Riceviamo e “ritrasmettiamo” sul nostro sito la segnalazione di un video-appello di uno dei capi militari dei cosiddetti “secessionisti” ucraini di Novarossija (titolato «Mozgovoi “Questa tregua non è ciò per cui abbiamo combattuto”», pubblicato su youtube all’indirizzo http://www.youtube.com/watch?v=KlT4KGgVGKc#t=174) per i notevoli motivi d’interesse che esso presenta per “farsi un’idea reale” su ciò che accade “lassù”. E confidiamo in partenza che a nessuno venga in mente una sorta di qualche consonanza (occulta o meno) tra noi e il protagonista del video suddetto; più difficile sperare che ci si mediti senza pregiudizi “distanziali” per imparare qualcosa (con tutti i paletti del caso che si potranno e dovranno porre).
Prima constatazione (e positivissima questa): nel video non appare in alcun momento un atteggiamento di contrapposizione nazionalistica agli “ucraini”; al contrario, il “popolo” ucraino viene considerato come compartecipe-vittima degli stessi problemi sociali e politici che affliggono il “popolo” russofono. Nessun accenno a sciovinismi “grande russi” contro gli ucraini e persino, anzi, inviti ad una fratellanza tra oppressi. Il male comune di cui i due “popoli” soffrono viene individuato nel grande affarismo, l’arraffa-arraffa dei nuovi capitalisti, nella violazione sistematica di ogni dorma di “legalità” etc. etc., e di ciò anche l’emersione di partiti (militarizzati) apertamente fascisti rappresenta il necessario volto politico. Per questi motivi, si afferma, molti ucraini mandati contro di noi o disertano o passano dalla nostra parte (evidentemente non in quanto “russi”, ma in quanto oppressi dal regime C di volta in volta – vigente a Kiev.
Tutto ciò è, se vogliamo, “molto bello”, ma ne emergono subito i punti deboli.
Primo: alla peste che imperversa in Ucraina si oppone, al massimo, un “ideale” di legalità e giustizia sociale sulla base di una “sana amministrazione” dal basso che, dalle nostre parti, si chiama buffonescamente il “bene pubblico”, cioè quel che ci passa il capitalismo e di cui noi saremmo chiamati ad essere i curatori... privati. Nessun anche minimo accenno ad un programma antagonista di classe, ma il solito corporativismo “sociale” della compartecipazione “democratica”. Il tutto con qualche richiamo nostalgico al passato statalista sovietico, sia pure riveduto e corretto (posizione, per altro, comune alla gran parte dei sinistrissimi al tempo del “fatale” ’89 in URSS, sia endogeni che esogeni – trotzkisti in prima fila –). La lotta contro i “pescecani”, che, di per sé, costituisce certamente un punto di partenza positivo, si rivela con ciò priva di nerbo e contenuti all’altezza della situazione.
Secondariamente: ciò che accade in Ucraina appare lì confinato e non si vedono i nessi tra pescecani locali e super-pescecani imperialisti che ne reggono i fili. I problemi ucraini sono, evidentemente per noi, legati a questa ferrea struttura imperialista e non un “fenomeno locale” che possa essere localmente affrontato e rimosso. Tutto ciò induce i nostri “interlocutori” ad una pura rivendicazione “democratica”, quando, invece, dovrebbe essere sollevato internazionalisticamente il vessillo della lotta rivoluzionaria contro le... “democrazie” imperialiste (con rispettivi quisling locali al seguito). Poroshenko sarebbe il problema? O non lo sarebbero le “democrazie occidentali”, con Obama capobastone, che dà gli ordini (ed i mezzi anche militari) perché essi siano rispettati? Il famoso “fascismo ucraino” non è che il cane da guardia di esse democrazie.
In terzo, e decisivo, luogo: se, come reiteratamente si afferma, i temi della lotta contro le “cricche” di Kiev sono comuni agli oppressi tanto russofoni che ucraini, perché non viene lanciato un appello ad una lotta comune, non “secessionista” per principio, ma fraterna, di classe in grado di collegare i “due fronti nazionali”? Qui ci si limita a dire: noi, russi, combattiamo una battaglia che riguarda anche voi, ma su fronti diversi e necessariamente distanti, se non opposti.
Con ciò non viene messo in causa il “diritto all’autodeterminazione” dei russi di Ucraina, che resta intatto al di là del corso degli eventi, ma esso va posto come dev’esserlo dal nostro punto di vista comunista, senza di che esso resterà una beffa (per gli uni come gli altri).
La Russia di Putin appare meno “secessionista” di questi “filorussi” per i propri interessi nazionali borghesi (e di questo sembrano accorgersene i nostri che rifiutano un “processo di pacificazione” che si svolge sopra le loro teste, ma deviando totalmente quanto ad un programma “alternativo”). Eppure anche qui il fronte di classe da noi evocato andrebbe altrimenti svolto col rivolgersi anche e principalmente ai “fratelli russi” di Russia nei nostri termini affinché i comuni problemi sociali che ci affliggono comportino una comune lotta all’imperialismo che ci aggredisce dall’esterno e, proprio a tal fine, una lotta contro la “nostra” borghesia russa.
A queste condizioni vale
il nostro appoggio alla lotta dei “secessionisti russofoni” cui domandiamo di... non secedere. E qui
sta il senso vero di quello che certi compagni chiamano il “disfattismo rivoluzionario” (“né con
Kiev né con Mosca”... dimenticando USA e soci, anche nostri), che diventa invece una triste
boutade allorché si riduce il quadro ad un contrasto (locale?) tra bestie di Kiev ed
“imperialisti” moscoviti con (nostro) diritto ad astenercene. I comunisti rivoluzionari
certamente non si accodano a Mosca, da cui non c’è nulla da sperare per la nostra causa, anche
se non condividono in nulla la stupida e criminale accusa occidentale a Putin di essere una
forza aggressiva nei confronti dell’Ucraina quando, all’opposto, risulta da costoro aggredita
nell’ambito dei rapporti internazionali inter-capitalistici. Allo stesso modo essi sono a
fianco della lotta autodifensivistica dei russofoni ucraini che hanno tutte le sacrosante ragioni di
battersi contro i poteri di stanza a Kiev e chi li dirige dall’esterno e dall’alto salvo a porre ad essa il
nostro programma “alternativo” in contrapposizione alla direzione nazional-corporativa del
movimento che lì si esprime. La lotta è sul campo per decidere dove si vorrà andare. Noi
fisicamente non ci siamo (come non ci sono certi summenzionati “disfattisti”), ma – per quanto ci riguarda – non ce ne asteniamo in attesa che essa venga disarmata
a pro dell’Occidente assassino.
27 settembre 2014