Pubblichiamo il documento inviatoci dal Collettivo Autorganizzato Universitario
(CAU) di Napoli,
predisposto a commento di una recente inchiesta condotta all’interno di molte facoltà scientifiche e
umanistiche della Federico II e dell’Università Orientale di Napoli.
Le valide “riflessioni”
prospettate, ci fanno apparire l’immagine abbastanza esatta di un’università non più
considerata illusoriamente e definitivamente quale centro di promozione sociale, bensì quale centro
di educazione in funzione dello sfruttamento e del profitto, in conformità -
aggiungiamo noi - con il compito
istituzionale logicamente assegnatole.
La conclusione che ne deriva – assolutamente condivisibile –
è la necessità di una risposta politica di attacco alla linea capitalista nel suo insieme. Su questo
terreno invitiamo i compagni del CAU a proseguire un fraterno confronto ed approfondimento
reciproco, anche esaminando e valutando l’ampio materiale presentato all’interno del nostro sito.
22 ottobre 2013
L’università è cambiata, sta cambiando. Questo è quello che possiamo percepire, ma anche analizzare, guardando i luoghi che ogni giorno viviamo. Le aule, i corridoi, gli spazi verdi che ne fanno parte sembrano essere il teatro di una corsa irrefrenabile di soggetti atomizzati costretti ad essere produttivi durante la propria giornata, costretti ad ammortizzare i tempi “non utili”.
Quelli che una volta erano spazi di aggregazione e socialità, luoghi di confronto per gli studenti stessi e non solo, oggi tendono sempre più a diventare spazi di transizione in cui rincorrere e ’’meritarsi’’ un futuro che poi si rivela tutt’altro che stabile, in cui l’unica prospettiva possibile sembra essere quella di un lavoro sfruttato, precario e senza tutele di nessun tipo.
Che l’università pubblica non godesse di ottima salute non lo scopriamo oggi. Le riforme degli ultimi vent’anni hanno delineato in maniera decisa un’università sempre meno pubblica e di massa vista la spaventosa riduzione dei fondi destinati al diritto allo studio, sempre più orientata – nei tempi, nei modi e nella sostanza della didattica e della ricerca stessa – dagli interessi del capitale, dall’imperativo della produttività, assolutamente funzionale alle logiche del mercato del lavoro. Un’università ’’aziendalizzata’’, che ha fatto propri strumenti e dinamiche tipici del mondo dell’impresa, normalizzata e neutralizzata dall’ideologia del merito che ha il compito di abituare, disciplinare, educare incessantemente gli studenti alla frammentazione, gerarchizzazione e alla competizione sfrenata a cui andranno incontro una volta entrati nel mondo del lavoro. Un’università che – mentre forma la futura classe dirigente nei pochissimi ’’poli di eccellenza’’, tramite specializzazioni economicamente inaccessibili per la maggior parte della popolazione studentesca – tiene a parcheggio migliaia di studenti, un bacino enorme di forza lavoro estremamente appetibile, perchè già docile, poco specializzata e disposta a svendersi a bassissimo costo.
Non si discostano dal quadro che abbiamo appena abbozzato gli ultimi provvedimenti adottati dal ministro dell’istruzione dell’attuale governo Letta: la Carrozza non manca mai di sottolineare la centralità della ’’cultura dell’imprenditorialità” come base necessaria per instaurare la famosa ’’sinergia’’ tra formazione e lavoro, o meglio tra formazione e interessi di chi sfrutta il lavoro (basti pensare a stage e tirocini, vere e proprie prestazioni lavorative gratuite e obbligatorie).
Poggia su queste premesse la volontà di portare avanti, all’interno dell’università, un lavoro d’inchiesta che ci permettesse di analizzare ed effettivamente toccare con mano la condizione che attualmente vivono gli studenti per capire se e come sta cambiando e soprattutto verso quale direzione sta andando. E’ il tentativo – seppur su un campione minimo e parziale – di verificare se effettivamente le linee di tendenza che abbiamo provato ad individuare trovano riscontro nella realtà materiale.
L’indagine ha coinvolto un campione di 601 studenti iscritti sia a facoltà umanistiche che scientifiche dei due principali atenei presenti a Napoli: “Federico II” e “Orientale”.
La prima parte dell’inchiesta si proponeva l’obiettivo di indagare il numero degli studenti che percepiscono una borsa di studio e/o che hanno diritto ad un alloggio in una residenza universitaria e il livello generale di soddisfazione dei servizi offerti dagli atenei.
Relativamente al primo dato – borse di studio e alloggi – il solo 6% degli studenti coinvolti nell’inchiesta risulta essere vincitore di una borsa di studio. Il 92% invece, dunque la gran parte degli studenti a cui è stato somministrato il questionario, ha affermato di non ricevere alcun sostegno economico. Tra questi, il 25% costituisce la cosiddetta categoria degli “idonei non beneficiari”, studenti che hanno diritto alla borsa di studio ma che non la ricevono – a detta dell’azienda regionale per il diritto allo studio – per mancanza di fondi! La definizione a dir poco paradossale di ’’idoneo non beneficiario’’, oltre ad accomunare migliaia di studenti, mostra una tendenza in continua crescita: da una parte ogni anno vengono tagliati i fondi per il diritto allo studio, dall’altra aumentano esponenzialmente le tasse universitarie, prima tra tutte proprio quella regionale che dovrebbe garantire la copertura dei servizi per gli studenti.
La dice lunga e completa il quadro l’analisi dei dati relativa alla disponibilità di residenze universitarie: solo lo 0,9% (un solo studente su 102 fuorisede!) beneficia di un posto in uno studentato. Gli studenti fuorisede (pari al 16% degli intervistati) devono necessariamente fare ricorso ad alloggi privati, ovviamente nella stragrande maggioranza dei casi (il 65%) senza un contratto regolarmente registrato. E qui oltre al danno anche la beffa, poiché la mancanza del contratto impedisce la possibilità di essere riconosciuto come studente fuorisede per poter richiedere la borsa di studio!
C’è da stupirsi se l’86% degli studenti si dice insoddisfatto dei servizi che l’università (non) gli offre? Il dato fotografa perfettamente la difficoltà di una grandissima fetta di popolazione studentesca che trova ogni giorno più complicato il potersi pagare gli studi, investita dalla totale assenza di borse di studio, alloggi, mense universitarie, e dall’aumento pressoché ininterrotto delle tasse, dei libri di testo, degli affitti, dei costi del trasporto pubblico, etc...
Scorrendo ancora i dati che ci troviamo davanti, salta agli occhi la percentuale di studenti che ha dichiarato di essere fuori corso, il 20%. Siamo in presenza di studenti ’’sfaticati’’ o ’’poco meritevoli’’? Niente affatto. Il 30% di questi risulta essere studenti lavoratori delle prime fasce di reddito. L’indicazione è chiara: non si tratta né di merito né di volontà né di capacità del singolo, bensì di condizioni di partenza e possibilità concrete di vederle peggiorare o migliorare. Niente a che vedere, insomma, con la propaganda ufficiale di baroni e politicanti di turno, sempre pronta ad incolpare dell’intoppo o del momento di crisi il singolo individuo isolato, reo di non aver affrontato – con la giusta volontà e la giusto spirito di competizione – la ’’giungla’’ che lo aspetta fuori, di non essere stato capace di ’’farsi da solo’’. E così si solleva da ogni responsabilità l’unico responsabile: un sistema economico che di per sé genera disuguaglianza e marginalità sociale, di cui allo stesso tempo si alimenta. La logica che marchia i ’’fuoricorso’’ come fannulloni è la stessa che definisce ’’lavoratori improduttivi’’ quelli che, ad esempio, si oppongono alla riduzione delle pause durante l’orario lavorativo (Marchionne docet) perchè riconoscono che i propri interessi divergono completamente da quelli della “grande famiglia” che è l’azienda.
La seconda parte del questionario che abbiamo distribuito era rivolta agli studenti-lavoratori. Anche qui, i dati con cui ci siamo confrontati – in particolar modo soffermandoci sugli studenti appartenenti alle fasce di reddito più basse – sono eloquenti.
Vediamo meglio. Ben il 78% degli studenti lavoratori si trova nella prima e nella seconda fascia di reddito (fascia bassa e medio bassa), il 30% di questi dichiara di essere idoneo non beneficiario, il che significa che avrebbero tutto il diritto a beneficiare della borsa di studio ma di fatto non ne vedono neppure l’ombra. Come fare allora a riuscire nell’impresa di laurearsi se non si proviene da una famiglia che riesce a coprire le spese universitarie e non si riceve nessun tipo di sostegno – anche laddove spetterebbe di diritto? Ancora una volta i dati sono chiari: l’80% degli studenti lavoratori di cui stiamo parlando lavora a nero, i 3/4 guadagna meno di 100 euro a settimana, pur svolgendo in media 25 di lavoro. Al sud la percentuale del lavoro nero risulta essere più consistente, non consentendo nemmeno la possibilità di essere riconosciuto come studente – lavoratore, comportando l’automatica uscita fuori corso, il pagamento di tasse più elevate e la mancanza dei parametri richiesti per la domanda della borsa di studio.
E i pochi ’’fortunati’’ ad avere un contratto? Neppure uno di questi appartiene alla fascia di reddito più bassa e solo il 10% possiede un contratto a tempo indeterminato. Tutti gli altri sono costretti a piegarsi alle forme contrattuali più assurde (dal contratto a cottimo, passando per l’apprendistato e il contratto a progetto, per finire con il contratto ’’a chiamata’’, e potremmo continuare...) e che, ovviamente, non garantiscono nessuna tutela, nessuna stabilità, nessuna tranquillità, neppure a brevissimo termine.
Eccola, la sinergia tra mondo della formazione e mondo del lavoro! Sembra essere questo il punto in cui effettivamente i due universi convergono: la deregolamentazione del mercato del lavoro, resa praticamente strutturale e accelerata dalle riforme degli ultimi anni (solo per citarne alcune: l’utilizzo ampiamente diffuso di ’’contratti atipici’’, l’attacco costante allo statuto dei lavoratori, la modifica del sistema pensionistico introdotta dalla cosiddetta riforma Fornero) si alimenta anche attraverso il ricatto cui è costretto lo studente lavoratore. Che si tratti di camerieri, centralinisti di call center e animatori per qualche spicciolo, oppure brillanti tirocinanti non pagati, la sostanza è la stessa: zero garanzie e zero possibilità di costruirsi una vita dignitosa. Altro che accumulare esperienze qualificanti e formative che arricchiscano il curriculum! Un presente schiacciato tra la necessità di ’’tirare a campare’’ – il 40% degli studenti-lavoratori di reddito medio-basso hanno dichiarato di lavorare per mantenersi gli studi o contribuire al bilancio familiare – e un futuro che sono davvero in pochi a potersi permettere il lusso di scegliere.
Insomma, i provvedimenti che hanno interessato il nodo strategico della formazione negli anni, di fatto, hanno anche finito col ridisegnare i rapporti tra capitale e lavoro, sia pure in maniera indiretta.
Ecco perchè per noi è fondamentale occuparsi di lavoro all’interno dell’università. Non solo per la centralità ideologica e strutturale che il mondo della formazione ricopre, ma anche e soprattutto perchè la condizione di noi studenti è transitoria e di passaggio, già proiettata verso l’inserimento futuro nel mercato del lavoro. Fare politica all’interno delle facoltà è necessario per chi si pone l’obiettivo di costruire una rete di solidarietà tra tutti quei soggetti che vogliono riconoscersi come un’unica parte radicalmente contrapposta a quella di chi sfrutta, isola, frammenta e divide.
È per questo che noi ci mobilitiamo con un lavoro costante e quotidiano in questi luoghi, per provare a sedimentare elementi di “coscienza di classe”, preoccupandoci tanto dell’ambito vertenziale e delle rivendicazioni immediate di chi frequenta scuole e facoltà, quanto di ciò che ci ’’aspetta’’ fuori.
Ogni battaglia, ogni lotta che riusciamo a ricomporre, a connettere, è un tassello che viene a mancare nel puzzle di chi ci comanda che noi sappiamo essere – al di là della compattezza apparente – ricco di contraddizioni e di crepe. Un disegno, quello dei padroni, che costruisce false opposizioni e restituisce soluzioni illusorie e che non sempre è in grado di delimitare il terreno entro cui ’’lasciarci liberi’’ di agire.
E’ proprio perché ci interessa provare ad incidere sulla contraddizione principale che muove la nostra società, quella tra chi sfrutta e chi viene sfruttato, che portiamo all’interno delle nostre aule rivendicazioni di più ampio respiro.
Ci dicono che è il momento dei sacrifici, dell’austerità, il momento in cui dobbiamo essere flessibili e produttivi in nome della ripresa e della crescita. Noi invece sappiamo che esiste una prospettiva diversa rispetto a quella che vorrebbero imporci e che hanno già tracciato: quella dell’organizzazione, della presa di coscienza e della lotta per immaginare e costruire un presente ed un futuro radicalmente diversi rispetto all’esistente.