Riceviamo dal compagno Alessio le densissime note sui disordini sociali in atto da mesi ad Hong Kong che qui pubblichiamo. Lui ci dice che sono “note confuse”, ma noi le giudichiamo di assoluto interesse e valore generale e per tale ragione le presentiamo all’attenzione di tutto il movimento di classe.
La nostra, secca e dura, presa di posizione sul “movimento” di Hong Kong era intesa a rispondere, sulla base dei nostri criteri fondamentali di classe, alle sue attuali avanguardie cosiddette “anarchiche” che sono ed agiscono come punte estreme e radicali della democrazia e del liberalismo borghesi. Il compagno, condividendo il senso di questa nostra critica frontale, ci evidenzia però come “la situazione sia più complessa e articolata” e come essa sia “pericolosa e difficile da districare per la nostra classe e per il proletariato di Hong Kong e cinese”. Accogliamo senz’altro questo rilievo che ci obbliga al compito di meglio precisare il posizionamento del comunismo rivoluzionario, una volta aver sguainato la spada in difesa dei suoi principi basilari. Compito per noi assai difficile e complicato, lo diciamo e lo ammettiamo senza infingimenti.
Nelle sue note il compagno osserva non solo che le attuali proteste non sono la ripetizione delle proteste “degli ombrelli” di cinque anni fa ma che in esse, “a partire dalle giornate di giugno” si è riversato il malcontento e la rabbia di “amplissimi settori” di un proletariato bestialmente schiacciato dentro quell’infernale paradiso capitalistico. Questa fisica entrata in scena di massa del proletariato di Hong Kong (di una sua consistente parte) seppur inizialmente, e provvisoriamente diciamo noi, alla coda dell’indirizzo politico borghese che mantiene indubbiamente il controllo e la direzione del movimento di protesta, cambia le carte in tavola nella lotta sociale e politica in corso? Sì, le cambia. E le cambia in potenza proprio nella direzione richiamata sin dal titolo del nostro intervento: “per la mobilitazione dei proletari e degli sfruttati cinesi”. Primissimo ed indispensabile passo per arrivare allo scioglimento rivoluzionario del nodo che siamo tenuti a dichiarare apertamente e fin da subito, cioè il potere di classe e la dittatura proletaria. Comune rossa e proletaria a Hong Kong e non il ripristino dell’“oasi di ricchezza e libertà” per i borghesi da essi e dalla feccia piccolo-borghese auspicato (e dai proletari stessi, nella loro coscienza spontanea e immediata). Lotta per la Comune rossa e proletaria, detonatore del conflitto di classe in tutta la Cina e della guerra di classe proletaria a scala internazionale. “Dura e lunga la strada, mèta grande e lontana” come scriveva Programma Comunista parlando della rivolta proletaria e della Comune di Berlino Est nel 1953. A chi irride e ci irride per questa “fantastica visione” che possiamo vedere soltanto col binocolo, magari impugnato al contrario, rispondiamo che il filisteo non crede al carattere oggettivamente rivoluzionario del Proletariato, della massa sterminata dei senza-riserve. Che non crede in niente e che vada a farsi benedire e a farsi frate.
Non c’è alcun dubbio che la condizione necessaria e prioritaria per questa tale prospettiva, unica di reale liberazione sociale, sia quella indicata nello scritto del compagno: “Ma per potersi aprire la strada, il proletariato e la classe operaia di Hong Kong non possono accodarsi alle posizioni della HKFTU (il sindacato maggioritario filo regime, ndr) a difesa dell’ordine e per la salvaguardia della economia. Non possono rifiutarsi di battersi per paura di fare il gioco dell’imperialismo”. Sacrosanto! E qui si apre un altro fronte di lotta politica cui siamo chiamati, quello contro le correnti politiche “campiste” ed “anti-imperialiste” borghesi che pretendono di inquadrare e irreggimentare la lotta di classe dentro il gioco e la competizione fra gli Stati per piegare l’egemonia nordamericana ad una più “equa e multipolare” divisione e spartizione del potere nel quadro del capitalismo mondiale. Per costoro i proletari di Hong Kong e della intera Cina, dovrebbero starsene buoni e a cuccia (dentro le gabbie di 12 mq di cui ci dice Alessio!) affidando i loro interessi di classe all’accortezza del governo borghese e se del caso all’intervento dell’esercito popolare. Altrimenti “si fa il gioco dell’imperialismo”.
Rispondiamo: i proletari di Mosca e Pietrogrado nel 1917 facevano forse “il gioco dell’imperialismo”, quello tedesco nell’occasione? E il treno che dalla Svizzera portava in Russia i rivoluzionari bolscevichi rientrava forse in tale gioco (come peraltro molte canaglie hanno detto e dicono, vedi i classici “anti-imperialisti” di destra)? Ma poi, nella questione di cui trattiamo, quale potenza tiene in effetti sotto il suo tallone i proletari nell’infernale paradiso per il business di ogni razza e colore chiamato Hong Kong, se non la potenza del capitalismo mondiale di cui quello cinese è parte intimamente connessa e decisiva? Coscienti o meno, i proletari di Hong Kong entrano in scena e sono trascinati nella lotta contro gli interessi del capitalismo internazionale che ivi si concentrano ed intrecciano. Anche se essi possono essere illusi, come lo sono i ceti piccolo-borghesi, che la loro salvezza possa essere assicurata dal mantenimento del regime “one country-two systems”, per non soccombere i proletari sono chiamati a battersi contro questa mostruosa forza e rete mondiale di interessi capitalistici. La consegna dei comunisti è quindi non la fasulla ed illusoria lotta per la difesa del sistema “un paese-due sistemi” ma: ONE CLASS-ONE CLASS FIGHT, ONE INTERNATIONAL CLASS WAR!
La fisica irruzione nelle piazze del proletariato certamente di per sé non basta a rovesciare l’indirizzo ed il controllo politico borghese sul movimento ma ne è la premessa essenziale. “Improvvisamente le piazze si sono riempite di diversi contenuti sociali (anche se non ancora con diversi contenuti politici) in obiettiva e potenziale controtendenza alle premesse dell’iniziale protesta” annota il compagno Alessio. Il contenuto sociale delle rivendicazioni di “libertà e democrazia” in bocca alla borghesia ed alla feccia piccolo-borghese – che è tale, cioè è feccia, intanto e sino a quando pretende o si illude di difendere la sua posizione sociale e di non precipitare negli inferi della gerarchia di classe infischiandosene del proletariato rosicchiando sul cui sfruttamento essa vive e pretende o si illude di poter continuare a vivere – significa schiacciamento implacabile del proletariato. Impugnate dal proletariato, una volta che ha ingaggiato la lotta, tali rivendicazioni che in un primo momento ed apparentemente “unificano il popolo della protesta” prendono tutt’altro contenuto sociale a cominciare dalla primordiale necessità di difesa degli spazi di libera organizzazione sindacale. Le istanze e le aspirazioni di libertà dei proletari urtano e collidono con la mano libera richiesta dalle forze che ruotano attorno agli interessi del Capitale, urtano e collidono con “la libertà” dei borghesi.
Se una massa proletaria riesce a tenere il campo e sopratutto riesce a definire una piattaforma di rivendicazioni “per la sua libertà” attorno a cui chiamare alla lotta quella parte di proletariato (vedi i dockers citati da Alessio) tenuta a bada sino ad ora dalle forze politico-sindacali guardiane dell’ordine costituito, la attuale direzione borghese e filo-imperialista del movimento può essere scalzata e rovesciata. La lotta, durissima e complicatissima, è aperta. A questa condizione diciamo che la folla e la feccia piccolo-borghese che abbiamo recentemente (8 di settembre) visto riunirsi (cantando anche l’inno inglese!) davanti al consolato americano di Hong Kong per invocare l’aiuto degli Stati Uniti e l’impegno in prima persona di Donald Trump “nella battaglia per la libertà” si sta scavando la fossa con le proprie mani. “In questo momento i nostri interessi coincidono con quelli dell’America” hanno detto questi baldi giovanotti “rivoluzionari per la democrazia”. Coincidono gli interessi di questa balda e giovane feccia sociale, che a noi ricorda più che “i camionisti cileni” (evocati dal compagno) la piccola borghesia di Caracas e del Venezuela, con quelli del proletariato di Hong Kong? Ed ancora, cosa diciamo alla fetta di proletariato o di ceto medio impoverito che può ritrovarsi, abominevolmente e provvisoriamente, accodata dietro il sozzo e insanguinato carro della “libertà e della democrazia” dei borghesi? Diciamo che per essi – che non sono feccia ma gli incarcerati sociali della galera capitalistica – il rapporto che mantengono con l’attuale direzione del movimento di protesta è un rapporto contro natura. Diciamo che è giusto andare sotto il consolato americano, ma per assaltarlo come gli studenti a Teheran nel 1979, come qualche mese fa nell’Honduras hanno fatto i lavoratori nella capitale Tegucigalpa!
Diciamo francamente anche un’altra cosa. Cioè che deve essere il proletariato a legnare e a mettere in riga la feccia sociale che si appella e si prostituisce all’imperialismo democratico occidentale, come i minatori rumeni legnarono la feccia sociale piccolo-borghese calando in massa su Bucarest, non ricordiamo più in quale degli anni ’90 del secolo scorso (minatori che in seguito pagarono atrocemente la vendetta della borghesia rumena ed internazionale). Ma se, malauguratamente, il proletariato di Hong Kong e cinese non fosse ancora all’altezza di questo compito, allora non si potrà condannare lo Stato borghese cinese quando decida la repressione di chi sfrontatamente si propone ed agisce come quinta colonna della potenza straniera. Né frignare sulla sorte che eventualmente toccherà ai baldi giovanotti piccolo-borghesi di Hong Kong che sono feccia sociale, lo ripetiamo, in quanto se ne strafregano della condizione proletaria nella loro beneamata oasi e tanto più nel mainland cinese.
Uno dei capi di questa balda gioventù
piccolo-borghese di Hong Kong di nome Joshua Wang che è
attualmente in giro per le cancellerie occidentali a chiederne il
sostegno in quanto “Hong Kong era l’unica cosa che
si frapponeva fra il mondo libero e l’autoritarismo
cinese” ha detto fra le altre cose che “Hong Kong
è la nuova Berlino di una nuova guerra fredda”. No,
caro giovanotto. La tua beneamata “oasi di benessere e
libertà”, paradiso per il business e per i
businessmen di ogni razza e colore inferno per i proletari è
un enorme nuovo focolaio della guerra di classe internazione. E la
partita fra le molteplici forze della contro-rivoluzione e della
conservazione borghese e la Forza della Rivoluzione proletaria
è aperta.
13 settembre 2019
Cari compagni,
ho letto avidamente il vostro pezzo sulle proteste di Hong Kong che vanno avanti da almeno tre mesi (come del resto, tutto quanto voi scrivete).
Leggendo i gazzettieri dell’imperialismo, ma anche certa propaganda “liberal” ed “left”, il senso di nausea è la prima sensazione che mi prende allo stomaco.
L’imperialismo, soprattutto quello a stelle a strisce, prima ancora di quello britannico, sta tentando di fare la sua parte di “padrino” nelle attuali vicende di Hong Kong. Soprattutto ora che negli ultimi tempi le scaramucce tra USA e Cina rischiano di volgere a delle vere guerre commerciali, nelle quali il controllo delle rotte commerciali e marittime dell’asia e del mar della Cina sono determinanti, e la posizione di controllo di Hong Kong ne è un tassello non secondario. In parte, nella proiezione della tendenza alla guerra imperialista, che vedrebbe l’Occidente in rotta contro il liberticida Oriente, quello che sta accadendo ad Hong Kong traccia il solco di possibili ed alternativi sbocchi.
Tutta questa canea sulle “libertà” e la “democrazia” equivale alla libertà del capitale di fare carne da porco (e da cannone) dei milioni di proletari e sfruttati dell’area. Obiettivo verso il quale, il capitale finanziario occidentale e la borghesia ed il capitalismo Cinese perseguono a braccetto.
E non mi stupisce che l’imperialismo a stelle e strisce non si stia limitando ad una semplice azione di propaganda. Settori di media borghesia compradora di Hong Kong sicuramente si è messa a servizio agitando politicamente le piazze con l’obiettivo di rivendicare più libertà “per il capitale” e per il proprio “padrino” occidentale, ed orientando ampi settori della piccola e media borghesia impegnata nelle attività della finanza e del consumo di lusso. D'altronde HSBC (Hong Kong e Shanghai Bank of China) è il colosso finanziario e bancario del colonialismo britannico ed oggi dell’imperialismo globalizzato, che ad Hong Kong ha il suo headquarter – sebbene i suoi fili di comando siano a Londra e Montreal.
Detto questo, però la situazione mi sembra più complessa e più articolata. E senz’altro pericolosa e difficile da districare per la nostra classe e per il proletariato di Hong Kong e Cinese.
In sintesi, non è affatto la ripetizione della protesta “degli ombrelli” di 5 anni fa (le cui caratteristiche “intellettuali” e piccolo borghesi “studentesche universitarie” erano veramente così evidenti) le cui mobilitazioni mai raggiunsero le partecipazioni di massa di questi mesi. La attuali proteste di Hong Kong sono veramente lontane dall’essere paragonate anche alle “rivoluzioni” arancioni dell’Est Europa o alle canagliesche rappresentazioni di piazza Maidan a Kiev (dove successivamente è stata svelata la partecipazione attiva di gruppi paramilitari e di mercenari stranieri al soldo della CIA).
Nell’articolo fate bene a fare una critica frontale a chi qui e lì non spende una parola di solidarietà verso l’intero proletariato Cinese e come l’assenza totale di qualsiasi riferimento ad esso puzza del peggior imputtanamento al servizio dell’imperialismo.
Nell’articolo riportate correttamente che molti investitori finanziari hanno cominciato a spostare le loro attività verso porti più sicuri, quali Singapore.
In realtà questo non è dovuto dall’ingerenza preoccupante dello Stato Cinese. Piuttosto è l’effetto della forza finanziaria di attrazione del capitalismo cinese che sta esercitando negli ultimi anni. E’ proprio l’accresciuta forza di attrazione e concentrazione capitalistica del capital finanziario Cinese che lo sta producendo, in uno con quelle che sono le conseguenze delle crisi finanziare globali e del sud est asiastico che si sono ripercosse anche da Hong Kong perlomeno dal 2006.
Sono ormai almeno 7 o dieci anni che Hong Kong vede un graduale processo di disinvestimento (sia da parte del capitalismo finanziario cinese che occidentale) a favore della concentrazione in quelle area del mainland cinese quale è Shenzen.
Shenzen, a confine con il territorio di Hong Kong, venne dichiarata città nei primi anni 80 e contava qualcosa come poche decine di migliaia di abitanti (pare che non fossero più di 30000). Deng Xiaoping avviò proprio lì la legislazione economica speciale di libero mercato. Essa è attualmente una dell’aree di maggiore concentrazione della finanza cinese e di punta dello sviluppo tecnologico. Oggi Shenzen conta più di 13 milioni di abitanti. Negli ultimi anni, in termini di sviluppo commerciale e finanziario, Shenzen ha raggiunto e superato Hong Kong. E le previsioni per i prossimi due anni sono che il gap economico e finanziario continuerà ad aumentare di molto a favore di Shenzen.
Sebbene Shenzen rappresenta nel formato del turbo imperialismo i connotati dell’urbanizzazione selvaggia prodotta dalle migrazioni dalle aree rurali cinesi più povere ed ha dei livelli di povertà e sfruttamento ancor indicibilmente peggiori di quelli della vicina Hong Kong, tuttavia essa offre come cartina al tornasole lo specchio di quello che le middle classi di Hong Kong hanno perso negli ultimi anni – soprattutto a partire dal 2006 – a causa delle conseguenze delle varie crisi finanziarie.
Quotidianamente “cittadini” di Hong Kong varcano il confine virtuale con Shenzen dove possono comprare beni di consumi e a più buon mercato. Non è raro che vi sia una tendenza della middle class a trasferirsi lì.
Lo stesso mercato immobiliare e degli affitti è decisamente migliore a Shenzen che ad Hong Kong (qui andrebbe aperta una vera parentesi) ed il livello di agiatezza abitativa che un funzionario medio può trovare a Shenzen, viceversa se lo sogna ad Hong Kong.
Al tempo stesso Hong Kong ha visto il peggioramento delle condizioni di vita del proletariato ma anche delle mezze classi e della piccola borghesia, che per effetto delle crisi finanziarie e del mercato immobiliare vede avvicinarsi lo spettro di una caduta nelle condizioni del proletariato.
Hong Kong è una città di appena più di 1000 Km2, ma l’area abitata è veramente concentrata in uno spazio piccolo tra il nord dell’isola di Hong Kong e la penisola di Kowloon per circa poche centinaia di Km2. Questo fa di Hong Kong una delle città con una densità di popolazione asfissiante: dalla media sul territorio complessivo calcolata in 6500 abitanti per Km2, l’isola di Hong Kong ha una densità di circa 20000 abitanti per Km2, mentre alcuni distretti della penisola possono variare dai 35mila agli 80mila abitanti per Km2.
La città si estende in altezza con enormi grattacieli di centinaia di piani ma completamente fatiscenti e puzzolenti che si ergono di fianco a moderni grattacieli finanziari e di building di 50 piani con all’interno appartamenti di lusso senza soluzione di continuità. La dimensione media dell’appartamento è di 12mq, molti di questi non hanno il bagno o l’acqua corrente. Il costo dell’affitto è esorbitante. Negli ultimi anni l’ennesima bolla finanziaria che ha avuto conseguenze sul mercato immobiliare ha fatto ulteriormente aumentare il costo degli affitti. Un impiegato medio del settore finanziario arriva a pagare circa 850 euro al mese per una gabbia di 12mq. Mentre più famiglie o famiglie di 8 o 10 persone vivono nelle medesime condizioni se non peggio.
Camminando per le vie di Hong Kong viene in mente “la condizione della classe operaia inglese” di Engels quando parla delle condizioni abitative degli operai inglesi e irlandesi. Con la differenza che nella Londra dell’800 il proletariato già viveva in distretti e quartieri malsani della periferia. Ad Hong Kong miseria e lusso sono contigui e si dividono di poche decine di metri l’uno dall’altro. Percorrendo qualsiasi arteria centrale di Hong Kong, palazzi di 50 o 80 piani la cui larghezza delle scale e dell’ingresso è di appena 90cm, trovano qua e là moderni building per i ricchi. Il puzzo, insieme ad una asfissiante calura, invade le strade. Il luccichio del lusso e il riflesso della potenza della finanza che si apre sui marciapiedi e sulle vie della città squarciando la continuità di topaie abitative fatiscenti, di piccoli negozietti fatiscenti e di locali per bordelli con prostitute cinesi, filippine e thailandesi, infondono una sensazione psicologica di sottomissione.
Qui la sovrappopolazione ha una doppia conseguenza, oltre alle ovvie ricadute in termini di igiene e salute pubblica.
La gente vive per strada ininterrottamente per la scarsezza degli alloggi e degli spazi abitativi. La gente consuma i pasti seduti sulle poche panchine lungo i marciapiedi o sulle scale dei palazzi. E’ un continuo sostare per le strade di giorno e di notte. Come di giorno e di notte i centri commerciali sono sempre affollati dai rampolli della alta borghesia. I cinema sono aperti anche la mattina.
Dall’altra parte, proprio perché non vi sono spazi per vivere e riposare, i lavoratori “tranquillamente” lavorano 10 o 12 ore al giorno senza sosta di giorno o di notte. Se negli uffici dei vari trust finanziari e commerciali, la settimana lavorativa è mediamente di 48 ore (con frequenti straordinari la Domenica non pagati), nel piccolo commercio e nel terziario chi lavora per 8 ore al giorno per 6 giorni lavorativi è considerato un lavoratore part-time. Di fatto, nel commercio e nei servizi (garzoni, addetti alle pulizie ed alla manutenzione), nell’edilizia e nella manifattura la settimana lavorativa è di circa 55 o 60 ore settimanali. Non esistono contratti collettivi riconosciuti. Nel settore portuale la situazione è leggermente migliore, ma soprattutto dal punto di vista del salario medio e minimo garantito.
La paga oraria varia a seconda dei settori produttivi e del manifatturiero varia tra i 28 HKD ai 35 HKD (circa 4 euro l’ora), e non vi è alcuna regolamentazione sul salario minimo.
Per i Dockers ed i comparti del porto le cose sono leggermente migliori, i quali a seguito di proteste ed alcuni scioperi sono riusciti ad ottenere in molti comparti aumenti salariali del 5.5% nel 2015.
Sono due le principali organizzazioni sindacali ad Hong Kong.
La HKFTU. E’ la storica e gloriosa organizzazione dei proletari di Hong Kong che nacque nel 1948 con posizione ideologiche e collegamenti organizzativi con il PC maoista. Fu protagonista della lotta contro il potere britannico e contro il regime coloniale che culminarono nelle lotte del 1967 (“riots” di Hong Kong). E’ soprattutto in quel periodo influenzato della “rivoluzione culturale cinese” che si è formata gran parte della sua attuale classe dirigente. Dal 1997 la sua impostazione è stata via via sempre più collaborativa con il governatorato di Hong Kong, partecipando ad una alleanza politica con il partito Democratic Alliance che è la maggiore forza politica pro Pechino (che è l’alleanza politica che ha favorito l’ascesa dell’attuale capo dell’esecutivo di Hong Kong Carrie Lam). Quindi una posizione subalterna alle necessità dello sviluppo capitalistico e finanziario di Hong Kong in uno con il capitalismo ed il potere borghese Cinese (di cui il Democratic Alliance di fatto ne rapprensenta il blocco di interessi). Vieppiù questa organizzazione è diventata anche il riferimento di tutto quel panorama funzionariato di piccolo medio livello che lavora nelle amministrazioni pubbliche ma anche nei settori del commercio e nella finanza.
Negli ultimi anni si è separata formalmente da questa alleanza rimettendo al centro del suo programma maggiore attenzione verso i lavoratori attraverso un programma moderatamente di stampo nazional laburista.
Ha più di 400 mila iscritti, ed è di gran lunga la più grossa organizzazione.
Durante le proteste di questi mesi si è immediatamente schierata contro i dimostranti, stigmatizzando le proteste come azioni di “pochi” e che compromettono la stabilità di Hong Kong, e che danneggiano le imprese e l’economia del paese. Navigando sul suo sito o cercando su Internet, non sembra sia prodiga di attività sindacali veramente militanti. E’ stata in piazza il 1 Maggio del 2019 mettendo al centro dell’iniziativa le richieste di regolamentare le paghe salariali per garantire un minimo salariale. Navigando sul suo sito – per altro poco aggiornato – non trovi molte iniziative rivolte a collaborazioni o contatti con i “sindacati” cinesi o del sud est asiatico. Comunque, rimane di gran lunga l’organizzazione con più iscritti, sicuramente tra i lavoratori più “garantiti” e con la maggior influenza tra in Donkers.
La seconda, più piccola e con circa 190000 iscritti, è la HKCTU di ispirazione liberal cattolica. Nasce negli anni 80 e poi si sviluppa negli anni 90 soprattutto tra impiegati e colletti blu e bianchi. Via via ha visto aumentare l’iscrizione da parte di lavoratori non garantiti del commercio, dei servizi e delle ditte di pulizia, nei settori della manifatturiera e dell’edilizia. Negli ultimi anni ha visto aumentare la sua presenza anche tra i dockers ed è stata parte importante nella vertenza che nel 2015 ha portato i portuali ad ottenere aumenti salariali garantiti del 5%. Questa confederazione, benchè ideologicamente più moderata della HKFTU, contiene dietro il suo humus “ideologica solidaristico” la necessità del proletariato locale, soprattutto giovanile e non garantito, di dotarsi di un sindacato e di una organizzazione autonoma di classe, o quanto meno di una formale indipendenza dal governatorato locale (che rappresenta il patto tra Pechino e la middle high class di HongKong), che la storica HKFTU ha perso negli anni e che è vista ora dai lavoratori delle ultime generazioni come un tutt’uno con il governo. Attenzione, siamo lungi dal declinare un programma ed una piattaforma autonoma di classe, così come dall’enunciare la necessità di una indipendenza della classe.
Però tra le attività che questa “associazione” svolge, molte sono orientate verso i tentativi di contatti con i vari sindacati ed associazioni di lavoratori autonomi che tentano di darsi nel mainland Cinese ed alla denuncia della repressione poliziesca cui questi militanti sono sottoposti (https://www.labourstartcampaigns.net/show_campaign.cgi?c=4078)
(http://en.hkctu.org.hk/category/international)
Se la HKFTU è piena dello spirito patriottico in senso lato e nazionalistico (con il cellulare nella destra ed il libretto rosso nella sinistra – Huaweii e Mao), la HKCTU nella sua propaganda dà ampio spazio alle condizioni di lavoro e sindacali degli altri operai e lavoratori del mainland Cinese e sembra essere esente del sentimento anti-mandarino.
Negli ultimi anni questa confederazione ha accentuato le sue battaglie per il salario minimo e per una legge che stabilisca le garanzie per i minimi contrattuali dei lavoratori soprattutto nelle catene del commercio al dettaglio e di massa. Dai lavoratori delle ditte di pulizia, a quelli grandi magazzini alle manifatture.
Dal punto di vista sociale sembra un cobas cattolico solidaristico. Partita come organizzazione di categorie impiegatizie e di colletti blu e bianchi e di lavoratori intellettuali (di professori delle scuole delle università), oggi sempre più l’organizzazione è orientata verso i settori sociali dei giovani lavoratori e del proletariato vero e proprio, nel commercio, servizi e manifattura, i quali non vedono distinzioni tra la gloriosa storia di battaglie della HKFTU e gli attuali padroni ed il potere locale.
Quello che sembra essere al centro di questa organizzazione è l’importanza di salvaguardare una organizzazione indipendente dei lavoratori. Pechino e le cosiddette “ingerenze” del governo Cinese destano preoccupazione per questo motivo. Dietro l’accordo di estradizione c’è la preoccupazione che Pechino possa procedere poi ad allineare anche le regole di agibilità sindacale secondo il suo modello nel mainland.
Così la HKCTU ha stigmatizzato e condannato il progetto di legge sull’estradizione voluto da Pechino e proposto dall’esecutivo, sebbene non si sia schierata in piazza sin da subito. Solo a partire dalle giornate di giugno in poi si è adoperata a partecipare attivamente alle proteste, organizzando e proclamando laddove ne aveva i numeri gli scioperi a sostegno delle proteste e per la partecipazione ai cortei di massa.
E’ ovvio che in assenza di una vera piattaforma e politica di classe fino in fondo anticapitalista, è facile passare dalla sacrosanta necessità di difendere l’autonomia e le libertà sindacali contro la tendenza a volerle irrigimentare, al finire nelle grinfie della propaganda imperialista e delle manovre del tycoon di Washington, Wall Street e della city di Londra. Il sentimento di contrarietà verso questo disegno di legge perché esso attacca il principio del “one country two systems”, se per le middle class significa difendere la propria oasi di ricchezza, per i lavoratori significa la preoccupazione che anche quel poco che vi è garantito della agibilità sindacale venga anche esso annullato.
Le proteste contro il progetto di estradizione sono cominciate in primavera soprattutto caratterizzate da quella middle class che teme che i propri traffici di business (Hong Kong è una delle realtà dove il livello della corruzione finanziaria scala ai primi posti le classifiche mondiali) possano essere compromessi dai maggiori controlli di Pechino. Inoltre, questi settori sociali sentono sempre più il fiato sul collo della concorrenza economica di Shenzen (per la prima volta la crescita economica e del PIL di Hong Kong vede previsioni in negativo) che ovviamente viene premiata dalle politiche strategiche di Pechino. Quindi, come settore sociale storicamente manutengolo dell’imperialismo, questa genia scende in campo pronta ad offrire i propri servigi all’occidente in cambio di maggiore protezione.
Via via, però, la connotazione delle proteste e delle manifestazioni di massa hanno cominciato ad assumere un diverso connotato a partire dalle giornate di giugno. Da quello che sembrava una riedizione degli ombrelli gialli del 2014, le manifestazioni si sono riempite della pancia della piccola borghesia più impoverita della città e di amplissimi settori di proletariato del commercio e della manifattura (di quelli che vivono nelle gabbie di 12mq).
E’ stata la crisi sociale e la polarizzazione sociale (accresciuta negli ultimi anni dalle crisi finanziarie del 2006 e in poi) a costringere questi settori a scendere in piazza, proprio nel momento quando Carrie Lam aveva già sospeso – sebbene formalmente non ritirata – la legge.
I bassi salari, le peggiorate condizioni degli orari lavorativi, la crisi abitativa e gli effetti della speculazione edilizia degli ultimi anni costituiscono le condizioni oggettive che hanno portato le dimostrazioni a gonfiarsi ed a ripetersi con continuità. Improvvisamente le piazze si sono riempite di diversi contenuti sociali (anche se non ancora con diversi contenuti politici) in obiettiva e potenziale contro tendenza alle premesse dell’iniziale protesta.
A guardare i filmati non appaiono poi così tanto le bandiere a stelle e strisce ed i simboli dell’occidente. Durante il blocco dell’aeroporto una manifestante cinese si è scagliata contro un gruppetto di 5 o 6 altri manifestanti che avevano la bandiera americana gridando loro: “siamo cinesi, perché per protestare dobbiamo portare le bandiere straniere”.
Punto decisivo delle manifestazioni e delle proteste è diventata la richiesta del rilascio immediato di tutti gli arrestati e la stigmatizzazione ed il rifiuto verso la propagando governativa di vedere le manifestazioni caratterizzate con la definizione di “riots”, atti terroristici ed illegali.
In molte manifestazioni e cortei si è indicata l’obiettivo di lotta dello sciopero generale come mezzo per contrastare la repressione e come obiettivo stesso della lotta: rivolgiamoci ai lavoratori. Che significa al di là della volontà e delle intenzioni, una certa chiamata in causa dello spettro che fa comunemente paura ad occidente ed oriente vi è stato. Le manifestazioni sono diventate sempre più combattive: pochi slogan gridati ad alta voce, con rabbia ed all’unisino per ore fino a notte tarda. Altro che carovane arancioni o colorate che tanto piacciono qui. L’obiettivo degli slogan non era una semplice rivendicazione di freedom, ma contro la polizia, contro gli arresti e per le dimissioni del capo dell’esecutivo.
Quindi, non mi convince la fotografia e la sintesi di piazze riempite di “feccia piccolo borghese al soldo” dell’imperialismo e della borghesia a stelle e strisce, ammettendo però che qua e là pure qualche proletario c’era (visto che si parla di manifestazioni di almeno di più di un milione di persone). O si tratta di un effetto di fenomeno di massa tipo sciopero dei camionisti all’epoca del Cile di Allende, o di marce di camice nero o grigio brune, oppure i conti non tornano.
Da giugno in poi, fino ad agosto ed ai primi di settembre, in controtendenza alle premesse, le pance delle piazze state riempite da quei ampi settori sicuramente di piccola borghesia impoverita e semi proletaria (che poco ruotano intorno ai giri della finanza) e da ampi strati di proletariato solo parzialmente organizzato. L’immanenza delle condizioni di povertà, sfruttamento e crisi economica hanno animato le pance dei cortei.
Anche la modalità in cui sono state spontaneamente o no su come sono confluiti diversi settori sociali di masse durante le giornate di protesta più partecipate sono indicative: durante le piccole proteste spontanee qua e là nella città vi stato crescente e diffuso a macchia di leopardo il richiamo ad organizzare giornate di sciopero generale, della richiesta di una scesa in campo dei settori più decisivi dei lavoratori. In occasione delle giornate di giugno e poi di agosto diverse sigle della HKCTU avevano proclamato lo sciopero generale di categoria o di settore. La scelta stessa dei manifestanti di sostituire gli ombrelli gialli con i caschi gialli evoca diversi soggetti sociali.
Detto questo ancora oggi una posizione e politica di classe non è riuscita a farsi strada durante le manifestazioni, ma la presenza sociale del proletariato nella pancia dei cortei era forte. Con l’impennarsi della partecipazione di massa, la rivendicazione di una maggiore “autonomia dalla Cina” ha lasciato il passo alla più diffusa rivendicazione contro la repressione della polizia e contro l’essere definiti come rivoltosi terroristi e per le dimissioni del governo Carrie Lam (lo stesso governo che fino a pochi mesi fa rifiutava e rifiuta qualsiasi richiesta di legiferare in materia riconoscimento dei minimi salariali garantiti per legge).
Se ad oggi manca una chiara posizione autonoma della classe che faccia netta piazza pulita da chi tiene banco alle manovre dell’imperialismo, uno dei fattori principali è che è mancata e manca ancora anche la scesa del settore operaio decisivo e tradizionalmente più organizzato dei Donkers (settore operaio che è quello leggermente meglio garantito e che teme – come qui a casa nostra – i salti nel buio possano fare peggiorare la crisi economica e dunque le sue condizioni di vita).
Ma per potersi aprire la strada, il proletariato e la classe operaia di hong kong non può accodarsi alle posizioni della HKFTU a difesa dell’ordine e per la salvaguardia della economia. Non può rifiutare di battersi per paura di fare gioco all’imperialismo.
Non può non rilevare – come alcuni militanti sindacali temono e giustamente intuiscono – che l’accordo di estradizione con la Cina oggi, tende per il futuro ad allineare la legge di Hong Kong a quella esistente nell’intero mainland Cinese in tema di organizzazione ed agibilità sindacali.
Deve nella piazza e nella lotta fare chiarezza contro i falsi alleati e nei confronti della middle class che le bandiere a stelle e strisce sono bandite dalla piazza. Non può tirarsene fuori e di fatto, partecipando in massa alle giornate di protesta – sebbene ancora alla coda di una politica borghese –.
Guardando le notizie, leggendo sui siti locali, le grandi manifestazioni hanno avuto sempre la proclamazione dello sciopero generale, che poi a macchia di leopardo ed in diverse giornate è avvenuto per alcune categorie del lavoro. Altre due giornate di sciopero generalizzato sono state indette dalla HKCTU per il 28 e 29 settembre.
Queste giornate di sciopero sono state aspramente criticate dalla retorica nazionalista del governo locale e della HKFTU come dannose per l’economia e per i cittadini.
Paradossalmente la presenza riconosciuta nelle organizzazioni delle posizioni della HKCTU, che ha un attento occhio verso i lavoratori ed a difesa dei diritti degli operai del mainland cinese, solo questa presenza rappresenta un oggettivo ostacolo alle manovre dell’imperialismo occidentale a far deviare la protesta in una deriva “autonomistica”.
Chi sta e chi è sceso in piazza sono per la stragrande maggioranza giovani nati dopo il 1997, c’è poco di quel settore sociale piccolo e medio borghese che guarda al periodo “d’oro coloniale”. La battaglia nel difendere l’assioma “One Country, two systems” è figlio della fine del colonialismo. Non vi è il rifiuto ad essere parte della Cina (il mainland) ma la difesa delle piccolissime garanzie e tutele di agibilità sindacale che viceversa sono stati possibili proprio dal 1997 ad oggi.
La speranza è che nella battaglia possa emergere con maggiore chiarezza la necessità di una organizzazione e politica di classe contro il capitalismo internazionale. Che i deboli segnali attuali di sensibilità verso la repressione sindacale degli operai del mainland Cinese diventi un tentativo di richiamarli ad una lotta comune ad Hong Kong come a Shenzen contro i padroni Cinesi e occidentali e contro il capitale.
Il rischio che tutto questo possa essere da una parte risucchiato in una deriva autonomista, in uno con una entrata in scena più diretta della Cina, e che possa innescare viceversa uno scontro basato su traiettorie etnico linguistiche (l’avanzato e civile mondo Cantonese contro il retrogrado ed illiberale Mandarino a tutto vantaggio dei papponi di Pechino e Washington) è sempre uno scenario possibile, tanto più che la solidarietà internazionale ed internazionalista latita, tanto più che gli operai e la classe dal mainland cinese non avvii prime iniziative di solidarietà con i fratelli di Hong Kong e tanto più che la parte più compatta del proletariato dei Donkers non scende in campo.
Ma quanto è avvenuto da giugno in poi ha rappresentato e sta temporaneamente rappresentando un temporaneo ostacolo a questo facile esito sperato, e viceversa preoccupa l’imperialismo qui e la nuova borghesia finanziaria della Cina.
Tanto più che le linee prospettiche di guerra
commerciale –&nbs ; guerra imperialista tra
predoni America e Europa da una parte e Cina dall’altra,
spingono nel cuneo il proletariato internazionale, esseo non
può non riprendere il cammino attraverso passaggi critici,
difficoltosi e spuri, all’inizio senza chiarezza di una
prospettiva autonoma. Rafforzare la timidissima spinta inziale alla
solidarietà tra lavoratori di Hong Kong e di Shenzen,
sconfiggere in piazza la tendenza alla contrapposizione tra Cantonesi e
Mandarini è parte della battaglia contro
l’intruppamento dietro le baionette del capitale in Oriente
ed Occidente.
Alessio