I comunisti sono in campo contro le politiche dei governi occidentali volte a criminalizzare e respingere i lavoratori delle periferie del mondo costretti ad emigrare verso i paesi più ricchi. Al contempo nulla è più distante dalla battaglia di classe del buonismo umanitario di pseudo-“sinistra" che non mette realmente in discussione né promuove la lotta contro il sistema che produce l’immigrazione, omettendo e negando il terreno della solidarietà e dell’unificazione di classe tra lavoratori italiani e immigrati, in quanto non confacente e anzi contrapposto alla propria visione di sostanziale conservazione dell’ordine borghese. Queste “anime belle” preferiscono inanellare un florilegio di fesserie che eludono la realtà non fornendo alcun contributo utile per contrastare l’ostilità verso gli immigrati e la divisione tra lavoratori, laddove i proletari italiani impattano con la realtà stringente dell’immigrazione, e, di fronte ai ragionamenti campati in aria sull’accoglienza e quant’altro, finiscono piuttosto per prestare ascolto a chi del fronte avverso e con i piedi piantati per terra fomenta il razzismo.
La prima evidenza da cogliere è che nel capitalismo tutto si lega e la lotta contro un dato effetto negativo da esso causato giammai può essere “settoriale” (l’oppressione della donna, la questione ambientale, etc.) ma deve estendersi alla lotta contro l'attuale putrescente modo di produzione.
Nel corso degli ultimi anni il problema dell’immigrazione si è marcatamente acutizzato, sia per fattori “naturali” (cambiamenti climatici, siccità, desertificazione di territori), che spesso “naturali” non sono essendo la conseguenza di un modo di produzione forsennato che sacrifica la natura stessa e i suoi abitanti alla sete inestinguibile di profitto, sia per la sequela infinita di aggressioni militari vere e proprie (ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria), di occupazioni mascherate (Africa occidentale ex francese), di richieste – prontamente accolte – di fraterno aiuto provenienti da borghesie locali infeudate all’Occidente (gli “arancioni” tendenti al nero dell’Ucraina), oltre ad embarghi (che corrispondono all'affamamento di popoli), al congelamento di beni statali all’estero e quant’altro. Tutto questo va detto e denunciato a gran voce, senza dimenticare che in primissimo luogo, prima e più ancora che con le guerre e le persecuzioni, gli immigrati ai quali noi ci riferiamo sono sradicati dai loro paesi delle periferie del mondo con la forza di attrazione “pacifica” esercitata dalle leggi economiche del capitale.
Cade quindi una prima fesseria buonista, quella che agita la “libertà di migrare” (nei comizi del 21 ottobre si diceva della “libertà di scegliere dove morire, posto che non si può scegliere dove nascere”). Peccato che qui non si tratti della “libera circolazione delle persone”, perché si tratta piuttosto di “libertà di dovere andare”. A sentire la “sinistra” buonista e l’associazionismo di matrice religiosa l’emigrazione/immigrazione sarebbe “espressione di libertà per chi emigra, … e un sollievo e una speranza per quanti nei paesi d’arrivo non saprebbero altrimenti come aprirsi al mondo uscendo dai propri egoismi”, e via edulcorando e mentendo. Per i comunisti internazionalisti, al contrario, la trasmigrazione "obbligata" di forze proletarie è una sconfitta oggettiva, da mettere in conto in primis al nullismo politico di un proletariato metropolitano da troppo tempo assente da un’effettiva battaglia di classe contro il capitalismo imperialista con inevitabili rimandi di debolezza e sfiducia all’insieme del proletariato internazionale, mentre l’emigrazione di massa dalle periferie concorre a ridurre le potenzialità della lotta di classe negli stessi paesi d'origine.
Ora chi rivendica l’emigrazione come atto di libertà dà mostra di riferirsi indistintamente ad ogni classe sociale, posto che solo per l’emigrazione non proletaria ha veramente senso parlare di “libertà di movimento”. In secondo luogo nasconde il problema e la sua radice ovvero la “attrazione pacifica” di cui sopra, dando mostra di accettare come normale, magari da correggersi con un po' di generosa accoglienza, un mondo dove coesistono metropoli affluenti e periferie desolate, combinazione infernale che rende del tutto coatta la “libera” emigrazione. Anche noi denunciamo il decreto Minniti-Orlando e la sanzione penale dell’ingresso irregolare, ma non come politica sbagliata che potrebbe essere sostituita da altre più lungimiranti, sì invece come l’inevitabile conseguenza dell’oppressione imperialista – dato strutturale di questo sistema e non mera politica –, contro la quale chi prende parola in nome dell’umanità spoliata e oppressa, o dei “poveri” se preferisce, sarebbe tenuto a schierarsi. Gli imperialisti sono i criminali responsabili, le popolazioni dei paesi dominati e la massa di emigranti in movimento le vittime: noi per questo siamo contro le politiche di respingimento attuate dai paesi imperialisti e non già in nome della “libertà di emigrare”… con la pistola del bisogno puntata alla tempia.
Nel capitalismo l’ordine di classe è predisposto per separare il “grano” dei benefici, da indirizzarsi nelle tasche dei padroni, dal “loglio” dei disagi, accollati al proletariato. L’immigrazione mette a immediata disposizione dei padroni una cospicua forza lavoro di riserva, il che è un indubbio beneficio per il capitale anche se al di là di certi numeri ciò inizia a costituire un problema e l’ideale sarebbe poter regolare i flussi sulle effettive necessità. Gli immigrati, più ricattabili e quindi costretti ad accettare condizioni di lavoro peggiori, vengono “usati” dal padronato contro il proletariato locale, soggiogando i lavoratori immigrati con l’arma del razzismo, alimentando la divisione tra proletari locali e immigrati, dividendo e gerarchizzando gli stessi lavoratori immigrati, imponendo un moderno schiavismo di cui le rivolte tipo Rosarno squarciano di tanto in tanto il velo di generale omertà, mentre i sindacati ufficiali, CGIL inclusa, al massimo promuovono inchieste ma non lotte.
Chi fomenta l’odio contro gli immigrati ne denuncia l’invasione, che, se non fermata, modificherebbe irrimediabilmente i connotati “culturali” delle società di arrivo. I proclami razzisti, peraltro, trovano ascolto nel senso comune di tutti gli strati sociali non escluso il proletariato, posto che i disagi derivanti dall’immigrazione finiscono immancabilmente per scaricarsi negli stessi territori e quartieri dove il proletariato già vive i disagi della propria condizione (i rapporti Istat hanno quantificato nel 2016 oltre 4.740.000 individui in povertà assoluta, e altri 8.460.000 in povertà relativa: quindi il benessere dell’Occidente imperialista non riguarda tutti, se secondo l’Istat oltre 13 milioni di italiani sono poveri). I governi devono rispondere alla protesta che monta, quella delle mezze classi innanzitutto, sempre pronte a recepire ‘pro domo sua’ ogni umore capitalizzatile in odio antiproletario, ma anche quella di settori proletari doc. Lo fanno accentuando politiche anti-immigrati, erigendo barriere che immancabilmente verranno superate, attivandosi nel respingimento accompagnato dalla dichiarata disponibilità di “aiutarli a casa loro”, parola d’ordine coniata dalla destra e fatta propria anche dalla “sinistra riformista” di Renzi. Contro la quale replichiamo che il solo modo a disposizione dei proletari e dei lavoratori italiani per “aiutarli a casa loro” è di opporsi con tutte le forze alle azioni armate dell'imperialismo e in primissimo luogo del “nostro” imperialismo, che “li ha aiutati e li aiuta a casa loro” con i bombardamenti sull’Iraq, la Libia, la Jugoslavia e con le mille altre guerre per procura finanziate e supportate in vari paesi del Sud e dell’Est del mondo.
Gran parlare si fa di accoglienza e di “quale accoglienza”. Posizione ufficiale della Chiesa è quella della accoglienza indiscriminata, non senza marcate incrinature in seno al presunto apparente monolitismo della Chiesa e finanche con dissociazioni aperte dalle parole del papa. Bergoglio aveva lanciato l'idea che ogni chiesa, ogni convento accogliesse un immigrato… ma il piano è miseramente fallito. I “tradizionalisti”, che non mancano di accusare Bergoglio di svariate eresie, vogliono che la Chiesa cattolica resti il baluardo dell'Europa e frenano sull'accoglienza, accusando più o meno velatamente papa Francesco di essere un “agente mascherato” del cosmopolitismo anglo-americano e di fare il gioco di quest'ultimo che cerca di “minare” l'Europa con migrazioni “telecomandate”. Spesso le parole di papa Francesco contro il capitalismo, lo sfruttamento, le ingiustizie, sono forti e sorrette da una analisi corretta, ma, quando si viene al dunque, il tutto conclude in fumose esortazioni alle parti in causa (in realtà classi) a “ricercare il bene comune”, come se ci potesse essere un “bene comune” tra sfruttatori e sfruttati… Peraltro anche Bergoglio ha dovuto fare recentemente una parziale marcia indietro dichiarando che “… accogliere è un comandamento di Dio, ma un governo deve gestire questo problema con la virtù propria del governante (il ‘governante’ metastorico! n.n.): la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non devo solo riceverli, ma integrarli. Terzo: c'è un problema umanitario. L'umanità prende coscienza di questi lager, le condizioni in cui vivono nel deserto? Io ho visto le foto, ci sono gli sfruttatori…” (dal manifesto del 12/09/17). Chi ha applicato sin da subito il canone della “prudenza” è stata la Merkel che per un certo periodo ha fatto propria la linea della accoglienza limitata, aprendo le porte a un milione di siriani, i più scolarizzati; scelta “à la carte” al market della forza lavoro.
Questo per quanto riguarda la Chiesa. Ma non pochi compagni rivendicano anch’essi l’accoglienza a partire dall’assunto che sarebbe del tutto sostenibile dai paesi occidentali, essendo soltanto l’egoismo reazionario e razzista dei governi a negare la presa in carico di una accoglienza dignitosa. Ora, è ben vero che nei forzieri delle classi dominanti metropolitane è accumulata la più gran parte della ricchezza dell’intero pianeta e che questa ricchezza sarebbe sufficiente a garantire egregiamente la vita dell’intera specie, ma, a parte il fatto che senza accorgersene ancora una volta si assume come normale ed eterno un mondo dove un centro dominante – cui solo si chiede di essere “accogliente” – si ingrassa alle spalle delle periferie, come si fa ad omettere il dato che il sistema in questione è decisamente orientato al profitto e non alla beneficienza?
Si vuole sostenere che l’Occidente può accogliere agevolmente il flusso di diseredati in fuga dalla povertà? Coerenza vorrebbe che si dicesse come si intende convertire il capitalismo da Bestia carnivora mai sazia di profitto a mansueto vegetariano dedito a lenire le sofferenze dell’umanità. Si vuol forse sostenere che in questa fase storica il capitalismo ha i margini per continuare a saziarsi di profitti e al tempo stesso per accogliere decentemente il flusso di immigrati, da provvedersi di lavoro, di casa e di tutto il resto? In tal caso difetterebbe la percezione della fase storica, di sostanziale stagnazione dell’accumulazione capitalistica con particolare riguardo ai paesi di vecchio capitalismo, quelli che ricevono il maggior flusso di immigrati proprio in virtù della ricchezza qui storicamente accentrata in secoli di dominio e spoliazione delle periferie. Al contempo l’Africa, scrigno di materie prime, è un continente in cui i PIL e i profitti aumentano, ma ciò che è un bene per il capitalismo è esiziale per le popolazioni, che lungi dal trarne beneficio ne sono ridotte alla fame (ulteriore dimostrazione del carattere disumano del capitalismo, scarsamente suscettibile di correttivi buonisti).
Per poter mettere a disposizione putacaso dell’accoglienza la ricchezza accumulata in Occidente occorrerebbe niente meno che la Rivoluzione di classe che distrugga il potere della borghesia espropriando gli espropriatori. In difetto di ciò i capitalisti, le loro istituzioni e i loro governi, continuano a dedicare ogni energia all’accumulazione e al profitto, traducendo finanche l’accoglienza in un nuovo capitolo del trasferimento di risorse alle reti affaristiche del capitale. Per costoro l’immigrazione costituisce un problema indiretto in quanto espone la propria classe politica alle proteste di quanti ricevono l’impatto sociale dell’immigrazione. I nuovi arrivati portano con sé la propria povertà, che va a incidere su territori e tessuti sociali già afflitti da molteplici fattori di disagio e degrado. L’immigrazione si traduce quindi in nuove opportunità per i capitalisti e in disagi aggiuntivi per i proletari, non scevri per spirito divino da sentimenti razzisti in una fase in cui il protagonismo e la coscienza di classe gravitano allo zero. La borghesia accolla al proletariato i disagi delle nuove povertà che arrivano, e la sua classe politica, da vigliacchi quali sono, criminalizza gli immigrati e fomenta l’ostilità. Per le classi dominanti si tratta di tenere sotto controllo e gestire le contraddizioni concentrate e fatte esplodere nel corpo sociale del proletariato. I rappresentanti del capitale sono i responsabili, non certo per “averli fatti entrare” come le diverse destre borghesi in campo si rinfacciano l’un l’altra, ma in quanto esponenti e difensori del sistema che produce la necessità di emigrare. Eppure si presentano come le vittime di un fenomeno che non possono controllare, e fanno a gara a chi fa la voce più grossa con le politiche di sbarramento e criminalizzazione, cavalcando il razzismo, mettendo lavoratori contro lavoratori, puntando a dividere il proletariato, a corromperne e offuscarne la coscienza di classe, ad annullarne ogni solidarietà e potenziale unificazione di forze.
Dopo essersi sottoposti ai costi e ai tormenti di un drammatico viaggio, gli immigrati che arrivano sono costretti nei Centri di Identificazione e Accoglienza, veri campi di concentramento, strutture inadeguate finanche per ospitare un canile. Insorge subito la canea razzista: “Chi paga? Lo Stato e quindi i contribuenti”. Si rimarca il fatto che sono i proletari italiani a mantenere gli immigrati ospitati nelle strutture dell’accoglienza e a spasso nelle città a far nulla. A parte che a mantenere lo Stato contribuiscono le tasse pagate anche da tanti lavoratori immigrati attivi nella produzione, a essere mantenuta è la italianissima macchina dell’accoglienza, con il suo nugolo di cooperative e innanzitutto con la struttura centrale del Viminale: “… la più costosa è la ‘macchina del Viminale’, che assorbe la più gran parte dei fondi. Stando al primo ‘Rapporto sull’accoglienza dei migranti’ del ministero dell’Interno ‘i costi della gestione ordinaria dell’accoglienza si attestano nel range di 30-35 euro per gli adulti e 45 euro per i minori accolti dai comuni’. Ma attenzione: questi soldi non finiscono in tasca ai migranti, vengono invece dati agli enti gestori dei centri e servono a coprire le spese di gestione e a pagare lo stipendio degli operatori” (da Repubblica “Immigrati: ecco quanto ci costa davvero accoglierli” del 29/10/16). Il faccendiere Buzzi ha certificato che “gli immigrati rendono più della droga” e c’è da credergli!
Le campagne razziste non omettono alcun particolare. Le occupazioni abitative (condivise con molti proletari italiani pur essi senza tetto sulla testa), il transitorio collocamento di immigrati in alberghi o altre residenze (come avviene in genere per rendere possibile lo sgombero di edifici occupati fornendo temporanee “soluzioni alternative”), l’assegnazione eventuale di una casa popolare, che mette in luce come la particolare indigenza dei nuclei familiari immigrati ne favorisca l’utile collocazione nelle liste dell’assistenza e del welfare, tutto diviene motivo per gridare: “Prima agli italiani!”. Ora una percentuale non irrilevante della forza lavoro in Italia è costituita da immigrati regolarissimi: “Sono 2,7 milioni. Valgono 123 miliardi di Pil. Producono il 9% della ricchezza italiana. E rappresentano quasi l'11% della forza lavoro in Italia” (vedi lo studio di Michela Scacchioli su Repubblica del 15/09/15). Gli immigrati inseriti nei gangli vitali della produzione sociale sono la leva della integrazione di classe tra proletariato italiano e immigrato, e il relativo percorso, che pur vediamo avviato in tante realtà lavorative e di lotta, non è affatto scontato né facile. Ovviamente gli strali razzisti prendono innanzitutto di mira la quota dei senza lavoro, quelli che vivono di espedienti nelle strade delle città con tutto quel che ne consegue, dai baraccamenti di fortuna agli angoli delle vie all’elemosina e quant’altro. Questa massa di persone vive nel disagio più totale isolata nei propri ghetti (non escluso il ghetto dell’accoglienza), risultando quasi impossibile in queste condizioni l’avvio di un percorso di avvicinamento e unificazione di forze con il proletariato locale, che invece ne rifiuta la presenza nei propri quartieri e spesso si attiva per allontanarli. In queste condizioni gli immigrati rischiano di rimanere completamente isolati dal proletariato locale. D’altra parte anche nell'inserimento lavorativo occorre contrastare la ghettizzazione che tiene comunque separati gli immigrati dai lavoratori indigeni, come accade ad esempio nei Grandi Cantieri di Monfalcone dove i lavoratori immigrati sono segregati nei lavori più duri nell’ambito di un’organizzazione aziendale che riproduce la divisione e la gerarchizzazione tra italiani e non.
L’emigrazione dei nostri giorni è, peraltro, diversa da quella che a fine ottocento e nel secondo dopoguerra ha visto anche molti lavoratori italiani muoversi verso altri paesi d’Europa, dell’America del Nord e del Sud: in quei casi i flussi rispondevano generalmente a una programmata domanda di braccia di lavoro, e l’integrazione tra lavoratori immigrati e autoctoni che si è potuta realizzare – comunque in tempi lunghi – è di gran lunga maggiore di quella in corso ai nostri giorni. Nondimeno anche allora non sono mancati conflitti drammatici dei quali è bene conservare la tristissima memoria per poter scongiurare ogni deprecabile replica: ricordiamo in particolare la caccia agli italiani in quel di Aigues Mortes – Sud della Francia – anno 1893…
La crescente diffusione del degrado e della microcriminalità, soprattutto nelle aree urbane più marginali, è un fatto reale, legato – è opportuno richiamarlo – “anche (attenzione a questo ‘anche’) con il fenomeno dell’immigrazione”. Al riguardo non ci sogniamo minimamente di ricalcare certe ridicole difese d’ufficio…, e replichiamo invece quanto scritto in un nostro articolo del 1/08/2010 a proposito di compagni a noi vicini dediti a confutare maldestramente la tesi che gli immigrati delinquano più degli italiani: “Sarebbe ben strano – abbiamo scritto – che costoro, condannati ad una vita di emarginazione, di stenti, e diciamo pure – volgarmente – di merda potessero agire secondo la ‘normalità’ dei nostri connazionali… Orbene: nascondere i fatti criminogeni di costoro in nome di una sorta di presunta innocenza degli immigrati in generale potrebbe sembrare un atteggiamento ‘progressista’, se non addirittura ‘rivoluzionario’ come qualcuno si immagina. E’ vero il contrario. ‘Gli immigrati’ di per sé non sono angeli, non sono gli incorrotti portatori del Bene, o magari della Rivoluzione Comunista. Sono persone in carne ed ossa che soffrono delle condizioni materiali cui sono condannati e ad esse cercano individualmente – in assenza di una prospettiva e di un’organizzazione di classe – di reagire. Senza una donna? Me ne ‘faccio’ la prima che incontro, le piaccia o no. Senza una casa? Occupo il primo posto che trovo libero (e fai bene!). Senza soldi? Rubo, sub-spaccio etc. etc.. L’idea dell’‘innocenza’ dell’immigrato reale semplicemente prescinde dalla realtà reale della sua situazione.” Verso gli stessi compagni, che invero mostrano di aver (fra-)inteso alla grande la solidarietà militante con gli immigrati, aggiungevamo: “Se – si è scritto – tu discrimini tra lavoratore immigrato regolare (od irregolare, purché sia tale) e furfantello o furfantone, ‘rompi il fronte’. Quale fronte? Quando noi parliamo di immigrati quali fratelli di classe, abbiamo presente un certo tipo di immigrazione, quella del lavoro salariato o, comunque, aspirante ad esso. Commercianti, piccoli imprenditori (spesso alle spalle dei ‘propri connazionali’), spacciatori di droga, businessmen della prostituzione etc. non ci commuovono affatto quale che sia il colore della loro pelle, rispetto alla quale il nostro bianco non costituisce né un privilegio né una condanna a serie B.” Insomma: quali immigrati con noi? Per quale programma? Questo è il punto!
In un altro nostro articolo apparso nel febbraio 1999 sul n. 48 del “che fare” scrivevamo: “… non sorprende che un cospicuo numero di proletari e di elementi ‘popolari’ sfili, materialmente o idealmente, dietro le bandiere anti-immigrazione del Polo o della Lega (e oggi potremmo aggiungere di Casapound e quant’altro, n.n.). Ciò che li ha mossi e li muove non è, in prima istanza, l’odio o il furore (malsani) verso gl’immigrati, ma il bisogno incontenibile, sano, di reagire al continuo degrado del loro ambiente di vita. E, a costo di scandalizzare un certo ‘anti-razzismo’ di maniera, aggiungiamo: è un bene che questa molla scatti. Perché sarebbe ancor peggio se la massa dei lavoratori subisse passivamente, senza battere ciglio, l’indefinito peggioramento delle proprie condizioni di esistenza, e la corrosiva aggressione delle patologie sociali al proprio ambiente di vita. Se così dovesse accadere, il degrado urbano si trasformerebbe inesorabilmente nel loro stesso degrado. Ed a beneficiarne, statene sicuri, non sarebbero gli immigrati, bensì le classi sfruttatrici e parassitarie…. Ecco perché questa nostra presa di posizione e la nostra azione sono rivolte anche ai proletari ‘anti-immigrazione’. E con la medesima attitudine fronteunitaria con cui ci rivolgiamo ai nostri fratelli di classe immigrati (che essi, compiendo un grave errore, guardano come degli avversari), ed ai lavoratori che si riconoscono in altre ‘soluzioni’ non meno false, o inconsistenti, quali l’immigrazione libera o l’immigrazione regolamentata.”. Per noi è vitale che il proletariato faccia pulizia nel proprio campo, non esclusa la pulizia sociale nel proletariato immigrato “ad opera di loro stessi” nello spirito di Malcom X e delle Pantere Nere (altro che “rompere il fronte”!). Sappiamo bene, peraltro, che ciò presuppone il rilancio dell’auto-organizzazione delle lotte (mentre l'episodio di Rosarno ed altri prima e dopo Rosarno sono rimasti purtroppo isolati, con scarsissimi collegamenti con le lotte operaie indigene, gestite peraltro del tutto “settorialmente” da Cgil-Cisl-Uil).
Il nostro piccolo nucleo è fermo su questi assi, per
noi densi di indicazioni e consegne. Già nel 1999 concludevamo
che “… la messa in opera della sola
possibile soluzione di classe di questo insieme di questioni
esige il concorso organizzato di tutte
le forze, oggi divise ed in parte contrapposte, della nostra classe. Il
nostro compito è strapparle alle loro attuali collocazioni e
spingerle a convergere ad unità”. Il percorso per
una integrazione di classe degli immigrati può e deve partire
legandosi alle loro lotte, come quella citata dei braccianti agricoli
di Rosarno esplosa tra l’indifferenza dei sindacati
“più rappresentativi” e degli stessi
lavoratori italiani chiamati a prendere posizione sulle condizioni di
bestiale sfruttamento del lavoro messe a nudo dalla rivolta; come le
lotte più recenti e oggi in via di estensione nel settore
della logistica e nel mondo delle cooperative dove i lavoratori
immigrati hanno potuto contare sul sostegno di sindacati come il
SICOBAS, la USB e altri ancora, continuando la CGIL a voltare le
spalle, infeudata come è alle necessità delle aziende
e del capitalismo nazionale. Non servono proprio a niente e sono anzi
deleteri, perché alienano l’ascolto dei proletari,
gli atteggiamenti umanitari e le prediche dall’alto che
rifuggono dal terreno di classe, che è il terreno di
potenziale avvio dell’unica integrazione e soluzione
possibili. Occorre spezzare con i fatti l’arma del razzismo,
che vuol dire spezzarla con la lotta che unisce i lavoratori immigrati
ed italiani nella difesa e affermazione dei comuni interessi di una
stessa classe contro il capitalismo e la sua crisi. Siamo ben consci
delle enormi difficoltà da superare in questo percorso, dopo
decenni di sfaldamento della coscienza di classe, di aziendalizzazione
delle lotte, dopo l'introiezione nel proletariato nazionale dell'idea
della nazione-azienda che deve porsi in concorrenza con il resto del
mondo, etc. etc.. A maggior ragione è necessario tenersi
ancorati al nostro filo rosso, che resti fisso e teso al suo fine.
20 novembre 2017