nucleo comunista internazionalista
note




BEN SCAVATO,
VECCHIA URNA!

I risultati di queste elezioni ci offrono delle immagini eloquenti dello status complessivo della società e della politica italiana su cui sarà bene fare qualche considerazione e valgono anche a meglio definirne i contorni a venire –cosa che troviamo di per sé positiva– facendo strame di equivoci e mascherate per quanto riguarda il nostro campo: alludiamo, in primo luogo, al licenziamento in massa dalle aule parlamentari della Sinistra Arlecchino; il che, sia ben chiaro!, non solo non implica affatto la “scomparsa del soggetto” che c’interessa né una sua afonia, ma varrà a porne meglio le istanze fuori (parzialmente, almeno) dai vecchi scenari parlamentaristici da (presunta) sinistra (presunta) radicale. Scompare, in buona parte, una fasulla “rappresentanza” del nostro soggetto, non il soggetto stesso chiamato a rappresentarsi sul serio, agendo di suo.

La regola di fondo delle elezioni borghesi è, come insisteva sempre Lenin, quella di esprimere un solo inequivoco esito, quello dell’affermazione degli interessi del capitale. Sappiamo per certo, senza doverne qui ripetere le ragioni, che non esiste mai e in nessun luogo la possibilità di affermare i nostri contro–interessi per via parlamentare e reputiamo che, via via nel tempo, la stessa possibilità di usare la tribuna parlamentare per scopi rivoluzionari di classe (il cui centro gravitazionale rimane sempre e comunque extraparlamentare) vada perdendo di consistenza, se non sparendo del tutto. Quanto alle modalità che la borghesia usa per affermare questa regola, più i tempi della concentrazione e centralizzazione dei suoi poteri reali avanzano più s’impone una stretta analoga sul piano dei meccanismi del potere istituzionale per fronteggiare a dovere l’incalzare della crisi economica e sociale che si approssima (e beato chi non la vede, abbacinato dall’”eternità” del sistema!): accumulazione, profitti, ordine..

In prima istanza la borghesia ha, nel tempo, ridotto le variopinte “rappresentanze particolari” parlamentari all’uniformità monocromatica di un’unica (per quanto non necessariamente “identica”) base di adeguamento di principio e pratico alle sue leggi, ad esempio piegando ad esse nella sostanza le forze di “rappresentanza” del proletariato (vedi vecchia socialdemocrazia tedesca), quelle che si chiamavano da parte marxista forze “operaio”–borghesi, cioè di tramite interamente ed esclusivamente borghesi in seno al proletariato: in questa fase non sparisce –perché non è utile sparisca– la “voce” parlamentare del proletariato, purché in funzione di interessi specifici di classe dentro il sistema, come classe del capitale. La lunga storia del PCI, come abbiamo mostrato nell’articolo sulla sinistra in Italia nel numero zero della nostra rivistina, sta completamente all’interno di questa dinamica.

Nel prosieguo, anche questa “relativa autonomia” rappresentativa –possibile e necessaria per una fase trascorsa della storia del capitale– diventa un ostacolo. Per far fronte alle sfide del proprio futuro, la borghesia deve concentrare e centralizzare le sue forze a tutti i livelli: l’esecutivo deve poter agire “liberamente”, cioè ferreamente, mettendo da parte l’infinita serie di mediazioni sul “particolare”. La tendenza non può essere che quella di un bipolarismo coeso attorno ad un identico programma di fondo di perseguimento e difesa delle proprie leggi, che diventano sempre più strette ed inesorabili. Non si tratta di un affare italiano, ma di una regola universale, e basti girare un po’ lo sguardo attorno per rendersene conto: USA, Francia, Germania, Gran Bretagna, “persino” la Spagna zapaterista etc. Dappertutto due blocchi intercambiabili alla guida della stessa macchina, la cui diversità consiste solo quanto alle modalità di rapporto con questa o quella fetta della società in subordine alla loro sottomissione e funzionalizzazione al sistema. All’occorrenza, di fronte alle emergenze reali più pressanti, Grosse Koalition tra i due poli (capitalisticamente unicoalizzati).Né pare che ciò funzioni solo in parlamento: vedi come lo stesso sindacato delle “corporazioni” operaie si adoperi crescentemente ai superiori imperativi del capitale, dal cui sviluppo (grazie al rigoroso rispetto delle regole di funzionamento) può semmai aspettarsi un sovrappiù di briciole “redistributive” per i propri “rappresentati” (che persino si stenta ormai a chiamare classe).

Il processo di omologazione tra la sinistra “storica” del passato ed il sistema capitalista ha conosciuto tempi (diversamente, a seconda delle situazioni nazionali specifiche) lunghi, ma costituiva l’esito obbligato per forze “operaio”–borghesi fuori dal marxismo, nemiche inesorabili della rivoluzione proletaria. Sarebbe del tutto sviante parlare di “mutazione” o “tradimento”. Si tratta, invece, di logico sviluppo, sul conto del quale non è neppure il caso di invocare perversità personali particolari. Al contrario, il sincero e buon “riformista” di oggi si trova semplicemente nella necessità di fare da ragioniere i conti del libro mastro borghese, magari aspettandosi “in buona fede” che, in presenza di consistenti attivi, si possa (detratta la massa crescente di reinvestimento a pro della riaccumulazione) trovare qualcosa da “elargire” ai “diseredati”. Anche Walter può guardare, da questo punto di vista, con un occhio di lacrimosa pietà a questi ultimi, avvertendoli però che ogni loro velleità contestatrice risulterebbe antieconomica (capitalisticamente) e (capitalisticamente) fuori dalle regole del gioco. Vi faremo, se e quando possibile, la “carità”, ma attenti a tendere la mano senza troppe iattanze! Da qui anche lo schema di funzionamento dell’esecutivo “al di sopra delle classi”: decisioni ferme e sicure s’impongono centralmente perché la macchina, la “nostra” imperialistica macchina, non abbia intoppi, e poi si vedrà.

Troviamo, quindi, fondamentalmente coerente e coraggioso l’atto con cui il PD, risultato unitario di confluenza tra ex–“opposti” e addirittura “nemici”, ha rotto i ponti con un “estremismo” che da un lato non si poneva neppure l’obiettivo della rottura col sistema attuale, ma dall’altro non ne riconosceva sino in fondo le regole e creava solo dei problemi aggiuntivi (negativi “per tutti”: forti e “deboli”, e siamo d’accordo). E’ di una piramidale cretinaggine il lamento di questa “estrema” secondo cui interrompendo il “dialogo” con essa il PD si sarebbe tagliate le sue fantasmatiche possibilità di una “vera azione riformatrice” e persino si sarebbe data la zappa sui piedi dal punto di vista elettorale favorendo, in termini numerici, la vittoria su Berlusconi. Veltroni va coerentemente per la sua strada, guadagnando a sé le forze sociali che gli sono proprie e svuotando senza contropartite il serbatoio elettoralistico dell’”estrema sinistra”, come ben si vede dai dati. L’unico appunto che gli può essere mosso, da questo angolo visuale, è la deroga d’imbarcamento di dipietristi e radicali, con le conseguenze deleterie di cui dovrà ben presto farsi carico.

Il problema, a questo punto, è: come mai, di fronte ad un obiettivo deteriorarsi delle condizioni materiali (e non solo!) proletarie ed all’emergere sempre più evidente di una crisi capitalista contro cui il proletariato in più d’una occasione ha dimostrato di volere e saper lottare, i “diseredati” non si sono stretti attorno a chi se ne poneva verbalmente a difesa? Sembrerebbe una contraddizione di tipo masochistico. Non è così. Questa “ultrasinistra”, imbevuta sino all’osso, dei principi riformisti della conservazione del sistema, ma, assieme, di una linea “redistributiva” al proprio interno (ripetendo vecchi e sorpassati schemi socialdemocratici che non hanno più spazio nella realtà capitalistica attuale) hanno tutto puntato a tal scopo –ed anche qui coerentemente– sul gioco dell’”esserci” nelle realtà governative “riformatrici” nel cui ambito giocare i propri due di briscola “popolari”. Siamo, oggi 2008, persino lontani dalle (pur sempre micidialmente illusorie) prospettive di “cambiamento istituzionale” che accompagno l’essor elettorale del vecchio PCI (“è ora di cambiare, il PCI deve governare!”). Il governo Prodi cui ci si è dati anima e corpo (fatta sempre salva la verginità di non si sa bene quale parte del secondo) era visibilmente un governo borghese per l’oggi capitalistico, con tutto quel che ne consegue. Per di più, un coacervo insostenibile di forze gravate da un proprio “particolare” della peggior specie, da Bertinotti a Padoa–Schioppa, da Diliberto a Mastella e De Mita etc. etc.; ciò che doveva saltare, ed è saltato, nella direzione obbligata di un esecutivo forte, libero da condizionamenti corporativi e personalistici.

Tutto ciò che la “sinistra radicale”, in questa situazione, poteva pensare di poter offrire ai propri “rappresentati” era la spalmatura di qualche frazione di “tesoretti” (andati altrove!), senza accorgersi neppure che, nel frattempo, il portafoglio proletario andava assottigliandosi; senza nullamente far leva sulle lotte reali contro di ciò (pena la messa in causa del governo “amico”, sola categoria nota, ed insostituibile). Oggi sentiamo molti di costoro accorgersi che questo governo “amico” ha “rubato ai poveri e dato ai ricchi”! E voi dov’eravate? A fare il palo. Da dove ricominicare allora? Dall’identica prospettiva di fondo: votate per noi perché, la prossima volta, possiamo avere più voce in capitolo. Peccato che non ci sia una “prossima volta” ed il palo sia stato licenziato da chi di dovere, dalla “banda” PD e dallo stesso proletariato che l’ha riconosciuto come tale. Cecità ed ingratitudine da parte di quest’ultimo? No, semplicemente esso ha introiettato in sé stesso (nella parte confluita nel PD) la lezione che gli è stata impartita quanto alla premessa di un eventuale miglioramento delle proprie condizioni di vita subordinata ad un “ordinato” sviluppo del capitalismo in mano a forze capaci, oneste e, se del caso, caritatevoli, del tipo Walter l’africano.

In un suo smagliante articolo sulla Francia anni ‘30, Trotzkij si scagliava contro i teorici riformisti della riluttanza proletaria a lottare (esaltando tutti gli esempi di fatto di vere lotte immediate sapute ingaggiare; e lo stesso può dirsi dell’Italia attuale) e concludeva: il proletariato intende e sa battersi, ma lo può fare efficacemente solo elevandosi al livello politico della lotta per il potere e a tal fine necessita di un partito rivoluzionario in grado di guidarlo. Una polluzione di forze che non aggredisca questo terreno non può portare che ad un indebolimento del suo organismo anche a livello delle lotte immediate, di per sé inconcludenti senza a ciò raccordarsi. L’emorragia delle energie proletarie è un prodotto del riformismo politico imperante. Valido ieri, valido moltiplicato per varie cifre oggi.

Arrivata la batosta che sappiamo, quelli dell’Arcobaleno, come già previsto, nel proposito di preparare la risalita, si industriano ad aprire ulteriori falle nella propria barca. Che fare domani? C’è chi ipotizza un ulteriore allargamento “rinnovato” (sempre più in chiave extraclassista) della coalizione da far diventare “partito sul serio” (una sorta di patchword ancor più incoerente); chi richiama la necessità di un “nuovo dialogo” col PD, sulla linea continua del “meno peggio” come ultima spiaggia; chi di raccogliere l’appello dei socialisti (altri scomparsi!) in chiave “laicista”; chi, i più “terribili” di tutti, di ripartire dalla falce e martello richiamandosi (Diliberto) alla tradizione “rossa” che in Italia si sarebbe “interrotta” col la morte dell’”ultimo vero comunista”, Berlinguer (l’antesignano delle larghe intese comuni con la parte “progressista” della DC ed il mentore dell’”austerità”; insomma, il padre legittimo di Walter e Walterini).

Tutto meno che anche il solo pensiero di riscatto del contenuto del vecchio simbolo dimesso.

E’ possibile che, comunque, una parte dell’Arcobaleno intenda ripartire dalle lotte, dal “sociale”? Indubitabilmente c’è chi si aggrapperà a quest’osso per tentare la risalita, ma, in mancanza di un programma comunista, assisteremo al massimo a sprazzi di vivacità movimentista nella direzione di sempre: fare di ciò lo sgabello di una futura riedizione di presenza istituzionale “pesante”. Un aborto a priori. Si aggiungano a ciò alcuni dati essenziali: a) la “sinistra radicale” ha in questo frattempo spompato al suo interno il fattore–militanza, che non si reinventa a piacere quando serve; b) le risorse finanziarie di stato maneggiate sin qui vengono forzatamente meno e non sarà facile rimboccarsi le maniche per la massa dei funzionari che ne sono stati cullati ed allevati (con una corsa da parte di molti di essi a rivolgersi ad altre riserve sostitutive); c) le lotte immediate, sui luoghi di lavoro e sul territorio, sempre più saranno sottoposte ad un ferreo controllo da parte dello stato, con ciò ponendo sin da subito l’urgenza del rapporto tra esse ed obiettivo politico antagonista, pena la loro stessa impossibilità di darsi legalmente “ai margini” del sistema quale valvola di sfogo residuale e questo è un terreno impraticabile anche per i più “rossi” dell’attuale Titanic.

Qualche parola sui soggetti che, in tardiva e incoerente rottura con Rifondazione, hanno messo in piedi due minipartiti comunisti. Essi hanno, insieme, totalizzato un circa 1% di voti . Poco? Non pochissimo rispetto al 3 della Izquierda Disunida ufficiale. Anzi, da questo punto di vista, si tratta di un piccolo, ma significativo segnale antagonista “di massa”. Facciamo un piccolo conto: in una minima cittadina di 6.000 votanti ciò darebbe 60 comunisti sulla carta. Ci basterebbe una quota anche di molto inferiore a livello di militanza effettiva per impostare un’azione efficace di partito.

Purtroppo, la campagna elettorale di questi due partiti –rispetto alla quale non eleviamo alcun divieto di principio– si è risolta non nell’utilizzo rivoluzionario della tribuna elettorale preconizzato da Lenin, ma in un’ennesima carnevalata elettoralesca (e a questa stregua i risultati varranno zero). Dei comunisti conseguenti avrebbero utilizzato le occasioni date per farsi sentire dalla “gente”nel senso di dare un quadro preciso dell’antagonismo di classe di fondo nell’attuale e futuro quadro di sviluppo capitalista (non solo a livello “nazionale”), della prospettiva rivoluzionaria del comunismo quale unica via di uscita da esso, della logica inesorabile che ha portato Rifondazione ed altri agli esiti anticomunisti inscritti nel loro DNA (e non imputabili a “traviamenti” occasionali ed imprevedibili), di una chiara autocritica dello spalleggiamento ad essi offerto “in passato”, del richiamo alla lotta extraparlamentare di classe, alla militanza per essa, al programma del partito. In luogo di ciò, sia ferrandiani che turigliattiani si sono sbracati nel difendere le ragioni della propria esistenza sulla base di una contestazione a latere del carattere borghese del governo Prodi, del “tradimento” di Rifondazione, della necessità –di conseguenza– di un altro tipo di “rappresentanza” politica del proletariato ai margini della società capitalista, evitando con cura ogni “salto al programma rivoluzionario” in nome del realismo movimentista o, come usa Ferrando, in quello di un programma “transitorio” nel cui nome far sparire il programma stesso e sostituirlo con un’agitazione “concreta” su rivendicazioni “specifiche” del tutto fantasiose mancando una situazione oggettivamente (pre)rivoluzionaria. Insomma: una sorta di chiamata a raccolta elettoralesca dei refrattari, dei delusi da Rifondazione etc.etc. Di come unificare ed orientare le lotte reali presenti, e quelle che verranno, non ci pare si sia parlato molto e, soprattutto, chiaramente. Chiaro: l’importante è votare giusto, votare comunista! Non intravvediamo un grande futuro per queste tendenze che sul lato turigliattiano già inclinano verso una sorta di “vera cosa rossa” protestataria allargata, cui poi non si negheranno aperture dialogiche con riformisti disponibili ad accoglierle e su quello ferrandiano si avvitano su affermazioni inoffensive di principio orfane del “retroterra” fisico di Rifondazione venuto meno ed oggi non si sa bene come ricostruibile o surrogabile.

Resta, a questo punto, un ben altro problema da chiarire: cosa significa il massiccio voto operaio al Nord, con efficaci incursioni al Centro, per la Lega? Questa “novità”, che non data da oggi, ma si ripresenta a scala esplosiva in edizione riveduta, corretta ed aumentata, implica una serie di questioni imprescindibili ai fini della ripresa comunista. Ne parleremo in seguito. Prendiamo, per intanto, unicamente atto della miopia e del forcaiolismo sostanziale con cui il tema è stato accantonato “a sinistra” come semplice espressione di “egoismo” e “razzismo” che non mette in causa nel suo manifestarsi la politica della “sinistra” italiana (di tutte le “sinistre” in loco), ma si ammanta di un sovrano disprezzo –in fin dei conti– per il proletariato “incolto”, “rozzo”, cui contrapporre l’”intelligenza” del pubblico “ben educato”, “culturalmente attrezzato” etc. etc. e magari il posizionamento “progressista” del funzionariato del pubblico impiego, degli intellettuali, dei borghesi aperti, cioè di tutta la pletora del parassitismo a spalle del proletariato.

Per noi, com’è registrabile dalla lettura di tutta la nostra stampa passata, il voto e la militanza proletaria per la Lega contengono un elemento di protesta di classe il cui esito transitorio (e certamente deprecabile, purché non in termini moralistici, astratti) richiama precisamente in causa l’insieme delle politiche della nostra “sinistra” e va tenuto ben presente e persino “raccolto” in quello che è il suo nocciolo duro classista per rovesciarlo nel nostro senso. La sua pura e semplice assimilazione al berlusconismo od anche al bossismo non può portare che ad una divisione interna alla nostra classe ed alla rivalorizzazione del “contraltare” PD. Ne riparleremo a fondo. Rimandiamo, per il momento, a quanto già scritto a suo tempo e, in particolare, alle “prove di dialogo” nostre coi proletari leghisti fatte sul campo che riproponiamo integralmente come metodo invariante di beninteso “frontunitarismo di classe”. Non siamo mai stati né mai saremo di quelli che hanno parlato a suo tempo della Lega come “costola della sinistra” previo disossamento della sua anima proletaria né di quelli che si sono improvvisati “comunisti padani” per assumere tale anima in termini para–leghisti (alla maniera del gramscismo occhieggiatore, a suo tempo, de su populu sardu in funzione “anticapitalista”). Abbiamo tutte le carte in regola.

Rimandiamo anche un discorsetto sul “popolo della libertà”, altro serbatoio (seppur molto parziale) di intercettamento di un voto operaio di protesta (e vale quanto sopra), anche perché crediamo che da esso non si darà una semplice ripetizione del berlusconismo vecchia maniera, ma presenterà elementi notevoli di “discontinuità” ed ammodernamento –ciò che non ce lo renderà di certo meno indigesto–, nel senso di un deciso superamento del vecchio schema contrappositivo frontale berlusconismo/antiberlusconismo. Oggi più di ieri essere veramente e sino in fondo, cioè da comunisti, contro il PDL implica il superamento di quella vetusta contrapposizione; tocca direttamente le questioni della composizione e dell’orientamento programmatico dei suoi stessi avversari, “sinistra” pensionata compresa. Alla seconda puntata, quindi.

18 aprile 2008