I “sinistrissimi” nostrani hanno un chiodo fisso, quello di cercare al di fuori della propria pericolante baracca un qualcosa od un qualcuno cui attaccarsi per “rilanciarsi in proprio” in coda.
La lista dei candidati a questa operazione-salvataggio è pressoché infinita. A scala internazionale non ci sono state remore ad inneggiare ai Clinton (con tanto di poster del Manifesto) ed agli Obama “progressisti” (altro che l’aborrito zar Putin!) o persino ad Hollande. A scala interna, poi, non la si finisce più e si va dai manettari alla Di Pietro prima ed Ingroia poi per finire con l’immacolato Mattarella, in assenza di un Rodotà passando per tutta una serie di candidati proposti per il “cambiamento” (uno degli ultimi Cofferati, ma può andar bene anche un Pippo Civati qualsiasi in mancanza della disponibilità di Landini a mettersi in campo portando ad un nuovo, ipotetico partitino di “sinistrissima” l’asse ereditario della FIOM (che, per quanto ci riguarda, è meglio rimanga al suo posto). La lista è sterminata e di molti di questi aspiranti s’è persino perso subito la traccia (si pensi alla meteora Barca!).
L’ultima super–chanche viene dalla greca Syriza. Indubitabile, per i nostri, che l’immancabile vittoria elettorale (ed elettoralistica) di Syriza sarebbe valsa a “ridisegnare il quadro dell’Europa”, svincolandola dalla “dittatura” di Berlino e del suo seguito iperliberista in nome di un’“altra Europa”, capitalista sì, ma caritatevolmente attenta ai “bisogni del popolo”. Un programma ben riassunto da un titolo del Foglio: “salvare il capitalismo dai capitalisti”. E, a questa stregua, sarebbe bastato replicare in Italia un’imitazione schedatola di Syriza per ritornare a contare. Da qui il varo della Lista Tsipras nostrana (significativo il richiamo alla star anziché al partito!) mettendo assieme tutti i possibili pezzi ricuperati dalle discariche con qualche innesto nuovo del calibro di Ingroia (una sorta di Sfigatelis in salsa italica). Il tutto sotto un’unica, immancabile insegna mutuata (anche se solo in parte, ed in peggio) da Syriza: rifiuto assoluto dei “vecchi schemi ottocenteschi”, vale a dire del programma antagonista proletario per il socialismo (come scrive l’esimio vecchio trombone Etienne Balibar sul Manifesto del 30 gennaio: “La sfida del momento non è quella di dare impulso ad una rivoluzione anticapitalista”, ma “stabilire rapporti di forza a partire da linee chiare”, cioè chiaramente all’interno del sistema); in secondo luogo, e di conseguenza: ripulsa assoluta di ogni presenza o pretesa da partito con un suo programma (men che mai rivoluzionario!) perché tutto deve stare in ragione di un “movimento plurale” consono alle “realtà” – cangianti – dell’ora e delle volontà dei singoli soggetti individuali che lo compongono. E, viste queste premesse, non stupisce affatto che il vestito d’arlecchino così confezionato in nome dell’innovazione e della pluralità da “ogni testa un voto” e... liberi tutti!, si sia rapidamente sbrindellato già in corso d’opera e con tutto un seguito di veleni e pugnali all’indomani del “buon risultato” elettorale oltre la soglia di sbarramento. Operazione ripetibile? Per intanto abbiamo il barcone Kalimera su cui hanno trovato posto un po’ tutti, dai vendoliani ai PD “critici”, compreso Fassina in veste di animatore della combriccola data la sua innegabile verve. E’ scontato che per questi lidi non si approderà a nulla di serio e che tutte queste messinscene riusciranno utili solo a Renzi. Kalinikta “compagni”!
L’originale greco sta ben al di sopra di questi tentativi di scimmiottamento, se non altro perché espressione, quale che sia, di una protesta sociale che s’è fatta sentire nelle piazze e non di semplici giochi di corridoio tra “personaggi” spompati di una vecchia politica di cui essi sono stati coprotagonisti e che, grazie anche a ciò, ha portato a Renzi. Ma, stabilite le debite distanze, davvero Syriza merita il credito di forza di rottura di cui si ammanta? Vediamo un po’.
Dice bene in una sua nota un certo Markos Vogiatzoglou (un ricercatore universitario a noi del tutto sconosciuto): «Il programma (tra virgolette, n.n.) di Syriza non è per niente radicale, almeno in termini di questioni economiche. Proposte come l’incentivo dello “sviluppo verde”, l’abbassamento delle imposte sugli immobili, l’aumento della spesa pubblica e i buoni alimentari per i poverissimi sarebbero state bollate dai partiti della socialdemocrazia europea degli anni ’70 come troppo moderate. Però, nell’attuale contesto europeo, monopolizzato dall’ossessione dell’austerity, perfino il neo-keynesismo di Syriza sembra rappresentare una rottura radicale».
Saremmo esagerati ove dicessimo che Syriza non rappresenta nulla di diverso rispetto alla concorrenza di destra od anche solo la bollassimo semplicemente da sotto-moderata secondo i moduli di una vecchia socialdemocrazia europea che nel frattempo, dagli anni ’70, ne ha fatta di strada sul terreno del più totale abbandono dei propri modelli welfaristici, propri di una fase affluente, per imboccare quella di un attacco aperto alle postazioni proletarie su cui, semmai, Syriza si collocherebbe “a sinistra”. E’ evidente che la nascita di questo movimento composito (abbiamo sentito parlare di 16 suoi sotto-raggruppamenti costitutivi unitisi a far mucchio) corrisponde al travaglio di una parte importantissima del “popolo” (nella più larga accezione del termine) greco ed al suo bisogno di rappresentanza dei propri più immediati e vitali interessi. Il punto fondamentale, però, è questo: in che maniera queste esigenze, che Syriza raccoglie elettoralisticamente attorno a sé, si traducono in qualcosa di decisivo dal punto di vista – ed altri noi non ne conosciamo! – di classe? Il sopra citato ricercatore greco ci pare darne, sia pur indirettamente, una risposta valida: «Durante gli ultimi due anni il movimento greco ha prodotto un numero significativamente inferiore di mobilitazioni eclatanti rispetto al periodo 2011-2012. Molti attribuiscono ciò a un’aspettativa ampiamente diffusa che potrebbe essere riassunta nella seguente frase: “Stanno tutti aspettando che Syriza vada al potere”». Paradossalmente – almeno secondo una certa logica – l’aggravarsi della crisi non porta di per sé ad un crescendo di lotte, ma ad un’aspettativa (al disarmo!) di tipo elettoralesco su un cambio della guardia all’interno del sistema in grado di rispondere positivamente alle richieste popolari secondo le promesse generosamente elargite da Syriza. Solo che l’esercito schedaiolo di per sé non è in grado di produrre nulla in assenza di battaglie decisive laddove (ripetiamola con Lenin!) sta il vero centro di tutte le questioni, fuori e contro l’arena parlamentare. E, per di più: il fronte composito del “popolo” che, per il momento, fa blocco attorno a Syriza è fatalmente destinato a dividersi ove non si aggredisca il nodo delle questioni. Lasciamo pure esultare Falcemartello per il fatto che “un altro sviluppo importate è l’abbandono dei partiti borghesi da parte di ampie fasce della piccola borghesia” che, grazie alla crisi, “si sono liberate di molte delle loro illusioni profondamente radicate, nel capitalismo”; il disagio della piccola borghesia che si sposta verso un partito borghese “di sinistra” in opposizione ad “un certo modello” usuratosi di capitalismo cui tentar di trovare un ricambio è certamente un segno incoraggiante per i comunisti, ma al solo patto di poter esercitare una funzione proletaria egemone cui trarre al traino le classi medie in subbuglio, e ciò può dipendere soltanto dalla messa in campo di una vigorosa azione offensiva di classe e non certo da attese elettoralistiche. Syriza ha certamente capitalizzato il voto di una consistente parte di questa piccola borghesia (da cui proviene la massima parte della struttura del partito) tirando a rimorchio di essa settori di proletariato. L’esatto contrario di ciò che ci occorre. Per quanto non siamo in possesso di dati sufficienti per un giudizio ragionato e definitivo siamo propensi a credere che la ripulsa del KKE ad un’alleanza con Syriza dipenda proprio da una diversa ed opposta collocazione di classe e relativa concezione del conflitto; probabilmente il KKE, ben lungi dal configurarsi come “settario” per principio, ai limiti del... bordighismo (secondo le accuse che gli rivolgono Manifesto ed imbarcati sul Kalimera), ha ben riscontrato come la sirena elettorale di Syriza, basata su magniloquenti e demagogiche promesse post-urna, abbia agito da freno e deviazione rispetto ad una linea ed una mobilitazione proletaria.
(Tra parentesi: gli stessi dati trionfalistici sul successo di Syriza vanno in qualche modo ridimensionati anche sotto il semplice aspetto numerico. Se si tiene conto dell’amplissima fascia di astensione elettorale – abbondante cenere sotto cui non si sa quale fuoco possa covare – Syriza raccoglie comunque meno di un quarto dei “cittadini aventi diritto”. Non male, certo, ma attenti a quelle che saranno le rovinose ricadute di promesse destinate ad andar deluse: non dimentichiamoci che Syriza si è, in pratica, inghiottita la riserva elettorale del Pasok dopo che questo, premiato al voto, aveva deluso le aspettative dei suoi elettori, di conseguenza trasferitisi attorno a Tsipras secondo la stessa, ancorché più rabbiosa, logica attendista di base. La partita vera si apre solo ora, alla resa dei conti e noi non crediamo che Syriza sia in grado di reggere alla prova; quel che possiamo augurarci è che settori proletari e di “popolo” che le hanno dato una delega in bianco tramite il voto ne traggano le debite conseguenze attestandosi su frontiere di classe. Staremo a vedere. In ogni caso è escluso un “come prima”.)
Ciò che, al momento, cementa l’“opposizione popolare” oggi giunta al governo è l’idea che il debito di stato greco non vada pagato in blocco e, comunque, largamente ricontrattato respingendo i diktat della Troika e Berlino considerati come i responsabili pressoché esclusivi di tutte le afflizioni imposte alla Grecia. Ora è indubitabile che si devono proprio ai superpoteri centrali europei le lacrime e sangue che sappiamo e che ad essi vada data un’adeguata risposta (abbiamo sotto gli occhi un pezzo, in più punti sottoscrivibile, in merito dal titolo Quante balle sulla Grecia e il suo debito a firma dei nostri lontani parenti del Cuneo), ma dire che tutti i guai della Grecia derivano soltanto dai sunnominati diktat può sì servire a ricompattare il “popolo” attorno ad una bandiera (straccio) di “orgoglio ed indipendenza nazionali” contro il babau esterno, ma a patto di obliterare precisamente le responsabilità del proprio capitalismo nell’aver portato il paese allo sfacelo (made in Atene e non Berlino, salve tutte le manovre successive da parte dei “soccorritori” – affamatori-profittatori esteri). Risultato: il lupo cattivo esterno serve a cancellare l’imperativo primo, quello della lotta contro il nemico principale che sta in casa propria. «E’ questo il punto: è ora di finirla di parlare della Grecia. Esistono in realtà due Grecie tra loro antagoniste: l’una, quella della classe attualmente al comando (scritto prima dei risultati elettorali, e speriamo non se ne parli come di “primavera greca”!, n.n.) (..) l’altra, quella delle classi lavoratrici». Esattamente! Tutto sta a vedere se in contemporanea con la contrattazione avviata nei confronti dei poteri forti europei (che non darà luogo ad alcuna rottura traumatica da parte di Tsipras, ma a dei “ragionevoli accomodamenti” senza alcuna cancellazione del debito ma unicamente a procedure un tantino più soft di quelle minacciate dai boss tanto per far capire chi comanda) Syriza sarà in grado di attaccare sul serio le centrali borghesi interne responsabili di un collasso del paese tradottosi per esse in ulteriori occasioni di lucro. Noi lo escludiamo a priori perché per condurre avanti questa battaglia occorrerebbe non un piano di “graduale risanamento” garantito dalla “solidarietà europea” lasciando intatte le postazioni borghesi interne, ma una linea di attacco – insieme – a queste ultime ed al complesso capitalistico europeo attraverso la mobilitazione di un fronte comune di classe. Non ci pare proprio che questo stia nell’agenda di Syriza e lo si è ben visto anche in occasione della visita di Tsipras in Italia per bussare alla solidarietà di Renzi (“in Grecia faremo quel che lui ha fatto in Italia”) così come cercherà altrove eventuali paesi e stati amici e in nessun modo rivolgendosi a quella di classe del nostro paese (e neppure a quella dei propri fan locali della sinistra “estrema” zombie).
E veniamo alla ciliegina sulla torta: il governo Tsipras si fa assieme ad una costola della destra (e sarà sempre colpa del KKE?). Niente di male, assicurano i suoi sostenitori italici: sì, si marcia assieme ad una forza di destra, ma...antiausterity ed anti-Merkel, e quindi siamo “sullo stesso terreno” e, per il resto, il programma governativo non si discosta da quello sbandierato sotto elezioni. (Provate a tradurre l’esperimento in possibili scenari italiani a venire!) Evidentemente, per chi non è cieco, le cose stanno altrimenti. Questa destra sa benissimo dove e come arrivare e, intanto, passa all’incasso: l’assegnazione ad essa del vitale Ministero della Difesa vale come assicurazione a favore del sistema in vigore, che spetta alle armi statuali tutelare.
Dato che Syriza si configura come un assemblage di sotto-gruppi e movimenti e relative tendenze potete figurarvi se poteva mancare una sua componente “trotzkista”. Ovvio che c’è, e si tratta di una cosiddetta “tendenza comunista” collegata a quanto sembra a quella nostrana di Falcemartello, disgraziatamente ridotta ad esercitare l’“entrismo” in quel che resta di Rifondazione e, per questa via, dei vari raggruppamenti “pluralistici” di cui essa regolarmente entra a far parte (se non c’è qui un Tsipras abbiamo pur sempre i Vendola, i Pisapia, gli Ingroia...).
Questa “tendenza” immancabilmente ripete la solfa dell’“opportunità storica”, oltre che.. geografica, apertasi con la vittoria elettorale e la “sconfitta dei partiti borghesi” (cui non fa seguito alcuna sconfitta della borghesia), ma, perlomeno, si avvicina a sussurrare alcune verità allorché prende posizione contro l’alleanza di Syriza con Anel:
“L’impatto della coalizione con Anel sarà politicamente devastante, tenendo conto delle riserve (?!)
che opporranno a qualsiasi posizione programmatica diretta contro gli interessi fondamentali della classe dominante ellenica (evidentemente non dimissionata dall’esito elettorale, n.n.). Alla primissima, vera pressione esercitata su questo governo dalla “troika” (..) e dai capitalisti greci (vedi sopra, n.n.), il nuovo governo sarà costretto (autocostretto!, n.n.) a ritirare qualsiasi misura sociale radicale”. E qui sta il punto!, ma dipende solo dalla compresenza di qualche destro al governo oppure...?
Contro questa prospettiva la “tendenza” chiama all’unità delle sinistre, rivolgendosi al KKE ed – extrema ratio! – sfodera la sua arma vincente di riserva: se questo piano non riuscisse “allora Syriza dovrebbe esigere nuove elezioni in modo di garantire un governo stabile ed indipendente senza la necessità di appoggiarsi su altri partiti”. Ed, ovviamente, di fronte ad una maggioranza elettorale assoluta di Syriza troika e capitalisti greci si farebbero da parte. Qui non si arriva nemmeno ad invocare la mobilitazione delle masse per “imporre” un programma radicale a chi sta al governo a loro nome, ma tutto si risolve nel voto sovrano espresso dai “cittadini”!
In conclusione: la vittoria elettorale di Syriza è certamente termometro di una febbre sociale altissima e ciò porta di per sé alla possibilità di scontri di classe decisivi, ma al solo patto di uscire dal pantano parlamentaristico entro cui Syriza s’immagina di deviare e costringere il movimento di classe. E ciò richiede la presenza di una forza comunista agente, una forza di partito (checché ne dicano i teorizzatori di una “spontaneità” ed “autonomia” proletaria chiamati a disperdersi nei rivoli del più piatto immediatismo senza sapersi elevare al compito di costituirsi in classe per sé e, quindi, in partito).
Come atteggiarsi, dunque, da comunisti rispetto a Syriza & Co. all’orizzonte? Da “vecchi residui del passato” noi non abbiamo che da ripetere quanto statuito nelle Tesi di Roma del PCd’I nel ’22:
“L’avvento di un governo della sinistra borghese o anche di un governo socialdemocratico possono essere considerati come un avviamento alla lotta definitiva per la dittatura proletaria, ma non nel senso che la loro opera creerebbe premesse di ordine economico e politico, e mai più per la speranza che concederebbero al proletariato maggiore libertà di organizzazione, di preparazione, di azione rivoluzionaria. (...) E’ quindi in un senso ben diverso che l’avvento di questi governi può essere utile: in quanto cioè la loro opera permetterà al proletariato di dedurre dai fatti la reale esperienza che solo la instaurazione della sua dittatura dà luogo ad una reale sconfitta del capitalismo. E’ evidente che la utilizzazione di una simile esperienza avverrà in modo efficace solo nella misura in cui il Partito comunista avrà preventivamente denunziato tale fallimento e avrà conservato una salda organizzazione indipendente attorno a cui il proletariato potrà organizzarsi allorquando sarà costretto ad abbandonare i gruppi e i partiti che avrà in parte sostenuto nel loro esperimento di governo. Non solo dunque una coalizione del Partito comunista con partiti della sinistra borghese o della socialdemocrazia danneggerebbe la preparazione rivoluzionaria e renderebbe difficile la utilizzazione di un esperimento di governo di sinistra, ma anche praticamente ritarderebbe la vittoria del blocco di sinistra su quello di destra. Questi si contendono il seguito del centro borghese, il quale si sposta verso sinistra per effetto della giusta convinzione che la sinistra non è meno antirivoluzionaria della destra, e propone delle concessioni in gran parte apparenti e in piccola parte effettive per frenare l’incalzante movimento rivoluzionario contro le stesse istituzioni accettate dalla destra come dalla sinistra. (..) D’altra parte il Partito comunista non trascurerà il fatto innegabile che i postulati su cui il blocco di sinistra impernia la sua agitazione attirano l’interesse delle masse e, nella loro formulazione, spesso corrispondono alle loro reali esigenze. Il Partito comunista non sosterrà la tesi superficiale del rifiuto di tali concessioni perché solo la finale e totale conquista rivoluzionaria meriti i sacrifici del proletariato, in quanto non avrebbe alcun senso il proclamare questo, con l’effetto che il proletariato passerebbe senz’altro al seguito dei democratici e socialdemocratici restando ad essi infeudato. Il Partito comunista inviterà dunque i lavoratori ad accettare le concessioni della sinistra come un’esperienza (...), solleciterà le masse ad esigere dai partiti della socialdemocrazia (..) il mantenimento dei loro impegni, e colla sua critica indipendente ed ininterrotta si preparerà a raccogliere i frutti del risultato negativo di tali esperienze. (..) Le rivendicazioni affacciate dai partiti di sinistra e specie dai socialdemocratici sono spesso di tal natura che è utile sollecitare il proletariato a muoversi direttamente per conseguirle, in quanto se la lotta fosse ingaggiata risalterebbe subito la insufficienza dei mezzi coi quali i socialdemocratici si propongono di arrivare a un programma di benefizi per il proletariato. Il partito comunista agiterà allora sottolinenandoli e precisandoli quegli stessi postulati come bandiera di lotta di tutto il proletariato...”.
Prese le opportune
misure rispetto ai tempi ed i climi in cui ci troviamo oggi e qui rispetto a quelli delle Tesi di allora
restano fisse le coordinate allora stabilite e il “che fare” rispetto a Syriza è tutt’altro che un
inedito mistero da risolvere in base a “storiche novità”.
12 febbraio 2015