nucleo comunista internazionalista
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Tibet e “autodecisione nazionale”

Per una serie di contrattempi contingenti non siamo ancora usciti sul sito sulla questione tibetana, della quale daremo fra non molto una nostra trattazione (perlomeno nelle intenzioni) un tantino oltre i confini delle pure dichiarazioni di principio e propaganda d’occasione. Sia chiaro, comunque, sin da ora, che noi, da marxisti, non stiamo in alcun modo, né incondizionato né condizionato, dalla parte di quello che solo la propaganda reazionaria spaccia come “popolo tibetano” mentre si tratta, in realtà, di tentativi di rivalsa reazionaria “lamaista” direttamente sorretta ed indirizzata dalle centrali imperialistiche occidentali appoggiata, al massimo, da settori ristretti della popolazione tibetana legati ai vecchi interessi (oggi combinati) feudal–imperialistici. Il tutto, sia ben chiaro, senza simpatia e contiguità alcuna con le posizioni e gli interessi concreti del capitalismo pechinese contro cui chiamiamo alla lotta proletari e classi oppresse sia cinesi che tibetane. Ed anche senza ignorare eventuali ragioni “nazionali” tibetane cui potremmo essere interessati nel quadro di un’impostazione correttamente proletaria, internazionalista, del problema.

In attesa della nostra uscita sul sito su questo tema, prendiamo intanto atto del manifestarsi di posizioni filo–tibetane che pretenderebbero richiamarsi alla lezione di Lenin quanto all’autodecisione delle nazioni, da un punto di vista (nelle dichiarazioni di “principio”, e solo in esse, visto che nella pratica s’insegue la retorica nazionalista dettata dall’imperialismo) comunista internazionalista. Non trattandosi di pure bertinottate o turigliattate, ma di petizioni che ci appartengono, ne vogliamo brevemente discutere.

Il tratto comune a tutte queste (anche molto diverse tra loro) posizioni consiste nell’assumere la questione dell’”autodecisione nazionale” come un principio astratto malamente attribuibile a Lenin, ridotto a mala o buona copia del classico wilsonismo post–prima guerra mondiale.

Roberto Massari parte lancia in resta dichiarando che l’unica cosa che si sente di salvare del leninismo è per ora e forse solo il principio (costituzionale!) dell’”autodecisione”, che va sempre e comunque affermato, quali che siano le classi che se ne fanno carico (e con sovrano disprezzo per quelle che se ne traggano fuori) e del tutto indipendentemente dall’azione di una compagine proletaria, comunista, in vista dei propri fini. Va da sé che tutto ciò non ha alcun rapporto con la lezione di Lenin, ma poco importa. L’orizzonte è quello della indipendenza e sovranità dei singoli popoli per se stessi, ovviamente nel quadro di un capitalismo “altrimenti regolato”. Nella sua foga antimarxista, Massari ha anche trovato il modo di condannare presunte posizioni di “ascendenza bordighista”, presentate di per sé come oppositrici di ogni legittima rivendicazione nazionale (rivoluzionaria), fingendo di ignorare l’enorme lavoro svolto dalla Sinistra comunista italiana proprio a sostegno di esse rispetto alle lotte nazional–coloniali degli anni ’50–’60. Sarebbe nel vero solo sotto questo aspetto: è vero che questa Sinistra ha inquadrato il problema dal punto di vista del proletariato internazionale e del socialismo e non come una rivendicazione dovunque e comunque valida “di per sé” come neo–modello costituzionale entro la cornice capitalistica imperialista.

Il Campo Anti–imperialista si slancia ancora più avanti. Poco tempo fa esso si era schierato con la Serbia (cioè con lo stato capitalistico serbo) sul tema del Kosovo, “scoprendo” che le tesi di Lenin sull’autodecisione non vanno prese alla lettera ad aeternum ed in ogni occasione. Quindi: nessuna legittimità per le rivendicazioni indipendentiste kosovare e contro di esse appoggio incondizionato al bastione “anti–mperialista” serbo (stato serbo, borghesia serba). Con una straordinaria giravolta, nel caso del Tibet si fa l’opposto. Pur spiegando, ottimamente, cosa ci sia dietro l’attuale manfrina “tibetana” (che “in Tibet non ha alcun seguito di massa”), e, quindi, non avendo nulla, per propria esplicita dichiarazione, cui appoggiarsi per una presunta lotta “nazionale”, il Campo afferma che “se fossimo tibetani” dovremmo lottare contro l’”oppressione razzista” cinese Han (che costituisce il 95% della compagine “razziale” della Cina). Questo perché la Cina “di oggi” è “figlia di una colossale controrivoluzione sociale” e “se ieri gli Han pretendevano di portare il socialismo e di strappare questi popoli al “feudalesimo”, oggi essi cercano di strapparli ad un’economia agraria che per quanto arretrata è ancora collettivista, ed esportano un capitalismo selvaggio e sfruttatore”. Purtroppo per i nostri, la Cina di oggi è la figlia del maoismo, e cioè di una colossale e progressiva rivoluzione democratico–borghese che, anche in Tibet, non ha mai esportato “socialismo”, ma capitalismo, utilmente strappando le popolazioni periferiche ad un feudalesimo di fatto senza virgolette (controprova: “nessun regime al mondo era più crudelmente teocratico e schiavista di quello del Dalai Lama e dei 180 Hutuktu”). La presunta “controrivoluzione” post–maoista ha perseguito questa stessa strada, sino all’attuale “capitalismo selvaggio e sfruttatore” (passo logico in avanti dal punto di vista borghese, ed in avanti da combattere da proletari). E’ semplicemente ridicolo che, rimpiangendo il maoismo “autentico”, si contrapponga a ciò non una soluzione socialista (che sappia, eventualmente, anche farsi carico dei problemi “nazionali” sul tappeto), ma la conservazione reazionaria di un’economia “arretrata” (parcellare, privata) in quanto “collettivista” (nella fantasia; e, ove non fosse fantasia, a livello pre–capitalistico da superare con decisione). Basti un rimando agli scritti di Marx ed Engels sull’obscina per far strame di simili posizioni “bakuniniste” filoslavofile. Un’altra perla è questa riferita agli “Han”, una razza(?) imperialista in quanto tale, tanto da aver provocato a Taiwan (quando? come?) il “genocidio” dei “nativi”. Una razza al posto delle classi! Una lotta contro una razza al posto della lotta contro una determinata oppressione di classe! Ma è ovvio: sparito Mao, è anche sparito il proletariato cinese!

“Se fossimo tibetani” ... allora “avremmo probabilmente partecipato alla rivolta”, perché solo così “si può sperare che la lotta non sia strumentalizzata” dagli attuali protagonisti in avanscena. Se fossimo quel popolo indistinto! Senza divisioni in classi, senza un partito comunista. Popolo e per il popolo, e questo basta, contro...gli Han.

Se fossimo comunisti in Cina diremmo noi: organizzazione soprannazionale di partito, stretta unità tra proletari e masse oppresse tibetane e cinesi doc, educazione antisciovinista del nostro reparto di classe cinese ed educazione del nostro reparto di classe tibetano contro le “proprie” classi reazionarie, e persino feudali, legate all’imperialismo. E se fossimo comunisti in Italia? Sarà per la prossima volta...

Un contributo molto più serio ci perviene dai GCR.

Accogliamo di esso, in particolare, il richiamo contro certo “anti–imperialismo” a senso unico anti–americano nel cui nome tutto si può giustificare di esso, da Belgrado a Pechino e purché sempre a patto di scansare la centralità del nostro soggetto in questione, il proletariato e le masse oppresse (questo richiamo lo ritroviamo anche in un recente pezzullo di Battaglia Comunista, che “in quanto tale” sottoscriviamo allo stesso modo). Detto questo, troviamo che l’applicazione del leninismo in materia di questione dell’autodecisione nazionale (supportata da un testo di Lenin in allegato a proprio sostegno) sia quanto mai dubitabile nel concreto (la famosa analisi concreta dei fatti concreti cui ci richiamava costantemente il babbo). Se andiamo a rileggerci le tesi sul tema del Secondo Congresso dell’IC noi vedremo innanzitutto che Lenin: a) non fa dell’autodecisione nazionale un feticcio universale ed astratto, né tantomeno la pone al di fuori del processo rivoluzionario comunista, internazionalista, con epicentro la repubblica dei soviet, cui questa questione è subordinata; b) che, anzi, ne limita l’applicazione ad un determinato campo storico–geografico in relazione all’oppressione imperialista dei grandi paesi oppressori sui popoli imperialisticamente, per l’appunto, oppressi (dichiarando fondamentalmente chiusa la questione per l’Europa alla data 1871, anche se non senza apparenti contraddizioni qua e là che pur pongono dei problemi); c) che l’anello dell’emancipazione politica delle nazioni oppresse è indissociabile da quella reale della rivoluzione comunista internazionale e “svuotata” in partenza al di fuori di essa di ogni contenuto economico–sociale conseguente; d) che tutta l’azione di utilizzo dei movimenti rivoluzionari dei paesi oppressi, purché effettivamente rivoluzionari (il che non significa in partenza comunisti “puri”, ma semplicemente capaci di darsi uno stato politicamente sovrano in grado di impostare moderni rapporti di produzione) implica la più fiera opposizione comunista al nazionalismo borghese, od anche meno, di tali movimenti (con un significativo riconoscimento, altrove, alla lotta della Luxemburg su questo versante per la Polonia) e la sua conseguente strutturazione per linee sovrannazionali di classe; e) che il corollario di tutto ciò è addirittura l’imperativo dell’”annientamento” delle forze nazionaliste controrivoluzionarie quando esse abbiano a manifestarsi non solo in opposizione alle ragioni degli stessi imperativi di “civilizzazione” capitalista sulle ceneri dei propri “focolari” medievali (sulla cui meritata fine avremmo motivo di gioire anche in assenza di una presenza comunista diretta). Tra l’altro, persino con una vena di “ultimatismo”, si dice che l’IC “deve sostenere i movimenti democratici borghesi nazionali nelle colonie e nei paesi arretrati solo a condizione che, in tutti i paesi arretrari, gli elementi dei futuri partiti proletari (..) siano raggruppati ed educati nella coscienza dei loro compiti particolari, consistenti nella lotta contro i movimenti democratici borghesi in seno alla loro nazione”.

Come si applica tutto ciò alla presente situazione tibetana? Ovvio che, al presente, manca integralmente il fattore–partito, agente diretto della rivoluzione comunista; manca la catena, e gli anelli vanno per conto loro. Orbene, anche in assenza di ciò noi comunisti non rimaniamo indifferenti ai movimenti rivoluzionari, purchessiano, dei paesi oppressi (valga per tutto il lavoro sopra richiamato della Sinistra in merito alle lotte dei “popoli di colore” degli anni ’50–’60, checché ne pensi Massari). Ma, ovviamente, guardiamo al contenuto concreto di essi per dirimere la questione se si tratti veramente di ciò e non, invece, di movimenti reazionari.

Orbene. Prima di Mao e dell’attuale leadership cinese, sono stati i rivoluzionari cinesi borghesi radicali, salutati con enfasi da Lenin, a promuovere, “napoleonisticamente”, se vogliamo (ma la cosa non ci schifa!), l’entrata del Tibet nella modernità, nella “civiltà” (marxisticamente intesa), tra l’altro col primo esilio del feudale Dalai Lama all’estero (1911). Non ci risulta da nessuna parte che Lenin si sia indignato di ciò ed abbia manifestato delle reprimenda (visti anche certi suoi appunti sul valore positivo dell’”assimilazione” progressista). Tutto il Lenin che conosciamo si mostra a favore di questo effettivo rivoluzionamento che scavalca confini fittizi. Né la questione dell’autodecisione nazionale in Tibet per ritornare all’indietro ci sembra sollevata a Baku (1920) o in seguito. Nel ’50, successivamente ad un esautoramento della Cina dal Tibet frutto delle potenze imperialistiche e della reazione feudale interna ad esse collegata, Mao (ri)”occupò” il Tibet. Lo fece, come chiariremo in uno studio in corso d’opera, come potenza statale interessata all’annessiome del Tibet lasciando inalterati i rapporti economico–sociali (comprendenti la servitù della gleba!), accontentandosi dell’affermazione dei propri interessi statali. Nel ’59 la rivolta della casta feudale lamaista costrinse lo stesso Mao ad un profondo bouleversement del quadro economico–sociale tibetano, non tanto per virtù proprie, per quanto ritardate, ma sulla base di una ribellione popolare contro i superati vincoli feudali (lo scrive egregiamente G. Tucci, pur studioso compartecipe del buddismo: i contadini non volevano più pagare le decime ai loro padroni feudali, per quanto “illuminati” dal Buddha!). Da qui ha inizio una profonda trasformazione del tessuto sociale tibetano in un senso che noi non possiamo non sottoscrivere quale premessa più avanzata della lotta comunista a venire. Col maoismo è stata abolita la servitù della gleba, è stato tagliato il cordone ombelicale tra una massa di bonzi parassiti e i lavoratori attivi a loro servizio (checché ne sia del decadimento della sacra tradizione buddista, tra l’altro sui generis), è finita di conseguenza la pratica della poliandria (non sappiamo se questa “particolarità” venga oggi rivendicata da qualcuno in nome dell’”autodecisione nazionale”!), si è passati progressivamente dal nomadismo e dall’agricoltura miserabile e persino dal brigantaggio (operazione “economica” precedentemente in vigore) ad un sistema moderno, ovviamente con tutti i limiti ereditati dal passato, fatto di commercio ed industria. Il Tibet, precedentemente coacervo di razze e microrealtà economiche chiuse, si è così aperto al.... capitalismo (dite poco!). Le vie di comunicazione sul territorio tibetano (le infrastrutture!) si sono moltiplicate, vedi recenti collegamenti ferroviari ultramoderni. Per la prima volta i tibetani, la massa non lamaista dei tibetani , ha potuto cominciare a leggere e scrivere...tibetano, ciò da cui era precedentemente esclusa. Tutto bene allora? Non necessariamente, perché come nel Kosovo risollevato dal titoismo dal suo stato precedente di abbrutimento, una questione nazionale può sempre insorgere di nuovo sia pure ai più alti ed irrinunciabili livelli conseguiti all’interno di uno stato borghese, di per sé incapace di risolverla sino in fondo.

Giustamente il GCR si pone il compito “se noi fossimo comunisti cinesi” (un passo in avanti rispetto a quelli che si pongono il problema “se noi fossimo tibetani” o... marziani: proto, non scrivere marxiani!) e dice: ci batteremmo uniti (non si capisce l’eventualmente) contro il capitalismo centrale. E qui il leninismo ci sta. Non è che in nome dell’avvenuta rivoluzione borghese siamo programmaticamente disposti ad ignorare le petizioni nazionali dei popoli da essa riscattati dal feudalesimo. Ciò che ci fa specie è che le rivendicazioni nazionali “tibetane” vengano qui assolutizzate attraverso la più assoluta astrattezza: nessun dato concreto su chi e per cosa si batta in Tibet o dal di fuori di esso in nome dell’”autodecisione” e contro quale tipo di oppressione. “La nazione tibetana è oppressa dal capitalismo (di stato?) cinese”. (Opportuno l’autointerrogativo per non incorrere in ulteriori sbandate) Si dà per certo che la nazione tibetana nel suo insieme è privata dei suoi diritti e delle sue ricchezze. Battaglia non si perita di parlare di “imperialismo cinese”, essendo evidentemente a conoscenza dei meccanismi in atto da parte di Pechino per opprimere tutto il popolo tibetano attraverso l’esportazione dei capitali, la finanza, ed inibirgli di pervenire a moderni rapporti economico–sociali prementi dal suo seno. Se si affermasse che il capitalismo cinese opprime, in quanto tale, opprime proletari e sfruttati tibetani e cinesi e che qui sta la sostanza delle cose (senza negare in astratto la possibilità di certe discriminazioni rispetto alla popolazione indigena) saremmo nel giusto, non senza aver prima ricordato che ciò consegue ad una autentica rivoluzione democratico–borghese sia in Cina che, attraverso il concorso determinante cinese, in Tibet, precedentemente “popolo senza storia” (con tutto il rispetto per la sapienza reazionaria concentrata nei conventi feudali lamaisti). In caso diverso, potremmo parlare dell’oppressione basca, corsa, occitana e padana; dopo di che potremmo dire: “se fossimo padani lotteremmo per la nostra autoderteminazione nazionale”. Il filo del ragionamento sarebbe esattamente lo stesso. “Il capitalismo (di stato?)” francese, spagnolo, italiano etc. etc. opprime i popoli ad esso soggetti, con la sola differenza (non da poco!) che al “popolo tibetano” è stato dato dalla Cina di uscire dalla barbarie e, finalmente, definirsi per linee di classe secondo la linea storica che, per Lenin, approssima la lotta per il socialismo: proletari e non “popoli” uniti. L’imperialismo, nella sua fase post–coloniale, scrive il GCR, esercita la sua oppressione “in modo indiretto” nel momento in cui “si è maggiormente collegato–servito di borghesie “parassitarie–rentières”, che socialmente trovavano più conveniente collegarsi alle strutture finanziarie imperialiste e suddividersi con esse quote della rendita (petrolifera, ecc.). Provate ad applicare questo schema all’”oppressione” del Tibet da parte dell’”imperialismo” cinese, e se non vi scappa da ridere vuol dire che siete sprovvisti di ogni senso dell’umorismo.

Chi oggi agita le acque in Tibet? Vogliamo lasciare da parte l’imperialismo vero d’Occidente (che invece Battaglia bolla come... sostenitore del “compare” cinese, tanto da rifuggire persino dal boicottaggio delle Olimpiadi!!! “Splendida” analisi!)? Andiamo allora d esaminare concretamente quel che si muove dall’interno. Dove sta e su chi poggia un “movimento democratico borghese” di emancipazione nazionale raccordabile alla prospettiva comunista? Ce lo dicano e ne prenderemo nota. Sin qui abbiamo visto solo la rivolta dei monaci e di bottegai indigeni insofferenti della concorrenza... Han (dal cui apporto è dipesa la loro stessa esistenza capitalistica). Restiamo comunque in attesa di ragguagli. Persino il Dalai Lama non osa più parlare di “indipendenza” del Tibet. Si tratta forse di un parassitario–rentier collegato in qualche misterioso modo alla “struttura finanziaria imperialista” pechinese? Giriamo la domanda agli esperti.

Giustamente il GCR dice, per l’Italia, “né un uomo né un soldo a favore dell’avventura imperialista” da qui e nessun appoggio al Dalai Lama (non si capisce bene sin dove svincolato da tale “avventura” (!?)). Se saprete indicarci a quali classi e quali programmi “tibetani” vi riferite a favore di una lotta per l’”autodecisione nazionale” raccordabile al programma internazionalista ve ne saremo grati. Dubitiamo di poter ricevere congrue risposte.

25 aprile 2008