuni in assoluto di teoria marxista e presenti (più di noi, ammesso!; i numeri sono numeri) in lotte reali di rilievo difenda certi principii. Ma questi non possono stare appesi per aria, senza una seria analisi dei disastri compiuti prima, in e con Rifondazione, e senza un tentativo, perlomeno, di prospettiva a venire a tutto raggio.
I tre ramoscelli staccatisi dal PRC sono stati immediatamente costretti a constatare che le percentuali di “rappresentanza” che essi avevano dentro (dentro in tutti i sensi!) quel partito si sono letteralmente prosciugate una volta fuori di esso. Perché? Per mancanza di radici proprie. Vedremo se e come essi potranno fungere da talea su cui innestare qualcosa di marxista. Nutriamo più di un dubbio in proposito, ma non saremo né disattenti né tantomeno ostili ad ogni e qualsiasi sforzo in merito.
Messo tra parentesi questo preambolo, occupiamoci dei congressi di quel che resta di due partiti “comunisti” comunque più corposi numericamente e spesso anche più direttamente rappresentativi degli umori, del “polso” della classe; con tutti i vantaggi e svantaggi –quando alla diagnostica non segua la terapia conveniente. Ancora una volta: non siamo di quelli che si dichiarano soddisfatti della scomparsa parlamentare (che può anche essere parzialmente provvisoria e comunque non significa scomparsa tout court) dei falsi partiti comunisti considerando la cosa di per sé come un miglior trampolino di lancio per i comunisti “veri” (o addirittura frutto delle “campagne (?!) astensioniste” di questi ultimi). La batosta di PdCI e PRC è ben meritata, ma non è affatto “di per sé” il prologo ad approdi migliori; anzi, coinvolge in negativo gente nostra (ci capiamo, si spera!) ed in assenza di alternative credibili e ponderabili suona più campana a morto che campana a festa. Che una parte di base del vecchio arsenale di questi partiti intenda reagire risollevando le proprie bandiere ci starebbe, anzi, anche bene. Il guaio è che non si tratta, come affermano taluni compagni anche a noi prossimi, di una risposta ad un “tentativo di socialdemocratizzazione” di questi partiti, che è già bell’e compiuto, ma alla risollevazione di un (sacrosanto) rivendicazionismo di classe di tipo para-sindacale, malauguratamente cauzionato anche da insospettabili, illusoriamente considerato “compatibile” entro questo sistema.
Può essere, e tale lo consideriamo, un punto di partenza –vista l’inconciliabilità strutturale tra base rivendicativa e base strutturale–, ma al solo patto di rompere con l’impostazione di partenza ed arrivo delle dirigenze di questi partiti. Tra gli interventi raccolti nell’archivio riproduciamo un nostro “appello” del luglio ’95 ai militanti dell’allora PRC per ribadire i termini di una questione rimasta da allora aperta in precipitosa discesa. I dieci anni trascorsi da allora non hanno prodotto alcun salto di qualità consistente a livello di “massa” (od anche solo di ristrette, ma tangibili minoranze). Al contrario, il processo di ibernazione dei compagni ha prodotto, inevitabilmente, uno squagliamento di forze ed un sentimento depressivo d’insieme da cui qui non s’intravvede una via d’uscita in positivo. Tanto per dire: alla consultazione congressuale del PRC hanno partecipato meno di 50 mila compagni, con molto turn over e calo consistente di iscritti e partecipazione e di questi quasi una metà ha scelto la strada “facile” dello “sguardo in avanti”, oltre e contro il comunismo, obiettivamente verso il risucchio nel PD. L’altra metà tenta di reagire nei modi che vedremo, tipo peggio il tacòn che il buso. Ad essa noi parliamo col linguaggio della verità, fraternamente, come sempre, ma, proprio per questo, senza allisciamenti.
Il PdCI ha impostato il suo congresso attorno allo slogan dell’”unità dei comunisti” (come da qui sopra: prima l’unità “simbolica”, poi –mai– il comunismo). Tante critiche alla coalizione Prodi di cui si faceva diligente parte (sino alla sottoscrizione della guerra alla Jugoslavia prima, poi degli “interventi umanitari e di pace” imperialisti in Afghanistan, in Libano, in Somalia) perché –udite udite!– non ha “rispettato” i programmi “comunemente” (con Dini e Mastella) sottoscritti. Un bel po’ di veleno per Veltroni per la sua coerente linea, cui si imputa l’”errore” di aver lasciato passare Berlusconi, ma con molte potenziali aperture a chiunque del PD osasse manifestare intenzioni serie di “reimbarco” delle truppe “comuniste” gettate a mare. Partito “comunista”, si ribadisce, di lotta, ma di ferrea vocazione governativa “purché”...
Non dimentichiamo come e perché nacque il PdCI: le sue ragioni d’origine rimangono le stesse, proclami guerreschi a parte. Tartarin di Tarascona insegna.
Una sola voce si è alzata contro questo andazzo nel partito, ed è quella di Marco Rizzo, del quale qui di seguito riporteremo alcune notevoli considerazioni, benissimo adattabili anche ai fratelli separati del PRC. Salvo che questo personaggio sembra volersi ritagliare un proprio spazio di verginità personale rimanendo ligio al bordello; il che non ci pare troppo edificante.
Il Rizzo, dopo aver, tra l’altro, denunciato il repulisti compiuto all’interno del partito nei confronti delle voci più sanamente critiche dell’andazzo generale (“faziosità, truppe cammellate, tesseramento ad arte, regole dubbie comunque disapplicate, veleni che distruggono la solidarietà tra compagni etc.”, citiamo testualmente), pone delle rispettabili questioni di fondo. Le elenchiamo trascrivendo letteralmente:
a) “Mai come oggi il mondo ed anche il nostro paese dimostrano l’ineguaglianza e la totale mancanza di tenuta del sistema capitalistico (...) Una critica irriducibile a questo modello di società è non solo giusta, ma è l’unica che può dare uno sbocco di sopravvivenza a questo pianeta. Il comunismo come idea, pratica e forma sociale si può definire entro tale prospettiva”;
b) “In Italia la proletarizzazione avanzata della quasi totalità della popolazione si manifesta in contrapposizione ad una grande concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissime persone” (meglio: di una determinata classe numericamente minoritaria, n.n.); fenomeno, si presume, non specificamente nazionale tant’è che:
c) Cominciamo a dire che quest’Europa “è solo dei padroni, matrigna sui diritti e pessima sui temi sociali” ed è un’Europa imperialista, poco importa se da outsider o serie B (considerazione che spazza via d’un colpo tutte le chiacchiere su un’Europa “alternativa” in chiave anti-USA ma da union sacrée);
d) Veltroni (solo lui?) non equivale a Berlusconi, ma la “cultura” (solo la cultura o non anche gli interessi di classe?) sono gli stessi, e se “Berlusconi si scontra col conflitto sociale” Veltroni “lo vuole narcotizzare” (in realtà anche Berlusconi conosce l’arte del narcotico, così come Veltroni quello dello scontro, n.n.); quindi: “totalmente alternativi” al PD “permeato fino al midollo dal berlusconismo (..) indifferentemente dal fatto che comandi Veltroni o D’Alema”;
e) “Diffido dell’idea di avere una linea che pensa alle elezioni come punto principale. (..) Quello che conta è un percorso di lungo periodo sociale, ideale e culturale per riconquistare la fiducia della nostra gente, del nostro popolo”, al termine del quale – termine non significa però dopo, n.n.– “da leninisti dovremmo pensare addirittura (!) al problema del potere” (ma qui subito Rizzo aggiunge: “dati i rapporti di forza presenti oggi, non vorrei che qualcuno fosse tentato di chiamare il 118, prendendomi troppo alla lettera” (!!!): solo che i rapporti di forza si costruiscono in un dato senso tenendo fermo prima e sempre questo problema nell’agitazione “ideale” e nella pratica per...) .
Prendete sul serio tutte queste proposizioni, legatele ad un filo coerente ed avrete una discreta approssimazione ai temi del comunismo. Ma, vi avvertiamo subito, Rizzo da una parte sbarra le porte all’insidia borghese, dall’altra subito si affetta ad aprire una comoda finestra ad essa. Si comincia dal governo locale: dove “siamo determinanti per costruire le politiche dentro la coalizione di centro-sinistra” non è che “dobbiamo mandare tutto a catafascio”. Il concetto di midollo, come si vede, comincia a farsi piuttosto elastico. Ma poi, alla fine, si finisce per ipotizzare la stessa regola anche per “eventuali maggioranze di centro-sinistra” che “di fronte a forti partiti comunisti potrebbero ricever(n)e i voti” purché disposti “sul serio” ad attuare dei programmi consoni agli interessi di classe. Tutti i bei discorsi precedenti saltano per aria d’un sol colpo. La politica antiproletaria del PD non fa più parte della natura di classe di questo partito, ma si trasforma in un accidente emendabile: bastano dei buoni risultati elettorali “comunisti” per la cura del midollo infetto! Siamo alle solite. C’è sempre alla finestra una “borghesia progressiva” di togliattaiana memoria con cui procedere a “larghe intese” e “blocchi storici”. Dal cappello dell’illusionista doveva uscire la bomba del potere e sbuca fuori invece il classico coniglio. Il pubblico è avvertito.
Al Congresso di Rifondazione Ferrero ed i suoi hanno ripreso e persino sistematizzato teoricamente alcune delle tematiche di fondo accennate da Rizzo, con più di un’osservazione di fondo sottoscrivibile a livello di enunciazione teorica “in generale”, ma scontrandosi ancor più smaccatamente con l’indirizzo di base in senso pratico contrario del PRC. Solita prassi dei discorsi della domenica e della concreta attività lavorativa del resto della settimana. Lo vedremo subito.
Non ci soffermeremo a parlare della contro-mozione di Vendola. Essa (sostenuta da tutto il precedente staff dirigente) dichiaratamente volge le spalle all’”equivoco comunista” ed al soggetto sociale di esso, la “classe operaia”, data per residuale o scomparsa a pro’ di un “mondo dei lavori” in continua ridefinizione, dell’emergere di “nuovi soggetti” (a cominciare dall’indefinito “mondo giovanile” e giù giù) non ricollegabili a “pulsioni identitarie vecchio stile” (leggi: di classe), il tutto all’insegna del “metodo della non-violenza” (degli oppressi), “nuova grammatica dell’agire politico” (testuale). L’approdo indicato è, fumisticamente, quello di “nuove forme e nuovi contenuti dell’agire sperimentale” di cui il partito rappresenti, al massimo, “una traccia di lavoro” in progress.
In solido, si tratta semplicemente di aprirsi ad una “interlocuzione”, “una contesa di idee”, col PD non confondendo “autonomia con autismo”. E, a questo proposito, si ha addirittura la faccia tosta di ricorrere persino ad un Marx rovesciato a proprio comodo (visto che una tantum lo si deve pur nominare), mettendolo accanto a Togliatti! “Per una maggioranza di questo partito che ogni tre parole dice “comunista” bisognerebbe ricordare i classici. La necessità di alleanze coi borghesi di pagine marxiane e quel richiamo metodologico di Togliatti all’analisi differenziata” (dal Manifesto, 29 luglio). Un lettore del Manifesto ha così sintetizzato Vendola: uno che “parla un politichese incomprensibile e che pare una maschera di cera” (oltre non si poteva andare!). Naturale che questo genere di politichese, incomprensibile lessicalmente, ma chiarissimo nella sua sostanza, accendesse gli entusiasmi di quell’intellettualità alla Manifesto che non ha ancora avuto il coraggio di cancellarsi di dosso il nome di “comunista”, ma se ne vergogna come un cane e lo sente come un macigno improprio sulle spalle. Qualche riga tratta da articoli particolarmente velenosi con la nuova dirigenza di Ferrero ad illustrazione dell’arte del dire alatamente nulla per nascondere il nocciolo che non si osa dire: il tentativo di Bertinotti e poi Vendola è stato quello di “innestare sul tronco della tradizione del movimento operaio novecentesco (non solo comunista) un’innovazione all’altezza dello scenario del nuovo secolo” e cercar di “praticare l’innovazione nel vivo della contaminazione con i movimenti e le soggettività d’inizio secolo” (Ida Dominijanni, 29 luglio, con la raccomandazione a Vendola di evitare di “pensare che il deserto si attraversa con un equipaggiamento pesante, fatto di tessere, sedi, risorse finanziarie. Chi ama il deserto sa che è meglio andarci leggeri. Sa anche che è più popoloso di quanto si creda, e che si possono fare molti, imprevedibili e fortunati incontri”); “l’enfasi sul ‘comunismo’ (..) ha molto più a che fare con la società fordista della grande classe operaia e della borghesia nazionale che non con il panorama sociale (produttivo, naturale, dello sviluppo, dei poteri transnazionali...) del nuovo secolo”, coi “conflitti che effettivamente esistono, che hanno connotati talvolta irriconoscibili a una lente ‘comunista’” (Pierluigi Sullo, 31 luglio). Capisca chi può! Per intanto, accontentiamoci del clou della “dimostrazione” vendoliana del grado di tragica regressione imboccata dal “nuovo” PRC: “al governo del partito c’è Falce e Martello”, cioè addirittura quel... trotzkismo (supposto, purtroppo) che già i “classici” avevano condannato ad aeternum (da Stalin a Togliatti). Che “moderna” delicatezza!
Vendola, dopo aver invocato il 113 e non il 118 cui raccomandare Ferrero e i suoi, si accinge ora alla creazione di un’”area politica” –come c’informa ancora Sullo– denominata “Rifondazione per la sinistra, che si doterà di suoi mezzi d’informazione e di un tesseramento proprio” il che “dice che l’attuale partito in realtà sono due”. E dice anche dell’untuosa vigliaccheria politica di questa tendenza così come della mancanza di coraggio del contraltare, cui non conviene affatto tenersi provvisoriamente un nemico in casa degno soltanto di calci in quel posto: soluzione, questa, degna ed utile per entrambi i giocatori in campo, pena una comune squalifica per indegnità... sportiva. Staremo proprio a vedere la “gestione collettiva” del partito che il povero Ferrero assicura!
Prima di considerare nel merito la mozione 1, una “confessione”: noi consideriamo “umanamente” Ferrero e molti dei suoi come delle persone a modo e sinceramente attente ai “bisogni” proletari, delle persone individualmente pulite, aliene da esibizionismi personali, manie leaderistiche, personalistiche etc. (la differenza con un altro tipo di personale è abbastanza evidente). La nostra contestazione non sta su questo piano –lo diciamo per un certo ambiente abituato ai livori personalistici ed ai gratuiti insulti conseguenti–. Anche Turati, d’altra parte, era una brava, onesta persona, e in una sua storia del socialismo italiano G. Arfé nota come un Bordiga non abbia mai toccato questo tasto (a differenza di un certo Gramsci). Potremmo benissimo parlare di un “socialismo” in salsa valdese (visto che Vendola tocca anche questo tasto), cioè di una bella dirittura “morale”, che però non ha nulla a che fare col marxismo. Di questo serenamente, fraternamente, discutiamo.
Con Ferrero si sono trovati, al di là di incerti compagni di viaggio, compagni di base serii con cui merita discutere, pur da distanze in partenza abissali.
E veniamo, allora, al documento.
Di esso “ci piace” (prendetela con le pinze!) l’autocritica rispetto all’appoggio al governo Prodi: “Il punto fondamentale è che nel congresso di Venezia abbiamo sbagliato l’analisi dei rapporti di forza esistenti. Abbiamo creduto che la sinistra moderata fosse permeabile alle istanze sociali, mentre essa si è mostrata assai permeabile alle istanze dei poteri forti. Abbiamo pensato che le forze sindacali potessero svolgere un positivo ruolo di pressione, quando invece hanno svolto un ruolo di stabilizzazione del governo in diretta concorrenza con la sinistra”. Non basterebbe, né basta agli stessi estensori del documento. Non si tratta di un “incidente” casuale, ma di qualcosa di più profondo, che qui di seguito viene messo (parzialmente) in luce. “Dalla sconfitta non si esce semplicemente riprendendo il percorso interrotto prima del governo Prodi. In primo luogo perché oggi ci troviamo dentro la crisi della globalizzazione capitalista”. “Sul piano globale l’attuale fase di crisi (..) appare connotata dall’intreccio di processi che ci paiono così sintetizzabili: a) la crisi di un modello di sviluppo basato sulla presunzione di illimitatezza delle risorse (..) b) la ripresa della corsa al riarmo e la guerra preventiva permanente” con “unghie e artigli” più che mai affinati. In poche parole, al di là di una confusa esemplificazione, siamo alla crisi tra carattere sociale del lavoro ed appropriazione privata, Marx dixit, giunta ad un grado “estremo”. Buono il passaggio che segue: “L’elaborazione di una risposta adeguata alla crisi in cui versa la sinistra oggi non è possibile senza una risposta ai quesiti che nascono direttamente dalla chiusura dei cicli storici giunti a compimento nell’attuale fase di crisi della globalizzazione capitalistica. (..) La rifondazione comunista continua perché la contraddizione tra capitale e lavoro è strutturale a questo sistema”, perché “a fronte della crisi di un modello di sviluppo proteso simmetricamente allo sfruttamento dell’umanità e al saccheggio dell’ambiente mai come oggi è attuale la domanda di ‘cosa, come, per chi produrre’, la necessità di liberare la società e la natura dal vincolo della valorizzazione del capitale”.
Detto bene. Manca, “forse”, il richiamo alla rivoluzione dei rapporti esistenti, e ne comprendiamo il perché (natura socialdemocratica non facit saltus). Il famoso socialismo del XXI° secolo, da troppi inteso “alla Bertinotti” cioè regredendo rispetto ai criteri del socialismo scientifico, del marxismo, qui si dichiara, formalmente, in termini esatti: esso si darà come messa a frutto di tutte le battaglie anticapitaliste del passato giunte all’aut aut decisivo rispetto ad un capitalismo sempre più invasivo e soffocante. Non piace agli “innovatori”? Pazienza! “Proprio nell’attuale fase di crisi della globalizzazione capitalistica, in cui le politiche socialdemocratiche si rivelano inefficaci (ahi ahi, n.n.) perché subalterne al neoliberismo”(versione cattiva del capitalismo?, n.n.) va ribadita la prospettiva “alternativa” comunista, che tra virgolette (chissà perché?!) ha una connotazione “rivoluzionaria” (con o senza una vera rivoluzione?). Ci sta bene, comunque, l’affermazione –che richiama a qualche scantonata conseguenza– sulla “fine di una fase in cui lo sviluppo del movimento operaio e della sinistra si era intrecciato allo sviluppo economico, rendendo praticabili politiche ‘progressiste’ di stampo socialdemocratico”.
Ottimo! Salvo che ciò significa la condanna a morte delle formazioni politiche, anche “comunisticamente rifondate”, che nella fase precedente si erano intimamente intrecciate alle logiche del capitalismo. Dal dare conseguenza logica e reale a tali giuste affermazioni siamo però ben lungi perché si parte da una sorta di accredito dell’”intreccio” precedente quasi si trattasse di un normale percorso di fase. Per spiegarci meglio: Bernstein –quello del “movimento è tutto”– era “consono” ad una determinata fase per poi rivelarsi inadeguato rispetto alla successiva o non era sin dall’inizio il revisionista che preparava il “tradimento” successivo?
Ad ogni modo: sin qui abbiamo riassunto il meglio delle tesi presentate, saltando sopra, per comodità di analisi, alle contro-indicazioni disseminate nel contesto (salvo brevissimi cenni interrogativo-esclamativi qua e là). Se l’indirizzo del “nuovo” PRC fosse consono, anche solo in linea tendenziale, all’orientamento che da queste tesi parrebbe (e così purtroppo non è!) emergere, noi ne concluderemmo che ci si troverebbe in presenza di un utile terreno di discussione e confronto –ammesso pure che noi siamo dei pigmei numerici rispetto al gigante politicamente pigmeo PRC.
Non è così, se ne convincano per primi quanti nel loro partito vorrebbero ristabilire una linea comunista, sia pure a dosi omeopatiche.
Si dichiara chiusa la fine di un ciclo capitalista in grado di inglobare serenamente al proprio interno le istanze riformiste “concedendo” le famose briciole oppiacee alla classe sfruttata (e, a suo tempo, lo aveva detto anche Bertinotti quand’era innamorato dell’”alternativismo” no-global, “seconda potenza mondiale”!), ma poi si ipotizza una “politica” di “redistribuzione” di tipo lassalliano, cui mancherebbe solo, per realizzarsi, un peso specifico... elettorale “comunista”. Non si va oltre Leone XIII: un “giusto salario”, senza e contro qualsiasi ipotesi rivoluzionaria di classe. Il Bertinotti 2001 stava, a livello di chiacchiere –secondo il suo costume– più avanti: “L’Europa socialdemocratica –egli diceva– ha fatto una politica di destra. Oggi persino per riaprire degli spazi riformistici si deve ripensare una ipotesi rivoluzionaria. Oggi più che mai si impone una riattualizzazione del tema del comunismo”. Prodezze verbali e poi...Prodi nei fatti.
Si parla della “guerra infinita” e si arriva persino a condannare la subalternità ad essa del governo Prodi (ma, occasionalmente, dimenticando l’espulsione dal partito di chi se ne fece, come che fosse, tempestivamente carico in parlamento!), ma non si capisce se questo corso verso la guerra guerreggiata generalizzata sia un “accidente” imputabile al solo Bush o all’“inerzia” (!!) dell’Europa “alternativa” o non, piuttosto, un portato determinato ed impersonale del capitalismo cui opporre (non sia mai!) la nostra guerra di classe.
“Mai col PD, mai al governo col capitalismo!”, ma immediatamente si precisa che il nemico vero è il solo Berlusconi, in chiave esclusivamente italiota, e che al PD si rimprovera nei fatti non l’asserita omologazione con gli imperativi del capitale, ma la sua “inefficacia”. E, corollario: negli enti locali (per definizione di comodo “estranei” alle logiche generali capitaliste) il PRC è pronto a fare la sua parte... efficace in comune. Non sarà forse il caso della Calabria, rispetto alla quale il PRC ha “raccomandato” (inutilmente) ai suoi di dissociarsi da una congrega in odore di porcaggine (lasciando ai responsabili locali “autonomi” di andare per diversa strada!), ma questa sarebbe la linea generale in merito. Classico espediente alla Rizzo! Queste le parole usate: “fragilità del progetto politico del PD”, “debolezza del PD a guida veltroniana” (per le guide alternative si vedrà a suo tempo), linea “oscillante”, proposta “da un lato subalterna dall’altro minoritaria”. E noi? “Interlocutori di quelle parti del PD che si oppongono”. La “debolezza” di questo PD consisterebbe nel non sapersi bene opporre al berlusconismo (in tandem col PRC) o nell’incapacità di imporsi come progetto pienamente ed esclusivamente borghese, come pure qua e là, contraddittoriamente, si accenna nel documento? Se la sua linea si fosse rivelata maggioritaria a cosa non sarebbe stata subalterna? Mettiamoci bene d’accodo. E “quelle parti”? Di che si parla? Se si dicesse: vogliamo interloquire con la massa dei lavoratori che, anche per colpe nostre ben definite, è caduta provvisoriamente nella trappola, persino allontanandosi da noi nella speranza di un miglior “utile” immediato, allora saremmo d’accordo. Nel nostro infimo numerico anche noi reputiamo ciò essenziale. Ma qui si parla d’altro, di settori imprecisati di quel partito antiproletario che si presume o sogna di scostare dalla “linea...perdente” veltroniana.
Di più. Da un lato si proclama la centralità dell’antagonismo lavoro salariato-capitale e quindi la centralità del soggetto di classe, dall’altro si arzigogola in maniera assolutamente “modernista”, alla maniera dello stesso Vendola, sull’”autonoma pluralità” dei “vari soggetti conflittuali”, ignorando una volta per tutte il dettato di Franco Battiato: “Cerco un centro di gravità permanente”.
I proletari? Bene, nel senso però sopra espresso di uno sterile contrattualismo “redistributivo” (cosa che nulla ha a che fare col nodo del conflitto evocato). Di più: assieme ad essi e disgiunte da essi tutte le pluralità immaginabili. Il “conflitto capitale-lavoro”, nel documento, costituisce un paragrafo tra i tanti e mescolato a tanti altri, ognuno in qualche modo a sé stante: “I problemi e le lotte del lavoro costituiscono uno dei terreni per la ricomposizione di un nuovo (?) movimento operaio”.
Si legga, ad esempio, l’abominevole pasticcio linguistico sul tema femminile (punto centrale da sempre di ogni vera formazione comunista dentro il conflitto capitale-lavoro inteso nei suoi ampi termini, non sindacalisti). Qui si scrive: “Il movimento delle donne (dall’esterno ed esterno al partito, n.) ha rimesso al centro della politica nodi ‘tradizionalmente impolitici’, quali il rapporto tra i sessi, il rapporto tra personale e politico, il rapporto tra corpo e legge. La critica femminista ha messo a tema la critica all’ordine patriarcale (metastorico, n.), vero e proprio sistema proprietario e colonizzatore, fondatore di un tempo e di uno spazio (?!) non soltanto interpersonale ma anche sociale e simbolico (?!): ha svelato, dunque, la falsa neutralità del maschile e posto il tema della fondazione della politica sulla rimozione di uno dei due generi (?!)”. Una ripassatina all’Origine della famiglia etc. sarebbe d’uopo. Partendo dalle basi qui esposte si arriva logicamente all’ipotesi di un “partito bisessuato”, cioè diviso per generi (vedremo poi che di generi ce ne saranno altri, sino ad arrivare al “partito pentasessuato”!).
Noi crediamo all’opposto ad un partito di compagni, maschi e femmine, entro cui tutte le questioni, a cominciare da quelle “di genere”, siano di responsabilità comune di tutti (al che possono/devono essere funzionali sezioni specifiche: donne, giovani etc., sino ai lavoratori in quanto sindacalizzati compresi). Senza di che resteremo a forme di ghettizzazione dei problemi, magari dorate, ed alla riconsegna al sistema degli stessi frutti vitali, ma di per sé naturalmente parziali e fragili, dei “movimenti di genere”.
Una volta reso omaggio all’autonomia ed esternità del generico ”movimento delle donne”, non poteva mancare il resto di moda: “Si tratta di affermare una nuova comunità umana in cui l’omosessualità, il bisessualismo e il transgenderismo siano peculiari espressioni naturali dell’individuo e non motivi di esclusione sociale”. Nessuna esclusione sociale va per noi tollerata, questo è certo, anche se va notato che, in generale, questa tripletta non soffre più di tanto di essa ed, anzi, stia diventando molto di moda sul mercato, dalla TV (i “comunisti” all’Isola dei famosi!, altro che discriminazione!) sino ai...Lapo rampolli FIAT, mentre le isole di esclusione sempre più si riducono ad ambienti marginali, situazioni patriarcali etc. Noi, però, non pensiamo che una futura comunità sociale epperciò umana possa fondarsi su pretese scelte di una pretesa monade individuale fuori dalla storia e non scambiamo ciò che è individualmente, cioè storicamente, socialmente, culturalmente –nel senso più ampio– determinato con un “naturale” in quanto “libera scelta” individuale fuori da questo contesto. Annotiamo, in aggiunta, che questa ossessiva attenzione da parte di certa politica “comunista” per questi temi più che di una giustissima preoccupazione anti-discriminatoria porta i segni di una troppo assorbente frequentazione di determinati ambienti sociali assai lontani dall’...innaturalità popolare. Ad esempio, non ci sarebbe spiaciuto un capitolo chiaro sulla qualità umana da affermare contro il degrado attuale dei (rari?) rapporti interpersonali eterosessuali (la “generale prostituzione” di essi nell’attuale sistema secondo Marx: o si tratta anche qui di “peculiari espressioni etc. etc.”?).
La stessa logica per cui si mettono mille cose “diverse e separata” nel sacco per farne uno zibaldone si avverte rispetto ad altri temi su cui il programma... aprogrammatico del PRC va a frammentarsi.
Primo. Il “movimento altermondialista” al quale “strategicamente” si deve essere “interni” (questa l’abbiamo già sentita da nostri ex). Idem per il “movimento per la pace”, che, stranamente, viene messo per conto suo da un’altra parte. Per noi si tratta, in tutta evidenza, di movimenti esplosi in relazione ai disastri incombenti prodotti dal capitalismo ed a concrete manifestazioni di scontro tra le classi, sia pure senza un rapporto immediato e tangibile con esse. Questi movimenti, nella loro vitale spontaneità di partenza, nel loro altrettanto vitale inter od a-classismo allo stesso stadio (“è l’umanità che si muove, non una determinata classe”), hanno posto questioni centrali e posto basi concrete per il Partito. Ad esse gli “internauti” non hanno né voluto né saputo dar risposta. Di qui l’impantanamento (provvisorio) dei “movimenti” in questione, il loro rifluire numerico e di sostanza. A ciò si replica peggiorando la vecchia ricetta “alter”-bertinottiana. “Stare sempre più all’interno”, “rafforzare i contatti”, “costruire case comuni” etc. etc., e sarebbe logico dire: sciogliamoci nei movimenti. Solita vecchia demagogia anti-partito.
Secondo punto. La “solidarietà internazionale”, vista sotto questa luce, non può concludersi che con un insipido inno a “movimenti come quello zapatista, indigenista e bolivariano, che oggi costituiscono una speranza non solo per i rispettivi paesi, ma anche per riaprire una prospettiva di un ‘socialismo del XXI° secolo’ segnato dalla democrazia partecipativa e dal rifiuto della guerra”. Il tentativo effettivo di proletari e borghesi “nazional-rivoluzionari” di sottrarsi alle leggi dell’imperialismo nei rispettivi paesi pone una volta di più all’odg l’azione del partito mondiale per sottrarlo alla “guida” democratico-borghese in chiave internazionalista, di rivoluzione permanente e guerra alla guerra contro il capitalismo internazionale. Qui siamo all’esatto contrario: neppure “socialismo”, ma “democrazia” in ogni singolo paese in vista di una generale riforma “democratica” del sistema. Riformismo puro, e neppur tanto armato. (Tra parentesi: e come mai non si dice nulla sui movimenti di resistenza armata all’imperialismo in atto in Iraq, in Afghanistan, in Libano etc. etc.?). Tradotto in termini rispettivamente nostri, italiani ed europei: “L’Europa appare divisa e subalterna all’amministrazione Bush” (come il PD rispetto a Berlusconi) e noi, senza assolutamente arrivare nemmeno alla dichiarazione di principio di Rizzo (l’Europa è imperialista di suo!), proponiamo “di guardare al Mediterraneo e di lavorare per favorire i processi di pace nella regione”, il che “significa pensare al meticciato (!!!, nuova categoria “marxista”, n.) come prospettiva avversa alla paura e agli odi, e ad una Europa non atlantica (ma di “europei brava gente”!, n.), modello di convivenza radicalmente alternativo a quello dello ‘scontro di civiltà’” (cazzata enorme cui si riduce l’azione del capitalismo, naturalmente USA in esclusiva!). Nell’area del Mediterraneo, pensate un po’!, si tratterebbe di uscire “dalla dicotomia fra l’ipotesi integralista religiosa e quella del disegno nordamericano”. I nodi di uno scontro planetario tra classi e tra stati a tanto qui si ridurrebbero: religiosi fanatici da una parte (con ebeti masse popolari al seguito religiosamente stordite) e cattivi USA che ci tagliano fuori dal gioco. E noi, “alternativisti” europei a chi, allora, ci rivolgiamo in loco? Alle “forze della società civile e della sinistra in Palestina, in Israele, e in tutta l’area”. A queste forze abbiamo già preso le impronte digitali e sappiamo bene di cosa si tratti!
Terzo. Per conseguire questo bel po’ po’ di risultati, il metodo è sicuro: quello della bertinottiana (gandhiana e... pannelliana) “non violenza”, elevata, senza troppe opposizioni interne, a “sistema” nel PRC qualche anno fa. Leggiamo integralmente il paragrafo in questione, la cui neo-lingua lasciamo ai lettori decifrare: “Noi vogliamo contribuire a costruire e far vivere un’idea della nonviolenza come teoria e pratica di lotta: come forma attuale di costruzione dell’egemonia e come critica dei rapporti violenti di potere tra le persone (tipo “persona” Bush e “persona” Cipputi, n.), lontana tanto da un qualsiasi assoluto metafisico quanto dalle versioni che la assumono con un metro eurocentrico con il quale giudicare il mondo (..) la forma intrinseca dei processi di trasformazione (per armonici passaggi riformisti, n.) della società; disobbedienza (disarmata, n.) dinanzi al potere di classe e al patriarcato (accoppiata completa!, n.); rifiuto della guerra (tramite petizioni e referendum?, n.) e delle pratiche terroristiche di annientamento di sé per uccidere l’altro (classica questione “personale”!, n.)”.
Un piccolo spiraglio è lasciato aperto alle manifestazioni di lotta non precisamente nonviolente, purché... fuori dall’Europa. Un marxista come Trotzkij avrebbe, ha, detto: la cosiddetta democrazia nonviolenta è appannaggio interno delle potenze imperialiste affluenti che, per certi periodo, possono ingabbiare la propria classe antagonista; il che, all’esterno, si fonda su lacrime, sangue e catene a dosi moltiplicate. La via d’uscita? Il collegamento tra proletariato di qui e proletariato e classi oppresse di là per far saltare violentemente la gabbia divisoria ed il sistema. Tutto molto fisico e mondialcentrico.
Quarto (andiamo disordinatamente, ma così come è disordinato il documento, anche se con una sua precisa filigrana continua). Scopertissima dell’”ecologia sociale”, zampettando tra vaghi riconoscimenti che finché resta in piedi questo sistema c’è ben poco da ecologizzare e ricettine di buon uso e riuso dei beni comuni. Ma subito ci troviamo di fronte ad una cosa curiosa: la critica al capitalismo si fonda su quella di un imprecisato “sviluppismo” che verrebbe a collidere con la crescente “limitatezza delle risorse”. Questa è la base “teorica” dei vari Chiesa, Bocca, ecologisti e cattolici –tutte persone anche serissime, ammettiamolo–, promotori di una sorta di “socialismo morigerato ”reso obbligatorio dall’esaurirsi degli stock produttivi: “crisi di un modello di sviluppo basato sulla presunzione di illimitatezza delle risorse”. Presumere l’autopensionamento del capitalismo su queste basi è pura follia onirica. La critica alla follia iperproduttiva per il profitto è certamente essenziale, ma quando non si fermi alla contabilità ragionieristica delle risorse a disposizione della “società” (categoria di cui il capitalismo altamente s’infischia) e non arieggi ad una sorta di tavole rotonde attraverso cui gestirle “compatibilmente”.
Quinto (cerchiamo da qui in poi di sbrigarcela più di corsa). Il problema del Sud: l’arretratezza di quest’area ha portato, oltre che a condizioni di sofferenza sociale diffusa, al dilagare delle mafie che, però, “non sono fenomeni gangsteristici legati a nicchie di arretratezza dello sviluppo, ma intreccio tra economia legale e illegale come segmenti di accumulazione, dei processi di valorizzazione del capitale”. Se capiamo bene: le mafie come altra faccia –consustanziale– del capitale (a confini, di logica conseguenza, planetari), “spesso sostituendosi allo Stato nell’erogazione di ‘servizi’ e mediazione sociale”. Soluzione (contraddittoria in termini): più Stato, più economia legale, “selezionare gli investimenti per l’industria innovativa” (della quale, vedi quanto scritto sopra, i segmenti mafiosi sanno fare bene la loro parte). Il ragionamento non torna, ma l’ideologia da Cassa del Mezzogiorno funziona a dovere. C’è anche un capitoletto sulla “questione sarda” in cui si mescolano le recriminazioni contro la “funzione militare” imposta all’isola in spregio all’”innovazione industriale” e la rivendicazione del classico autonomismo sardo, forse a memoria di Gramsci che ne teorizzò l’uso (però, sia pur malamente, per indebolire il capitalismo nazionale centralizzato). Fosse anche esatta l’analisi sulla preminente od esclusiva funzione militare appioppata alla Sardegna non si capirebbe come questo disegno, per sua natura consono ad interessi globali, centralizzati, possa metter capo ad “un progetto specifico per la Sardegna”, tipo Cassa Sarda. Disegno capitalistico globale, “soluzione” riformista locale, separata. Siamo ancora una volta alle solite.
Tralasciamo altri aspetti (su cui, come nei precedenti, la denunzia degli effetti del capitalismo non suona sempre male ed è, anzi, talora precisa ed efficace) e veniamo al dunque, che conferma tutto il discorso fatto qui sopra.
Occorre un partito più forte, più radicato nel sociale. Benissimo. Ma da dove si parte, e non si va avanti? Dalle “situazioni locali” su cui fissarsi e da cui non staccarsi. Il riformismo classico dei bei tempi pretendeva, perlomeno, di cambiare per pacifiche tappe progressive l’insieme. Qui siamo alle autonomie, al riformismo delle singole casette in proprio. Con quale partito? Un partito “innovativo” che... non sia più tale secondo i “sorpassati schemi del passato”. Dopo tutta una filippica sulla burocratizzazione, il superamento degli apparati, l’”inclusione” democratica di “chi non è dentro le logiche (!!??) di partito”, di per sé perverse, si arriva al nocciolo: organizzare lotte territoriali “nello spazio della quotidianità” locale, nella “consapevolezza dei limiti della forma-partito”. Basta con una logica “fondata esclusivamente su base ideologica e simbolica” priva di “apertura ai movimenti”. Un partito-non/partito, in breve.
Saremmo degli sciocchi se negassimo il valore di ogni e qualsiasi moto locale, ma o tutte le “singole questioni” si riallacciano ad un quadro sistemico d’insieme e, quindi, costituiscono il necessario volano di ricentralizzazione del movimento antagonista generale oppure esse rimangono fatalmente chiuse e perdenti entro il proprio ridotto locale (non occorre citare tutti gli esempi recenti in merito: ognuno faccia da sé). E, su questa base, più che mai –a misura che il capitalismo si concentra e centralizza– noi abbiamo bisogno di uno strumento eguale e contrario in questo senso: il Partito. Altro che “ideologia e simboli”!: qui sono in causa teoria, programma ed organizzazione all’altezza della supersfida globale. Su questo punto nodale la distanza da Vendola è praticamente inesistente. Ne dovrebbe essere contenta la “scrittrice” del Manifesto, quotidiano ex-“comunista”, che scrive: “la politica continua ad appassionarmi ancora proprio perché mi tengo lontana dalle sedi di partito”. “La politica è mia e me la faccio io” (prossima uscita a dispense presso Hobby and Work).
Può darsi che tutto questo discorsetto antipartito della “nuova” dirigenza PRC appaia giustificato dalla (giusta) esigenza di opporre realtà conflittuali alle “bandierine”, e in questo senso suona come avvertimento dissuasivo nei confronti di quella sorta di breznevismo preagonico del PdCI (sempre fatta salva la buona disponibilità di molti dei suoi militanti). Serve effettivamente un logo “comunista” se poi ad esso corrisponde il vuoto? Ma proprio questo vuoto chiede di essere colmato, e non lo sarà mai con le acrobazie movimentiste-localiste (il “radicamento territoriale” invidiato alla Lega!) senza teoria, senza programma, senza organizzazione di partito.
Per intanto, vediamo sempre più le sparute bandierine di Rifondazione agitarsi alla coda di altri “protagonisti”, tipo l’esecrabile Di Pietro e le sue masaniellate alla Piazza Navona (compresa la disgustosa esibizione della Guzzanti non tanto contro il Papa quanto contro il popolo bue che continua a seguirlo dimostrando di non essere alla sua altezza intellettuale). Ci dovremo aspettare la sua “riscossa” in Abruzzo? I giochi per rientrare nel gioco...parlamentare paiono tutti, al momento, di questo segno: c’è un posto anche per noi? Quale che sia la barca ospitante poco importa. Noi crediamo che su questa strada si andrà all’ulteriore e definitiva sparizione di un materiale umano, di compagni, che sommamente ci interessa. Il nostro invito ad essi è quello di non lasciarsi attrarre nel gorgo nell’illusione di recuperare il peso perduto, ma di tirare finalmente le somme di una lunga vicenda di disastri che, partendo dallo stalinismo all’italiana del vecchio PCI, hanno via via portato al “superamento” del marxismo tout court. Si diceva un volta: ”non buttare il bambino con l’acqua sporca”. Non vorremmo, ora, che si buttasse il bambino per tenersi l’acqua sporca.
Ad maiora!
13 settembre 2008