nucleo comunista internazionalista
riceviamo e pubblichiamo/segnalazioni




RICEVIAMO, PUBBLICHIAMO E SOTTOSCRIVIAMO

Riportiamo volentieri (e non è la prima volta) un intervento pervenutoci di Michele Basso sul tema Imperialismo USA-Africa che ci va a pennello.

Prima di dire qualcosa in merito ad esso vogliamo precisare una cosa: noi non conosciamo nulla dell’“autore” del pezzo né c’interessa indagare in proposito. Nell’attuale situazione di squagliamento pressoché totale del “campo comunista” a noi interessa registrare ogni voce in controtendenza, anche se – lo sappiamo benissimo in certi casi – tutt’altro che collimanti da cima a fondo con le nostre posizioni di base. In quest’ottica abbiamo spesso riportato la voce di una M. Correggia o di M. Dinucci (anche qui sotto dopo il Basso), dando per scontato il permanere di visioni o democraticiste “sino in fondo” (e il fondo è già andato a fondo!) o in qualche modo “nostalgiche” rispetto al “socialismo reale” (che “pur con tutti i suoi errori” etc. etc.). E’ per noi evidente che si tratta oggi di cogliere tutti gli elementi utili che ci pervengono da veri compagni (il che non significa “allineati” con noi!) per tentare di riprendere il filo (quello sì necessariamente allineato!) della teoria, del programma e dell’organizzazione comunista.

Ci provocano riso e pena quei “comunisti” che, in via pregiudiziale, si dichiarano indisposti al confronto, al dialogo od anche alla semplice ricezione (specie tra “cugini” c’è il vezzo di respingere al mittente). Noi, al contrario, soprattutto a partire dalla ripresa autunnale, vorremmo intensificare ulteriormente gli scambi tra compagni (sin qui, in realtà, molto evanescenti, e non certo per colpa nostra!).

Il testo di Michele Basso ci pare importante perché pone sul tappeto un tema pressoché ignorato, quello della penetrazione imperialista USA in Africa di cui l’Europa si limita a fare l’agente esecutore ad uso altrui (e persino contro i propri interessi, imperialisti sempre!). Caso emblematico, sottolineiamo noi, la guerra contro Gheddafi che l’Italia berlusconiana (e pre-renziana) ha accettato di sobbarcarsi in proprio nonostante tutto il feeling (gli interessi!) Roma-Tripoli. E il fu cavaliere, che oggi se ne rammarica con alcuni dei suoi che si azzardano ad una spietata analisi della questione, non ha esitato a piegarsi ai diktat USA (così come, probabilmente, non avrebbe esitato a “scaricare” l’“amico Putin”: vomitevole roba da Giuda, altro che “caso Ruby” su cui si attardano i soliti stronzi da strapazzo!).

Un secondo motivo d’interesse deriva dalle considerazioni del Basso sul tema dell’“imperialismo numero uno”, gli USA, al quale non si può analiticamente confrontare e pareggiare tutti gli altri agenti borghesi. (Ci permettiamo qui di ricordare una ridicolaggine della CCI ai suoi tempi secondo cui imperialismo israeliano ed “aspirante” imperialismo palestinese si equivalevano; anzi: peggio ancora i palestinesi che, non avendo un proprio stato borghese, tendono a costituirlo!). Vecchio tema, definitivamente trattato ai tempi della gestazione del Partito Comunista Internazionalista, da Amadeo Bordiga in risposta alle eccezioni di Onorato Damen: certo, né con Truman né con Stalin (e, andando oltre, neppure con qualsiasi leader rivoluzionario nelle colonie!), ma non USA=URSS quanto a peso e modalità imperialiste controrivoluzionarie. Ed è quanto, ci pare, bene ribadisce alla fine il Basso (con sin troppa signorile sopportazione verso “altre posizioni” di “compagni” quanto meno zoppicanti, specie quando il “tutti eguali” si sposti su un antigermanesimo rispetto al quale il nostro capitalismo sarebbe chiamato a... disuguagliarsi!).

Unico tema da sviluppare: è scontato il dominio sull’Africa che gli USA sono intenzionati a stabilire o ci si può attendere risposte in senso contrario – nel continente nero ed in Europa – prima e per mettere in causa lo strapotere USA? Su questo punto – ci sembra – siamo ancora ai preliminari.


Dopo il testo di M. Basso pubblichiamo un intervento di M. Dinucci sui risvolti monetizzabili della faccenda di Gaza. E si tratta non di bruscolini, ma della solita, sacra molla dell’argent sonnant di cui Israele in primis rivendica il diritto all’esistenza e alla prevaricazione. Molto utile questo trafiletto, a smentita di tutte le chiacchiere correnti su astratti teoremi statali extracontabili!Una voce nel deserto, ci pare, anche all’interno del Manifesto, di cui comunque segnaliamo degli articoli di tutto rispetto a firma M.Giorgio (e tra i lettori del giornale c’è chi se ne scandalizza!)

1 agosto 2014




Giù le mani dall’Africa!

Michele Basso


L’imperialismo americano è il maggior ostacolo alla rinascita del movimento operaio nel mondo. Molti, anche a sinistra, vedono il nemico n. 1 nella Merkel, altri se la prendono soprattutto con Putin, e qualcuno tira fuori la Cina. Non vedono il principale padrone, che da circa 70 anni è presente in Italia e in moltissimi altri paesi, ne condiziona la politica e le attività militari, e, sempre più, quelle economiche. Le altre grandi potenze non sono per ora comparabili come pericolosità; nessuno di loro ha combattuto tante guerre come gli USA, almeno a partire dalla seconda guerra mondiale. Basta vedere la lista delle guerre condotte dagli USA dopo il 1946 e confrontarla con quella di altri paesi.

L’Italia aveva margini di autonomia economica e politica assai più vasti alcuni anni fa. Sue fonti importanti di petrolio o di gas erano Russia, Libia, Algeria, Iran, economie complementari rispetto a quella manifatturiera italiana, ma con sanzioni o pseudo rivoluzioni gli USA hanno creato ostacoli a non finire alle forniture di gas e petrolio. La Francia non viene trattata molto meglio. La Banque National de Paris – Paribas – è stata colpita da una multa di 8,97 miliardi di dollari per non aver rispettato le sanzioni contro Cuba, Iran e Sudan. L’attività della banca non è illegale per il diritto francese, ma lo è per il regolatore bancario dello Stato di New York, Benjamin Lawsky – di fatto Wall Street. Putin sostiene che il provvedimento serve a ricattare la Francia, per impedirle di consegnare alla Russia due portaelicotteri Mistral. (1) Il diritto USA è quindi prevalente su quello di ogni altro paese e su quello internazionale. Ricordate la bresneviana sovranità limitata? Hollande, invece di respingere il ricatto americano, ha scritto a Obama chiedendo una riduzione della multa, e con ciò ha accettato la subordinazione del diritto francese a quello americano. Non è certo un De Gaulle, spietato imperialista, ma pronto anche a prendere posizioni che non piacevano agli alleati. Hollande, feroce con i paesi deboli dell’Africa, solidale con la criminale macelleria di Netanyahu, si mette a cuccia con la coda tra le gambe quando il rimprovero viene da Washington, esattamente come i dirigenti italiani.

Più vivace la protesta tedesca: il Dipartimento del Tesoro americano ha accusato Commerzbank di operazioni con paesi della “lista nera” e il presidente della Federazione dell’Industria Tedesca (BDI), Ulrich Grillo ha dichiarato in un’intervista: “Non possiamo tollerare la situazione dove gli USA debilitano il sistema finanziario europeo per impadronirsi poi di qualsiasi banca o ditta europea”. Ha accusato gli USA di asfissiare le banche tedesche e francesi con multe ingiustificate, perché le sanzioni a paesi come Iran e Cuba sono unilaterali. Gli Stati Uniti si dichiarano fautori della libera concorrenza, in realtà danno preferenze a banche e ditte nazionali a scapito di concorrenti stranieri. Così Ulrich Grillo. E la Merkel, stanca dello spionaggio USA, ha espulso un alto rappresentante dei servizi segreti americani operativo a Berlino. Patrick Sensburg, presidente della commissione sicurezza del parlamento tedesco, ha detto che stanno considerando la questione della sicurezza operativa. Ed ha ammesso: “abbiamo già una macchina da scrivere ed è anche una non elettrica”. (2)

L’ingerenza americana non cresce solo in Europa. Un articolo di Nick Turse, ripreso da Mondialisation – Global Research, descrive l’incredibile aumento della penetrazione militare statunitense in Africa.

« L’anno scorso, secondo il comandante dell’AFRICOM, il generale David Rodriguez, l’esercito statunitense ha condotto sul continente 546 « attività », termine che serve da passe-partout per ogni azione realizzata dall’esercito sul suolo africano. In altre parole, una missione e mezza al giorno. Questo numero rappresenta un aumento del 217 % nelle operazioni, i programmi e gli esercizi dall’instaurazione del comando nel 2008.”

TomDispatch ha trovato una serie di documenti del 2013, destinati a capi militari e responsabili civili, che mettono in luce le attività messe in opera, anche se i comandi cercano di minimizzare l’importanza delle operazioni compiute. Si tratta di attacchi aerei contro militanti sospetti, raid aerei per sequestrare “terroristi” o presunti tali, ponti aerei per le truppe francesi e africane impegnate nelle guerre locali, missioni di formazione, forniture di fondi. “ L’anno scorso, secondo documenti datati dicembre 2013, gli interventi riguardavano quasi tutto : insegnare alle truppe keniane come utilizzare i droni da combattimento RQ-11 Raven, aiutare le forze algerine fornendo loro veicoli blindati capaci di resistere alle mine e alle imboscate (MRAPS in inglese), formare i fanti del Ciad e della Guinea e sostenere gli interventi francesi in Africa Centrale e in Africa occidentale.” L’esercitazione Flintlock 2014, vede la partecipazione di soldati di Burkina Faso, Canada, Ciad, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Mauritania, Olanda, Nigeria, Norvegia, Senegal, Regno Unito, USA e il paese “ospite” – chissà come saranno contente le popolazioni! – il Niger.

Delle oltre mille operazione compiute dal 2011 dall’esercito americano in Africa, soltanto alcune sono state seguite da giornalisti indipendenti. Solo con grave ritardo si è appreso che “gli Stati Uniti hanno formato un battaglione di commando congolesi messo in stato d’accusa dalle Nazioni Unite per stupri collettivi e altre atrocità...” (3)

Il governo americano può utilizzare le esperienze inglesi, francesi, italiane, belghe, portoghesi...in materia di colonialismo africano, poi farà da solo. Non si parlerà più di francafrica, africa inglese, portoghese, come già da 70 anni non si parla di Africa italiana, ma sola di USAfrica. Il piano americano per ora tende a respingere con mezzi militari l’offensiva commerciale e finanziaria della Cina, ma gli europei sognano se pensano che gli Usa tolgano loro le castagne dal fuoco. Non appena la subordinazione dell’Africa a Washington avrà raggiunto un certo livello, gli europei dovranno cercarsi altri mercati. L’età della guerra fredda, in cui gli Stati Uniti, per mantenere la fedeltà degli alleati europei, lasciavano ai paesi più importanti riserve di caccia in Africa, è finita e non può ritornare, nonostante le velleità neocoloniali di Hollande e Cameron, e gli scodinzolamenti atlantisti di Renzi.

Tutti gli stati dell’occidente, formalmente aderenti alla Nato oppure no, compresi quelli imperialisti, dipendono dagli USA, se non altro dal punto di vista militare. Persino Israele, con le sue lobby, con il suo arsenale atomico di tutto rispetto e gli efficientissimi servizi segreti, entrerebbe in crisi se il continuo afflusso dagli Stati Uniti in dollari, armi, conoscenze tecniche militari... venisse meno. Wall Street non resterà a lungo la capitale del mondo, ma sarà ancora il centro dell’occidente – che non è un’entità geografica, ma politica, perché comprende Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del sud – o, se volete usare un altro termine, del cosiddetto “mondo libero” (esempio perfetto di linguaggio orwelliano).

“Il nemico principale è in casa nostra”, gridava Liebknecht da uno dei massimi centri dell’imperialismo mondiale. L’Italia non è più una grande potenza, anche se ha ancora un numero spropositato di generali, più degli Stati Uniti. (Ha pure un numero enorme di avvocati, ma la nomea di “paese del diritto” sembra più che altro una reminescenza della Commedia dell’arte). Il nemico è in casa nostra, ma le chiavi di casa sono a Washington, come del resto il tesoro aureo italiano, ammesso che gli USA non se lo siano venduti sottobanco e che i lingotti non abbiano la consistenza del falcone maltese. L’Italia resta imperialista, ma per conto altrui. Quindi, gli sforzi principali della lotta di classe devono essere rivolti contro Washington, badando bene di non cadere in un nazionalismo consolatorio pericoloso, ma soprattutto ridicolo, visto che il Palladio, secondo Virgilio portato a Roma da Enea, da troppo tempo è emigrato a Wall Street, e sui sette “colli fatali” ci sono Napolitano, Alfano, Marino... L’Italia non ha nessun controllo reale sulle basi americane, sulle atomiche sparse nella penisola, e potremmo trovarci coinvolti in azioni militari senza che il governo sia, non solo consultato, ma neppure preventivamente avvertito.

Qualcosa, tuttavia, sta cambiando: gli Stati Uniti non possono più trattare come colonie i principali stati dell’America latina, anche se non si lasciano sfuggire nessuna occasione per cercare di riportarli all’antica sudditanza. L’Europa ha classi dirigenti particolarmente vili, ma si sviluppano notevoli forme di malcontento, per ora troppo confuse. Il Medio Oriente e l’Afganistan hanno dimostrato l’impossibilità di continuare l’occupazione diretta, anche se, manovrando tra forze spesso di una bestialità suprema, armando e finanziando bande contrapposte, gli USA hanno ottenuto la balcanizzazione dei territori. Ma quello che in termini relativi hanno perduto altrove, possono riguadagnarlo in Africa, allevando un ceto militare simile a quello dell’America latina ai tempi di Pinochet. Questo senza una vera opposizione da parte russa e cinese, se dobbiamo trarre le conseguenze dalla mancata opposizione di questi due paesi all’invasione della Libia. Il dominio dell’Africa, con una manodopera a costo bassissimo e una grande ricchezza in materie prime, permetterebbe agli USA di rinnovare l’egemonia mondiale, di schiacciare ancor più ogni opposizione nella metropoli – un popolo che ne domina altri non può essere libero – e rimanderebbe di decenni il risorgere di un movimento operaio indipendente, in America e in Europa. E’ quindi interesse del proletariato europeo denunciare questa nuova conquista dell’Africa, opporsi al criminale appoggio che i nostri governi danno agli USA.

Ci sono compagni che non condividono questa impostazione e pongono sullo stesso piano tutte le grandi potenze, e, alcuni, tutti gli stati. Chi non tiene conto dei rapporti di forza non segue un indirizzo marxista. E’ una vecchia storia: al congresso di Ginevra del 1866 della I Internazionale, i proudhoniani si rifiutarono, nel corso della discussione sulla questione polacca, di votare la decisione che chiedeva la “distruzione dell’influenza dispotica della Russia in Europa”, presente nell’edizione francese delle istruzioni del Consiglio centrale, e proposero un’espressione più generica, “la distruzione di ogni forma di dispotismo”, frase che ogni politico borghese avrebbe potuto sottoscrivere.(4) In un lavoro non terminato sulla questione polacca, Marx scrisse: “La restaurazione della Polonia significa l’annientamento della Russia odierna, la revoca della sua candidatura all’egemonia mondiale”.(5) Marx ed Engels non avevano dubbi su chi fosse allora il principale avversario della rivoluzione, persino di quella borghese. Non dobbiamo averne neppure noi: oggi il governo degli Stati Uniti si allea con i più reazionari fanatici, che decapitano, massacrano e persino crocifiggono gli avversari, e in Ucraina si accorda con i nazisti. I lavoratori europei, invece, devono cercare l’alleanza con l’unica potenza che può indebolire e infine distruggere l’imperialismo USA, il proletariato americano.

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Note

1) La “Battaglia per l’Europa” infuria. Come gli USA minano le relazioni franco-russe” Umberto Pascali, Global Research, 2 luglio 2014 Traduzione di Alessandro Lattanzio.

2) “I tedeschi non ci stanno”, cubainformazione, Lug 16, 2014.

“La Merkel caccia il numero 1 della Cia a Berlino”, Globalist, 7-7 2014.

“La Germania torna alla macchina da scrivere, contro le ingerenze dell’NSA” gizmodo./2014/07/16/ germania-torna-macchina-scrivere-contro-ingerenze-dellnsa.html, In Come Donchisciotte.

3) Nick Turse, Articolo originale in inglese : “U.S. Military Averaging More Than a Mission a Day in Africa. Documents Reveal Blinding Pace of Ops in 2013, More of the Same for 2014, tomdispatch.com, 27 mars 2014”.Tradotto in francese da Investig’Action: “Entre 2012 et 2013, l’armée étasunienne est intervenue dans 49 pays africains”, Mondialisation.ca, 01 juillet 2014.

4) Nikolaevskij / Maenche-Helfen, “Karl Marx, la vita e le opere”, cap XIX.

Karl Marx, “Istruzioni per i delegati del Consiglio centrale provvisorio sulle singole questioni (1866)”. Vedi anche la versione francese in “Le Conseil général de la Première Internationale 1864-1866”, pag. 299.

5) Karl Marx, “Manoscritti sulla questione polacca (1863-1864)”, “Polonia Russia e Prussia”, pag. 7.


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L’arte della guerra

Gaza, il gas nel mirino

Manlio Dinucci, 14.7.2014


Per capire qual è uno degli obiet­tivi dell’attacco israe­liano a Gaza biso­gna andare in pro ­fon­dità, esat­ta­mente a 600 metri sotto il livello del mare, 30 km al largo delle sue coste. Qui, nelle acque ter­ri­to­riali pale­sti­nesi, c’è un grosso gia­ci­mento di gas natu­rale, Gaza Marine, sti­mato in 30 miliardi di metri cubi del valore di miliardi di dol­lari. Altri gia­ci­menti di gas e petro­lio, secondo una carta redatta dalla U.S. Geo­lo­gi­cal Sur­vey (agen­zia del governo degli Stati uniti), si tro­vano sulla ter­ra­ferma a Gaza e in Cisgiordania.

Nel 1999, con un accordo fir­mato da Yas­ser Ara ­fat, l’Autorità pale­sti­nese affida lo sfrut­ta­mento di Gaza Marine a un con­sor­zio for­mato da Bri­tish Gas Group e Con­so­li­da­ted Con­trac­tors (com­pa­gnia pri­vata pale­sti­nese), rispet­ti­va­mente col 60% e il 30% delle quote, nel quale il Fondo d’investimento dell’Autorità ha una quota del 10%. Ven ­gono per­fo­rati due pozzi, Gaza Marine-1 e Gaza Marine-2.

Essi però non entrano mai in fun­zione, poi­ché sono bloc­cati da Israele, che pre­tende di avere tutto il gas a prezzi strac­ciati. Tra­mite l’ex pre­mier Tony Blair, inviato del «Quar­tetto per il Medio Oriente», viene pre ­pa­rato un accordo con Israele che toglie ai pale­sti­nesi i tre quarti dei futuri introiti del gas, ver­sando la parte loro spet­tante in un conto inter­na­zio­nale con­trol­lato da Washing­ton e Londra.

Ma, subito dopo aver vinto le ele­zioni nel 2006, Hamas rifiuta l’accordo, defi­nen­dolo un furto, e chiede una sua rine­go­zia­zione. Nel 2007, l’attuale mini­stro della difesa israe­liano Moshe Ya’alon avverte che «il gas non può essere estratto senza una ope­ra­zione mili­tare che sra­di­chi il con­trollo di Hamas a Gaza». Nel 2008, Israele lan­cia l’operazione «Piombo Fuso» con­tro Gaza. Nel set­tem­bre 2012 l’Autorità pale­sti­nese annun­cia che, nono­stante l’opposizione di Hamas, ha ripreso i nego­ziati sul gas con Israele. Due mesi dopo, l’ammissione della Pale­stina all’Onu quale «Stato osser­va­tore non mem­bro» raf­forza la posi­zione dell’Autorità pale­sti­nese nei nego­ziati. Gaza Marine resta però bloc ­cato, impe­dendo ai pale­sti­nesi di sfrut­tare la ric­chezza natu­rale di cui dispongono.

A que­sto punto l’Autorità pale­sti­nese imbocca un’altra strada. Il 23 gen­naio 2014, nell’incontro del pre­si ­dente pale­sti­nese Abbas col pre­si­dente russo Putin, viene discussa la pos­si­bi­lità di affi­dare alla russa Gaz­prom lo sfrut­ta­mento del gia­ci­mento di gas nelle acque di Gaza. Lo annun­cia l’agenzia Itar-Tass, sot­to­li­neando che Rus­sia e Pale­stina inten­dono raf­for­zare la coo­pe­ra­zione nel set ­tore ener­ge­tico. In tale qua­dro, oltre allo sfrut­ta­mento del gia­ci­mento di Gaza, si pre­vede quello di un gia­ci­mento petro­li­fero nei pressi della città pale­sti­nese di Ramal­lah in Cisgiordania.

Nella stessa zona, la società russa Tech­no­pro­mex­port è pronta a par­te­ci­pare alla costru­zione di un impianto ter­moe­let­trico della potenza di 200 MW. La for­ma­zione del nuovo governo pale­sti­nese di unità nazio­nale, il 2 giu­gno 2014, raf­forza la pos­si­bi­lità che l’accordo tra Pale­stina e Rus­sia vada in porto.

Dieci giorni dopo, il 12 giu­gno, avviene il rapi­mento dei tre gio­vani israe­liani, che ven­gono tro­vati uccisi il 30 giu­gno: il pun­tuale casus belli che inne­sca l’operazione «Bar­riera pro­tet­tiva» con­tro Gaza. Ope­ra­zione che rien­tra nella stra­te­gia di Tel Aviv, mirante a impa­dro­nirsi anche delle riserve ener­ge­ti­che dell’intero Bacino di levante, com­prese quelle pale­sti­nesi, liba­nesi e siriane, e in quella di Washing­ton che, soste­nendo Israele, mira al con ­trollo dell’intero Medio Oriente, impe­dendo che la Rus­sia riac­qui­sti influenza nella regione. Una miscela esplo­siva, le cui vit­time sono ancora una volta i palestinesi.