nucleo comunista internazionalista
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TIBET

Arriviamo sul tema con un certo ritardo, già esplicitato altrove. Niente di male: la buriana pro–tibetana o, meglio, anticinese si è, nel frattempo, largamente sgonfiata di fronte ad una solida reazione da parte di Pechino ed al venir meno progressivo degli effetti dell’iniziale battage massmediatico. Motivo di più per una riflessione di fondo, sia per ricalibrare i temi in oggetto (sui quali da “sinistra” c’è stato un pressoché totale allineamento agli indirizzi imposti dalla propaganda imperialista), sia, e più, per evitare successive scivolate sui “nuovi” campi d’azione della propaganda (armata) borghese, che certamente non mancheranno. Perseverare sarebbe diabolico...



Prima di cominciare. Se qualcuno è capitato per caso su questo sito e pensa che: a) l’Iraq aveva proditoriamente ed “imperialisticamente” invaso il Kuwait “indipendente” e perciò è stato giustamente punito dagli USA con la prima guerra anti–irachena in nome dell’”autodecisione dei popoli”; b) che la Serbia opprimeva le altre nazionalità jugoslave e, in particolare, praticava il genocidio del popolo kosovaro e perciò è stata giustamente punita dalla coalizione occidentale, di cui l’Italia è stata buona partecipe; c) che l’Iraq di Saddam, non pago della lezione subita, complottava ai nostri danni con Al Qaeda ammassando armi di sterminio contro la nostra sublime civiltà dalle solide radici giudeo–cristiane e perciò ha ricevuto e sta tuttora ricevendo una seconda rata di giusta punizione; d) che i palestinesi di Hamas minacciano nuove Shoah ai danni di Israele, “unica democrazia in Medio Oriente”, a cui giustamente si risponde a suon di 100 morti ad 1 in difesa dei nostri supremi valori etc. etc.; ebbene, costui faccia a meno di leggere ciò che scriviamo sul tema Tibet o venga direttamente a bombardarci in casa in quanto pericolosi terroristi.

Fatta questa prima tara, ci rivolgiamo agli altri, a coloro che sanno di trovare qui delle prese di posizione marxiste in controtendenza. In controtendenza rispetto, è ovvio!, a quanto sopra, ma anche rispetto a certi allineamenti sul lato opposto, com’è nel caso di molti dei (residui) “comunisti” che non vedono l’ora di appoggiare ed appoggiarsi su determinate frontiere statali “antimperialiste” fasulle.

Per schematizzare, e chiarire, esemplifichiamo subito quali sono i vari fronti su cui le varie forze politiche e la “pubblica opinione” si posizionano rispetto alla questione–Tibet.:

 

Sul Tibet “oppresso” dalla Cina si sta orchestrando una campagna non dissimile da quelle già intraprese per gli esempi sopra citati. Gli argomenti sono sostanzialmente due: a) il Tibet sarebbe la culla di una spiritualità superiore (quella buddhista) in contrasto col “materialismo” cinese che tenderebbe a comprimerla od annullarla, a danno di “noi tutti”, spiriti bene orientati; b) esso costituirebbe per definizione uno stato indipendente e sovrano oppresso dalla Cina, potenza conquistatrice di tipo coloniale.

Consideriamo i due aspetti, scusandoci subito per il fatto che andremo un po’ per le lunghe, visto che si tratta di ragionare e non scandire qualche slogan d’effetto, e di comodo.

Ci facciamo, intanto, grasse risate sull’inesauribile riserva di “spiritualità buddhista” tibetana. In realtà, il lamaismo tibetano rappresenta solo una variante del buddhismo che, come tutte le altre religioni, ha storicamente conosciuto divisioni e rotture anche violente rispetto ai canoni originari, e ciò si è dato in Tibet in maniera quanto mai aperta ed anche sanguinosa nella storia sino alla definizione dell’attuale struttura dottrinale ed istituzionale. In realtà, il lamaismo tibetano nasce da un sincretismo con credenze locali preesistenti (una sorta di fede animistica, denominata Bon Po in alcuni testi, con altri nomi similari altrove) ed è pervenuto ad una sua autonoma definizione particolare in proprio, inglobando in sé una miriade di “potenze spirituali” arcaiche (l’elenco delle forze spirituali venerabili è roba da Guiness dei primati).  Ciò ha portato alla creazione storicamente determinata di una forma specifica di misticismo “nazionale” legata all’ancestrale isolamento tibetano. Non troviamo nulla di meglio che riportare la dichiarazione in merito di Lama Anagarika Govinda (cfr. I fondamenti del misticismo tibetano, Roma, Ubaldini, 1972): “Il Tibet, grazie al suo naturale isolamento e alla sua inaccessibilità (rinforzata dalle circostanze politiche degli ultimi secoli) è riuscito non solo a preservare ma a mantenere in vita le tradizioni del remotissimo passato, la conoscenza delle forze nascoste dell’anima umana e le somme conquiste e gli insegnamenti esoterici dei santi e dei saggi indiani. Ma nel turbine degli avvenimenti che trasformano il mondo, a cui nessuna nazione della terra può scampare e che trascinerà anche il Tibet fuori del suo isolamento (considerazione sin qui sufficientemente... marxista,n.n.), queste conquiste andranno perdute per sempre se non diventeranno parte integrante di una futura civiltà superiore dell’umanità”. Di che si tratta? Chi ne ha il fegato si legga il libro citato. In buona sostanza: l’”illuminazione” superiore appartiene di diritto alle ben esercitate menti dei monaci lamaisti, come conquista del proprio io, impenetrabile alla massa, cui si chiede soltanto una fidesitica accettazione (ed il mantenimento) della struttura separata degli eletti alla “conoscenza”, graziosamente accordata ad essa come articolo di fede. Rispetto ed ubbidienza. Non c’è dubbio che, su questa base, si siano prodotte tonnellate di scritti anche assai “raffinati” tra e per gli eletti, e non saremmo noi a negarlo: ogni struttura di potere classista è in grado di farlo e l’infinità di testi mistici tibetani sta effettivamente a testimoniare di una cultura assai ben strutturata, sempre che s’intenda in termini di strumento di potere di classe. Questa cultura ha potuto persino affascinare dotti occidentali per i voli “filosofici” cui essa è saputa pervenire; vedi per tutti l’incomparabile G. Tucci, il quale, però, da studioso serio oltre ogni grado, sa ben distinguere i voli pindarici dei supremi sapienti dalla eclettica pappa terra terra destinata ai sudditi: anche Platone ed Aristotile sapevano ben ragionare, ma per una élite; i teocrati tibetani sono sulla stessa lunghezza d’onda, salvo che al popolaccio può essere benissimo riservato un insegnamento “basso”, consentaneo alla loro inferiorità culturale ed economico–sociale, pur di mantenerne l’ubbidienza.   

Con la rottura dell’isolamento plurisecolare del Tibet e la “diaspora” lamaista questa dottrina si è, ahinoi!, trasformata in una serie di formulazioni pubblicitarie –in vista dell’acquisizione di nuovi clienti– non molto dissimili dalle americanate tipo Scientology. L’elevazione spirituale individuale caratteristica del buddhismo classico e, sotto questa veste, spinto sino alle più alte vette di speculazione elitaria (più filosofica che religiosa in senso stretto) si è ben adattata al corso delle cose, come potrà bene intendere chiunque voglia leggersi alcune delle pubblicazioni lamaiste ad uso del nuovo pubblico (target) occidentale cui venderle. Il tutto assieme alla conservazione di auguste tradizioni quali quella della trasmigrazione dell’anima del vecchio Lama morto in un nuovo nato da individuare ed addestrare in quanto tale ad opera della consorteria monastica ed a tutto un ritualismo formale ben amministrato da chi di dovere, o potere. D’altronde, se c’è chi crede che il Papa sia il vicario di Cristo (perlomeno eletto da un parlamento interno alla gerarchia ecclesiastica), possiamo anche passar sopra a queste bufale, salvo che ci riesce francamente difficile comprendere tanta entusiastica accettazione di esse qui in Occidente in nome della “spiritualità” ecumenica.

Ma, sin qui, saremmo ancora –formalmente– alla disputa sulle credenze particolari di un “popolo”, che non spetta ai marxisti di “condannare”, bensì di comprendere nella loro genesi storicamente determinata e nella loro altrettale transitorietà: togliete i diaframma che separa il popolo orante e pagante dalle “loro” cime illuminate che lo dominano e tutti questi orpelli andranno a gambe all’aria.

Ciò che c’interessa è vedere come la struttura di potere lamaista erettasi sulla base di simili credenze abbia dato luogo ad un sistema, di potere appunto, fondato su basi medievali, con l’accentramento di ogni e qualsiasi funzione dirigente nelle mani dei monaci tibetani in questione grazie allo schiacciamento sociale del “popolo”. Una sola frase per il tutto, tratta dal libro La Cina contemporanea (Roma, Edizioni Paoline –si noti bene!, n.n.–, 1979): “Il regime comunista ha abolito la servitù della gleba legata ai monasteri, dando inizio alla modernizzazione” (p. 863). Supreme illuminazioni mistiche da un lato, servitù della gleba (per i “non ridestati”) dall’altro. Ed anche, si aggiunga, abolizione dell’esercito a servizio dei monasteri per conservare l’”ordine” interno, prima di esser sbaraccato dall’intervento esterno cinese. Questa la summa lamaista, per preservare la quale non resterebbe che tornare al Medio Evo. Agli attuali sproloquiatori a vanvera sul Tibet incorrerebbe l’obbligo di studiarsi un po’ meglio la storia di questo paese, “lamaismo” compreso. Si vedrebbero così alcune cose interessanti: a) la diversa composizione del paese anche su base “razziale” (non c’è un “tipo tibetano” unico);  b) il carattere frammentato del quadro (feudal–teocratico) “nazionale”;  coi suoi vari “principati” (diciamo così per intenderci!) lamaisti indipendenti di fatto, anche se sottomessi, nei limiti concessi, all’autorità sovrana del Dalai Lama quale “sovrano” politico (a differenza del Pancen Lama, a vocazione più squisitamente “spirituale”: e quest’ultimo, in effetti, non condividerà le sorti politiche del Dalai Lama); c) la realtà economico–sociale del paese (particolare insignificante per troppi, anche “marxisti”).

Su questo ultimo, “insignificante” punto abbiamo da dire qualcosa.. (Per informazioni “non di parte” rivolgersi al sopra citato G. Tucci – cfr. la Treccani, supplementi compresi, Dainelli, Biasutti, Cumin etc.–) Attività di allevamento nomade e di micro–agricoltura (a parte il resto “illegale”), con l’obbligo di decime (in realtà assai più prossime all’erosione dell’intero) per i conventi. Struttura familiare largamente –fate bene attenzione!– poliandrica, cioè con la “moglie” proprietà familiare a tutti gli effetti (dalla raccolta del letame alle prestazioni sessuali per tutti i componenti della famiglia!). Domandina semplice semplice: visto l’uso collettivo della donna, dove andavano a finire le eccedenze? Roba da far tremare le vene e i polsi! E che diremo delle prime rivolte spontanee dei contadini tibetani che (ipotizziamo noi: indotti dall’esempio del movimento rivoluzionario cinese) avevano cominciato, ad inizio del secolo scorso, a non versare le “decime” rivendicano la terra per sé? Ha questo qualcosa a che fare con l’”aggressione esterna” cinese? La povera famiglia tibetana aveva, in passato, una sola speranza: quella di “monacare” qualcuno dei propri figli maschi eccedenti, come di fatto avveniva per “concessione” feudale: il Cumin (in Terra e nazioni, Milano, Vallardi, 1931) cita l’esempio di un villaggio di 1800 monaci contro 1500 “laici”, addetti al mantenimento dei primi. Qualche “elargizione” fu fatta anche per l’elemento femminile, nonostante il dettato del Buddha sulla donna “sentina di ogni vizio” (molto paleocristiano in questo!). Troppo poco, comunque, per evitare l’insorgenza contadina, ed è ben comprensibile!  

Quanto alla “sovranità nazionale” tibetana, tutti i testi di rilievo in questione, ammettono (o perlomeno ammettevano, prima delle bagarre di comodo attuali), l’insussistenza di essa, limitandosi a riconoscere –com’è giusto– l’incursione in questo remoto distretto cinese di poteri nazionali esterni cui il Tibet è storicamente soggiaciuto nei secoli, a cominciare (per limitarci nel tempo) ai mongoli, cui, tra l’altro, si deve la prima investitura di un Dalai Lama (non per questo, a quanto sembra, fuggito in esilio per rivendicare l’indipendenza tibetana). E siamo al 1578, al termine di aspre e sanguinose lotte tra due opposte correnti buddiste locali  (“berretti rossi” e “berretti gialli”, coi primi riconosciuti dai mongoli come propri “interlocutori”). Dal 1720 il potere mongolo fu sostituito da quello, assai più “naturale”, cinese, e ciò durò sino alla fine dell’Impero cinese stesso dei Quing (1911). Dopo di che cominciò non un periodo di “indipendenza” del Tibet, ma di una corsa da parte di varie potenze imperialistiche europee ad accaparrarselo. Una citazione dal libro di Guido Samarani La Cina del Novecento (Torino, Einaudi, 2004): “Com’è noto, con il crollo dell’Impero e la nascita della Repubblica la posizione cinese alle frontiere si era seriamente indebolita e nel 1913, grazie al sostegno britannico, il Dalai Lama –che era stato costretto a fuggire a suo tempo (1910, sempre in India, n.n.)– fece ritorno a Lhasa. Alla conferenza di Simla, in India (1913–14) fu stabilito (tuttavia, n.n.) che il Tibet sarebbe stato autonomo ma allo stesso tempo venne riconosciuta la sovranità cinese” (p. 230). Nel ’50 le truppe di Mao si riappropriano di questo territorio sovrano, pur lasciando ampio spazio al potere del Dalai Lama e della sua combriccola e lasciando largamente intatta la struttura sociale del paese: “Fino agli anni ’50 i monaci mantennero il controllo” (ci attestano i... paolini). La rivolta del ’59, che tutti gli studiosi seri riconoscono fomentata dall’esterno in funzione anticinese, mise fine a questo pateracchio che neppure Mao aveva osato inizialmente mandare a carte quarantotto attraverso un deciso moto modernizzatore (borghesemente rinnovatore, ma tanto di cappello!): i resti di sopravvivenze feudali furono cancellati, la “classe” sacerdotale –che aveva assunto in precedenza cifre da follia– fu drasticamente ridotta col ritorno alla vita laicale (e... produttiva) di una massa di essa, l’attuale Dalai Lama fu di nuovo “costretto” all’esilio. Colonizzazione? Nessun studioso serio osa parlare di ciò; al contrario, si ammettono universalmente gli effetti modernizzatori (che se poi non piacciono...) indotti dal potere centrale di Pechino, con la rottura definitiva dell’isolamento e della barbarie sociale tibetana presa in carico. Che il buddismo tibetano se ne sia ritrovato depresso poco c’importa.

I marxisti dell’epoca, attraverso il Programma Comunista di Bordiga così commentarono la cosa:

“Mentre scriviamo, la rivolta del Tibet appare domata. Il Dalai Lama, che agli occhi della stampa atlantica è assurto a nuovo simbolo della lotta contro il “materialismo ateo”, ha raggiunto il territorio indiano. Il Buddha vivente, il Grande Oceano incarnato, è salvo! I conformisti di tutto il mondo, resisi improvvisamente conto della importanza che riveste il lamaismo nella lotta per i “diritti dell’anima”, hanno tratto un sospiro di sollievo. Di che meravigliarsi? La borghesia occidentale, pur di servirsi della influenza della chiesa cattolica, ha rinnegato tutte le tradizioni di pensiero anti–ecclesiastico che, bene o male, permisero lo sviluppo di potenti strumenti intellettuali, come quelli forgiati dalla rivoluzione scientifica del darwinismo, e nella ricerca di argini da opporre alla marea proletaria si è buttata in ginocchio davanti ai Papi cattolici. Ma ora nemmeno il cattolicesimo basta più; ed eccola prosternarsi al papa dei tibetani!

La malafede della stampa occidentale è provata a sazietà dal comportamento del tutto opposto che osserva nei confronti delle rivolte dei “popoli di colore” oppressi dal colonialismo bianco: la spedizione nell’al di là di qualche migliaio di monaci tibetani, abituati come i religiosi di tutte le latitudini a vivere alle spalle del popolo, ha avuto il magico effetto di accendere passioni umane nei cuori di granito che assistono impassibili al massacro del popolo algerino e alle repressioni della polizia colonialista nel Camerun, nel Congo, nel Nassa. La “barriera di colore” è improvvisamente caduta. Il razzismo degli illustri prostituti intellettuali che scrivono nel Popolo, nel Corriere della Sera, nel Tempo, nel Secolo, ha dall’oggi al domani concesso un esonero all’aristocrazia feudale tibetana. Coloro i quali predicono che l’”Africa abbandonata dai civilizzatori ricadrebbe ineluttabilmente nelle tenebre della barbarie, e forse nel cannibalismo” (frase autentica!,n.n.), scoprono il “diritto delle popolazioni del Tibet a svolgere il proprio tipo di civiltà”! Sotto la scusa gesuitica che si debba evitare ogni incrinatura nel blocco della NATO, il giornalismo borghese giustifica in un modo o nell’altro la dominazione coloniale (scritto nel ’59, ma pare molto odierno!, n.n.), ma si converte all’anticolonialismo non appena le agenzie di informazione di Ciang Kai–scek –altro campione della “libertà dei popoli”!– diramano la notizia della rivolta dei monaci tibetani”.

Se ancora nel ’50 il Napoleone cinese aveva esitato di fronte all’imperativo rivoluzionario borghese conseguente, la rivolta del ’59 lo costrinse, in certo qual modo, a percorrere con maggior decisione questa strada. Non senza difficoltà, ovviamente, dovendo quadrare i conti tra rispetto dell’”autonomia” tibetana e sua decisa apertura alla modernizzazione. Lo dicono bene, ancora una volta, i “paolini”: “Il dramma del Tibet è culturale e non solo economico. Entrato oggi in pieno, per la prima volta nella sua storia, nell’area culturale cinese, –e per giunta in un periodo di celeri trasformazioni politiche,– posto a confronto con un’economia più razionale ed una maggior giustizia sociale (avete letto bene!, n.n.), subisce gli effetti di una acculturazione ed una colonizzazione cinese “Han” che crea notevoli problemi di assorbimento. Ciò spiega le agitazioni e le rivolte frequenti negli ultimi anni,  fomentate a volte da potenze straniere interessate”. Sì, c’è stato e c’è un afflusso cinese “esterno” nel Tibet, come era ed è necessario sulla via della modernizzazione borghese del paese. Colonizzazione? Ma, allora, la stessa storia d’Italia può esser letta come tale, e non solo essa. La rivoluzione borghese ci ha tutti “colonizzati” (per fortuna!) in questo senso sottraendoci al “leghismo” nazionale puro precedente. Ed, a proposito dell’ondata migratoria in Occidente, che diremmo? Sono gli immigrati a colonizzarci o siamo noi che colonizziamo loro? Noi diciamo semplicemente che questo processo va nella direzione della creazione di un esercito proletario internazionale di fatto in grado di mettere in causa ogni confine... tibetano, e tanto ci basta, al di là di tutti i disagi di ogni tipo, da una parte e dall’altra, e di tutte le contraddizioni (da combattere sul terreno di classe).

E’ sin troppo facile vedere nei recenti disordini la mano interessata delle potenze straniere sopra evocate da fonte non sospetta. Una curiosità: in una recente trasmissione radiofonica ad illustrarci la “tragedia” del Tibet è stato chiamato un esponente radicale italiano (di quelli che stanno con Veltroni e di fronte ai quali Ciarrapico fa la figura dell’antifascista doc), di stanza, guarda caso!, in India tra la monacanda “in esilio”, e costui si è apertamente dichiarato come organizzatore, assieme a tante ong “umanitarie”, delle proteste lamaiste. Queste ultime, storicamente, avevano trovato un’ottima sponda nell’India anticinese. Oggi che questo paese, assieme alla Cina ed alla Russia, sta decisamente superando, come che sia, il precedente stadio di arretratezza, frutto della colonizzazione “cristiana” occidentale; oggi che esso ha superato le ragioni del conflitto “regionale” con la Cina cui gli “ex”–colonizzatori volevano inchiodarla per le proprie ragioni di dominio, il buon Lama ha bisogno dell’apporto diretto e dichiarato dei suoi sponsor occidentali. Contro la Cina così come, in prospettiva, contro tutta questa parte del mondo in tumultuoso risveglio. Tibet come pedina in un gioco che (vedi un recente articolo dell’Espresso sulla ristrutturazione dell’esercito USA di fronte alle “nuove sfide planetarie”) contempla in ultima istanza lo scontro militare diretto contro una concorrenza sempre più incomoda e minacciosa da parte di “nuovi zar” e “nuovi imperi gialli”. Di mira è il re, e della pedina “umanitaria” tibetana non frega nulla allo scacchista in questione se non, per l’appunto, come tale secondo le leggi del gioco. Occorre essere degli ingenui inguaribili, o dei Turigliatto, per non capirlo. Gente di buone intenzioni, potrebbe essere, ma al carro degli interessi imperialistici ed anche alquanto (opportunamente) corti di vista: tanta indignazione per un numero imprecisato ed accuratamente gonfiato di morti in Tibet, poco importa se per la maggior parte cinesi lì “immigrati”, magari bruciati vivi nei loro negozi da bravi buddhisti non violenti e nessuna indignazione per le decine e decine di morti statisticamente accertati in Palestina da una parte soltanto. Per non parlare di tutto il resto! I cinesi sono programmaticamente violenti quando garantiscono il proprio ordine (statale, borghese: sia detto a scanso di equivoci) sul proprio territorio; noi, occidentali, ci limitiamo ad esportare il nostro ordine su territori non precisamente nostri, Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libano e domani... Tutto questo fa sinceramente vomitare!

La cagnara anticinese può fare proseliti qui nella mentalità imperialistica penetrando sin nelle file proletarie (grazie al solerte lavoro dei “suoi” attuali rappresentanti), ma in Oriente le cose vanno in tutt’altro senso. Non solo la Cina ha reagito come un sol uomo contro la manovra in atto, ma in tutta una serie di altri paesi la presenza della quinta colonna lamaista viene avvertita sempre più come una pistola puntata contro essi stessi: vedi l’inedita “repressione” dei poveri monachelli tibetani “non violenti” in India, Nepal ed altrove (ed anche il caso birmano dà da apprendere qualcosa in merito). Anche perché, allo stato attuale dello scontro manovrato dall’Occidente, lo stesso Dalai Lama rischia di fare la fine di un Rugosa, utile per un certo tratto di strada per accendere il fuoco, ma poi da sostituire con più robuste dosi di UCK. Ciò, sia detto ben chiaro, prescindendo da malaccorgimenti da parte dello stato cinese nel trattare gli affari interni tibetani su cui non siamo in grado di esprimerci, e che, comunque, non costituiscono il cuore della questione. Le recenti elezioni a Taiwan hanno poi dato il colpo finale alle aspettative occidentali di  usare la pedina Tibet per indurre ad una reazione a catena anticinese nell’area. Non vi dice nulla tutto ciò?

Una “buona” posizione borghese sarebbe stata qui, in Europa, quella di approfittare del caso tibetano per prendere ulteriormente le distanze dal big imperialista USA. Le pavide borghesie europee hanno fatto il contrario ed i coglioni (li chiamiamo così perché meglio coglioni che criminali patentati) di certa “sinistra”, magari radicale, si sono diligentemente intruppati. Orribile a dirsi, ma vero!, ma per sentir formulare qualche progetto borghesemente conseguente in senso europeista –il che contempla un asse strategico con gli stati d’Oriente più Russia in funzione anti–USA– occorre rivolgersi a certa destra “sociale” estrema: Fiore di Forza Nuova sta dal punto di vista dei “nostri” interessi imperialistici italiani ed europei più avanti di un Turigliatto; dal punto di vista dei nostri interessi di classe entrambi sono da prendere a calci.

Così come noi non siamo per lo stato serbo nelle sue rivendicazioni nazionalistiche sul Kosovo altrettanto non stiamo dalla parte dello stato borghese di Pechino quanto alle sue soluzioni sul Tibet. Una compiuta soluzione dei problemi “nazionali” rinfocolati in Oriente (ma certamente poggianti su contraddizioni reali interne) non può intendersi al di fuori di un programma comunista internazionalista che si ponga come obiettivo la demolizione delle attuali strutture di potere attraverso il concorso congiunto di proletari di ogni “etnia”, quindi, per restare nel caso in questione, tibetani e cinesi uniti. Ma è altrettanto certo che un programma siffatto non può prescindere dall’opposizione più netta all’intromissione imperialista in questi paesi. La reazione spontaneamente “anti–imperialista” di questi popoli è tuttora tributaria di uno (spiegabilissimo storicamente) attaccamento gregario rispetto ai “propri” stati, ma tale gregarismo può essere superato solo a patto di prendere in carico sino in fondo, per portarla in diversa direzione, tale spinta. E ci ripetiamo per il resto. A Taiwan, per decenni culla dell’anti–Cina, il popolo ha votato in senso pro–cinese. In Cina si sono moltiplicate dal basso (basta, scorrendo i TG –non italiani–, vedere l’abbigliamento dei manifestanti) le proteste contro l’imperialismo (la Carrefour presa a simbolo!, ma non dimentichiamo le lotte alla Val–Mart che hanno imposto radicali mutamenti nelle condizioni contrattuali, primo esempio al mondo!) il quale, ad uno stesso tempo, sfrutta e diffama la Cina (ben al di là dei suoi rappresentanti ufficiali odierni, e per scopi indecifrabili solo per i soliti fessi di “sinistra”). E non dimentichiamo la lezione del Nepal, scopertosi “maoista” (grattate la vernice e scoprirete di cosa si tratta!). Un autentico movimento operaio cinese, di cui già ci sono mille prodromi, saprà coniugare la lotta alla propria borghesia con la più intransigente posizione anti–imperialista, anti–occidentale: sappiamo quali sono i nostri nemici interni, ma non si torna indietro consegnandoci a “liberatori democratici” esterni. Questo il punto.

Da ultimo, Pechino ha intelligentemente acconsentito a colloqui “diplomatici” con certi settori della dissidenza tibetana. Ciò varrà a mostrare meglio al mondo cosa è in gioco in Tibet, a scompaginare lo stesso “fronte” indipendentista tibetano, a rafforzare il legame tra Tibet e Cina, perlomeno nel senso di disancorare ulteriormente certe rivendicazioni locali tibetane dal lamaismo o, più ancora,dagli UCK “tibetani in esilio” sul libro–spesa imperialista (di più non possiamo esigere da un regime borghese e dalle sue combinazioni/disuguaglianze).     

10 maggio 2008