nucleo comunista internazionalista
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Un volantone distribuito nel LUGLIO 1995, di grande attualità


COMPAGNI DI RIFONDAZIONE,
COSA SERVE ALLACLASSE OPERAIA:
UN VERO PARTITO COMUNISTA O UNA RUOTA
DI SCORTA DELLA “SINISTRA” BORGHESE?

Molti militanti di Rifondazione vorrebbero sinceramente -e giustamente- costruire un argine alla deriva sotto-riformista del Pds e dei garaviniani. A loro ci rivolgiamo per discutere se la linea politica del loro partito serve davvero a costruire quell’argine, o se è tutt’altra la strada da imboccare. La prendiamo alla lontana, ma non per fuggire dal tema...

Alla vigilia della prima guerra mondiale e nel dopoguerra i partiti socialisti riformisti si dichiaravano socialisti a tutti gli effetti, fieri avversari del capitalismo e, all’occorrenza, pronti persino alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato. Ciò quanto a fini ultimi. L’azione concreta, immediata era tutt’altro, ma, si giurava, in perfetta lealtà con quelle finalità.

Alla prova dei fatti, si dimostrò che la pratica riformista aveva contaminato non solo la tattica, ma strategia, programma e principi stessi; che era entrata in contraddizione mortale con la dichiarata fedeltà alle finalità socialiste e che queste, prima ridotte a mò di predica domenicale, sarebbero state, prima o poi, apertamente abiurate anche sul puro piano verbale.

Non corre lo stesso rischio anche il PRC?


Elettoralismo, elettoralismo, elettoralismo.

All’atto della fondazione, il PRC dichiarava di voler reagire con fermezza contro l’“inspiegabile” scivolata liberale del PDS, per la riaffermazione, anzi: la rifondazione, del comunismo. Il presente periodo storico, si diceva, non si presta più a operazioni riformiste, figuriamoci poi a quelle liberaldemocratiche; più che mai lo scontro in atto era tra due sistemi e classi antagonisti, capitalismo e socialismo, borghesia e proletariato. Tutto in regola, a parole, con un certo Manifesto di un tal signor Carlo Marx.

A questo richiamo ai fini ultimi si accompagnava, fin dall’inizio, la difesa della “gloriosa tradizione riformista” del vecchio PCI. Si pensava di poter beneficiare dell’eredità di quella tradizione in termini di “stabili conquiste” ottenute “grazie alla democrazia” e “nell’ambito del sistema”. Da quella esperienza derivava una fiducia profonda nei meccanismi della contrattazione democratica, parlamentare, sindacale (...in una parola: riformista!) quali unica garanzia dell’eternità di dette conquiste e del loro ulteriore sviluppo.

La proclamata antitesi tra comunismo “rifondante” e liberalismo pidiessino aveva la prima “prova del fuoco” con le elezioni del 27 marzo ’94. Il PRC aderì al blocco elettorale di sinistra per sconfiggere la destra. Mai che fosse passato per la testa che l’epicentro della lotta reale, per il potere reale, stesse fondamentalmente fuori dal gioco elettoral-parlamentare, e implicasse uno schieramento dl classe, un fronte unico di classe, e non di votanti e relative schede, e che su questo si potessero e dovessero misurare i coefficienti di forza (ideale e materiale) dell’esercito comunista Non si tratta di due strade insieme percorribili, ma di due percorsi divergenti e opposti. II PRC concluse invece: se ci astraiamo (elettoralmente) dal blocco della sinistra rischiamo di scomparire come forza reale in grado di rappresentare (elettoralmente) i “bisogni del proletariato”.

Per l’appunto: il riformista ha nella democrazia parlamentare il suo ossigeno e non può uscire di lì misurandosi decisamente sul terreno di classe. Non si conoscono ancora esempi di partiti comunisti a carattere anfibio.

La vittoria elettorale del “polo” ha ulteriormente complicato (o chiarito...) le cose. Cioè: mentre il blocco capitalista di destra, raccolte sul terreno elettorale le forze di uno schieramento antiproletario affermatosi nella società prima che nel voto, le scagliava contro il proletariato in un’azione di offensiva materiale senza precedenti, il PRC veniva a concepire la via della risalita secondo i canoni di una contro-offensiva elettorale basata principalmente, per non dire esclusivamente, sui coefficienti di una allargata unità elettorale della “sinistra”. Le stesse mobilitazioni proletarie -come quella dello scorso autunno- dovevano servire da sgabello per questa soluzione “alternativa”.

Niente di strano, perciò, che ci si sia imposti, di non “trascendere i limiti” della mobilitazione proletaria contro la finanziaria, di subordinarla alle future e senz’altro vincenti manovre elettoral-parlamentari; insomma, di non essere troppo esclusivisti, settari, troppo... proletari, troppo comunisti. Altrimenti addio futura presidenza del consiglio “progressista”.

Non era finita lì. Il governo Berlusconi veniva dimissionato non dall’azione di piazza (nessun “capo” lo voleva) nè da una limpida crisi di governo e successive elezioni, ma dall’improvvisa sortita della Lega. Col che si aprivano le porte a una soluzione “antiberlusconiana” di ricambio. Per il PDS tutto era ben chiaro: una palla da cogliere al balzo; per arrivare al governo ci si allea anche col diavolo e sua suocera. Se la destra va contrastata sul piano elettoral-parlamentare, ogni alleato torna buono. E dal momento che il serbatoio elettorale cui attingere è quello di “centro”, non resta che cercare di occuparlo prima di qualcun altro. Discorso lineare, coerente, quando si escluda dal proprio orizzonte la lotta di classe, il socialismo, e ci si misuri “concretamente” con le esigenze del capitale e le richieste della “base popolare” che si esprime nei voto.


Al centro, al centro, al centro.

E’ così spuntata la soluzione “alternativa” Dini. Il PRC, dati i suoi persistenti e ben fissi legami con la classe operaia, mal poteva digerire questa provocazione. Poteva rispondervi ritrovando una inequivoca strada di classe, comunista?

Il PDS virava verso il centro -e con fastidio crescente per l’ala “estrema” di Rifondazione-. Più il PDS inseguiva il centro, più il PRC si affannava a rincorrere una fantomatica alleanza con esso e con tutti gli altri soggetti “disponibili” per una “vera alternativa progressista”, supportata anche da forze di “centro progressista”. Su quale terreno? Quello di sempre: del voto, del parlamento, del governo. A esclusione di che? Del solito deprecabile o inutile fantasma: l’autonoma lotta di classe, un reale fronte unitario del proletariato su base extraparlamentare.

Rispetto al PDS, il PRC si colloca senz’altro “più a sinistra”, quanto a intenzioni, o anche in sporadici e incoerenti esempi immediati d’azione. Ma ciò vale poco allorchè si accettano determinate fondamenta la cui conseguenza ineluttabile sono le stesse conclusioni del PDS.

E’ successo così che sono emerse nel PRC delle tendenze a sciogliere “in positivo” i nodi lasciati irrisolti dai suoi atti costitutivi nel senso di una chiara e aperta confluenza nel “blocco progressista”. Prima Canfora (per il quale Bertinotti è nientemeno che un redivivo Bordiga), poi la federazione toscana federata nel “blocco progressista” (con l’imprimatur di Bertinotti e Cossutta), poi Garavini... E, bisogna dirlo, tutti costoro sono, nella strada destrissima che hanno imboccato, i rappresentanti più coerenti della linea di fondo del PRC, coloro che indicano al partito l’unica strada conseguente da intraprendere qualora da questa linea non si voglia abdicare (ciò che richiederebbe una globale reinversione di rotta, con tanti saluti all’“eredità di Togliatti e Berlinguer”).

Mentre le forze politiche borghesi si stanno concentrando in due blocchi complementari al centro (secondo il ben collaudato sistema americano) e mentre questi due blocchi sempre più apertamente escludono da sé ogni condizionante presesenza proletaria, il PRC, per non perdere la corsa, si aggrega alla carovana del liberalismo di “sinistra” come sua ruota di scorta, visto che per esso non c’è posto a sedere. Tanto vale, allora, la coerenza di un Garavini!


Che si fa con Prodi?

Lo scoppio dei petardo Prodi ha acuito i problemi del PRC.

L’ex-maneggione dell’IRI si propone come leader di uno schieramento di centro moderato con spruzzatina progressista per battere Berlusconi. La sbracatura della “sinistra” che sostiene l’operazione si fa ancora più evidente: non solo si corre sempre di più verso il centro, ma si rinunzia persino a proporre un proprio leader di riferimento; contro Berlusconi va bene quel Prodi che ne aveva approvato il disegno taglia-pensioni, rimproverandogli, anzi, i cedimenti in materia. Quest’operazione mira dritto a porre fine alla stessa “separatezza” della compagine progressista organizzata, in vista della costituzione di un super-partito liberal all’americana (tanto che il boy Veltroni è stato subito arruolato come vice).

Ben peggio che l’appoggio esterno a Dini. Qui siamo alla partecipazione interna all’opera di smantellamento sin delle ultime vestigia di un qualche connotato di organizzazione “di classe” indipendente. Dubitiamo che Prodi possa farcela a diventare il Clinton Italiano, ma sappiamo benissimo che cosa ne deriverà per il fronte di classe.

E Rifondazione? Al centro-sinistra propone un patto solo “politico-elettorale” anti-Berlusconi. Dentro potrebbe starci la stessa Lega, contro cui, in passato, s’erano dette a puntino le cose che andavano dette, ma, data la sua indispensabilità parlamentare ed elettorale, viene, oggi, collocata tra le forze “democratiche” candidabili al “fronte di resistenza”. In questo modo si conta di contribuire a sconfiggere la destra sul terreno elettorale, a garantirsi una rappresentanza parlamentare, senza, però, impegnarsi nei programmi governativi “moderati” di Prodi.

Difficilmente il professore accetterà un simile patto, ben sapendo di poter puntare ai voti del PRC senza cedere alle sue condizioni. In caso di liste isolate del PRC, infatti, buona parte del suo potenziale elettorato sarebbe sicuramente attratto dal “voto utile” al governo di centro-sinistra, secondo la logica del “meno peggio” rispetto al “peggio del peggio” rappresentato dalla vittoria della destra Non è, d’altronde, la stessa politica del PRC già abbondantemente condizionata dalla logica dei “meno peggio”? Perchè stupirsi se l’elettorato l’applicasse fino alle estreme conseguenze?

Per evitare una completa debacle elettorale a Rifondazione non rimarrà che edulcorare le condizioni poste riducendole alla richiesta di essere almeno lealmente accettata nel salotto buono liberal con Bertinotti a fare il Jessie Jackson italiano (costa nulla -paga il proletariato-, rende molto ... al nemico).

Ma quella logica non produce effetti disgregatori solo sul terreno elettorale, ma soprattutto su quello, ben più decisivo, della tenuta dello stesso movimento di massa. La vicenda delle pensioni lo dimostra in questi giorni. Da un lato si invoca la mobilitazione di piazza contro la riforma e si denuncia il senso anti-operaio delle forze vhe la sostengomo; dall’altro si inseguono queste stesse forze per realizzare il blocco elettorale. Da un lato si criticano i sindacati per non aver raccolto i “no” espressi nel referendum, dall’altro si lascia intenderer che questa raccolta possa farla il Parlamento, accreditando le forze (o parte di esse) ivi rappresentate di una sensibilità pro-operaia maggiore di quella di CGIL-CISL-UIL.

Questa doppiezza diffonde, inevitabilmente, confusione e sfiducia nello stesso movimento di lotta e, invece di aiutarlo a estendersi e potenziarsi, lo induce a disperdersi (peraltro la stessa impostazione data dal PRC al movimento contro la riforma come lotta dei soli operai del “no” ne aveva condizionato fin dall’inizio gli esiti: come poter prevalere senza neanche l’unità di lotta dell’autunno? Come poter ricostruire questa unità se non si comprendono le tante disponibilità alla lotta contenute anche in molta parte del “si”?)

Insomma proprio nel momento in cui si fa -con Prodi- un ulteriore passo verso lo smantellamento dell’organizzazione distinta del proletariato, all’intento di Rifondazione si abbassa ulteriormente il livello di guardia persino rispetto a quello eretto contro la costituzione del governo Dini.

Non diciamo che il PRC potrà percorrere sino in fondo questa strada perché non sarà facile per esso gettar via il proprio patrimonio militante di classe -che è l’unico motivo della sua stentata sopravvivenza-, tanto meno in cambio di un pugno di mosche o addirittura di una messa nell’angolo. Ma, intanto, il possibilismo “concretista” di un Bertinotti più garaviniano di Garavini concorre e smobilitare dall’intemo la stessa forza di cui si dispone e al momento della resa dei conti (allorché si dimostrerà a tutti la linea di collisione tra il programma... proditorio e le esigenze antagoniste del proletariato) sarà ben difficile ripartire all’attacco. Che, in ogni caso, com’è nella natura del riformismo, mirerebbe, in un interminabile via crucis, a ricostituire le condizioni delle “più ampie intese (a perdere) a sinistra” su un terreno non solo minimale, ma impraticabile.


E con l’imperialismo?

Quest’impotenza di Rifondazione nello scontro di classe in Italia fa il paio con la sua nullità sul piano di una politica realmente internazionalista. Certo, i vertici di Rifondazione denunciano le “ingiustizie” e la “barbarie” del nuovo ordine mondiale. Ma guai a tentare di cambiarlo con gli unici mezzi con cui può essere cambiato: e cioè la lotta rivoluzionaria degli sfruttati contro l’imperialismo! Per Rifondazione la via da seguire è un’atra: l’intervento democratico di una nuova ONU democratizzata, capace di contenere le “pretese di dominio” delle grandi potenze. Come se queste pretese derivassero dalla cattiva volontà di qualche governante e non dalle leggi di funzionamento del capitalismo internazionale. Come se queste leggi potessero essere superate con le prediche e gli appelli agli uomini di buona volontà invece che coll’unico mezzo della violenza rivoluzionaria degli oppressi contro la violenza contro-rivoluzionaria degli sfruttatori. Come se per mettere il pupo (imperialismo) a dieta vegetariana bastasse che tutti noi, “cittadini del mondo”, democraticamente “ci pronunciassimo”!

L’adorazione del feticcio della democrazia: questo è il riferimento di Rifondazione non solo in politica interna ma anche in quella internazionale. Se qui da noi questo significa nei fatti rinuncia della rivoluzione socialista, in campo internazionale esso porta i vertici del PRC a evitare di dare pieno e incondizionato appoggio alla lotta dei paesi oppressi e/o dominati dall’imperialismo che vengono, semmai, invitati a non resistere... se non nello spirito e ad aspettare la loro liberazione dalla riconversione democratica dei loro oppressori.

L’esempio più clamoroso dell’ incapacità di Rifondazione di porsi su basi marxiste è offerto dal vicino caso-Jugoslavia. Oggi si recrimina per l’“intromissione” destabilizzante germanica “con il riconoscimento precipitoso della secessione croata e slovena” (cui -sia detto per inciso- Rifondazione dette il suo “precipitoso” appoggio), ma non si traccia neppure un abbozzo di lotta, lì e qui, di ricomposizione proletaria e rivoluzionaria contro lo scempio in atto. Ovvio: è una questione da affidare da un lato alla “generosità” -per noi alquanto sospetta- dei “beati i costruttori di pace”, dall’altro a una “veramente democratica” polizia internazionale onuista. Si caccia dalle stanze del castello il fantasma dell’internazionalismo proletario, ma solo per introdurvene degli altri, che proprio fantasmi, in verità, non sono...

Notiamo, inoltre, che mentre si spara a zero contro il rinascente pericolo tedesco, secondo una vecchia e consolidata tradizione secondo-risorgimentale, ben poco si dice dell’imperialismo Italia, che, semmai viene toccato, è quasi più per dire del suo carattere “subordinato” alle maggiori potenze che per evidenziarne i caratteri, ove anche fosse, non meno imperialisti. Altra voce fantasmatica del passato di cui ci si “dimentica”: “il nemico principale è in casa propria”.

O dovremo di nuovo raccogliere dal fango le bandiere lasciatevi cadere dalla borghesia per “liberare” la nostra patria ed offrirle il “posto al sole” di cui una più forte concorrenza ci priva? Il passo verso il socialsciovinismo imperialista è breve...


Avrebbe ben ragione di protestare la sinistra del PRC qualora essa fosse in grado di indicare con chiarezza una controlinea. Ma quest’ ultima non si fa piantando dei paletti di cartapesta puramente formali, bensì demolendo da cima a fondo la logica riformista che costituisce la “tradizione” e l’essenza stessa del PRC.

E’ troppo sperare che dalle fila di Rifondazione, in cui militano tanti generosi compagni, si sollevi difronte a questa deriva un moto di ribellione e uno sforzo di ripensamento teorico-programmatico e organizzativo verso il comunismo autentico?

E’ quello che ci auguriamo ed è quello per cui lavoriamo con coerenza e continuità, pur con le nostre esigue forze organizzate, nella prospettiva della ricostituzione del vero partito internazionale comunista.


ORGANIZZAZIONE COMUNISTA INTERNAZIONALISTA