nucleo comunista internazionalista
note




Sul documento
“Il sindacato è un’altra cosa”

Sabato 29 marzo, a congressi di base conclusi, si è tenuta a Bologna l’assemblea nazionale della minoranza della Cgil.

Per le motivazioni che queste note rendono esplicite abbiamo partecipato ai congressi di base come relatori del documento “Il sindacato è un’altra cosa” per denunciare davanti ai lavoratori la politica fallimentare della maggioranza unitaria di Camusso-Nicolosi-Landini.

In tal modo abbiamo dato seguito alle consegne teorico-pratiche definite nell’articolo “Sul congresso della Cgil” (riprodotto in appendice) apparso sul n. 39 di giugno-luglio 1996 del che fare giornale dell’Organizzazione Comunista Internazionalista (organizzazione della quale fummo parte fondativa e ancora al ’96 direzione, decidendo poi di separarcene nel 2006).

La coerenza a quest’asse di riferimento ha portato l’ormai nucleo a non sostenere nel congresso del 2006 le cosiddette “tesi” Rinaldini e/o Patta (che si limitavano a proporre emendamenti al documento della maggioranza cui aderivano), e ancora a non sostenere nel 2010 il documento “La Cgil che vogliamo”, calderone di opportunismi di vario genere per un’opposizione formale priva di reali contenuti di denuncia della politica della Cgil (si veda sul nostro sito l’articolo “Sulla mozione congressuale La Cgil che vogliamo” di gennaio 2010).

Va da sé che il contesto del 2014 non è quello del 1996, per quanto già nel 1996 fossero più che avviati e in corso tutti i processi che hanno predisposto e contribuito all’attuale situazione di disgregazione politica e organizzativa della classe lavoratrice, condizione questa confermata dalla bassissima partecipazione al congresso Cgil (i dati ufficiali parlano di 1.700.000 votanti alle assemblee di base su 5 milioni di iscritti – di cui la metà pensionati –, mentre la minoranza stima credibilmente una partecipazione non superiore a 7-800.000 lavoratori e pensionati reali).

Va da sé ancora che l’attuale capacità d’intervento del nostro nucleo non è minimamente paragonabile a quella che si evince dall’articolo del 1996, per una disgregazione di forze che purtroppo non ha risparmiato “collettivi” già orgogliosamente schierati sulle trincee date della battaglia rivoluzionaria di classe, i cui assi (di teoria e di intervento) siamo impegnati a ribadire. A questa stregua non comprendiamo su quali basi i compagni che già ritennero corrette le indicazioni del 1996, abbiano ritenuto di non doversi impegnare sulle stesse basi nel congresso del 2014 (peggio ancora, se si è invece ritenuto di poter stare nel calderone impresentabile della “Cgil che vogliamo”, in tal caso deviando da ogni accettabile coerenza...).

Consegnato ciò a chi volesse riflettere, per una panoramica completa delle nostre tesi sulla questione sindacale rimandiamo al testo “Premesse della questione sindacale” (apparso per la prima volta nel 1980 sulla nostra Rivista Partito e Classe) e al più recente “I comunisti e la questione sindacale”, entrambi pubblicati nell’opuscolo “Contributi sulla questione sindacale (e non solo)” del febbraio 2009, che può essere richiesto al nostro sito. Dove tra l’altro specifichiamo, prendendo in carico tutti i punti problematici e i quesiti del caso, che la nostra regola contempla l’iscrizione al sindacato dove si concentra la parte più organizzata e combattiva del proletariato, il che significa non necessariamente alla Cgil, ovvero senza escludere l’iscrizione al sindacato di base che nella situazione data raccolga questa effettiva partecipazione.


Dunque non ci siamo mai sognati di confonderci con posizioni congressuali che avessero la pretesa di candidarsi a opposizione in Cgil senza neanche avere il coraggio di presentare un documento alternativo, né ci siamo sognati di accreditare documenti “alternativi” vuoti di contenuti minimamente identificabili per tali. Ciò significa che nei congressi nei quali il trasformismo della burocrazia cigiellina di ogni taglia e colore ha stravolto e imbrogliato qualsiasi dialettica credibile, siamo stati nelle assemblee dando battaglia a tutte le posizioni in campo, quelle della maggioranza e quelle delle imbelli opposizioni (fossero gli emendatori Rinaldini e Patta al congresso del 2006 o l’accozzaglia da Nicoletta Rocchi fino alla Rete 28 Aprile della “Cgil che vogliamo” nel 2010).

Quanto al documento “Il sindacato è un’altra cosa”, avendo formulato nei congressi di base e anche all’assemblea del 29 marzo riserve non secondarie, diamo atto che in esso è espressa una critica netta della politica della Cgil per quel che la Cgil ha concesso in questi anni al padronato (la derogabilità del contratto nazionale, fare cassa sulle pensioni, l’erosione dell’articolo 18, la “rappresentanza sindacale” modello Marchione estesa erga omnes) senza organizzare la mobilitazione dei lavoratori e anzi smobilitando la parziale ma non insignificante mobilitazione che pur si è data. La mozione di minoranza, a differenza del 2010, ha contribuito a impedire che le responsabilità della segreteria Camusso (e quelle dei suoi “alleati”) venissero coperte davanti ai lavoratori da una unitaria coltre di mistificazioni.

Detto ciò, quel che nel 1996 abbiamo scritto del documento “Alternativa Sindacale” vale oggi, mutatis mutandis, per “Il sindacato è un’altra cosa”.

Già nel ’96 il documento alternativo presentava una mera “lista della spesa” di obiettivi e rivendicazioni, ovvero si limitava a denunciare gli effetti della politica della Cgil guardandosi bene dall’accennare anche solo minimamente a un bilancio serio e approfondito di quella politica. Quando mai ci si fosse disposti ad aggredire i nodi di una maggioranza ancorata alla difesa dei lavoratori purché concepita nell’ambito delle compatibilità del capitalismo, della competitività del “nostro paese”, della indiscussa logica della concorrenza, si sarebbe arrivati, come oggi si arriverebbe, a fare i conti con l’incapacità di tutte le “sinistre sindacali” avvicendatesi negli anni (non esclusa l’attuale) di sciogliere e sciogliersi in modo credibile da quegli stessi irrisolti nodi.

Il cosiddetto “documento Cremaschi” va inquadrato in questa più ampia dinamica che va molto al di là del nome di questo o quell’altro firmatario. I tentativi di costituzione di un’opposizione in Cgil datano dal congresso del 1991, quando settori della Cgil inizialmente raccolti attorno al nome di Bertinotti presentarono il primo documento alternativo della storia della Cgil dal titolo “Essere Sindacato”. I tentativi che da allora si sono susseguiti, nel puntare alla più facile raccolta dei consensi, hanno sempre tenuto sufficientemente basso il dibattito politico, limitandosi ad agitare davanti ai lavoratori gli arretramenti subiti, senza nulla aggiungere quanto a sostanza politica che è necessario mettere in campo per non continuare ad arretrare. Insomma si denuncia la maggioranza per le nefaste conseguenze della sua azione, senza minimamente metterne in discussione le generali premesse. La realtà è che quelle premesse sono sostanzialmente comuni alle stesse “opposizioni”, che però presumono di poterle declinare in altra direzione e con altri risultati. Ne consegue un’opposizione di paglia, fin troppo esposta al riassorbimento nell’alveo della maggioranza inizialmente contestata.


“Essere sindacato”, infatti, prese poi il nome di “Alternativa sindacale” e questa si trasformò in “Lavoro e società cambiare rotta”. Poi un giorno, guarda caso, gli “oppositori” sentenziarono che, grazie a loro, la Cgil aveva cambiato rotta e per questo essi entravano nella maggioranza (così come Bertinotti entrava-usciva-rientrava nei “governi amici”). Negando e azzerando il presupposto di partenza, si disse che “dall’interno” sarebbe stato possibile condizionare l’azione della Cgil. Con quali risultati chiunque può vedere e giudicare. La parabola di “Lavoro e Società” (cassato il “cambiare rotta”, per una rotta suppostamente già cambiata) descrive l’azzeramento di spinta del ’91 e il suo riassorbimento nel sindacato-istituzione con qualifica e gradi di fin troppo misera e ambigua “pseudo-sinistra di maggioranza”.

Successivamente è stata la Fiom l’epicentro dal quale si è riaperta una certa dialettica in Cgil.

La Fiom rivendica a ogni piè sospinto la sua presenza nelle giornate di Genova 2001, ma l’“adesione ai movimenti” (pur con qualche brillante partecipazione: ricordiamo in particolare la manifestazione del 4/10/2006 “contro la precarietà”) giammai si è tradotta nel coerente rilancio del protagonismo di classe.

La dismissione delle istanze dei lavoratori da parte della “sinistra” ufficiale politica e sindacale ha bensì spinto il vertice del sindacato metalmeccanico a farsi avanti nel tentativo di contrastare un’offensiva che ha colpito per primi e direttamente i lavoratori dell’industria. Ma ancor qui abbiamo assistito e assistiamo a incredibili auto-contraddittori stop and go.

Quando nel 2011-2012 i lavoratori metalmeccanici reclamavano a gran voce dalla Cgil lo sciopero generale, la Fiom di Landini ha infine scelto di non dare seguito coerente all’aspettativa dei lavoratori e alla lotta avviata contro la derogabilità in peius del contratto nazionale, preferendo piuttosto riconciliarsi con la Camusso. Landini, dopo numerosi scioperi di categoria, ha infine accantonato la lotta per mettere al centro le tattiche elettorali. La Fiom ha ottenuto il suo parlamentare a Montecitorio, ma quella fase di lotta è stata spenta senza risultati apprezzabili.

Questa sostanza è ben riassunta dall’adesione di Landini al documento della Camusso. Gli emendamenti targati Fiom (neanche a dire degli altri) non rimarcano alcuna differenza sostanziale sull’impianto generale, che intanto può essere firmato da Camusso e Landini in quanto da essi entrambi quell’impianto è condiviso, salva la “responsabile” spregiudicata traduzione che ne fa la maggioranza e viceversa l’illusione dell’ “opposizione” del piffero di poterlo volgere ancora in direzione di un compromesso sociale ormai andato in fumo e non più rieditabile. Quanto al riesploso contrasto sulla “rappresentanza”, esso non ha rilanciato alcun protagonismo di lotta che si disponga a contrastare seriamente l’attacco che punta ad azzerare in fabbrica il sindacato conflittuale. Abbiamo piuttosto assistito ad altre giravolte trasformiste di Landini (per un accordo prima osannato e poi ripudiato) che accompagnano l’ennesimo arretramento, aggiungendo altra confusione e rimarcando l’incapacità di reagire.

Il documento “Il sindacato è un’altra cosa” giunge al suo compito con grave ritardo. Il ritardo di chi nel congresso del 2006 si è acquattato dietro agli emendamenti Rinaldini o Patta (anche allora, non solo oggi, la pretesa di agitare battaglie di opposizione emendando il documento di maggioranza era ed è operazione opportunista e trasformista); il ritardo di chi nel 2010 ha scelto ancora di confluire nel calderone della “Cgil che vogliamo”, rinunciando a portare avanti i contenuti già professati come “Rete 28 Aprile”.

Non sfugge a nessuno, infatti, che la battaglia del documento “Il sindacato è un’altra cosa” inizia quando la crisi ha già indebolito profondamente la classe, destrutturato la sua organizzazione, spazzato via molti posti di lavoro e molti insediamenti più avanzati.

La battaglia inizia oggi, perché non esistono battaglie in Cgil che non abbiano innanzitutto il coraggio di dichiararsi nel congresso davanti ai lavoratori, sicché negli anni passati la rinuncia a dare battaglia su posizioni chiare da parte della sinistra ora raccolta nel secondo documento è stata un ulteriore fattore che ha contribuito alla generale deriva.


Sui contenuti del documento il nostro contributo consiste nel non ritenere conclusa la discussione sui punti fissati nella mozione per un dibattito che consideriamo necessariamente aperto.

Una prima questione che emerge dagli interventi dell’assemblea del 29 marzo è l’erronea qualificazione della Cgil, gli strampalati e omissivi riferimenti alla sua storia, la cancellazione del dato di un organismo votato non da ieri alla conservazione del capitalismo (mentre la massa proletaria di riferimento solo a tratti è stata capace di trasmettere scossoni di altro segno in questo secondo dopoguerra). Ne consegue l’illusoria proposizione di voler “cambiare la Cgil”, di volerla “salvare” dal finale tracollo di credibilità davanti ai lavoratori, di volerla restituire ai suoi connotati di origine andati perduti...

Molti interventi abusano di retorica su quel che la Cgil è stata e non è più. Ci si richiama alla “Cgil clandestina durante il fascismo”, alla “Cgil di Di Vittorio”, a Berlinguer “che fece la sua ultima battaglia contro il taglio della scala mobile e ruppe con l’unità nazionale sulla questione dello SME” (dunque un Berlinguer antesignano e garante dei contenuti ora vergati dalla minoranza)...

Insomma si resta con la testa rivolta all’indietro e ci si abbandona alla nostalgia dei tempi in cui il compromesso sociale con il capitalismo non era ancora saltato e questa generale condizione riusciva a mettere d’accordo in Cgil maggioranze e “opposizioni”.

Testa rivolta all’indietro, ma nondimeno cieca sul passato che rimpiange e sul futuro cui inconsapevolmente va incontro.

La Cgil organizzazione di riferimento per la parte più organizzata e militante del proletariato italiano nell’ arco della sua storia e delle sue lotte? E’ vero, guardando al passato più che al presente. Ma se ci si limita a questo si rimuovono altri aspetti non meno significativi, il che non aiuta a capire il punto in cui siamo e l’opera cui pur ci si dispone.

Perché non ci si ricorda mai, tanto per fare qualche esempio, il “patto di pacificazione” sottoscritto dalla Cgil (insieme al PSI) con lo Stato e i fascisti nell’agosto 1921, nel punto più alto dello scontro di classe in Italia, per disarmare realmente il proletariato facendo finta di credere al formale impegno di disarmo delle bande fasciste? Perché non si ricorda il vergognoso autoscioglimento deciso dal gruppo dirigente della Cgil nel gennaio 1927, seguito da attestati di ossequio al fascismo? D’Aragona e Rigola dirigevano qualche sindacatino giallo di terz’ultimo rango o non erano forse tra i massimi dirigenti della “gloriosa Cgil”?

Perché si omette ancora che la Cgil del secondo dopoguerra, del tutto in sintonia con il “partito nuovo” di Togliatti, si guardò bene dal rivolgersi alla classe lavoratrice in quanto portatrice della propria distinta prospettiva socialista, richiamandosi piuttosto a una classe operaia fortemente connotata come “classe nazionale”, cioè classe (per il capitale) chiamata a caricarsi sulle spalle la crescita e i traguardi del capitalismo italiano (sia pur in vista del miglioramento della propria condizione, il che però non cancella il ribaltamento della prospettiva)?

Pur in questo quadro di subordinazione al capitalismo, sia chiaro, non sono mancate lotte proletarie reali nei lunghi decenni della ricostruzione prima e dell’affluenza poi, come mille volte abbiamo ricordato. Ma non è davvero un caso se negli anni ’70, quando il ciclo espansivo giungeva infine a esaurimento, troviamo le leadership Cgil impegnate a rimarcare che gli interessi dei lavoratori non sono variabili indipendenti dal ciclo economico (come magari si era potuto equivocare negli anni del boom), perché invece si misurano all’interno delle compatibilità capitalistiche.

Rimandando alla lettura dell’articolo del 1996 dove questi punti sono sviscerati a dovere, è sufficiente qui ribadire che non ci sono per noi Cgil da riformare o da riconquistare, perché c’è piuttosto un riformismo, da identificarsi nei suoi connotati reali, da cui demarcarsi non sugli effetti ultimi ma sulle premesse di fondo della sua azione che subordina le istanze proletarie all’orizzonte del capitalismo e alle sue compatibilità da rispettare.


Non è un caso, quindi, se nel secondo documento troviamo una lettura della crisi non molto dissimile da quella del primo documento. Una lettura semplicistica che banalizza la crisi e le ipotizzate soluzioni, quasi si trattasse dei ricchi che nascondono i soldi mentre, redistribuendo la ricchezza e promuovendo ampi piani di investimenti pubblici, tutto sarebbe risolvibile. Una musica orecchiabile per un uditorio di lavoratori le cui condizioni di vita sono oggi appese a un filo, mentre non è del tutto svanito il ricordo dei tempi in cui era pur sempre possibile risolvere in un modo o nell’altro i problemi.

Veramente basterebbe uscire dall’Euro per liberarsi dalle politiche di austerità? Ma non viene in mente a nessuno che anche con la cosiddetta “sovranità nazionale” saremmo chiamati a fronteggiare le politiche anti-operaie dettate dal capitalismo in crisi? Non è forse questo un modo per ridurre le cause della crisi all’austerità voluta da Bruxelles? E non è foriero di preventivi disarmi plaudire a un’Italia che torni padrona della sua politica monetaria, di bilancio e di spesa senza mettere in guardia i lavoratori contro l’attacco capitalistico che certo non cesserebbe anche in questo diverso contesto? Noi diciamo che la vera svolta non è l’uscita dall’Euro, ma piuttosto lo sarebbe la capacità dei lavoratori di unire le forze e di contrastare i piani di lacrime e sangue della borghesia in ogni contesto dato, si tratti di piani europei del Nord, europei del Sud o nazionali.

Appare poi del tutto astratto nel documento di minoranza il richiamo a tutto quello che i lavoratori “devono fare”, dove non si misura per bene (per non dire: affatto) l’attuale situazione di difficoltà, di cui difetta la consapevolezza e da cui è necessario invece risollevarsi e ripartire. Si equivoca la realtà quando (come si è sentito all’assemblea del 29 marzo) si interpretano l’attenzione e l’incazzatura dei lavoratori raccolte nei congressi come “la rabbia e la voglia di reagire trattenute dal tappo della burocrazia della Cgil”, “pronte ad esplodere” sol che si faccia “saltare il tappo”. Una ricostruzione che non collima con il quadro reale e innanzitutto fa a pugni con la scarsissima partecipazione alle assemblee.

Denunciare peraltro che i lavoratori sono espropriati di ogni istanza di discussione e decisione è senz’altro giusto, ma non può omettersi che la petizione della democrazia non compensa l’assenza di una linea che affermi gli interessi dei lavoratori contro le compatibilità del capitalismo, perché questo è il vero nodo da aggredire. Né questa assenza può essere colmata dai continui stucchevoli richiami alla costituzione violata, perché in questo modo ci si accoda alla via maestra di Rodotà/Landini che è semplicemente la via della dismissione della lotta.

Si pensi al caso dell’Electrolux: non è né questione di democrazia, né di costituzione da difendere, né dell’Europa da cui uscire. Non è agitando questi temi che gli operai di tutte le Electrolux d’Italia e del mondo troveranno il bandolo dell’unica difesa possibile. Occorre rimettere in piedi la prospettiva di classe sulle cui basi avviare la presa in carico della necessità di lottare assieme italiani e polacchi perché anche in Polonia possano aversi salari diversi, sicché possa finire la competizione e ci si unisca contro il capitalismo.

Sono questi i contenuti che hanno animato la nostra partecipazione al congresso.

Apprezziamo peraltro che la minoranza Cgil, nel richiamarsi all’unità dei lavoratori, rivendichi in particolare l’unità con i lavoratori organizzati nei sindacati di base. Se adesso la Camusso vuole alzare la voce contro la precarietà voluta dal ministro della Lega delle Cooperative, perché non comincia intanto a sostenere la lotta dei lavoratori delle cooperative della logistica? Noi sottoscriviamo in pieno l’unità di azione con i lavoratori della logistica e con i sindacati che li organizzano, così come denunciamo la repressione dello Stato contro questi lavoratori e i loro sindacati! Muovendosi in questa direzione la minoranza Cgil riconosce come compagni di lotta i non pochi lavoratori che si riconoscono nei sindacati di base, verso e contro i quali il sindacalismo ufficiale ha sempre frapposto steccati e divisioni; in secondo luogo non limita la propria azione alla Cgil e al mondo del lavoro che fa riferimento al sindacalismo confederale, perché invece allarga la partecipazione ad ambiti di iniziativa e mobilitazione extra-confederali, così accedendo a una visione corretta delle forze di classe da unificare sul terreno della lotta, ed extra-sindacali, così evocando la valenza politica della battaglia intrapresa (salvo il fatto di attestarsi al livello minimo di un’effettiva presa in carico dei compiti dati; il che peraltro non cancella il contributo della minoranza Cgil alle iniziative del Comitato No Debito che hanno portato in piazza decine di migliaia di lavoratori proprio quando la Cgil disertava la piazza).


Si è detto che, calcolando i voti reali, il secondo documento avrebbe preso ben più del 3% (e addirittura un 20% calcolando le percentuali sulle sole assemblee raggiunte dai pochi relatori della minoranza). Questo è senz’altro vero, ma è difficile capire come ciò possa essere rivendicato con baldanza dai promotori del documento alternativo. Se infatti i dati sbandierati dalla maggioranza (1.700.000 votanti) vanno dimezzati, come anche noi crediamo, è vero che si sgonfia un po’ il 97% della maggioranza, ma ancor più si sgonfiano i coefficienti di chi intende rilanciare la partecipazione e la lotta! La bassa partecipazione evidenzia purtroppo lo stato di difficoltà della classe lavoratrice (altro che tappi pronti a far festa!). I relatori del secondo documento, che pur si sono messi in luce nei congressi, restano comunque – allo stato e in generale – una minoranza isolata nei posti di lavoro, e di questo si deve tenere conto se si vogliono programmare ripartenze effettive.

Detto questo, non mancano i riscontri positivi. Va innanzitutto valorizzato che anche pochissimi lavoratori, senza le comodità dei burocrati e anzi con la difficoltà di barcamenarsi tra il lavoro e le assemblee, hanno potuto avere consensi significativi. Come anche va registrato che in alcune grandi aziende il documento di minoranza ha addirittura vinto.

Il dato positivo, quindi, è quello delle potenzialità di una battaglia data su contenuti minimamente chiari di denuncia di una politica sindacale fallimentare. Un risultato che smentisce tutte le chiacchiere usate in precedenza per giustificare scelte diverse e opposte (dettate da opportunismi che si spera siano stati cestinati per sempre).

L’impegno è ora quello di non regredire da queste acquisizioni e invece di andare avanti, di non fare la stessa fine di precedenti e anche più corpose “sinistre sindacali” ricadute, in un modo o nell’altro, nella palude del compatibilismo e nelle braccia della maggioranza.

Per evitare questo occorre andare a fondo sui meriti della discussione di un efficace programma di lotta al capitalismo. Occorre soprattutto che il risultato conseguito sia messo a frutto non già nell’apparato della Cgil ma tra i lavoratori, evitando clamorose confusioni tra i due ben diversi piani. Non ha molto senso il balletto degli ordini del giorno da far approvare in questo o in quell’altro organismo, dove cambiando una parolina si realizzerebbero unioni più ampie e si sposterebbero gli equilibri degli apparati. E’ un esercizio vano, se non c’è alcuna presa in carico dei temi e dell’iniziativa da parte dei lavoratori. In futuro non mancheranno passaggi che metteranno a nudo i meriti dello scontro e allora, se sarà stata tenuta la trincea segnata, si potranno capitalizzare utilmente altre forze, ma non a prescindere dalla ripartenza della lotta.

L’unica nostra salvezza è la ripresa della lotta. La lotta che Landini ha fermato, sicché ora la maggioranza può stringere facilmente nell’angolo Landini e tutte le altre “pseudo-sinistre di maggioranza” che pur hanno consentito alla Camusso di vantare e di rivolgere contro tutti i suoi nemici il famoso 97% di consensi.

Nostro compito non è quello di partecipare al gioco truccato della burocrazia, ma di rendere sempre più incisiva ed efficace la battaglia contro la politica rinunciataria della Cgil, essendo punto di riferimento e spendendo questa coerenza nei posti di lavoro.

Sulla consultazione sugli accordi sulla rappresentanza occorre dare seguito alla battaglia congressuale, denunciando l’accordo tra i lavoratori. I radicalismi formali non portano da nessuna parte, ma soprattutto evidenziano l’assenza di una prospettiva e dei conseguenti strumenti e argomenti di battaglia. A chi dice che l’accordo è incostituzionale e per questo non può essere messo ai voti, noi diciamo che cose del genere le ha già dette e se le è rimangiate mille volte Landini e non è veramente il caso di andargli dietro. La critica di un dato attacco contro i lavoratori perché anti-costituzionale è per noi assolutamente ridicola. Ancor più è ridicola, se in tal modo si pretende di segnare un’inesistente irriducibilità. La radicalità della nostra opposizione deve essere argomentata sul terreno degli interessi e della prospettiva di classe; è lì che c’è una radicale contrapposizione con le compatibilità del capitalismo che ci vengono opposte e su questo piano ci dobbiamo misurare, senza trincerarsi dietro le sentenze della Corte Costituzionale. Va da sé quindi che non condividiamo in alcun modo la decisione messa ai voti il 29 marzo di intentare non si capisce quale causa legale perché sia dichiarata l’incostituzionalità dell’accordo del 10 gennaio. Oltretutto non ci si avvede che si consegnano le aspettative dei lavoratori a quella stessa magistratura determinata ad infliggere condanne pesantissime ai militanti No Tav di cui pure si parla nel documento.


La ripresa di classe – così concludiamo – nessuno può deciderla a tavolino. Con il documento “Il sindacato è un’altra cosa” si è fatto un piccolo, sia pur parziale, passo nella direzione giusta, e i risultati non sono mancati. Questo risultato va rafforzato dandogli basi più solide, andando fino in fondo nella chiarificazione dei presupposti dell’opposizione alla politica rinunciataria della Cgil, che vuol dire andare avanti nella necessaria chiarificazione e riconquista degli obiettivi e del programma della battaglia di classe. Se questo verrà fatto, se non ci si sottrarrà alla discussione appellandosi alle scarne proposizioni dei documenti già redatti e approvati, si potrà dare un contributo significativo alla necessaria ripresa.

6 aprile 2014



Documento conclusivo dell’assemblea nazionale de
IL SINDACATO È UN’ALTRA COSA

–  Bologna 29/4/2013  –

Costruire l’opposizione in CGIL

L’assemblea di Bologna del documento congressuale IL SINDACATO È UN’ALTRA COSA, esprime grande soddisfazione per l’impegno delle e dei militanti volontari che hanno fatto sì che le nostre posizioni fossero conosciute e sostenute nella CGIL in un quarto della platea degli iscritti coinvolti nei congressi di base.

Il risultato del nostro documento, là dove siamo stati presenti, è complessivamente attorno al 20% dei voti, fatto che rappresenta un segnale forte del peso reale del dissenso con la linea e le pratiche della CGIL e dà il senso di ciò che sarebbe potuto accadere se il congresso si fosse svolto in maniera democratica e con una vera parità di condizioni.

Così non é stato, le e i militanti che, mettendo passione ed impegno personale, hanno partecipato al congresso hanno spesso dovuto subire prepotenze indegne della cultura politica della CGIL. Avrebbero dovuto avere il riconoscimento dell’impegno e della passione democratica, ed invece hanno sperimentato ostilità e boicottaggi burocratici.

Nei congressi dove non siamo stati presenti poi, le regole del pluralismo sono state quasi sempre ignorate e si é sviluppato il vergognoso fenomeno del gonfiamento artificiale dei votanti, che ha alterato profondamente l’andamento e il risultato del congresso, che per questo abbiamo deciso di non riconoscere. Abbiamo denunciato ripetutamente la non credibilità e la falsità dei risultati, i brogli massicci, abbiamo chiesto verifiche che avrebbero dovuto e potuto tranquillamente svolgersi, ma applicando il principio che le regole sono quelle delle maggioranza, gli organi di garanzia e la segreteria confederale hanno rifiutato ogni atto di trasparenza. Per il sistema diffuso della falsificazione dei risultati congressuali ci sono dunque anche responsabilità politiche del gruppo dirigente ai massimi livelli.


Anche l’ultima richiesta di una verifica campione su 100 congressi di base scelti di comune accordo è stata evasa, segno che ci sono risultati falsi e falsificati. Il risultato ufficiale di oltre il 97% per il documento Camusso è falso politicamente e numericamente, e fotografa appieno la crisi della democrazia in CGIL, tanto più grave in quanto così viene nascosta la crisi di partecipazione che abbiamo potuto pienamente riscontrare nelle assemblee dove eravamo presenti.

Questo è il primo congresso della CGIL dove almeno la metà dei voti può essere considerata inesistente. Per queste ragioni l’assemblea conferma la decisione di non riconoscere i risultati congressuali e decide di continuare la lotta per la democrazia in CGIL, con una campagna fino al congresso confederale.


La degenerazione della vita democratica della CGIL è tanto più grave in quanto si accompagna alla sottoscrizione del Testo Unico sulla rappresentanza.

Respingiamo quell’accordo perché viola la sentenza della Corte Costituzionale e lo statuto democratico della CGIL e perché rappresenta l’estensione a tutto il mondo del lavoro dell’accordo Fiat di Pomigliano.

Contesteremo in tutte le sedi la legittimità della firma della CGIL ad esso e non ci sentiamo minimamente vincolati agli esiti di una consultazione che ha ancora minore trasparenza e garanzie democratiche del congresso. Per questo siamo impegnati a contrastare l’applicazione dell’accordo e a renderlo non operativo. Chiediamo al gruppo dirigente della FIOM di essere coerente con le proprie prese di posizione e di rifiutare l’applicazione del testo unico. Riteniamo necessario che tutte le forze sindacali, dentro e fuori il sindacalismo confederale, che contrastano l’intesa, facciano una battaglia comune, nei rispettivi ambiti, contro di essa. Solo la cancellazione dell’accordo del 10 gennaio può aprire la via ad una legge sulla rappresentanza che sia effettivamente democratica.

Per tutte queste ragioni l’assemblea assume la decisione di portare in tribunale l’accordo che viola la Costituzione.


Questo congresso nato come congresso "unitario" che doveva superare le differenze con un grande accordo di vertice tra i gruppi dirigenti, è già fallito dopo l’accordo del 10 gennaio. Li è cominciato un secondo congresso. Con l’avvento del governo Renzi è poi cominciato un terzo congresso, segnato dai limiti profondi di autonomia dei gruppi dirigenti della CGIL .

In questi tre congressi si è rivelato il fallimento del progetto politico degli emendamenti, che non hanno avuto alcuna influenza sulle scelte della maggioranza e che anzi alla fine l’hanno rafforzata. La nostra scelta del documento alternativo si è rivelata la sola in grado di rispondere alla realtà, e viene da pensare come sarebbe diversa la situazione se tutto il dissenso in CGIL fosse stato messo dall’inizio in contrasto con la deriva del gruppo dirigente.

In ogni caso il nostro documento fa appello a tutte le posizioni critiche e di dissenso in CGIL perché si costruiscano iniziative comuni.


L’Assemblea decide sin d’ora di dare continuità all’impegno congressuale de Il sindacato è un’altra cosa organizzandosi come opposizione in CGIL. La base della organizzazione sono le compagne ed i compagni dei collettivi che hanno gestito i congressi di base e i delegati eletti ai vari livelli. Questi collettivi territoriali definiranno un piano di lavoro, di organizzazione e di contatto capillare con tutto il mondo del lavoro e degli iscritti CGIL.

Una conferenza organizzativa dopo il congresso nazionale della CGIL definirà la struttura della nostra area di opposizione, che in ogni caso sarà su basi assolutamente democratiche a tutti i livelli.


I contenuti di fondo della nostra iniziativa sono quelli del documento congressuale che mantiene tutta la sua attualità.


Siamo subito impegnati nella lotta contro il Testo Unico e per la democrazia sindacale, che dovrà svilupparsi in una campagna con banchetti e iniziative nei luoghi di lavoro, anche per finanziare la causa contro l’ accordo.


La nostra iniziativa va sviluppata contro le politiche di austerità, il jobsact, le privatizzazioni e i tagli allo stato sociale, contro le politiche liberiste e autoritarie del governo Renzi. Questo governo è un nostro chiaro e dichiarato avversario e la subalternità della CGIL nei suoi confronti ripropone la questione centrale dell’indipendenza. Bisogna denunciare con forza il dannoso collateralismo tra gruppi dirigenti CGIL e PD. Contro il jobsact e la riforma Fornero bisogna costruire una grande mobilitazione con tutte le realtà interessate anche assieme ai delegati autoconvocati.


Parteciperemo a tutte le mobilitazioni dei movimenti sociali contro la Troika e l’austerità a partire dalla manifestazione del 12 aprile a Roma per casa reddito e lavoro, mentre siamo al fianco dei movimenti Notav, NoMuos e contro le grandi opere, e contro la repressione che li colpisce.


Il nostro impegno è di costruire ovunque aree organizzate di lotta nei territori che facciano sentire a chi difende il lavoro, a chi rifiuta lo sfruttamento, che non è solo.

La lotta iniziata con il congresso continua.



Approvato con un voto contrario e un astenuto.





 APPENDICE 

Sul congresso della CGIL

Di materia per trarre un bilancio sulla politica sindacale gli ultimi anni ne hanno offerta parecchia. La concertazione ha rivelato tutto il suo vero significato di politica volta unicamente a moderare gli assalti padronali e governativi. Né potrebbe essere diversamente se l’obiettivo supremo cui aspirare è quello del rilancio dell’economia nazionale e delle imprese, conformandosi alle “leggi di mercato”, e caricandosi sulle spalle la concorrenza tra “sistemi-paesi” e quella tra imprese. Ma che i lavoratori possano continuare a subire arretramenti senza reagire è impossibile. Così appaiono primi sintomi di come le risposte alle difficoltà i lavoratori possano ricercarle in quelle forze di destra che rappresentano, sul piano del programma, la versione più “estremista” degli stessi fondamenti della politica sindacale: difesa dell’impresa, dell’economia nazionale, subordinazione alla concorrenza con tutto quel che ne consegue (nord contro sud, disoccupati contro immigrati, ecc.).

Nelle tesi congressuali della CGIL di tale bilancio non v’è traccia alcuna. Né poteva esserci, la sottomissione delle direzioni riformiste alle leggi del mercato data da... quel dì.

Tentativi di bilancio non ve ne sono, però, neanche nelle tesi alternative (Alternativa Sindacale e Cara CGIL). Quella più pretenziosa – Alternativa Sindacale, più o meno in continuità con Essere Sindacato – si limita a proporre una lista di obiettivi, di rivendicazioni (scala mobile, riduzione d’orario, ri-riforma delle pensioni, ecc.). Nel puntare solo a una “lista della spesa” c’è un motivo “elettorale”: più si tiene basso il dibattito politico, più si raccolgono voti. Ma c’è anche un motivo tutto politico: trarre un serio bilancio della politica sindacale, vuol dire sottoporre, inevitabilmente, a verifica anche tutta la linea della “sinistra” sindacale, mettendo allo scoperto la sua stessa incapacità di sciogliersi dagli identici nodi cui la maggioranza è ancorata: difesa dei lavoratori nell’ambito del “paese” (o, al più, in ambito europeo, per di più come semplice e vuota petizione), impossibilità di sottrarsi alla logica della concorrenza, nonostante le alte grida contro i suoi effetti devastanti, ecc.


Un’esperienza feconda

Che si sviluppi una opposizione alla linea sindacale è cosa necessaria. Ma che l’impianto di A.S. possa costituire la premessa per una vera opposizione è del tutto illusorio. La decisione dell’OCI è stata, quindi, di dare indicazione ai propri compagni iscritti alla CGIL di presentare una serie di emendamenti (il cui testo è pubblicato nella pagina seguente) alle tesi di A.S., accettando di batterci nel suo ambito con l’assoluta identità politica di quelle posizioni.

Lo scopo degli emendamenti non era di cercare di correggere qui e là la linea di A.S. La loro impostazione è del tutto ostica a ognuna delle varie anime che la compongono (la critica più esilarante l’abbiamo ricevuta da Lotta comunista: “perché mai mettete in discussione tra i lavoratori le vostre opzioni strategiche?”. Si sa come questi ortodossissimi leninisti pensino che i lavoratori possano, tuttalpiù, comprendere solo qualche rivendicazione economica. Povero Lenin del Che fare? che, al proposito, avvertiva come ogni economismo non possa che sfociare nel più supino riformismo!). Lo scopo era quello di partecipare alla campagna congressuale, con la possibilità di incontrare un gran numero di lavoratori, a cui proporre una versione ben più radicale della critica alla linea sindacale e alcuni elementi di programma sindacale e politico su cui è necessario e possibile costruire una inversione di tendenza a tutti i rischi di deriva cui, non questo o quel sindacato, ma tutto il proletariato è esposto.

I nostri compagni hanno, così, partecipato come relatori di A.S. a un centinaio di assemblee congressuali (in particolare a Como, Napoli e Torino), ovunque sostenendo unicamente l’impostazione di battaglia raccolta negli emendamenti, e chiarendo, ovunque, che il nostro scopo non era quello di raccogliere voti, né era quello di fare una battaglia interna ad A.S., ma era quello di porre all’attenzione di tutti i lavoratori, della maggioranza e della minoranza CGIL, come di tutti i non iscritti (la cui presenza è stata significativa in quasi tutte le assemblee), un bilancio serio della politica sindacale, una critica serrata dei suoi presupposti, e l’indicazione dei fondamenti su cui puntare per invertire la rotta: autonomia dal capitalismo e unità di classe, dentro e fuori i confini nazionali, con le conseguenze che ciò comporta di lotta senza mediazioni al federalismo, di unità con i lavoratori immigrati, di lotta alle politiche di rapina dell’occidente ai danni dei paesi del terzo mondo, a cominciare dalla ex-Jugoslavia.

Il bilancio di questa esperienza è stato senz’altro positivo. Non creda il lettore che lo gonfiamo per orgoglio d’organizzazione; ben sappiamo come non esistano, tuttora, le condizioni per cui una tendenza coerentemente comunista possa raccogliere vaste e, soprattutto, militanti – adesioni. Eppure l’attenzione suscitata dai temi da noi proposti è stata notevole. Quasi in ogni assemblea hanno catalizzato l’attenzione dei presenti. In molti casi, qualche lavoratore è intervenuto per sottolineare la giustezza di questo o quel punto, o, semplicemente, per porre domande. Qualche volta sono rimasti meravigliati, ma colpiti, da alcune considerazioni, come quelle sul carattere di classe del federalismo e sulla Lega, in particolare nelle fabbriche intorno Como. In altri casi il discorso sulla Lega ha fatto emergere come vi siano, ormai, anche dentro la CGIL lavoratori che tifano (per ora...) per Bossi. Alla ex-Falck di Dongo, per esempio, due lavoratori hanno interrotto tre volte il nostro compagno mentre parlava della Lega, dicendogli: parla di tutto, ma lascia stare Bossi, è lui la vera soluzione. Significativo che quasi il 50% degli iscritti di quella fabbrica (70 su 160) non ha partecipato al voto, probabilmente proprio per protesta verso posizioni espressamente anti-federalismo, mentre gli altri si sono divisi quasi in parti uguali (48 ad A.S., 42 alla maggioranza). Il che conferma, peraltro, come il nostro intervento non fosse a caccia di voti o di facili assensi, ma richiedeva “un di più” di partecipazione e di consenso.

Per quel che può valere, lo stesso consenso “elettorale” è stato significativo, sia perchè nelle assemblee tenute da noi il totale dei voti ad A.S. hanno superato quelli della maggioranza (non solo per merito nostro o dei nostri interventi, è ovvio), sia perché in più di un congresso provinciale di categoria (dove il 90% sono delegati di posto di lavoro) e anche in un congresso di Camera del Lavoro (Como) gli emendamenti sono stati votati in misura sufficiente (spesso largamente sufficiente) per essere inoltrati alle istanze congressuali superiori (il limite è del 25%). In queste ultime sicuramente si areneranno, d’altra parte la stessa composizione di tali istanze – ben raramente vi giungono semplici delegati di fabbrica, e quei pochi sono, per lo più, già consolidatamente schierati – le rende impermeabili a qualunque seria critica e opposizione.


Comincia un’urgente battaglia di classe

L’esperienza (la chiamiamo così proprio per indicare che non costituisce la nascita di una chissà quale radicale corrente, ma che, però, può offrire utili indicazioni a chiunque... voglia apprenderle) dimostra essenzialmente tre cose.

1. Si fa strada tra i lavoratori una certa disponibilità a raccogliersi attorno a una opposizione interna al sindacato, ove questa riesca a manifestarsi soprattutto attraverso delegati e operai combattivi e riconosciuti.

2. Vanno maturando, nella classe operaia, le condizioni per un bilancio profondo della politica sindacale e per comprendere e condividere una critica radicale del riformismo.

3. La debolezza politica (e, non a caso, anche organizzativa) di A.S. Proporre degli obiettivi di “riconquista” mentre il problema è come bisogna resistere ai nuovi attacchi è, in buona sostanza, un po’ come chiamarsi fuori dalla lotta. Quella impostazione ha consentito alle varie anime di A.S. di trovare un comun denominatore per garantire un minimo di unità interna, accontentando quelli che aspirano unicamente a conquistare (o conservare) i posti percentualmente dovuti alla minoranza (cosa per cui si scalda tanto anche Lotta comunista) e quelli che, pur disposti a una più seria battaglia, si fermano dinanzi alla soglia di mettere in questione tutto (compreso il proprio) l’impianto riformista. Ma la debolezza di questa impostazione viene percepita anche da molti lavoratori e delegati schierati all’opposizione, ove si trovino innanzi un iniziativa politica di taglio più coerente e profondo.

Tutto ciò non vuol dire che si stia costituendo un nucleo, sia pure piccolissimo, di lavoratori schierati su un terreno conseguentemente di classe, né che si vada costituendo, per lo meno, una tendenza politica in quel senso. Le spinte che emergono tra i lavoratori, e in particolare tra quelli già orientati a una opposizione alla linea sindacale, non si traducono, al momento, nelle conseguenti scelte di lotta e di protagonismo diretto, anzi si riconferma il meccanismo della delega (“andate voi che siete più radicali a rappresentarci nelle strutture esecutive del sindacato”, invito, ovviamente, da noi declinato: non è un posto in qualche segreteria periferica, o persino centrale, a poter “cambiare” la linea di questo sindacato), ma si conferma anche il meccanismo del “minimo sforzo”, per cui dinanzi ai prossimi nuovi attacchi della borghesia questi stessi consensi ottenuti nell’ambito della discussione congressuale, saranno, in grande parte, riassorbiti dalla logica di accontentarsi di quel che si riesce a salvare con il minimo impiego di energie di lotta. In questo quadro il massimo che si poteva richiedere, e che abbiamo richiesto, è che i nostri spunti di analisi e le nostre indicazioni di lotta fossero considerati come elementi di riflessione, di discussione e di battaglia, tra i lavoratori innanzitutto, e, poi, nel sindacato. Possiamo dire di aver dimostrato come sia possibile realizzare, già oggi, i primi due, e come sia necessario lavorare a fondo per realizzare anche l’ultimo.


La CGIL non è riformabile

A qual fine questa battaglia? Per avviare un processo di “riforma” della CGIL? No, questo sindacato – come ogni altro sindacato esistente in tutti i paesi imperialisti – non è “riformabile”. Ciò vuol dire che non si dà la possibilità della crescita progressiva di una corrente interna conseguentemente comunista che ne possa, prima o poi, assumere la direzione. Non solo, ma è, ormai, irrealizzabile la stessa ipotesi di conquistarli – come si diceva una volta – “magari a legnate” da parte di un deciso protagonismo di massa. La subordinazione allo stato e all’economia capitalista da parte di questi sindacati è totale e irreversibile. Dinanzi a un’aperta crisi rivoluzionaria essi si blinderebbero completamente verso le istanze di classe del proletariato, fino al punto di organizzare un’attiva resistenza contro l’espandersi di quelle istanze, compresa la difesa in armi dello stato capitalista dall’assalto rivoluzionario delle masse proletarie.

Il lavoro politico dei comunisti al loro interno ha senso solo in quanto la massa dei lavoratori vi aderisce (o ne segue le indicazioni) ritenendoli le organizzazioni necessarie per tentare una difesa dei propri interessi. Questa adesione avviene, in ultima istanza, con motivazioni di classe: la difesa della classe “in sé”, quale classe del capitale. Fino a quando questo legame (capitalismo-proletariato) ha le basi materiali per riproporsi, ben difficilmente la classe operaia si determina a scelte sindacali, politiche e, di conseguenza, organizzative più radicali. Ma, il capitalismo non è assolutamente in grado di garantirle all’infinito. Siamo già oggi in una fase in cui il “compromesso” tra le classi è duramente violato dall’aggressività capitalista, e tutte le contraddizioni del capitalismo spingono acché le violazioni diventino sempre più frequenti e profonde, fino al punto di introdurre un’epoca di grandi sconvolgimenti, di violenti scontri tra le classi fondamentali della società.

La lacerazione definitiva del “compromesso” – non in un unico determinato momento, ma lungo un corso di esplosioni più o meno ravvicinate – dimostrerà al proletariato la completa inefficacia della logica riformista, di compromesso, persino come semplice argine di contenimento delle aggressioni capitaliste. E questo lo porrà di fronte all’urgenza di dotarsi di tutt’altro armamentario sindacale, politico e, quindi, organizzativo. Nuove organizzazioni sindacali saranno, a quel punto, una necessità vitale per la stessa massa operaia, che seguirà, in prima istanza, il tentativo – in buona misura, “logico” e inevitabile – di riappropriarsi di quelle che ha considerato fino ad allora come le “proprie”, bruciando con ciò l’ultima illusione nei loro riguardi.

Siamo, insomma, consapevoli che una ripresa dell’iniziativa rivoluzionaria del proletariato comporta, tra i suoi passaggi obbligati, anche quello di costruire nuove forme d’organizzazione sindacale, ove per nuove è da intendere esattamente diverse da tutte quelle costruite nell’epoca della “tranquilla” coesistenza tra la classi, e per sindacali è da intendere non una semplice riedizione di quelle attuali con diversa direzione, bensì forme più complesse sul piano del contenuto politico e di diversissima impostazione quanto a direzione, sottoposta al rinnovato protagonismo di massa. Ma questa consapevolezza non ci porta a concludere di dover creare già oggi quell’involucro sindacale, nell’attesa che le masse lo riempiano. Non questo è il compito dell’oggi, allorquando l’insieme delle masse – e delle loro avanguardie, anche le più “estreme”– non hanno neanche cominciato a fare i conti con la loro stessa attitudine riformista, radicatasi tanto più profondamente quanto lungo è stato il periodo di “tranquillo” compromesso tra le classi.

Il compito dell’oggi è proprio quello di dare una battaglia a tutto campo per far emergere la necessità, persino l’urgenza, per la classe operaia di abbandonare quell’attitudine. E’ problema delle masse e dei lavoratori impegnati nei sindacati confederali, ma è problema anche di quelle minoranze impegnate nei vari tentativi di costruzione di organismi extra-confederali. A questi ultimi non chiediamo di “ritornare” nei sindacati maggiori (in cui, peraltro, non è affatto sicuro che continuerà a lungo la “tolleranza” di posizioni “estreme”, anzi è molto probabile che, presto, altre forze saranno forzate a uscirne), ma chiediamo di mettere a fuoco il centro dell’obiettivo, che non è nella proposizione di questa o quella forma sindacale, ma una battaglia politica contro la logica, la politica del riformismo e delle sue conseguenze nefaste per l’insieme del proletariato, per affermare una coerente linea di difesa di classe. Questi due aspetti (critica del riformismo e linea di difesa di classe) non riguardano solo i lavoratori tuttora integrati nell’involucro dei sindacati confederali, ma riguardano, appieno, anche quelli inseriti nei sindacati extra-confederali. Anche in questi i conti col riformismo non sono stati assolutamente fatti; lo dimostra, in modo evidente, la Cub, finita col proporre posizioni persino più arretrate – su un piano di classe – di quelle espresse nella sua origine di sinistra-Fim. Ma lo dimostra anche quanto è successo al Cobas dell’Alfa, quando, ponendosi il giusto obiettivo di difendere l’occupazione, non ha potuto fare altro – proprio per l’assenza dei due aspetti di cui sopra – che inclinare verso l’aziendalismo e il localismo con la difesa “dello stabilimento” e della sua permanenza a Milano.

Non una battaglia astratta, solo politica o teorica, ma una battaglia legata alle stesse necessità di difesa poste alla classe operaia dagli assalti borghesi. Proprio perché anche solo per impostare una seria difesa di classe, bisogna riconquistare un’autonomia politica dalle leggi del mercato e ricostruire una unità, al di là delle frontiere, di organizzazione e di lotta.

(da "che fare" n. n. 39 di giugno-luglio 1996)