nucleo comunista internazionalista
note




ALCUNE INTERPRETAZIONI
SUL PROBLEMA UCRAINO

Il “caso Ucraina” ha dato luogo, come ci si poteva immaginare, a tutto un caleidoscopio di posizioni di cui, nel nostro precedente intervento, abbiamo sintetizzato le direttrici di fondo: a) “euroamericanisti” scatenati contro la Russia (con gli “europeisti” per lo più in funzione di ubbidiente maggiordomo – come ha suggestivamente scritto un compagno – al servizio del reale padrone del vapore; tiepidissimi i marginali tentativi di svolgere un lavoro per sé autonomo da Washington, e sempre – comunque – “contro lo zar Putin”); un ridottissimo settore di “destra rivoluzionaria” alla Rinascita dagli obiettivi geopolitici e dalle relative analisi estremamente lucidi in direzione di una effettiva azione dell’Europa (che per attuarla dovrebbe mostrarsi sociale, nel senso di una potenza nazional-continentale “espressione dei propri popoli” in contrapposizione agli interessi e diktat USA); un altrettanto ridotto, ed estremamente caotico, “campo rosso” unito nel rifiuto – almeno verbale – delle politiche tanto USA che europee, ma, in generale, senza saper dove sbattere la testa in termini politici chiari. Non senza trasversalità.

Lasciamo pure da parte il primo “campo”, cui subito si è aggregata qui da noi la “sinistra” ufficiale, pur tra qualche balbettio suggerente maggior moderazione nei rapporti con la Russia. (E semmai dovesse esserci qualche maggior correzione di rotta questa verrebbe – per motivi di interesse nazionale e potenza da poter buttare sul piatto – da una destra Merkel piuttosto che da un “progressista” alla Renzi).

Fin qui ha trionfato la linea dura di Washington, destinata ad infrangersi contro il muro opposto da Mosca (e da tutta un’altra serie di paesi in vena di “autodecisione dei capitali”), ma fruttifera nei confronti di un’Europa vassalla cui le inique sanzioni antirusse costeranno ben care sotto tutti i punti di vista. L’Europa? Vada a prenderselo in quel posto ha sbottato una certa tizia della Casa Bianca: detto fatto! Addirittura Washington si offre di inviare sue truppe nei paesi baltici come “deterrente” antirusso lasciando quelle europee chiuse nelle proprie caserme: la Crimea viene “occupata” dai russi (che si limitano in effetti a riprendersela in quanto cosa propria) e, intanto, si legittima il fatto che un bel pezzo di territorio europeo possa venir occupato militarmente (oltre che per tutto il resto) dagli USA. Non c’è che dire!

A margine: l’ultradestra nostrana più nota, in continuità con la propria tradizione di combutta coi “poteri occulti” (i mandanti sono al chiaro!), si è schierata con la “rivoluzione di Kiev” in quanto affare ucraino per non confessare apertamente di stare dalla parte degli USA e persino alle redini di Bruxelles e Roma. Così Forza Nuova, così Casa Pound, quest’ultima in dispregio al poeta-politico antiplutocratico, e perciò apostata degli USA, del cui nome osa fregiarsi. Se qualcosa può confortare questi brutti ceffi è il fatto che anche in certi settori ultrasinistri si percorre la stessa strada e con argomenti di sostegno a certe cosiddette “rivoluzioni” in corso d’opera non molto dissimili.

Abbiamo detto della posizione coerentemente europeista (in senso nazionalcapitalista) di Rinascita. Ci tocca aggiungere che nella stessa direzione, sia pur con altri accenti, si muove una fetta di esperti di geopolitica decisi a non farsi attirare nel trabocchetto yankee. Abbiamo già preso nota delle loro prese di posizione – da veri “progressisti” in senso borghese – cui mancano, per ora, referenti validi di partiti ed istituzioni. Una strada in salita, ma destinata ad attirare a sé i necessari maratoneti in grado di percorrerla. Allo stadio attuale una Rinascita è destinata alla marginalità, ma la sua agenda è quella dettata inesorabilmente dallo stato delle cose alla “nostra”borghesia; e se non saprà farlo la “sinistra” ci penserà qualcun altro.

Un’anticipazione: se volete farvi partecipi dell’euromasochismo fidatevi pure della stampa “progressista” che conta, dalla famigerata Repubblica all’Unità. O volete una musica diversa? Leggetevi, allora, Il Giornale, di cui in appendice portiamo alcuni stralci significativi in materia non solo di Ucraina, ma anche di ripensamento e mea culpa sul caso Libia, laddove un Berlusconi sotto universali ricatti non ha saputo andare per la strada che, in modo borghesemente intelligente ed intenzionalmente audace, aveva imboccato in politica estera rassegnandosi a fungere da Bruto su ordini esterni nei confronti dell’“amico” Gheddafi (e conoscendo lui e la sua ghenga siamo certi lo farebbe anche con Putin, anche se di recente ha avuto il coraggio di smarcarsi dalla campagna – suicida – dell’Europa contro la Russia, tanto che “il giornale fondato da Antonio Gramsci” lo ha subito additato come pericoloso “amico dello zar”). Non è che costoro intendano impugnare sino in fondo i “nostri interessi nazionali” versus Obama, ma il preludio da essi eseguiti dà già un’idea dell’opera da eseguire da parte di una vera e propria orchestra a ciò attrezzata. Versione “non di destra” su questa strada? Quella che abbiamo sentito da un esponente di Limes: non diamoci la zappa sui piedi prosternandoci ai piedi di Obama sulla strada di Kiev; lasciamo che vi si impantani da solo e proiettiamoci verso il nostro vero posto al sole: il Mediterraneo.

E’ pur certo che il tema del contrasto d’interessi Europa-USA in vista di un’emancipazione della prima dalla seconda interessa anche noi, ma da un orizzonte del tutto opposto. Gli autentici (e “patriottici”) interessi borghesi europei quelli sono, ma di essi a noi nulla frega, interessandoci solo di seppellirli assieme alla classe sociale di cui sono espressione. “Guai ad appoggiare le proprie borghesie”, scrive un compagno di cui alleghiamo qui di seguito un breve testo nell’insieme sottoscrivibile. Di esso non condividiamo lessicalmente solo il passaggio secondo cui “i lavoratori devono capire che il nemico più pericoloso per la rinascita del movimento operaio è l’imperialismo americano”. Vale per noi sempre la divisa secondo cui il nemico principale è in casa propria. Il bastione imperialista numero uno sono certamente gli USA e la sua sconfitta è condicio sine qua non per la rivoluzione socialista, ma l’apprestamento delle armi consone a tale bisogna passa per la lotta contro l’imperialismo “nostro” come primo campo di battaglia. Lo diciamo esclusivamente per evitare anche formalmente l’equivoco di una possibile strada antiamericanista troppo spesso propinataci da “compagni”, che serve solo da viatico per combutte proletariato-borghesie “veramente nazionali” in nome di una rinnovata Patria. (E, lo precisiamo, non pare assolutamente questo il senso dello scritto che riproduciamo, ma un certo settore di “compagni” non fa che rigirarla in questa direzione, sentendosi fastidiosamente il fiato sul collo da parte dei tipi alla Rinascita che servono la stessa zuppa, ma perlomeno in maniera del tutto coerente col loro... cameratismo).

QUATTRO VOCI DIVERSE (NESSUNA NOSTRA)

Qualche documento dall’interno della Russia e dell’Ucraina. Ci atteniamo al pochissimo che ci sta sotto gli occhi mentre sarebbe estremamente utile inseguire tutti i segnali, anche minimi, capaci di parlare un linguaggio di classe.

Il primo di questi documenti è quello del VKPB, partito di stretta ortodossia stalinista, e porta la firma della famosa N. Andreeva, già emersa a suo tempo come contestatrice di Gorbacev in nome del “comunismo”. Ovvia l’esultanza per il ritorno in patria della Crimea, regalata all’Ucraina dal “rinnegato Chruscev, calunniatore di Stalin (...) con una volontaristica decisione personale”. E “noi bolscevichi riteniamo che la causa di tutte le disgrazie accadute ai popoli della ex Unione Sovietica risieda nella distruzione violenta della Patria socialista da parte della controrivoluzione borghese”. Su come quest’ultima si sia potuta incubare per poi esplodere alla grande, senza bisogno di alcuna traumatica azione in armi (come anche Trotzkij ipotizzava) nell’URSS stando sotto la chioccia stalinista neppure un accenno interpretativo. E Putin sarà parte di quella “controrivoluzione borghese”? Non ci è dato saperlo. Per intanto va – lo si voglia e dica o no – sostenuto per impedire che la borghese (se non intendiamo male) Russia finisca preda di altri e peggiori borghesi stranieri.

Riconosciamo, comunque, alla Andreeva una nota di merito: nel suo scritto non vi è alcun accenno revanscista o razzista contro gli ucraini “in genere”. Al contrario si invoca “l’unità dei popoli fratelli, Ucraina e Crimea sovietiche e socialiste” come “stato plurinazionale di operai e contadini”, possibilmente entro una ritrovata “grande Unione Sovietica”. Il recinto entro cui ci si muove resta quello stalinista, ma questi accenni alla “fraternità” da ricostruire tra i popoli della Grande Patria Socialista chiusa entro i confini – già fissati dal ’26 – del “socialismo in un paese solo” indica una differenza non da poco rispetto all’ultranazionalismo chauvinista dei circoli dirigenti (ed anche a margine dei posti dirigenziali) di Kiev. E questo è proprio il sentimento di massa che circola in Russia. Non è poco: spetterà ai comunisti autentici dar sostanza al proclama.

Una seconda dichiarazione programmatica ci viene dal RCWP (Partito Comunista Operaio Russo). Nulla in effetti sappiamo, se non per sentito dire, di questo partito. Esso sembrerebbe comunque legato al passato se si dice che “prima della vergognosa perestrojka (..) l’Unione poggiava sui principi del potere sovietico, cioè il potere che appartiene e agisce nell’interesse dei lavoratori” (e che si squaglia senza colpo ferire nonostante “il volere popolare” a suo sostegno, n.n.). Detto questo “nelle attuali circostanze il Partito sostiene l’auto-organizzazione dei popoli dell’Ucraina e della Crimea nonché delle regioni ucraine nella loro lotta contro i fascisti. I comunisti riconoscono il diritto del popolo multi-etnico della Crimea e delle regioni ucraine all’autodeterminazione mediante la lotta e l’istituzione del potere del popolo stesso”. Con un correttivo significativo: “In caso di evidente esaurimento della capacità della popolazione a difendersi (per sé, autonomamente, n.n.) contro la pressione degli elementi fascisti, il RCWP ritiene possibile l’uso del potere borghese esterno, compreso l’esercito russo, quando vi sia una richiesta corrispondente da parte del popolo e delle autorità di Crimea”, e ciò rende alquanto patetica la dichiarazione precedente: “La classe borghese della Russia ha dichiarato la sua disponibilità a difendere i suoi cittadini e la popolazione dell’Ucraina contro gli elementi fascisti e criminali. Tuttavia, dovrebbe essere chiaro che gli interessi della gente semplice (!) in questo conflitto sono sostanzialmente trascurati e servono solo da copertura propagandistica in un’operazione volta a difendere gli interessi dell’imperialismo russo” (!), tuttavia “passabile” a... grande richiesta popolare.

Non è senza significato il fatto che si dica che “i capitalisti russi non sono migliori di quelli ucraini o occidentali” e che “anche in Russia il Capitale è sempre pronto a sbarazzarsi delle forme della sua dominazione quali la democrazia borghese e stabilire una dittatura fascista e terrorista” e che “i lavoratori potranno lavorare, vivere in amicizia e in pace e costruire il socialismo solo dopo che il capitalismo sarà abbattuto”, ma i conti non tornano e, di fatto, Putin resta accreditato come il solo, decisivo fattore risolutivo “progressista” della crisi in atto: un “imperialismo” (parola scientificamente alquanto esagerata) che viene in soccorso di un popolo senza bisogno di aggressioni militari dirette in Ucraina o di annessioni territoriali pure e semplici pone qualche problema interpretativo e da questi “compagni” non emerge alcun programma alternativo sul terreno di classe per crimeani, ucraini, russi (e “il mondo intero”).

L’“anticapitalismo” del RCPW resta sostanzialmente monco, nonostante il suo “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!” in quanto la retorica del Putin=Obama si scontra con l’oggettivo differenziale (borghese) tra i due termini nelle vicende attuali: se è giustissimo prendere le debite distanze dal capitalismo russo non si può qualificarlo come “imperialismo espansionista al pari degli USA” e – al tempo stesso – difensore del diritto degli abitanti di Crimea ad esistere come nazione con tanto di placet del RCPW senza aver nulla da contrapporgli. La prospettiva, poi, di un ritorno a “prima della vergognosa perestrojka”, ai bei tempi di Stalin e post-stalinisti ante ’91 risulta del tutto priva di credibilità, e piuttosto agghiacciante come ideale programmatico. Staremo a vedere in seguito in cosa si concreti, e come, l’internazionalismo proletario cui questo partito si richiama (non è poco “in sé”, come formula, ma da qui alla sostanza..).

Un terzo documento, stavolta direttamente dall’Ucraina, ci viene trasmesso da un compagno frequentemente aduso al “ricevo e volentieri diffondo”, cui forse il piacere del volantinaggio di cose altrui fa premio sul discernimento del materiale che ci propina a piene mani. Si tratta di una dichiarazione di una Unione degli Operai Autonomi di chiaro orientamento anarcoide, con tutto l’amalgama di bei principi generali antistatalisti e di clamorose “sviste” pratiche che ne conseguono a pro delle peggiori ragioni di Stato.

In essa si legge che “ieri (18 febbraio) in Ucraina è iniziata la guerra civile. Una manifestazione poco meno che pacifica (bello il giro di frase eufemistico!, n.n.) si è scontrata con le forze di difesa dello Stato”. Nulla si dice delle caratteristiche sociali e politiche del movimento antigovernativo, da un lato ridotto a lotta contro un non meglio identificato “sistema corruttivo e repressivo” dall’altro elevato a lotta contro... lo Stato, bakuninianamente “in sé”, solo che “il popolo lo voglia”. Segue la cronaca dei fatti. Innanzitutto: “i manifestanti hanno catturato (!, come? a chi?,n.n.) 1500 armi”, il che, assieme all’uso fattone in seguito, è certamente “poco meno che pacifico”. In secondo luogo: il movimento parrebbe monopolizzato da “una politica incentrata sul pathos nazionalista e basata su strutture verticali legate agli stessi odiati politici” (i “politici” come un “in sé”) e con l’intromissione di fascisti che, sebbene “rappresentino una minoranza dei manifestanti (..) sono molto attivi”, “invece di sviluppare organizzazioni di base” (come dovrebbe fare, si suppone, la maggioranza dei manifestanti, sana nella sua “antipolitica” ed “antistatualità” – stando al testo –, ma incapace di articolarsi... orizzontalmente). Se questa Opposizione dei “politici” verticalizzati vince, scrivono i nostri, “sarà un regime borghese e repressivo come lo era quello del Partito delle Regioni”.

Questa “la lezione principale che Maidan deve ancora imparare”, e saremmo anche d’accordo se ci fosse uno straccio di programma socialista in prospettiva con tanto di una classe sociale antagonista portatrice di essa e non un generico “popolo” in vena di una sana vita (borghese) ben autoorganizzata dal basso. Ma c’è anche qui il trucco: “Tuttavia, saremo in grado di mettere in pratica questa lezione solo se il governo perde la battaglia”. Bene: ma attraverso quale scontro di forze materiali? Oppure vale il “via Janukovic!” indipendentemente dal chi e dal come gli dà la pedata decisiva? Questi signori anarchici dicono bene “Incoraggiamo tutti ad evitare di essere arruolati nelle forze militari interne (..) e di sabotare con tutti i mezzi a disposizione le azioni del governo”. Solo che tutti i mezzi può significare un non analogo incoraggiamento ad evitare l’arruolamento dall’“altra” parte ed a questo punto – reggetevi bene!– “Noi pensiamo che i criteri di partecipazione in questo conflitto siano una questione di scelte personali”. La “scelta”, personale e collettiva, degli anarchici è sempre quella della balordaggine, ad esser buoni!

Cari “compagni anarchici”, vi offriamo una chanche: dateci notizia della vostra analisi della situazione post festum e del vostro posizionamento collettivo (se possibile) di battaglia. Non emettiamo scomuniche a priori; aspettiamo solo di vedere come avete “imparato la lezione”, sperando sinceramente di non vedervi arruolati dalla parte opposta alla nostra barricata.

Quello che più ci colpisce è il quarto documento sottomano. Non tanto a motivo dei suoi indescrivibili firmatari – la LIT “trotzkista” e la sua appendice tumorale in Italia, il Partito di Alternativa Comunista –, a noi già tristemente noti da tempo, ma a causa del latore che ce lo trasmette che lo accredita come “estremamente utile (..) malgrado una certa sopravvalutazione dei fatti” (eccesso di visuale ottimista, non forcaiolismo controrivoluzionario puro e semplice). Certo: anche chi è stato senza demeriti – anzi!–alla testa di un Partito Bordighista Mondiale sia pure nel raggio di un comune sotto i diecimila abitanti (quel che passa il convento; sia detto senza irrisione alcuna) ed ha prodotto dei notevoli materiali di riflessione marxista “postbordighista” ha diritto a trovare altre illuminazioni sulla via di Damasco antibordighista, ma da qui al delirio mentale ce ne corre. Lo diciamo affettuosamente a titolo di profilassi preventiva dopo esserci sorbite infinite storielle su rivoluzioni in atto in ogni parte del mondo “a smentita del dottrinarismo bordighista”, la cui puzza reazionaria era di sovente avvertibile a miglia di distanza.

Cosa dunque dice la LIT, che disporrebbe “di proprie organizzazioni tanto in Ucraina come in Russia” (il famoso ago nel pagliaio)? Nell’articolo “dall’interno” scritto ovviamente nella lingua ufficiale del posto, quella spagnola, da Ronald Leon si esordisce così: “Il processo rivoluzionario in Ucraina è diventato uno dei più avanzati a livello mondiale”. “Uno”, perché c’è un precedente: in occasione dell’intervento imperialista contro la Libia di Gheddafi Francesco Ricci scriveva: “La Libia è il fronte più (neppure “uno dei più”, n.n.) avanzato della recente ondata rivoluzionaria”. Il fronte, allora ed oggi, è sì molto avanti; peccato che si tratti del fronte imperialista, i frutti della cui rivoluzione vittoriosa si possono ben misurare oggi in Libia, Siria, Ucraina etc. In tale occasione il Ricci non mancava di esprimere il totale disaccordo della LIT “con le posizioni di Hugo Chavez, Daniel Ortega e Fidel Castro (..) inaccettabili per le forze rivoluzionarie, progressiste e anti-imperialiste del mondo intero” (e della Casa Bianca in particolare) e sciorinava un’enfatica polemica – indovinate un po’!?– coi “parabordighisti” che “con gli occhiali sulla punta del naso e il loro manuale della rivoluzione in mano comparano i fatti odierni con il loro presunto distillato degli insegnamenti di Marx e Lenin”. Il portalettere Mantovani sarà d’accordo. I creativi della fu Radio Alice la sintetizzerebbero così: dopo Marx Capriles.

La descrizione dei fatti è facilmente intuibile. I manifestanti di piazza Maidan con “le loro milizie improvvisate” sono “riusciti ad impadronirsi di una buona quantità di armi” con cui, in modo “poco meno che pacifico” (vedi sopra) hanno sconfitto l’enorme e sanguinario apparato repressivo del regime: “per il 20 febbraio il numero dei morti superava gli ottanta, decine di loro erano poliziotti”. Un Moloch dalle evidenti gambe d’argilla che cade d’un soffio dinanzi a forze “improvvisate”! E’ un buon auspicio per le rivoluzioni a venire!

Non solo: “l’opposizione al completo” (compresa l’ultradestra) si era piegata all’accordo con Janukovic per un governo di unità nazionale, il ripristino della Costituzione del 2004 ed elezioni anticipate, ma se “nella piazza i leader dell’opposizione parlamentare (od anche e soprattutto extraparlamentare?, n.n.) difendevano l’accettazione dell’accordo e la successiva smobilitazione” la massa ha risposto picche “e i leader dell’opposizione, come A. Jtseniuk (La Patria) e Oleg Tiagnibok (Swoboda) (banderista, n.n.) sono stati fischiati in piazza e praticamente cacciati al grido di traditori! Vitali Klichko (Udar) ha dovuto chiedere perdono per aver stretto la mano di Janukovic”.

Siamo arrivati così al “dualismo di poteri”, o, per intanto, a “un vuoto di potere” (i due termini appaiono insieme e come equivalenti nello scritto) non colmato sia da parte del vecchio regime che delle opposizioni, “anche se la massa non ne era cosciente” (!). Cioè: le masse “hanno avuto il potere a portata di mano”, ma, a quanto pare, non ne hanno saputo approfittare fino in fondo, per quanto “il ’potere’ di piazza Maidan non è istituzionalizzato, però esiste, è latente (o latitante?, n.n.) e ’in attesa’ Può avere delle false illusioni, tuttavia non ha dato un assegno in bianco” a nessuna forza istituzionale post-Janukovic.

Difficile comprendere come, a dispetto di questo edificante quadretto, quelli che avevano chiesto perdono alla piazza si siano installati al potere riempiendo da sé l’“attesa”. Anzi: “Attualmente ciò che è più probabile è che l’oligarchia europeista e di estrema destra riesca ad ’occupare’ il vuoto di potere e ’chiudere’ la crisi più immediata” ed “è anche probabile che, almeno per un certo periodo, queste direzioni ed anche i gruppi del ’Settore di destra’ escano rafforzati, nel quadro di un movimento forte e coraggioso, ma confuso politicamente e ideologicamente”.

Un vero e proprio busillis: il potere a portata di mano di masse che “si sentono vittoriose” va a finire in mani opposte ed assai poco raccomandabili, “almeno per un certo periodo”. Di chi la colpa? Come vuole la tradizione “trotzkista”, della solita “mancanza di direzione”. Il treno rivoluzionario procederebbe per il meglio, ma manca il guidatore, cioè la LIT. E si può anche comprendere: chi offrirebbe la guida del veicolo ad un macchinista cieco ed ubriaco? Si rassegnino i nostri ad aspettare il loro momento.

Si parla di “dualismo di poteri”, “vuoto di potere”, “latenza di potere”, ma poi si dice che “i criteri (dell’attuale movimento, n.) sono eminentemente ’democratici’, senza nessuna prospettiva operaia e socialista”, sul che siamo d’accordo. E “la democrazia” come istituzione starebbe a significare un possibile salto rivoluzionario, un potere antagonista delle masse? Una forma di dominio borghese al posto di un contenuto proletario. Tutto qui.

La LIT ci fa un’aggiunta: “Uno dei motori principali della rivoluzione ucraina (..) è la lotta contro la storica oppressione nazionale russa” (dagli zar a Putin, senza connotazioni di classe, ma Impero contro nazione soggetta). In altra sede diremo qualcosa su questo tema dal nostro punto di vista materialista di classe. Ci accontentiamo qui di prender nota degli afflati nazionalisti della LIT che ripescano per l’Ucraina i temi risorgimentali del 1848 del tutto fuori dal tempo e dallo spazio per agitarli (testuale) “contro l’oppressore nazionale russo”. Dall’Internazionale all’Inno di Mameli in salsa ucraina!

Le restanti chiacchiere “marxiste” per demarcarsi a parole dalla politica dell’Occidente (che non è “nazionalisticamente”, ma capitalisticamente oppressivo; ma questo lo diciamo noi) valgono solo come fumo e, del resto, ce le siamo già sentite sciorinare in tutte le salse dalla LIT contro i “tiranni” (guarda caso sempre antioccidentali) tipo Chavez, Castro, Gheddafi, Assad etc. etc. in nome della “democrazia in generale” senza bisogno di altre fastidiose aggiunte “operaie e socialiste”. Cosa c’entri Trotzkij (e il marxismo con lui) con tutto questo solo dio lo sa.

Chiudiamo qui la nostra rassegna su un campionario molto ristretto di posizioni sul tema Ucraina il cui scopo dichiarato non è tanto quello di fare le pulci a quattro isolati esempi quanto di prospettare un’analisi più a fondo del problema. Nella speranza di poter pescare da qualche parte, prima o poi, dei primi segni di un risveglio d’analisi ed azione politica realmente marxiste.

29 marzo 2014



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DOCUMENTAZIONE


Riportiamo qui di seguito alcuni documenti relativi ai fatti ucraini. 

Il primo è costituito da un’intervista a Noam Chomsky (Il Manifesto, 19 marzo) per rendere omaggio ad uno statunitense capace di esprimersi senza compromessi sulla politica del “suo” paese. Un’eccezione? Sarà pure una posizione ultraminoritaria, ma essa è comunque sostenuta con vigore da compagni in senso pieno in USA cui spetta di fare da battistrada al risveglio di massa che verrà. Vogliamo con ciò enfatizzare la necessità qui da noi di non perdere mai di vista i nostri attuali ed in prospettiva compagni di lotta reagendo ad una certa chiusura nel ristretto nazionale od europeo, quando non nella pura e semplice emarginazione di fatto dello sforzo internazionalista, magari sotto l’ombrello di un “anti-imperialismo” che – fosse pure in nome di “un’altra Europa”– mette tutti gli yankee in uno stesso sacco da gettare al macero (“tanto là non ci sono dei compagni”) per finire con allargare troppe maglie nei confronti di “compagni di strada” borghesi di casa nostra.

Il secondo è un pezzo firmato M. Basso che, per l’essenziale, inquadra bene il conflitto d’interessi inter-imperialisti USA-Europa giocato sulla pelle degli ucraini di cui noi comunisti possiamo e dobbiamo tener ben conto restando sul terreno di classe, il che significa: delineazione di un programma comunista espressamente rivolto “anche” (che è persino troppo poco!) ai lavoratori americani. L’esatto opposto di un certo “antiamericanismo”...

Seguono stralci di posizioni di destra “normale”, o normalizzata, come Il Giornale ed altre di destra “sociale”, “rivoluzionaria”, persino – a parole – “anticapitalista” a dimostrazione del fatto non che si dicano cose a noi vicine (è esattamente vero l’opposto!), ma sì cose corrispondenti ad una prospettiva geopolitica italiana ed europea imperialisticamente indipendente dagli USA; il che è esattamente il problema all’ordine del giorno per il “nostro” capitalismo. Da qui si misuri l’arretratezza e vigliaccheria di una “sinistra” al traino degli USA destinata a finire nella pattumiera della storia (e c’è solo da sperare che siamo noi e non una qualche destra in armi ad eseguire l’opera della sua “rottamazione”).

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1.

INTERVISTA – Noam Chomsky: il problema è l’asservimento
dei giornalisti al pensiero comune

«Altro che feroce invasione»

Pio d’Emilia

Di «passaggio» a Tokyo per una serie di affollatissime conferenze, abbiamo chiesto a Noam Chomsky, professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, il suo parere sui nuovi «venti di guerra» tra Occidente e Oriente, che agitano il pianeta. E non solo per quel che riguarda la crisi ucraina e ora la Crimea.

L’Occidente sembra essere preoccupato da quello che qualcuno ha definito il «fascismo» di Putin. E mentre tornano i toni da guerra fredda, la situazione, in Crimea, rischia di precipitare...

Non solo in Crimea, direi che anche qui, in Asia orientale, la tensione è altissima, tira una bruttissima aria. Il recente riferimento del premier Shinzo Abe – per il quale non nutro particolare stima – alla situazione dell’Europa prima del primo conflitto mondiale è più che giustificato. Perché le guerre possono anche scoppiare per caso, o a seguito di un incidente, più o meno provocato. Quanto alla Crimea, faccio davvero fatica ad associarmi all’indignazione dell’occidente. Leggo in questi giorni editoriali assurdi, a livello di guerra fredda, che accusano i russi di essere tornati sovietici, parlano di Cecoslovacchia, Afghanistan. Ma dico, scherziamo? Per un giornalista, un commentatore politico, scrivere una cosa del genere, oggi, significa avere sviluppato una capacità di asservimento e subordinazione al «pensiero comune» che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare. Ma come si fa? Mi sembra di essere tornato ai tempi della Georgia, quando i russi, entrando in Ossezia e occupando temporaneamente parte della Georgia, fermarono quel pazzo di Shakaashvili, a sua volta (mal) «consigliato» dagli Usa. I russi, all’epoca, evitarono l’estensione del conflitto, altro che «feroce invasione».

Per carità, tutto sono tranne che un filo russo o un fan di Putin: ma come si permettono gli Stati uniti, dopo quello che hanno fatto in Iraq – dove dopo aver mentito spudoratamente al mondo intero sulla storia delle presunte armi di distruzione di massa, sono intervenuti senza un mandato Onu a migliaia di chilometri di distanza per sovvertire un regime – a protestare, oggi, contro la Russia? Voglio dire, non mi sembra che ci siano state stragi, pulizie etniche, violenze diffuse. Io mi chiedo: ma perché continuiamo a considerare il mondo intero come nostro territorio, che abbiamo il diritto, quasi il dovere di «controllare» e, nel caso, modificare a seconda dei nostri interessi? Non è cambiato nulla, alla Casa Bianca e al Pentagono, sono ancora convinti che l’America sia e debba essere la guida – e il gendarme – del mondo.

A proposito di minacce, oltre alla Russia, anche la Cina e il Giappone fanno paura? Chi dobbiamo temere di più?

Dobbiamo temere di più gli Stati uniti. Non ho alcun dubbio, e del resto è quanto ritengono il 70% degli intervistati di un recente sondaggio internazionale svolto in Europa e citato anche dalla Bbc. Subito dopo ci sono Pakistan e India, la Cina è solo quarta. E il Giappone non c’è proprio. Questo non significa che quello che stanno facendo, anzi per ora, per fortuna, solo dicendo i nuovi leader giapponesi non siano pericolose e inaccettabili provocazioni. Il Giappone ha un passato recente che non è ancora riuscito a superare e di cui i paesi vicini, soprattutto Corea e Cina non considerano chiuso, in assenza di serie scuse e soprattutto atti di concreto ravvedimento da parte del Giappone.

Proprio in questi giorni leggo sui giornali che il governo, su proposta di alcuni parlamentari, ha intenzione di rivedere la cosiddetta «dichiarazione Kono», una delle poche dichiarazioni che ammetteva, esprimendo contrizione e ravvedimento, il ruolo dell’esercito e dello stato nel rastrellare decine di migliaia di donne coreane, cinesi e di altre nazionalità e costringendole a prostituirsi per «ristorare» le truppe al fronte.

(da “il manifesto”, 19 marzo 2014)

* * *

2.

Gli USA e lo strangolamento dell’Europa

Michele Basso

I media ci presentano Obama come un presidente fondamentalmente pacifico, che ha provveduto al ritiro dall’Iraq, sta preparando quello definitivo dall’Afghanistan, e ha resistito alla pressione dei falchi che volevano l’intervento diretto in Siria. Un presidente che, prendendo atto dell’ormai crescente multipolarismo, ha messo fine alla politica aggressiva di Bush. Gli rimproverano un certo margine di incertezza, e un parziale isolazionismo, la rinuncia a riportare l’ordine, col conseguente abbandono di più paesi, soprattutto nel mondo arabo e musulmano, al caos.

La realtà è completamente diversa: Obama interviene in un’area persino più vasta rispetto a Bush, ma con metodi più insidiosi: al posto dell’esercito regolare, i mercenari, pudicamente chiamati contractor, e col pieno sviluppo delle rivoluzioni arancioni, ribattezzate con i nomi di tutti i colori dell’arcobaleno. Mentre gli USA ufficialmente appoggiano i manifestanti pacifici, sottobanco si accordano con i peggiori settori politici e, “in pieno rispetto delle tradizioni culturali del paese”, utilizzano Al Qaeda nei paesi musulmani e i nazisti in Ucraina. Ovviamente, il coordinamento dell’azione spetta alla CIA e alle ambasciate statunitensi. Quanto al caos, non è frutto di un disimpegno americano, ma è previsto, programmato. Ecco una preziosa ammissione, riguardo al conflitto siriano, di un membro permanente del Council on Foreign Relations: “...in un’ottica geopolitica l’attuale situazione di stallo conviene all’America, prescindendo dalle immani sofferenze umane, un conflitto che vede Hizbollah Iran e al – Asad ferocemente opposti ad al – Qaida è quanto di meglio Washington possa sperare”.(1)

Quanto al multipolarismo, Obama ne prende atto, ma per combatterlo meglio. E, riguardo agli alleati, il loro coinvolgimento coincide con una crescente subordinazione. Bush se la prese con Francia e Germania, che non assecondavano a sufficienza il suo intervento in Iraq. Si arrivò a cambiare il nome francese delle patatine fritte, e, se non ricordo male, ad Hollywood usci un filmetto dove i francesi, nella guerra d’indipendenza americana, anziché alleati erano avversari. Ma Bush permetteva a chi appoggiava le sue avventure, come l’Italia, di commerciare con Russia, Libia e Iran. Obama ha praticamente ostacolato il flusso di petrolio e gas verso l’Europa, con una serie di interventi: la guerra di Libia, con danno gravissimo soprattutto all’Italia, costretta a darsi la zappa sui piedi, cioè a intervenire militarmente contro un proprio partner economico. Le sanzioni all’Iran hanno bloccato un grande flusso petrolifero e un florido commercio. La guerra di Siria ha impedito l’arrivo del gas, sia di quello iraniano, sia di quello del Qatar. Le sanzioni alla Russia comporteranno il blocco del principale rifornimento di gas per l’Europa. Forse, tra poco, sarà il turno dell’Algeria. Entro il 2014 dovrebbe entrare in attività il GALSI (dall’Algeria a Porto Botte in Sardegna, per poi giungere ad Olbia e a Piombino. C’è in funzione il Trans Mediterranean Pipeline – Transmed, conosciuto anche come Gasdotto Enrico Mattei, che collega Algeria e Italia passando per la Tunisia). Possiamo attenderci, tra non molto, qualche incidente diplomatico, o un attentato, attribuito all’Algeria, che funga da pretesto per sanzioni verso questo paese, altro grande produttore di gas. Oppure si utilizzerà qualche pseudo rivoluzione arancione, o perché no, un intervento di Al Qaeda che faccia saltare in qualche punto i gasdotti, visto che, non si sa per quale “inspiegabile serie di combinazioni”, gli interventi di al Qaeda risultano sempre a vantaggio della politica imperialistica USA, anche quando vien sacrificata la vita di cittadini americani. Se ciò avvenisse, e c’è da scommetterci, l’isolamento energetico dell’Europa, e dell’Italia in particolare, crescerebbe ancora. Sia detto questo per coloro, anche di sinistra, che ritengono che i maggiori mali vengano dalla Germania, e non dall’imperialismo americano. Considerano il maggiordomo più pericoloso del padrone. Quanto ai politicanti e ai media ufficiali, si guardano bene dal trattare questi problemi, perché rivelerebbero il loro supino servilismo.

Una conferma di questa politica USA l’abbiamo avuta recentemente. Varie delegazioni europee si sono recate in Iran, e c’è andata anche la Bonino (che c’entri con la sua defenestrazione?). La delegazione più significativa è stata quella francese, ma Washington è intervenuta pesantemente: “La visita storica a Teheran di una delegazione di oltre cento imprenditori francesi, tra lunedì e mercoledì scorsi, non è stata apprezzata a Washington. E immediato è arrivato il commento del segretario di stato Usa, John Kerry, sulla missione degli uomini d’affari e sul fatto che i francesi debbano rispettare l’embargo contro Teheran e non possano violare le sanzioni.” (2) Hollande immaginava che, poiché la Francia, con la guerra di Libia e quella del Mali, aveva fatto da apripista alla penetrazione americana in Africa, di aver guadagnato meriti speciali agli occhi di Washington, e invece si è preso un calcio nel sedere (è il destino dei servi sciocchi).

Giulietto Chiesa, partendo dalla questione ucraina, ha spiegato che gli USA, provocando l’isolamento energetico dell’Europa, insistono perché si allacci ai centri di produzione americani di gas da scisti, mettendo in rilievo il lungo tempo che occorre perché questa soluzione sia realizzata pienamente. Descrive con dovizia di particolari come si sviluppa il ricatto energetico americano.(3)

L’Europa, nel frattempo, come riuscirà ad andare avanti? Innanzitutto, col ritorno al carbone, con tutte le note conseguenze sull’ambiente e sulla vivibilità del continente. Non ci sono particolari problemi a ricavare benzina dal carbone, i tedeschi avevano ottenuto buoni risultati. Gli studi erano cominciati con Bergius nel 1910, ma il pieno sviluppo si verificò molti anni dopo: “Nel settembre 1936 Hitler annunciò il suo piano quadriennale alla fine del quale la Germania avrebbe dovuto essere pronta per la guerra, con una economia resa indipendente dalle importazioni. In tale piano un ruolo importante aveva la benzina sintetica fabbricata sia col processo Bergius, basato sulla idrogenazione del carbone, sia col processo Fischer-Tropsch di sintesi degli idrocarburi da una miscela di ossido di carbonio e idrogeno ottenuta anch’essa dal carbone, materia prima abbondante in Germania.” (4) Ma alla fine della II guerra mondiale, gli Alleati imposero ai tedeschi la cessazione della produzione di benzina sintetica. La fusione nucleare ha dato buone speranze in laboratorio. Al Livermore National Laboratory in California : "I ricercatori hanno sparato 192 raggi laser su una minuscola sfera, generando una reazione di fusione che ha scatenato un’enorme quantità di energia per una piccola frazione di secondo. Anche se in versione ridotta, hanno creato in questo modo condizioni simili a quello che accade di continuo alle stelle."(5) Dal punto di vista scientifico è molto importante, ma le applicazioni su scala industriale non sono ancora a portata di mano.

Le rinnovabili possono coprire solo una parte delle necessità di un’economia capitalistica, che ha uno spreco di energia immenso (basti pensare che il trasporto di merci in Italia è in gran parte su gomma, mentre l’uso di treni comporterebbe un consumo assai minore di energia).

La Russia boicottata potrebbe rispondere con un forte protezionismo, ricostruendo grandi complessi industriali e utilizzandovi gas e petrolio, in attesa della costruzione di oleodotti e gasdotti verso la Cina. Ma l’Europa non avrà questa possibilità.

I lavoratori europei rischiano, come sempre, di essere le vittime. Devono capire che il nemico più pericoloso per la rinascita del movimento operaio è l’imperialismo americano. Ma guai ad appoggiare le proprie borghesie, che li hanno sempre illusi e traditi. Devono invece cercare la soluzione internazionalistica, prendendo contatto con i lavoratori americani, che in questi ultimi decenni sono stati particolarmente colpiti da un regime che li sacrifica sempre più alla guerra e all’avventurismo, e naturalmente con i lavoratori di tutti gli altri paesi. Solo a queste condizioni la lotta all’imperialismo sarà efficace.

 

Note

1) John C. Hulsman, “La lezione realista del soldato Obama”, Limes n. 3, marzo 2014

2) Angelica Ratti, “Iran, Washington tiene sotto controllo i francesi”, Italia oggi, ESTERO – LE NOTIZIE MAI LETTE IN ITALIA, 6 Marzo 2014.

3) Giulietto Chiesa, “E’ già la nuova guerra fredda”, Pandora TV, Megachip – globalist, 15 marzo 2014.

4) Giorgio Nebbia “LA BENZINA SINTETICA” in Minerva Storia della chimica.

5) “Fusione nucleare, primo storico risultato in California” Repubblica, 13 febbraio 2014.

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3.

La guerra (economica) tra Occidente e Mosca

è già incominciata

A rischio un interscambio commerciale di oltre 200 miliardi
Italia particolarmente vulnerabile sul piano energetico

Gian Micalessin

La battaglia finanziaria è già incominciata. E rischia di trasformarsi in un’autentica guerra. Una guerra disastrosa innanzitutto per l’Europa e per l’Italia. Il costo di quel conflitto è già scritto. Oggi l’Unione Europea esporta in Russia per oltre 123 miliardi di euro mentre acquista da Mosca per circa 212 miliardi. La vera differenza sui piatti della bilancia commerciale non la fanno però le cifre, bensì i prodotti. Mentre noi europei piazziamo sui mercati russi macchinari industriali, automobili e beni di consumo Mosca ci vende petrolio e gas. Ci garantisce insomma quell’energia che l’Europa non possiede e stenta sempre più a trovare. Il discorso vale soprattutto per l’Italia. Per il nostro Paese la Russia è una sorta di Bengodi. Nel 2013 le nostre aziende hanno esportato beni per oltre 10 miliardi di euro garantendo forniture di macchinari, prodotti alimentari e abbigliamento. In cambio Gazprom e gli altri giganti russi ci forniscono il 30 per cento del metano con cui riscaldiamo le nostre case e mandiamo avanti le nostre aziende. Per questo accodarsi all’Europa e agli Stati Uniti per dichiarar guerra a Putin nel nome dell’Ucraina rischia di rivelarsi un autentico suicidio. Soprattutto per un’Italia alla ricerca di una timida ripresa dopo anni di recessione.

L’Europa invece ci spinge inevitabilmente in quella direzione. Gli appuntamenti sono già fissati. Oggi i ministri degli esteri dei Ventotto si ritrovano a Bruxelles per decidere le sanzioni con cui «punire» la Russia. Sanzioni che potrebbero venir inasprite nel Consiglio europeo di giovedì 20 marzo. Le misure prevedono per ora congelamenti di beni e limitazioni ai movimenti di alcuni esponenti russi. Nel mirino vi sarebbero un centinaio di personalità russe tra cui personaggi chiave come l’amministratore delegato di Gazprom Alexei Miller e quello di Rosneft Igor Sechin. Di fronte ad un simile smacco Mosca ben difficilmente resterà a guardare. Le ricadute delle scelte europee rischiano di colpire soprattutto le aziende italiane. La prima a farne le spese potrebbe essere la Saipem. Solo qualche giorno fa l’azienda italiana ha firmato un appalto da 2 miliardi di euro per la costruzione del primo tratto di South Stream, il gasdotto con cui Gazprom punta a portare il metano in Europa e a isolare l’Ucraina. Accodandoci all’Europa e agli Stati Uniti di Obama rischiammo insomma di perdere le redditizie commesse legate alla costruzione dei 931 chilometri di questo gasdotto.

Ovviamente una guerra economica non gioverebbe neppure a Mosca. Un blocco totale delle esportazioni di gas e petrolio nel Vecchio Continente costerebbe a Putin circa 54 miliardi di euro e lo costringerebbe a far i conti con una perdita immediata di circa il 4 per cento del prodotto interno lordo. Ma mentre noi europei sprofonderemmo nel gelo energetico e le nostre merci stenterebbero a trovare altri mercati Vladimir Putin potrebbe convogliare gas e petrolio su quei mercati asiatici affamati d’energia. La scelta di «punire» la Russia appare ancor più infausta considerando quel che Europa e Italia finiranno con l’ottenere in cambio. Battendosi per l’Ucraina Bruxelles s’accollerà l’adozione e lo sviluppo di una nazione priva di risorse e letteralmente in bancarotta. Una nazione a cui dopo la «rivoluzione» di febbraio ha già dovuto garantire stanziamenti d’emergenza per quasi 11 milioni d’euro. La mossa successiva sarà ancora più ardua. L’inasprimento dello scontro dopo il referendum in Crimea di ieri costringerà inevitabilmente l’amica e alleata Europa a garantire il salvataggio energetico di Kiev mettendole a disposizione quel gas che Mosca ben difficilmente continuerà a fornire. Un impegno non da poco. Soprattutto se nel frattempo la stessa Europa dovrà pensare a rimpiazzare un terzo del proprio metano. Quello fornitole fin qui dai «cattivi» di Gazprom.

(da “il Giornale”, 17 marzo 2014)

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4.

Ucraina: i falsi moralismi e le ipocrisie dell`Occidente

Sono gli Stati Uniti e l`Unione Europea a porsi “fuori dalla realtà” se continuano a perseverare nella loro illogica e anacronistica presunzione di superiorità morale

Nicola Bizzi

Riguardo alla situazione in Ukraina, a parte una lunga analisi che ho pubblicato la scorsa settimana sui motivi che si celano dietro alle recenti rivolte che hanno determinato la destituzione del Presidente Janukovich, che ho inquadrato in un’ottica di scontro fra potenti e ricchissimi oligarchi che, sin dal 1991, dominano la scena e detengono le redini della politica, ho fino ad oggi espressamente evitato ulteriori commenti. L’ho fatto perché, essendo note le mie nette posizioni filo-russe, molti lettori avrebbero potuto interpretare le mie eventuali osservazioni come ’non obiettive’ o addirittura tacciarle di presunta mancanza di ’imparzialità’. Ma chi ha detto che un’analisi dei fatti debba per forza essere ’imparziale’ quando le verità sono talmente davanti agli occhi che è impossibile ignorarle? E non si sta forse dimostrando vergognosamente ’di parte’, riguardo a questa crisi internazionale, l’intera stampa italiana di regime, sempre pronta ad accodarsi e ad omologarsi alle direttive di Washinghton e di Bruxelles?

Non posso quindi esimermi dal commentare alcune deliranti affermazioni che ho avuto modo di leggere negli ultimi giorni su tutti i giornali. Affermazioni, in particolare, di Barak Obama e di Angela Merkel, che hanno accusato Vladimir Putin di essere “fuori dalla realtà” o, addirittura, “dal lato sbagliato della Storia”.

Simili affermazioni, agli occhi di una persona intelligente, si commenterebbero da sole, ma riescono purtroppo a fare presa su un’opinione pubblica che spesso non ha un’opinione e che è ormai troppo abituata alle bugie dei mass media.

Il definire Putin “fuori dalla realtà” o “dal lato sbagliato della Storia” implica una intollerabile presunzione di superiorità morale da parte di un Occidente che dovrebbe solo tacere, in quanto di morale o di superiore ha ormai ben poco, e soprattutto ben poco da insegnare. Simili affermazioni implicano l’esistenza di un presunto “lato giusto della Storia”, come se la Storia avesse un lato.

Stavano “dentro la realtà” e dal “lato giusto della Storia” gli Stati Uniti quando hanno sganciato, nel 1945, due ordigni atomici sul Giappone, sapendo che avrebbero massacrato deliberatamente gli inermi abitanti di due intere città? Stavano “dentro la realtà” o dal “lato giusto della Storia” quando, dal 1945 ad oggi, hanno impunemente invaso, bombardato e occupato un numero impressionante di Stati sovrani ricorrendo nella maggior parte dei casi all’inganno, alle bugie, a “false flag” e all’addomesticazione forzata della stampa?

Certi personaggi (non mi riferisco solo a Obama e alla Merkel, ma a tanti altri leader occidentali) sono spesso pervasi da un delirio di onnipotenza che genera in loro una spesso reale convinzione di superiorità morale, una superiorità per certi versi “messianica” e “talmudica’, che inevitabilmente li trascina e li spinge ad azioni che niente hanno di moralmente accettabile.

Azioni che però commettono proprio alla luce di questa delirante presunzione di superiorità, in base alla quale tutto deve essere loro permesso e consentito. Destabilizzare nazioni sovrane e fomentare le guerre civili (Jugoslavija, Libia, Sudan, Siria), bombardare a tappeto la popolazione civile con armi all’uranio impoverito, utilizzare il clima come arma, alterando deliberatamente le condizioni atmosferiche e irrorando l’atmosfera di veleni e metalli pesanti, sembra ai loro occhi giusto e sacrosanto.

“Dio lo vuole!”, gridavano i crociati quando, nel Luglio del 1099, entrarono a Gerusalemme massacrandone allegramente tutta la popolazione, senza fare distinzioni fra uomini, donne, bambini, cristiani, ebrei o musulmani. Ai loro occhi era giusto, perché si sentivano moralmente superiori e “dalla parte giusta della Storia”.

Ecco perché dico che sono Barak Obama e Angela Merkel ad essere palesemente “fuori dalla realtà”.

Trovo in conflitto con qualsiasi diritto internazionale l’affrettato riconoscimento, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, dello pseudo-governo auto-insediatosi a Kiev.

Un governo che non solo non ha alcuna legittimità, ma è frutto di rivolte pilotate ad arte da organizzazioni non governative gestite dalla rete di Soros. Organizzazioni, quindi, de facto americane, e che Putin ha avuto l’intelligenza di bandire dal suolo russo già tre anni fa.

Molte cose i giornali “occidentali” di regime, forti della loro presunzione di superiorità morale, non le hanno dette. Le ha denunciate solo Giulietto Chiesa, ma la nostra stampa addomesticata non ha dato alle sue denunzie il giusto spazio. E allora tenterò di farlo io.

Da quando a Kiev si è insediato il nuovo potere eversivo, che ha subito avuto il plauso ed il riconoscimento di quello stesso Occidente che lo ha strategicamente spinto a rovesciare le autorità legittime, sono state compiute due gravi mosse finalizzate esclusivamente a provocare la Russia e a generare il caos.

La prima di esse è stata l’abolizione del bilinguismo. Come ha giustamente osservato Giulietto Chiesa, chiunque può capire che si tratta di un fatto gravissimo, ingiustificabile, che non solo viola ogni principio di “democraticità”, ma che rappresenta un’inaudita provocazione per la numerosa popolazione russofona dell’Ucraina (che in alcune regioni del Paese rappresenta la maggioranza assoluta). E chiunque può quindi capire che un simile provvedimento rappresenta solo una provocazione nei confronti della Russia e una concreta minaccia nei confronti di tutti i cittadini russofoni dell’Ucraina. Un provvedimento che non promette niente di buono e che è stato studiato ad arte per generare caos, rivolte e insurrezioni, come infatti sta avvenendo in Crimea e nella regione del Donbass.

La seconda mossa, forse peggiore della prima, è stata l’arruolamento in massa, armi e bagagli, nelle forze di Polizia di Kiev, delle bande di teppisti e delle formazioni paramilitari finanziate dagli oligarchi che hanno rovesciato il Presidente Viktor Janukovich. Chiunque, dotato di un minimo di senno, può capire come, alla luce di questa notizia, le preoccupazioni dei Russi di Crimea, di Odessa e delle regioni orientali del Paese siano salite al massimo livello.

Si tratta di due mosse finalizzate a provocare rivolte, insurrezioni e a scatenare una guerra civile che spinga le popolazioni di queste regioni alla secessione. Secessione che poi le forze armate ucraine, con l’aiuto dei milioni di dollari che John Kerry ha già loro promesso, si apprestano a reprimere nel sangue.

Quello che è più intollerabile e inaccettabile, da parte dell’Europa e di Washinghton, è il fatto che stiano, da un lato, incoraggiando questi eversori a scatenare la guerra civile, e dall’altro stigmatizzando “moralmente” qualsiasi possibilità di intervento russo.

Del resto è impensabile che la Russia resti a guardare e continui ad assistere alla finestra a simili provocazioni inscenate nel suo “giardino di casa”, nel suo “spazio vitale” geostrategico di superpotenza.

Quando gli Stati Uniti hanno invaso Panama nel Dicembre 1989, destituendo il corrotto ma legittimo governo, e occupando per oltre dieci anni militarmente il canale, non mi risulta che l’Unione Sovietica li abbia accusati di essere “fuori dalla realtà” o “dal lato sbagliato della Storia”. Semplicemente i sovietici presero atto che gli USA stavano difendendo i loro interessi geo-strategici nel proprio “giardino di casa”.

Vladimir Putin è ben consapevole di queste provocazioni, e soprattutto del fatto che le rivolte pilotate in Ucraina siano state scatenate ad arte proprio durante lo svolgimento dei giochi olimpici invernali di Sochi, proprio per evitare eventuali reazioni russe in mondovisione. E, da vecchio stratega della scuola del KGB, si è mantenuto fino ad oggi anche fin troppo calmo e prudente. Sa, del resto, di trovarsi di fronte un Occidente che, proprio perché affetto da un patologico ed ottenebrante senso di superiorità morale, adotta da sempre due pesi e due misure non solo per quanto riguarda gli scontati e banali concetti di “bene” e “male”, di “giusto” e “sbagliato”, ma anche per quanto riguarda i principi del diritto internazionale e dell’autodeterminazione dei popoli.

Un Occidente che ritiene “giusto” e “sacrosanto” che la Slovenia e la Croazia abbiano dichiarato la secessione dalla Jugoslavija innescando una guerra civile durata anni, o che la regione del Kosovo e Metohija sia stata strappata alla Serbia grazie alle armi e ai bombardamenti della NATO e sia divenuta uno stato fantoccio gestito da trafficanti di droga.

Lo stesso Occidente che nega però il diritto all’autodeterminazione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud e il loro naturale desiderio di ricongiungersi alla Russia per difendersi dalla repressione georgiana. Un Occidente che permette che India, Pakistan e Israele si siano dotati di potentissimi arsenali nucleari, ma che non accetta che l’Iran utilizzi il nucleare per scopi pacifici ed energetici.

Fa bene quindi Putin a non fidarsi, perché è ben consapevole che, agli occhi dell’Occidente, il desiderio di autodeterminazione dei cittadini della Crimea, di Odessa e dell’oblast del Donbass valgono poco meno di zero di fronte agli enormi interessi geo-strategici che gli Stati Uniti stanno smuovendo in tutta la fascia che va dal Mar Baltico all’Oceano Indiano, nel tentativo di accerchiare e isolare la Russia.

Con queste premesse la mossa di Putin di rafforzare la guarnigione di Sebastopoli è un gesto non solo ragionevole, ma funzionale a impedire un assalto militare ucraino contro la Crimea e la sua popolazione. Ed ha ragione Putin a dichiarare che, con il precipitare degli eventi e in un Paese in preda al caos, un intervento militare russo avrebbe una funzione umanitaria e sarebbe quindi assolutamente legittimo.

Washington minaccia con un’impudenza che non ha precedenti e l’Europa persevera nella sua irresponsabilità. Concordo quindi con Giulietto Chiesa sul fatto che dobbiamo attenderci gravi sviluppi e che occorra premere in ogni modo sul governo italiano e sulle istituzioni europee affinché vengano prese le distanze, finché c’è ancora tempo, da questa pericolosissima avventura che è voluta dagli Stati Uniti e che è funzionale solo ed esclusivamente ai loro interessi, non certo a quelli dell’Europa.

(dal sito “Rinascita.eu”, 5 marzo 2014)

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5.

Ucraina 2014: consolidamento di Mosca

Alessandro Lattanzio

Con il golpe orchestrato dalle fazioni della destra liberista atlantista e dalle bande nazifasciste ad esse associate, si conclude la storia dell’Ucraina ’indipendente’ dal 1991, a sua volta nata a seguito dell’altro golpe che portò alla dissoluzione dell’URSS e all’indipendenza più o meno formale delle 15 repubbliche sovietiche che la costituivano. Kiev da allora è stata governata da un dirigenza politica propensa solo a ricatti, convenienze temporanee ed accordi di basso profilo, arrivando a partecipare a vari tentativi di erodere e danneggiare la Federazione Russa: adesione al GUUAM, partecipazione indiretta all’aggressione della Georgia all’Ossezia del Sud, continui flirt con la NATO e l’UE. Il tiramolla con Bruxelles e Washington finisce con l’instaurazione di un governo liberal-fascistoide che accetterà gli ordini dei propri mandanti atlantisti: USA, Germania, Polonia e Francia. Ovviamente, le bande di squadristi nazifascisti e i locali mercenari della NATO potranno estendere il loro dominio fino a un certo punto in Ucraina, le regioni russofone, più industrializzate ed economicamente autosufficienti, hanno già deciso di ignorare il governo di pagliacci quisling insediatosi illegalmente a Kiev.

In sostanza le aree strategiche dell’Ucraina, il premio agognato della ’rivolta colorata’ istigata sia dall’apparato euro-parassitario tedesco che dalle agenzie strategico-sovversive statunitensi a Kiev, restano e resteranno fuori dalla presa della NATO e dell’UE. Difatti si assiste alla frattura definitiva dell’Ucraina, frattura voluta dai pidocchiosi manichini atlantisti imposti a Kiev. Infatti, il neo-governo fantoccio ha emanato leggi che vietano la lingua russa (lingua naturale di metà della popolazione), nonché la soppressione dei partiti e dei media espressione di questa parte russofona della popolazione ucraina. Ciò indica solo la volontà autodistruttiva e vendicativa tipica dei ’democratici’ estremisti obnubilati e drogati dalle chiacchiere tantriche allucinatorie dei neocon americanisti sguinzagliati in Ucraina dal fantoccio mediatico Obama e dall’euro-burattino Merkel, inane bancarelliera dell’europolitica farlocca e economicida della Bundesbank. Se un vecchio rincoglionito come il senatore statunitense John McCain, o la killer personale della nullità Obama, l’isterica ambasciatrice Susan Rice, arrivano ad ammonire Mosca di non ’intervenire’ in Ucraina, vuol dire che a Washington si sente puzza d’inquietudine, sapendo che la Federazione Russa interverrà con tutti i mezzi per consolidare il vantaggio strategico concessole da cotanta manfrina colorata. Infatti, a Washington si rendono conto di aver fallito anche questa partita a poker con Mosca. Sì, sono riusciti ad imporre il loro fantocci a Kiev, ma non su tutta l’Ucraina, e quella parte dell’Ucraina, russofona e patriottica, che gli sta sfuggendo, andrà a ripararsi sotto l’ombrello nucleare russo, come hanno già fatto le molto più piccole repubbliche autonome caucasiche di Abkhazija e Ossezia del Sud. Per difendere queste piccole repubbliche, Mosca non esitò ad affrontare sul campo di battaglia la Georgia e la NATO, vincendo la partita. I falchi-gallina di Washington, Londra, Parigi e Berlino comprendono benissimo che i russi non avranno timori nel ricorrere alle stesse misure per difendere la popolazione russofona ucraina. Passando la palla così alla ’diplomazia’ euro-atlantista che, per quanto preda di eccitazioni infantili, sa benissimo che davanti all’incolumità della popolazione dell’Ucraina orientale Mosca non resterà impassibile.

Le olimpiadi di Sochi sono passate, e il tacito scambio Kiev per Damasco deciso tra Washington e Mosca, è stato chiuso. Infatti, abbattuto il fanatico gagà saudita Bandar bin Sultan, per aver sostanzialmente perso la partita primaverile araba, Ryadh e Washington paiono aver rinunciato all’ennesimo assalto contro Damasco, che sembrava imminente, (in realtà sembrava imminente almeno dall’agosto 2013, ma senza mai avverarsi). In sostanza, le truppe mercenarie in Siria subiscono una sconfitta dopo l’altra, venendo esaurite, mentre i sauditi disperdono le loro forze aumentando i fronti dello scontro con l’Asse delle Resistenza, allargandosi in Iraq e in Libano, e probabilmente anche in Egitto e Palestina, mentre i loro ascari si scontrano con i banditi al soldo di Ankara e Doha, in una guerra fratricida che fortunatamente miete sempre più vittime tra le file taqfirite.

Il premio ucraino andrà alla Federazione Russa, che in un modo o nell’altro, riunirà alla Madrepatria la Piccola Russia, cioè l’Ucraina sud-orientale, con capitale Kharkov. La Piccola Russia porterà in dono a Mosca i complessi industriali metalmeccanici di Dnepropetrovsk, l’industria missilistica di Juzhnoe, i giganteschi cantieri navali di Nikolaev, dove furono costruite le portaerei russe, cinese e indiana, permettendo così alla marina russa di realmente avviare un programma navale comprendente le future portaerei a propulsione nucleare, senza dover costruire da zero i cantieri navali necessari. E tutto ciò oltre alle coste dell’Ucraina, alla penisola di Crimea, ai bacini minerari del Donbass e alla relativa industria estrattiva. Tutti obiettivi bramati da Berlino e da Washington nella loro operazione colorata ucraina. Davanti a tale immenso patrimonio strategico-industriale, Mosca accetterà l’abbandono all’UE delle instabili regioni ucraino-occidentali, prima ragione dell’instabilità imperante a Kiev, che ne rendeva impossibile l’adesione all’Unione Eurasiatica. Invece, l’adesione della Piccola Russia permetterà all’Unione Eurasiatica di consolidarsi, acquisendo delle regioni strategiche, sviluppate ed omogenee, che non creeranno focolai d’instabilità all’interno dell’Unione progettata da Mosca.

E restino pure tranquilli coloro che s’irritano, dopo essersi bagnati le mutandine all’idea, del fatto che Mosca in realtà non scatenerà nessuna guerra termonucleare soltanto per tenersi le instabili e miserabili regioni della Galizia, oramai preda anche dello squallore ideologico-culturale espresso sia dalla teppaglia nazifascista inquadrata da Mossad, Soros e servizi polacco e tedesco, e sia dalle bande mercenarie ’berlusconiane’ guidate da fenomeni da baraccone come il pugile suonato Klishko e la mafiosa Tymoshenko. Se è vero che è possibile che le basi NATO avanzeranno verso Mosca, è anche vero, che avanzeranno per mettersi entro la portata dei missili tattici e di teatro russi, cosa impossibile con in mezzo l’Ucraina, pavida, tremolante e inutile che ha vivacchiato fino al 20 febbraio 2014.

(dal sito “Stato & Potenza, 24 febbraio 2014)