Gli
imperialisti d’Occidente soffiano sul fuoco delle proteste promosse
dall’alta borghesia del Venezuela per far fuori il governo Maduro,
mentre nel paese avanza la crisi e con essa il disagio della
popolazione e delle fasce sociali più povere
L’imperialismo nordamericano riserva da sempre un’attenzione speciale ai paesi dell’America Latina. Nei decenni 1980-1990 l’imperialismo ha stretto il cappio del debito estero al collo del continente latino-americano, con i programmi di “aggiustamento strutturale” del FMI e relative “riforme neoliberiste” che hanno garantito le libere scorribande dei capitali occidentali, riducendo gli spazi di sviluppo autonomo di quei paesi e aggravando la povertà delle popolazioni. All'inizio degli anni '90, fu creato dapprima il NAFTA, mercato con regole comuni per USA, Canada e Messico, e successivamente si affacciò l'idea dell'ALCA (rivolta all'America Latina) per serrare sotto la morsa della “supremazia” statunitense il mercato del Sud-America. Il programma dell’imperialismo ha peraltro incontrato non poche difficoltà ad imporsi: i paesi della regione si sono poco a poco “emancipati” dall' “aiuto” del FMI, e in più di un paese poderose mobilitazioni di piazza hanno messo in arcione governi “progressisti” non telecomandati dall’imperialismo. Cuba, va da sé, è stata una costante spina nel fianco degli USA. La sua resistenza è stata possibile solo grazie all'aiuto (interessato) dell'ex-URSS; dopo il crollo di quest'ultima, la resistenza cubana ha mostrato la corda… e provvidenziale è stato l'aiuto fornito dal Venezuela di Chavez. Su impulso di questi due paesi -il Venezuela di Chavez e Cuba- si è materializzata nel 2004 l'Alianza bolivariana para América Latina y el Caribe (ALBA), contrapposizione frontale all'ALCA che ha raccolto la pronta adesione di Bolivia, Equador, Nicaragua e di Stati caraibici minori. In questo contesto la Cina “con l'aumento degli investimenti e dei prestiti nei paesi latino americani ha contribuito a ridurre il peso finanziario ed economico di Washington”. Gli investimenti cinesi “in genere non comportano clausole di contropartita politica” (“…differenza importante”), e “l'espansione economica della Cina nella regione è stata provvidenziale per i governi progressisti, perché ha permesso loro di attuare politiche sociali audaci” (Le Monde Diplomatique gennaio 2017).
Ora la crisi globale del capitalismo determina gli imperialisti a presentare il conto finale ai governi nazional-popolari dell'America Latina. Negli ultimi anni ci sono stati colpi di stato teleguidati (vedi Honduras 2009; Paraguay 2012), e vi è stata la sconfitta dei governi “progressisti” in Argentina ed in Brasile. Governi giammai orientati alla prospettiva del socialismo, compromessi in mille modi con la rete degli interessi capitalistici e con la stessa cupola imperialista il cui giogo sul proprio paese vorrebbero semplicemente allentare, così finendo per alienarsi il sostegno e spegnere la spinta popolare che ha garantito ad essi l’iniziale affermazione. Prova ne è stata la piazza brasiliana, che ha subito senza reagire l’incredibile golpe istituzionale di Temer (già alleato del PT), mentre solo da ultimo la protesta è iniziata a salire con lo sciopero generale contro le misure antiproletarie di Temer... Vi è stata poi la politica di Obama di “apertura” verso Cuba, strategia di “promozione della democrazia” che ha mandato in visibilio i nostri “sinistri”: invero si è trattato di ottenere con la penetrazione economica quello che non è stato possibile ottenere con il pluridecennale embargo. Non a caso Obama il 9 marzo del 2015 dichiarava il Venezuela una “minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli Stati Uniti”, invocando contro di esso l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) analogamente a quanto stabilito per Iran, Myanmar, Sudan, Russia, Zimbabwe, Siria, Bielorussia e Corea del Nord. Successivamente Obama ha parzialmente ritrattato, confermando però che gli "Usa seguono con molta preoccupazione come il governo del Venezuela continui a sforzarsi nell’intimidazione dei suoi avversari politici, con atti come l’arresto e le incriminazioni di politici e funzionari eletti di opposizione, e con la continua violazione dei diritti umani”. Non ci risulta peraltro che i capobastone imperialisti abbiano avuto qualcosa da obbiettare quando il parlamento brasiliano ha “incriminato” e destituito il presidente Roussef, pur essa “eletta” dai brasiliani. Vediamo invece che anche Gentiloni si sente in dovere di indirizzare a Maduro avvertimenti e moniti se non farà quello che vogliono le opposizioni: “restituire centralità al parlamento” (controllato dalle opposizioni), revocare la convocazione dell’Assemblea Costituente, “garantire il diritto a manifestare pacificamente” (“manifestazioni pacifiche” con tanto di linciaggi e roghi di militanti chavisti con manovalanza criminale e finanche ragazzini assoldati per compiere gli assalti). Appena eletto Trump, in continuità con Obama, ha promesso: “Caccerò Maduro dalla presidenza del Venezuela”. E se il New York Times punta il dito contro “istituzioni alla Soviet in un paese con le più ampie riserve petrolifere al mondo”, in realtà l’articolata costituzione della “Repubblica bolivariana” non travalica l’orizzonte borghese, per rivoluzioni nazional-popolari, quella venezuelana e cubana, sorte -in paesi dominati dall’imperialismo- dalla necessità oggettiva della classe borghese locale di ritagliarsi uno spazio di sviluppo autonomo; al tempo stesso però rivoluzioni prese in carico (più o meno energicamente) dalla spinta delle masse proletarie e contadine vitalmente interessate a scrollarsi di dosso il peso insostenibile di una doppia oppressione; in quanto tali fattori storici altamente positivi e rivoluzionari (come documentato nella raccolta “Scritti sulla questiona nazionale e coloniale nel secondo dopoguerra” pubblicata a cura del nostro nucleo). Il socialismo e i Soviet non c’entrano, e confidiamo che agli imperialisti sia data in futuro la possibilità di rinfrescargliene a dovere la memoria. Quel che vediamo oggi in Venezuela e altrove è che il programma nazional-borghese delle rivoluzioni anticoloniali, conchiuso nell’illusione di uno sviluppo indipendente del proprio paese nell’indiscusso orizzonte del capitalismo, non è in grado di regolare i conti all’imperialismo, che prima o poi si ripresenta facendo saltare i fragili argini di autonomia a tinte sociali eretti contro di esso, puntando a ristabilire il suo integrale dominio.
Con la scoperta di ingenti giacimenti di petrolio, l’attività petrolifera è divenuta il settore trainante del Venezuela, a fronte di una costante e vertiginosa decrescita dell’attività agricola (produzione di caffè e cacao). Nel 1999, quando Chavez arrivò al potere, il petrolio totalizzava ben l'85,8% delle esportazioni. Il governo chavista ha potuto contare negli anni passati su tale rendita per attuare una politica redistributiva a favore delle fasce più povere. Nonostante i tentativi, Chavez non è riuscito a uscire dalla “monocoltura” petrolifera, mentre l'integrazione economica con gli altri paesi dell'America latina (ALBA) è stata parziale, non potendo vincere la forza dell'imperialismo sui mercati internazionali. Inoltre le alleanze attuate dal chavismo hanno una base rigorosamente statuale, e, se gli Stati alleati vacillano o si ri-allineano all’imperialismo, è ovvio che anche il Venezuela vacilli. Fermo che una larga parte dei proventi “petroliferi” sono finiti nella costruzione di un grande apparato burocratico-militare, fulcro dell’attuale sistema di potere, è indubitabile che Chavez ha promosso considerevoli programmi sociali in campo sanitario, educativo, abitativo (le cosiddette Missioni Bolivariane, tra esse le Mission Vivienda per la costruzione di alloggi popolari a basso prezzo). Riforme analoghe a quelle attuate a Cuba (che, senza rendita petrolifera e con la monocultura della canna da zucchero, ha attuato riforme ancor più strutturali ed incisive, quella agraria e sanitaria innanzitutto). Quando nel 2015 è esplosa la crisi alla frontiera tra Venezuela e Colombia, è venuta a galla la questione del contrabbando organizzato dalle formazioni paramilitari colombiane, divenuto -nelle condizioni date- attività più lucrosa dello stesso traffico di droga. Con il Venezuela afflitto dall’iper-inflazione e dalla penuria di generi di prima necessità (latte, riso, farina, zucchero, carta igienica), in quel tratto di frontiera prospera il mercato nero dei beni sussidiati dal governo bolivariano: la benzina, il cui prezzo in Venezuela è bassissimo, e gli alimenti sussidiati. Si fa incetta di beni alle condizioni venezuelane per rivenderli ai prezzi colombiani (le autorità venezuelane hanno denunciato 28.000 tonnellate di derrate alimentari e 40 milioni di litri di benzina sequestrati in transito dal Venezuela alla Colombia). Nella confinante Colombia più dell’80% della merce è risultata di provenienza venezuelana, e lo Stato venezuelano del Tàchira risulta consumare l’8,5% del totale nazionale a fronte di una popolazione che non supera il 4,5%. In soldoni buona parte di quel che il governo di Caracas destina al Tàchira varca la frontiera e finisce nel contrabbando. Nondimeno quando Maduro ha accennato a chiudere la frontiera, il governo di Bogotà ha inviato rinforzi militari ed è ricominciata la cagnara internazionale sui “diritti umani” dei colombiani respinti alla frontiera, costringendo Caracas ad aprire “corridoi umanitari”. Sui “diritti umani” dei colombiani residenti in Venezuela (sono 5,6 milioni, e usufruiscono come ogni venezuelano delle politiche sociali garantite dallo Stato), Maduro ha replicato opponendo l’alfabetizzazione di oltre 200.000 colombiani nel sistema educativo del Venezuela, quando in Colombia l’educazione è privata e non è garantito alcun diritto allo studio.
Come ognun vede la politica timidamente centralizzatrice del governo venezuelano, finalizzata a sostenere programmi sociali, pur iscritta in una cornice che non mette in discussione l’ordine borghese, si rivela come un intralcio insopportabile per la violenta anarchia della rete di interessi capitalistici che avvinghia i paesi dell’America Latina. Per contrastare il riformismo chavista già nel 2002 ci fu un tentativo (fallito) di colpo di stato contro Chavez con l'aiuto dei grandi media e di Washington, aiuto prontamente accolto dalla media-grande borghesia venezuelana e dall'alto clero e supportato da un lungo sciopero del settore privato e degli alti dirigenti del settore petrolifero (nazionalizzato). Annotiamo peraltro che il percorso del “terribile ed anti-democratico regime chavista” è costellato da molte tornate elettorali, regolarmente perse dalla opposizione, che, quando ha vinto, ha avuto il riconoscimento della vittoria (ad es. il chavismo fu sconfitto al referendum costituzionale del 2007 da parte della opposizione del MUD - Mesa de la Unidad Democratica). Non male per un governo “rivoluzionario” che periodicamente sottopone il programma del “socialismo del XXI secolo” all'esame elettorale di TUTTE le classi!!! Sia detto a conferma che non di politica rivoluzionaria si tratta, ma di riforme sociali da attuarsi per via rigorosamente democratico-elettorale, sempre preservando la proprietà e l’iniziativa privata, e anzi con ponti continuamente lanciati ai settori di borghesia disposti a collaborare. Detto ciò senza sminuire la portata e l’impatto dei programmi in parola. Un gioco pericolosissimo, posto che la borghesia può anche collaborare finché sono garantiti i suoi profitti, ma inizia immancabilmente a schiumare rabbia e a pretendere “il cambio” se poco poco li vede messi in pericolo.
I nodi vengono dunque al pettine. La caduta del prezzo del petrolio, l'aggravarsi dell'indebitamento, il fatto che molti prodotti importati “per uso sociale” finiscono al mercato nero (quindi anche una penuria di prodotti essenziali “creata” ad arte, con conseguente malcontento popolare anche nei settori chavisti), la siccità impressionante con ripercussioni gravissime sulla fornitura di energia elettrica (il 70% dell'energia è di fonte idroelettrica), la mancanza di acqua potabile, hanno creato una situazione gravissima. L'opposizione neoliberista, che ha vinto le elezioni legislative del dicembre 2015 ed ora controlla l'Assemblea nazionale, rieditando quanto già tentato nel 2014, ha scatenato la piazza, teatro di una vera e propria guerriglia urbana, le “guarimbas” (proteste violente con barricate), partecipate e dirette da elementi della media borghesia. Proteste sostenute da un ampio fronte interno (classe imprenditoriale, alto clero, ONG e sindacati gialli) ed esterno (gli USA e l’intero Occidente; da ultimo anche Israele ha iniziato ad abbaiare contro Maduro). Già nel febbraio del 2016 il documento “Venezuela Freedom 2” del Comando Sur degli USA stilava i punti per la destabilizzazione del paese: “Indebolire Maduro, evidenziandone il castrismo e la dipendenza da Cuba in chiave propagandistica, oltre alla sua contrarietà alla proprietà e al libero mercato”, puntando sulla “crisi economica, la crescente povertà, la violenza diffusa e la violazione dei diritti umani”, e senza escludere un eventuale intervento militare. Il manifesto del 13/06/17 ha riferito delle manovre intraprese dal Comando Sur degli USA davanti alle coste del Venezuela. A questa situazione il governo Maduro ha risposto sul piano sociale con misure di razionalizzazione interna e di potenziamento, per quanto possibile, dei piani sociali tramite i Comitati Locali di Rifornimento e Produzione, le Missioni etc.; ma anche con tentativi di diversificazione dell'economia, anche mediante concessione a diverse multinazionali di permessi di estrazione di minerali in regime di esoneri fiscali e con deroghe alla normativa sul lavoro (Le Monde Diplomatique, dicembre 2016). Nel maggio scorso, per guadagnare tempo e cercare di recuperare l'appoggio popolare, il governo ha proposto l'istituzione di una Assemblea Costituente e ha fatto appello al Consiglio Elettorale Nazionale per la convocazione delle elezioni regionali, sospese dal 2016: proposte respinte dall'opposizione, che invece mira a nuove elezioni presidenziali sperando di ottenere la “salida” (uscita) del governo Maduro, e ha chiamato ad ulteriori manifestazioni di piazza, con nuovi assalti a municipi, stazioni di polizia, uccisioni, etc.. Sponsorizzata da Papa Bergoglio è stata attivata la mediazione tra il governo e le opposizioni affidata a tre presidenti (Zapatero, Torrijos e Fernandez), ma le alte gerarchie cattoliche in Venezuela hanno risposto picche all'invito del Papa a trovare un terreno comune su cui discutere: esse si sono schierate tout court con le opposizioni. Anche se ci mancano conferme dirette, pensiamo sia diverso l'atteggiamento del “basso clero” che vive a diretto contatto con la popolazione povera. Tutto sommato, la reazione del governo a questa situazione è stata molto “soft”, di contenimento più che di repressione (immaginate quale sarebbe stata la reazione di un governo italiano a fronte di “guarimbas” organizzate putacaso da un Salvini?). Ma qui, da noi, la grancassa mediatica contro la “repressione” attuata dal governo Maduro nei confronti dei poveri “ribelli” si è fatta viva prontamente con martellanti servizi televisivi e titoloni sulla stampa di regime: violazione dei diritti umani, regime liberticida e chi più ne ha più ne metta... Il tutto condito con i piagnistei di varie ONG che manifestano sempre più chiaramente il loro ruolo di “braccio umanitario” dell'imperialismo! Perfino Le Monde Diplomatique (marzo 2016) ha denunciato “la parzialità dell'analisi di Amnesty International”, chiedendosi se “i suoi ‘ricercatori’ sostengono a spada tratta la causa della destra e dell'estrema destra venezuelana oppure sono incompetenti”.
La
crisi venezuelana non rappresenta un fatto nazionale, essendo parte
della crisi mondiale del capitalismo. Essa colpisce essenzialmente
lavoratori e settori della piccola borghesia, anche chavisti, e
genera un comprensibile malcontento, che viene incanalato e sfruttato
dai partiti di opposizione in direzione opposta alla difesa degli
interessi di classe. Contro opposizioni che giocano a tutto campo
ricevendo il sostegno di un ampio fronte internazionale, il governo
chavista si difende peraltro nella ridotta nazionale, quando invece
l'unica soluzione sarebbe quella di chiamare i lavoratori dell'intera
area ad una azione diretta di classe contro le centrali borghesi
interne ed esterne unificando la risposta di lotta nei diversi paesi.
Una prospettiva esclusa dalle direzioni nazional-popolari
bolivariane, che, al pari del PT brasiliano e delle altre sinistre
del sub-continente, non promuovono l’internazionalismo di classe
concependo unicamente l’alleanza di un blocco interstatuale,
attenendosi per il resto alla sacra regola della non ingerenza negli
affari interni degli altri paesi, soprattutto se alleati. D'altra
parte,
una mobilitazione di classe
dei lavoratori dell'area rischierebbe di travolgere gli stessi
governi progressisti, che dunque sono i primi a escluderla e nel caso
frenerebbero l’avvio di una dinamica del genere. Bando
all’enfasi fasulla sul “Socialismo del XXI secolo”, Maduro è
l’esponente di un governo democratico borghese. Non c’è ombra di
socialismo nella sua azione e nondimeno riconosciamo l’audacia
delle politiche sociali chaviste. E’ l’illusione di poter
promuovere un programma del genere, senza mettere in discussione il
capitalismo -in crisi- e anzi offrendo collaborazione ai settori
borghesi non pregiudizialmente contrari, a esporre la “rivoluzione
bolivariana” alla violenta onda di ritorno del capitalismo interno
e internazionale. Anche nella vicenda venezuelana il punto centrale è
per noi quello dell’aggressione dell’imperialismo occidentale che
spalleggia le destre interne per far fuori un governo che non sa
stare al suo posto, un’aggressione che i lavoratori occidentali e
italiani sono chiamati a denunciare e contrastare con ogni mezzo
dato. Senza quindi rilasciare patenti di “socialismo” e neanche
di “rivoluzionarismo democratico radicale” al governo chavista
(soprattutto se dovesse trovarsi a fronteggiare, come noi
auspichiamo, autentiche iniziative di classe che nel resistere
all’aggressione delle destre accennino a debordare dagli argini
interclassisti del bolivarismo), non abbiamo dubbi nel prendere le
misure del caso al governo chavista e alla canea ultra-borghese che
punta a farlo fuori in combutta con l’imperialismo occidentale: per
noi non è assolutamente indifferente che un governo come quello di
Maduro sia eliminato dall'imperialismo o da una ripresa della lotta
di classe che si sviluppi anche nel corso della difesa del Venezuela
contro l'aggressione imperialista.
17 luglio 2017