nucleo comunista internazionalista
note



In margine alla vertenza del vigili urbani di Roma

COME (NON) SALVARE CAPRA E CAVOLI

Alcune proposte “innovative” per rivitalizzare l’“arma spuntata” dello sciopero

La notizia sull’astensione dal lavoro della polizia municipale di Roma lo scorso 31 dicembre è sopraggiunta con lo stesso fragore dei botti di quella notte: l’assenza in massa dei vigili urbani ha raggiunto un intollerabile 83%!

Le prime informazioni di stampa fornivano – più o meno esplicitamente – il quadro di una vigilanza urbana assimilabile al corrotto Dipartimento di polizia della New York degli anni ’30, con la sola differenza che, qui da noi, il marciume riguardava soltanto la base e non i vertici. L’azione “criminosa” sarebbe stata in effetti concordata per salvaguardare precisi spazi di potere consolidato (ed in particolare i proventi illeciti che ne deriverebbero), opponendosi all’azione moralizzatrice adottata dalla Giunta, da attuarsi mediante rotazione territoriale e degli incarichi.

In un breve volgere di tempo, la condotta delittuosa è stata derubricata in assenteismo, anch’esso assai grave ma per motivi di tutt’altro tenore, riguardanti cioè il danno arrecato all’intera collettività cittadina e quell’ “83%” ha continuato a risuonare fino ad imprimersi indelebilmente nella memoria di ogni benpensante, anche se, a poco a poco, il fenomeno è stato ulteriormente ridimensionato, con la precisazione che quella percentuale non si riferisce all’insieme dei 6.000 vigili dipendenti, ma solo a quel migliaio tenuto a prestare servizio. Tenendo infine conto delle assenze normativamente “giustificate” (come il dono sangue o l’assistenza ad inabili) quelle “ingiustificate” si aggirerebbero, allo stato attuale delle cose, intorno ad un modestissimo 0,5 % della forza totale del corpo.

Alla fine, soprattutto in seguito alle prese di posizione delle organizzazioni sindacali, la vertenza è stata ricollocata nell’ambito del confronto che da tempo contrappone i vertici capitolini (comando dei vigili incluso) e i dipendenti comunali, che rischiano una consistente riduzione dei salari attraverso un taglio netto e pesante delle voci accessorie.

Ed è partendo da questo aspetto (tralasciando l’analisi dei motivi che hanno portato alla clamorosa azione) che intendiamo formulare alcune brevi riflessioni di carattere più generale riguardo ai mezzi di lotta attuati dai lavoratori.

Una necessaria premessa

Sgombriamo innanzitutto il campo da considerazioni moralisticheggianti sull’atteggiamento del premier Renzi (e della “solita stampa di regime”), che si è vampiristicamente impossessato della notizia per dichiarare il 1° gennaio, sul suo Twitter: “Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano ’per malattia’ il 31 dicembre. Ecco perché nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego”.

Al di là della sua spocchia spesso indisponente e provocatrice, dev’essere ben chiaro che sta semplicemente facendo il proprio mestiere, quello cioè di fiduciario della borghesia, interessata allo svecchiamento dell’apparato statale, per adeguarlo ai programmi ed alle necessità politiche dell’azienda Italia. I tempi delle vacche grasse sono finite da quel dì e quindi le residue nicchie di privilegi e clientelismi – in passato politicamente assai “produttive” anche all’interno del pubblico impiego – si sono rese assolutamente incompatibili. Quello che serve è un apparato snello, flessibile, pronto ed “ubbidiente”, alieno dall’accampare tutele e diritti che possano intralciare i lavori del manovratore. Ecco allora la preannunciata priorità della riforma della pubblica amministrazione, quale importante tessera del mosaico che rappresenta la coesione nazionale, in cui tutte le “forze” (ossia tutte le classi) dovrebbero collaborare per la crescita e l’affermazione dell’azienda Italia in campo europeo ed internazionale, lasciando da parte interessi e particolarismi.

Una riforma – sentiamo tontonare quasi quotidianamente – nell’interesse di tutti i cittadini, perché “soltanto se l’azienda è sana anche i lavoratori ci guadagnano... ”.

Che sia conveniente anche per i proletari tagliare i rami secchi dello Stato, mantenuti e alimentati a loro spese (con tasse, imposte e trattenute in busta paga) è un dato di fatto. Ma sono il metodo e gli obiettivi di questi interventi che evidenziano una inconciliabile contrapposizione di interessi.

Innanzitutto il metodo. La riforma renziana punta soprattutto a sfoltire il personale, lasciando immutata, ed anzi perpetuandola, tutta una serie di norme macchinose, tortuose e palesemente anacronistiche, con un conseguente aumento dei carichi di lavoro dei dipendenti. Ai proletari, al contrario, interesserebbe una semplificazione normativa in funzione di un servizio pubblico meno pletorico, meno costoso e più funzionante, eliminando anche il ricorso (oggi indispensabile) ad ogni sorta di “consulenti tecnici”, a partire dalla tutela dei propri diritti civili per finire agli adempimenti fiscali...

Ancor più incompatibili – senza dilungarci in considerazioni arci-note – sono gli obiettivi: da una parte il rilancio e l’accrescimento dei profitti, dall’altro il soddisfacimento dei bisogni sociali.

La scelta di uno dei due campi dovrebbe (sottolineiamo il condizionale!) comportare l’adozione di mezzi di difesa e di attacco coerenti con tale scelta, ma non è sempre così, in particolare per quanto riguarda gli strumenti di lotta sindacale.

Già da lunga data, infatti, si sta sviluppando un’aperta critica alle modalità di attuazione dello stesso sciopero, che dev’essere “ripensato” e “aggiornato” in base ad esigenze e situazioni nuove, a partire dal settore dei pubblici servizi, ma negli ultimi mesi si è giunti ad una critica radicale che ne mette in discussione l’utilità stessa.

Uno“sciopero intelligente”

Capofila del nuovo “revisionismo” è la Fit Cisl (la federazione trasporti di quel sindacato): “Lo sciopero, così come l’abbiamo conosciuto e fatto, è diventato inutile” (si veda l’articolo “Lo sciopero dei bus? Si fa lavorando” –  “L’Espresso” del 9 ottobre 2014). Le ragioni di tale fallimento sono semplici. Nei trasporti pubblici, durante lo scorso anno, si è avuta una media di oltre uno sciopero al giorno (modalità “selvaggia” inclusa), ma l’arma è risultata spuntata, dato che “scioperiamo da anni senza un risultato”, nella “totale indifferenza” delle aziende di trasporto e delle loro associazioni (della serie “Guardie e ladri”, dove, di fronte alla minaccia di Fabrizi di sparare “a scopo intimidatorio”, Totò risponde imperturbabile: “E io non mi intimidisco”).

Il problema principale è che “ogni volta che scioperiamo nel trasporto pubblico ci rimettono i lavoratori, che perdono lo stipendio, e i cittadini, che non possono usare i mezzi”. Non vi sembra di sentire, nel sottofondo, le stesse argomentazioni di Renzi sull’inutilità e dannosità delle azioni di sciopero nei pubblici servizi?

E’ proprio la questione dei disagi per gli utenti, che unisce in maniera trasversale forze con interessi potenzialmente contrapposti e che viene rimarcata con forza in ogni occasione, come nella vertenza dei vigili romani: "Non è accettabile che a subire gli effetti della protesta siano i cittadini utenti", ha tuonato il Garante per gli scioperi (prontamente affiancato e supportato dal Codacons che ha presentato un esposto per eventuale interruzione di pubblico esercizio), sottolineando che esiste una legge che “disciplina l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici e solo all’interno delle regole da essa previste è possibile scioperare”.

Approfondendo ulteriormente la propria critica, la Fit Cisl fa rilevare che, con lo sciopero, “le aziende guadagnano tre volte: risparmiano sui salari e sul gasolio per gli autobus che non escono, e in moltissimi casi prendono lo stesso i contributi pubblici”. A questa difficoltà se ne aggiunge un’altra, non meno grave: “Siamo sempre più impopolari verso i cittadini, ma anche i lavoratori stessi si disaffezionano”, con esplicito riferimento alla difficoltà di mantenere il consenso fra gli iscritti, vista la nullità dei risultati.

La diagnosi non può essere che una sola: “E’ tutto sbagliato, è tutto da rifare” (secondo le indicazioni del noto campione ciclistico di un tempo). Ed altrettanto drastica è la cura proposta, basata su un ritrovato – parola di Cisl! – ad alto effetto curativo: lo “sciopero intelligente”, consistente in una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare che preveda il parziale rimborso agli utenti, da parte dell’azienda trasporti, per i disagi subiti nelle giornate di sciopero, nonché la perdita dei contributi regionali alle aziende stesse – ove previsti – da destinarsi all’incremento dei fondi bilaterali di solidarietà ed a finanziare corsi di riqualificazione per i lavoratori o altri sostegni per crisi occupazionali.

In tal modo si salverebbero capra e cavoli: i lavoratori potrebbero continuare a scioperare, ma con animo più sereno (una volta rimosso l’anatema incombente sulle loro azioni rivendicative) e gli utenti sarebbero garantiti contro seccature e danni pecuniari.

Saremmo degli ingenui inguaribili se ci aspettassimo, da parte cislina, la presa d’atto che a spuntare le armi di difesa dei lavoratori hanno contribuito in larga parte la divisione nelle loro file (spesso indotta dalla stessa attività frammentatrice del sindacato) e le pesanti limitazioni allo sciopero (accettate senza opposizione alcuna in funzione della salvaguardia dell’economia nazionale), e soprattutto se ci attendessimo delle azioni concrete che riportino in primo piano la necessità di unificare le lotte, creando momenti di solidarietà concreta non tra generici cittadini, ma tra proletari, partendo da problemi immediati e categoriali per puntare in prospettiva alla risalita su su fino alla ricostituzione dei necessari legami internazionali. Ci limiteremo, quindi a due semplici domande.

Se – come dite – le controparti sono al momento totalmente indifferenti nei confronti delle azioni di lotta, dato che queste non intaccano i loro proventi, pensate che saranno costrette a cedere nel caso – molto aleatorio! – in cui lo “sciopero intelligente” le dovesse privare di una parte di entrate, o non credete piuttosto che si rifarebbero aumentando i costi per gli utenti o ricorrendo ai ripiani del disavanzo (sempre gravanti sulle solite spalle dei lavoratori)? In entrambi i casi si tratta di immondizia, anche se momentaneamente invisibile perché nascosta sotto il tappeto!

Ed ancora: visto che in ogni azione di sciopero è insito il pericolo di intralciare, se non danneggiare, la ripresa ed il consolidamento dell’economia nazionale (da voi difesa ad oltranza), sarà sufficiente un occhio di riguardo verso l’utenza per assolvere i lavoratori dall’accusa di “sabotaggio” e ridare credibilità ed efficacia al loro principale mezzo di lotta?

Uno “sciopero a rovescio”

La stessa necessità di rinnovare le forme di lotta “inventandone altre adeguate ai tempi” viene condivisa anche dal leader della Fiom, Maurizio Landini (Intervista a “L’Espresso” del 2 ottobre 2014: “Farò uno sciopero a rovescio”).

Analoga anche la preoccupazione per la “situazione drammatica” in cui si dibattono i lavoratori e la volontà di “ricostruire la solidarietà tra persone, ridare identità a tanti cassintegrati schiacciati dall’inattività fino al suicidio, richiamare i disillusi nel sindacato”.

A questo punto la linea Landini imbocca un percorso proprio, che giungerà a conclusioni operative del tutto diverse rispetto a quelle della Cisl. Seguiamone il ragionamento.

La ragione di fondo del disastro evidenziato “sta negli errori e nelle cose non fatte dalla politica e dal sindacato”, ma ora, di fronte all’attacco frontale portato dal Governo (volto a “far sparire i diritti all’orizzonte di tutti”, con l’abolizione dei contratti nazionali e la messa in competizione tra loro dei lavoratori), “è necessaria una visione che includa tutti, occupati e no, e dia un nuovo senso alla comunità dei lavoratori. Altrimenti il conflitto sociale che esploderà sarà ingestibile”.

Come evitare cotanta iattura? Tenendo i piedi ben saldi sul solido terreno dei principi costituzionali (!!??), credendo nella giustizia sociale (da esportare in tutta Europa) e soprattutto mettendosi al passo coi tempi nuovi: “I vecchi riferimenti sono saltati. Come fai a parlare di uguaglianza delle opportunità a un ragazzo che non trova lavoro e che vede il suo amico trovarlo perché conosce qualcuno? Come fai a dire «Proletari di tutto il mondo unitevi» a un operaio italiano e a uno polacco messi in competizione dalla Fiat? Tutto va ripensato”.

Nella nostra asineria eravamo convinti che fosse vero proprio il contrario, che cioè la spinta all’unificazione delle lotte potesse trarre origine – a determinate condizioni – proprio dall’analogia delle situazioni di sfruttamento, pur in paesi diversi, ricordando nuovamente, a tale proposito, l’appello del Sindacato Unitario della Zastava che, in un suo comunicato del 23 luglio 2010, denunciail tentativo di dividere i lavoratori dei nostri due paesi e invita all’unità di tutti i lavoratori del gruppo Fiat”). Ma ci eravamo evidentemente sbagliati. Accingiamoci allora, da bravi scolaretti, ad ascoltare la nuova lezione (anche se, come vedremo, non è proprio tale).

Il perno centrale su cui ruota tutto l’impianto è “il lavoro come bene comune”. “Accanto allo sciopero tradizionale, e magari in contemporanea, chiameremo a fare opere socialmente utili tutti quelli che sono interessati al lavoro: disoccupati, cassintegrati, ragazzi senza una prospettiva. [...] Potremo dare una mano alle cooperative che gestiscono i beni confiscati alle mafie, fare controlli sull’assetto idrogeologico e interventi sugli argini a rischio, organizzare la vigilanza nei territori occupati dalla criminalità, mettere insieme squadre per la pulizia delle città e costruire in quelle d’arte eventi che creino un ponte tra lavoro e cultura”.

Sorge spontanea una domanda: tutto gratis? Pare proprio di sì. Tanta sarà la gioia del lavoro, evidentemente, che lo stomaco non oserà reclamare! Del resto – come dicevamo – non si tratta di una novità, ma di un’esperienza con tutte le carte di validità in regola, come dimostrato (Landini dixit!) dalla lotta che negli anni ’50 ha visto protagonisti 12 mila dipendenti, che per un anno intero hanno occupato l’azienda “Reggiane”. “Oltre a costruire da soli dei trattori, gli operai si inventarono, appunto, lo «sciopero a rovescio» e riassettarono gli argini del Po”.

Tralasciamo ogni considerazione sulla tenuta e sul collocamento storico-temporale di questo pur eroico episodio, nonché sulla forzata limitatezza di ogni forma di autogestione, ove non riesca a superare il proprio isolamento iniziale ed a collegarsi ad un movimento di lotta più generale. Invece, se l’analogia con la proposta Landini “ci azzecca”, ci pare di capire che i lavoratori della “Reggiane” donassero in beneficienza i prodotti del loro lavoro, ritenendosi ampiamente appagati anch’essi – nello spirito e nello stomaco – dalla gioia del lavoro.

Anche in questo caso il teorema della doppia salvaguardia è rispettato: per i proletari è garantito l’uso della “gioiosa macchina da guerra”, per la comunità nazionale gli eventuali disagi vengono compensati con i frutti insperati prodotti dallo sciopero.

Noi ci permetteremmo di suggerire una piccola aggiunta integrativa: l’iscrizione ad honorem dei lavoratori nelle locali sezioni dei boy-scauts!

Verso una ripresa del conflitto?

In questo clima di sfiducia generalizzata negli strumenti classici della lotta sindacale non può stupire l’opzione scelta dai vigili, rivolta – sostanzialmente – a salvare soltanto i cavoli propri, ossia a produrre tutti i disagi connessi allo sciopero, ma senza dover sacrificare una parte del proprio stipendio. Ed è stata proprio questa “insensibilità” verso i diritti dei cittadini-utenti a suscitare la presa di distanza da parte dei confederati che, in una nota congiunta, pur denunciando il mancato rispetto delle regole da parte del Comune di Roma, “che vuole applicare un accordo unilaterale, senza intesa con i sindacati” e rinnovando la richiesta di un urgente confronto “per attivare le misure indispensabili per organizzare al meglio il delicato servizio ai cittadini che i vigili sono tenuti ad erogare”, stigmatizza “con forza i disagi che si sono verificati nella notte di Capodanno; è nostra opinione che le responsabilità di quanto successo vadano ricercate comunque a 360 gradi, e gli abusi se accertati, puniti. Cgil Fp, Cisl Fp e Uil Fpl anche questa volta non hanno in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti".

Il tentativo di aggirare tali norme (che di fatto sterilizzano ogni possibilità di difesa), il “disinteresse” per i disagi dell’utenza, la volontà di difendere collettivamente le proprie condizioni possono rappresentare un segnale positivo di ripresa della conflittualità, ma soltanto a condizione che, a partire da tali premesse, si sviluppi una vera lotta, senza espedienti più o meno furbeschi che creino l’illusione di poter vincere ogni battaglia senza perdite, puntando all’unificazione con le lotte di tutti gli altri proletari, infrangendo l’involucro che lega i lavoratori alle sorti dello Stato.

14 gennaio 2015