nucleo comunista internazionalista
note




9 marzo – sciopero dei metalmeccanici

Un piccolo (non rituale) colpo battuto dal proletariato industriale


Siamo stati in piazza il 9 marzo a Roma per lo sciopero generale della Fiom, al quale hanno aderito alcuni sindacati di base.

Lo sciopero è stato indetto contro l’attacco della Fiat, che dopo Pomigliano e Mirafiori ha stracciato il contratto nazionale in tutti gli stabilimenti del gruppo e cacciato la Fiom dalle fabbriche. Questione con ogni evidenza di primarissima importanza sul terreno suo proprio, che secondo noi non è quello degli articoli costituzionali di legge che sarebbero stati violati da Marchionne, bensì quello della piena libertà – e capacità – di organizzazione e di lotta della classe operaia nei posti di lavoro e in ogni ambito sociale.

La Fiom, invece, assume e rilancia la prospettiva della “difesa della democrazia”, “trincea” che noi giudichiamo del tutto inadeguata (e anzi contrapposta) alle necessità di una vera difesa di classe, oltre che – nella contingenza data slogan sufficientemente “generico” che consente di aggirare nodi politici in realtà ineludibili. Quand’anche, infatti, “la difesa della democrazia” negata nelle aziende Fiat venga abbinata da Landini e compagni a un nutrito cahier di “richieste” al governo Monti che di per sé sostanziano una non disprezzabile piattaforma di rivendicazioni contrapposte al programma antioperaio dell’esecutivo in carica (l’articolo 18 non si tocca, cancellazione dell’articolo 8 che consente la derogabilità della legge da parte della contrattazione, revisione dell’ultima riforma che allunga l’età pensionabile a 67 anni, no alle grandi opere che distruggono il territorio, estensione e non riduzione degli ammortizzatori sociali, reddito di cittadinanza, nuova legge sulla rappresentanza che consenta alla Fiom di rientrare in fabbrica...), essa viene spesa – al momento almeno così ci sembra – per poter concentrare gli strali contro “l’autoritarismo di Marchionne”, quasi mettendo in secondo piano l’aperta dichiarazione di lotta contro l’esecutivo “tecnico”. Un esecutivo sostenuto in parlamento dai voti del PD, nei confronti del quale la casa-madre Cgil ha abbandonato la via degli scioperi già indetti contro il governo Berlusconi, e con il quale è anzi in corso (sui meriti imposti da padroni e governo: articolo 18 e riduzione degli ammortizzatori sociali) un tavolo di pseudo-trattattiva al quale la Cgil si è resa disponibile.

In molti hanno rimarcato l’auspicio che lo sciopero del 9 possa essere l’inizio di un risveglio della classe operaia e lavoratrice in Italia che inizi finalmente a reagire alla gragnuola di colpi con i quali i padroni e il governo Monti stanno cambiando drasticamente in peggio le condizioni di lavoro e di vita di quanti del proprio lavoro vivono.

Se lo augura anche Cremaschi, ora minoranza in Fiom, il quale denuncia: “contro Berlusconi noi eravamo nelle piazze”, mentre il professor Monti può andare in giro a gloriarsi di aver varato una pesantissima riforma delle pensioni “con sole tre ore di sciopero”, e Sarkozy-Merkel possono dire ai greci: “fate come gli italiani”. L’appello No Debito di qualche mese fà suonava la tromba su “una vasta e convinta mobilitazione che ha cominciato a cambiare le cose”, sulla “domanda di cambiamento sociale che ha raggiunto la maggiornaza del paese...”; oggi Cremaschi registra una “protesta sociale e civile del paese finora assolutamente inadeguata”, auspicando che lo sciopero metalmeccanico segni il punto di partenza di “un percorso di mobilitazione e lotta che speriamo possa ricostruire in Italia quell’opposizione sociale e politica al governo Monti che è indispensabile per non veder precipitare il nostro paese in un regime liberista peggio di quello berlusconiano”.

Noi, reticenti formulazioni anti-liberiste a parte, condiviamo l’impegno per mettere in campo un fronte di classe e di lotta contro l’offensiva del capitalismo in Italia e – necessariamente, non come optional – a livello internazionale e in Europa.

Proprio per questo respingiamo, non per mero amor di polemica ma per necessità di orientamento saldo, la considerazione per la quale le “dispiegate mobilitazioni” già in campo contro Berlusconi (!?) si sarebbero tradotte, di punto in bianco, nell’assenza di lotta contro quel Berlusconi al cubo – se basta! – che è l’esecutivo Monti. L’assenza di una minimamente adeguata re-azione dei lavoratori contro le misure di Monti non è infatti una novità dell’ultim’ora, venuta ad offuscare un quadro di fulgida avanzata dell’ “opposizione sociale e politica” già pronta a regolare i conti con l’esecutivo del cavaliere e invece inetta (chissà perché!) nei confronti del governo tecnico.

Ieri l’altro e tutt’oggi il proletariato e l’insieme dei lavoratori erano e purtroppo sono lontanissimi dalla determinazione necessaria per poter organizzare la difesa dei propri interessi di classe contro gli attacchi del capitalismo. L’inconsistenza politica della nostra classe, già visibilissima contro Berlusconi (dimissionato dalle cupole capitalistiche e non certo dalle piazze), è stata semplicemente resa più evidente dal più brutale attacco del capitalismo nazionale e internazionale attraverso gli esecutivi “tecnici”, cioè totalmente politici nella presa in carico senza mediazioni di sorta degli interessi capitalistici.

Capire a che punto siamo è decisivo, perché nessuna ripartenza sarà data e nessun impegno potrà essere proficuamente indirizzato nella giusta direzione, se non c’è consapevolezza del punto dal quale si riparte; se non si prendono in carico le magagne reali per poterle superare in avanti, se si preferisce piuttosto raccontare fesserie che da un lato travalicano abbondantemente ogni legittima verve agitatoria e dall’altro sono il veicolo e lo strumento di politiche già mille volte rivelatesi fallimentari per la nostra classe.

Che qualche mese fa, ancora regnante Berlusconi, si fosse “a un passo dalla vittoria” lo vadano a raccontare i questuanti di prebende statalistiche che con la annusata vittoria elettorale del centro-sinistra speravano di far quadrare i propri personalissimi conti da sotto-burocrati “di sinistra” del capitale, lo vadano a raccontare quei becchini della lotta operaia che ad essa assegnano al più il compito di far uscire dalle urne una compagine di governo, pur essa borghesissima doc nel blindato gioco della democrazia (altro che “difesa della democrazia”!), che possa, con adeguato apparato di sicofanti democratici, raccogliere l’aspettativa e l’illusione di larghi settori della classe lavoratrice per politiche “amiche” che a conti fatti traducono immancabilmente i diktat del capitale e peggiorano anch’esse – magari con diverse modalità – la generale condizione e soprattutto la capacità di lotta del proletariato.

Questi i nodi di sempre che si rinnovano oggi nel quadro generale di crisi in un contesto di estrema difficoltà per l’insieme della nostra classe in Italia e non solo.

Contesto di difficoltà che la giornata del 9 marzo ha provato a prendere in carico, rinnovando, in qualche modo e con le mille illusioni che non nascondiamo, l’impegno di iniziare a reinvertire un corso di inesorabile arretramento delle difese di classe che cadono una ad una sotto i colpi di un attacco che non viene contrastato.

Partiamo dunque dalla piazza del 9 e dagli elementi di valutazione che essa ci consegna. Una piazza operaia, con lavoratori e lavoratrici di ogni età, di ogni provenienza territoriale, con lavoratori immigrati nel corteo e protagonisti sul palco, sicuramente non paragonabile ai tempi in cui lo sciopero metalmecanico metteva in moto dalle cinque del mattino e da tutte le stazioni della capitale interi treni di lavoratori uno appresso all’altro, ma nondimeno anche numericamente significativa. Rispetto ai tempi che furono non si tratta più di dare la spallata finale per il contratto. La consapevolezza è quella di uno sciopero su questioni più di fondo e centrali.

Questioni generali che riguardano l’intero mondo del lavoro e sulle quali invece sono in sciopero i soli lavoratori metalmecccanici.

Questa consapevolezza, una consapevolezza che brucia, ci sembra palpabile nel corteo e nella piazza.

Il corteo è a tratti vivace, quand’anche è per noi certo che ben altra concentrazione e compattezzza di piazza dovranno essere riconquistate e messe in campo, se anche solo si vuol dare seguito alla promessa di lotta (“anche sotto i palazzi del potere per farci sentire...”) gridata dal palco da Landini a un padronato e a un governo che non ascoltassero (come noi riteniamo sicuro) le richieste della piazza metalmeccanica.

L’elemento nuovo sul quale si è appuntata la nostra attenzione è il comizio in piazza San Giovanni. Nelle sfilacciate adunate degli ultimi tempi e negli scioperi indetti senza nessuna reale determinazione di lotta dalla Cgil (beninteso solo contro governi di centro-destra, rigorosamente esclusi quelli di centro-sinistra e ora anche quelli “di unità e responsabilità nazionale”, fa niente se bastonano i lavoratori come e peggio dei primi), il comizio finale è diventato niente più che un rito scontato e noioso, roba da apparati che si radunano sotto il palco mentre la piazza si svuota e i manifestanti cominciano subito a tornare indietro.

Il 9 marzo in piazza San Giovanni le cose sono andate diversamente. Il comizio è durato ben oltre le due ore e ancora alle due passate la piazza era piena di lavoratori che avevano ascoltato con attenzione e partecipazione i numerosi interventi. Hanno parlato dal palco delegazioni sindacali e semplici lavoratori di Fincantieri, di Finmeccanica, della Fiat, portando sul palco la denuncia dei passaggi reali nei quali viene tradotto sui posti di lavoro l’attacco in corso: non la nomenclatura con il bilancino delle correnti e delle mozioni congressuali, ma lavoratori e delegati di base. Rappresentanti Fiom immigrati hanno integrato a pieno titolo nella piattaforma generale la denuncia della legge che li espone all’espulsione in caso di licenziamento e della tassa speciale imposta sul rinnovo dei permessi, insieme alla rivendicazione della cittadinanza per i figli nati in Italia. Ha parlato il rappresentante dei metalmeccanici greci e la piazza ha ascoltato con attenzione particolare la traduzione del suo discorso. L’intervento del presidente delle comunità montane della Val di Susa contro il Tav è valso a demarcare, con oggettiva generale valenza rispetto ai contenuti portati in piazza, la denuncia dell’assenza del Pd nella piazza dei lavoratori e invece del suo schieramento su ogni fronte dato con i poteri forti del capitalismo. L’intervento è stato accolto come richiamo alla necessità di ingaggiare la lotta oltre gli argini posti da un partito, il Pd, che troppo spesso sta dalla parte avversa, prendendo atto di questo e denunciando il fatto senza farsene paralizzare la propria determinazione a difendersi.

Sia chiaro, non ci sogniamo minimamente di attribuire al movimento operaio rispetto alla generale offensiva del capitalismo gli stessi sentimenti che animano i valsusini sulla questione del Tav. Siamo al contrario consapevoli di come e quanto il sostegno del Pd al governo Monti abbia effettivamente corrisposto a un generale illusorio senso di appagamento della stessa massa operaia e lavoratrice per il dimissionamento di Berlusconi.

Vogliamo dire che almeno la piazza metalmeccanica del 9 ha dato un primo serio scrollone alla fiducia e all’accettazione presenti e veicolati tra i lavoratori nei confronti dell’ “esecutivo tecnico che sta facendo il bene del paese”, e lo ha fatto accentuando non di poco i toni polemici verso il Pd che ne sostiene la politica antioperaia. Non sbaglia su questo Loris Campetti quando scrive su il manifesto del 10 marzo“la festa per la cacciata di Berlusconi... è finita in fretta. Ora ci sono i bocconiani che terminano il lavoro sporco avviato da chi li ha preceduti, aggiungendo ingiustizie a ingiustizie e i metalmeccanici hanno smesso in fretta di festeggiare. Chi si accontenta della facciata non viene capito dai terribili metalmeccanici...”.

Nel succedersi degli interventi è inoltre emerso con chiarezza il rigetto dell’accusa al sindacato metalmeccanico di voler “fare politica” insieme alla rivendicazione della classe operaia come soggetto e protagonista politico a pienissimo titolo, per una politica che i padroni vorrebbero invece riservata esclusivamente alle classi dominanti. Il problema che si pone immediatamente dopo è, però, quale politica dei e per i lavoratori, laddove la drammatica consapevolezza che la piazza metalmeccanica e l’intero mondo del lavoro sono privi di un partito che ne organizzi l’agire politico in proprio viene presa in carico e tradotta da noi nella necessità del ri-orientamento verso la prospettiva di classe (che – sia detto per inciso – laddove fosse in piedi non significherebbe di per sé saltare a piè pari la questione del voto), e da molti di più brandendo illusoriamente il programma suppostamente vincente della “difesa della democrazia e della nostra costituzione” dal punto di vista operaio, sul quale (fuori e contro ogni neanche sognato riorientamento classista) rilanciare coalizioni elettorali per riportare nel palazzo simulacri di “sinistre radicali”, in realtà già sperimentati reggicoda del Pd e, al dunque, allineate anch’esse ai diktat del capitale (governo Prodi-Padoa Schioppa docet).

Il momento clou della giornata è stato l’intervento di Scudiere a nome della segreteria confederale della Cgil. Da quando è stato annunciato e fino alla fine del discorso, con buona pace del manifesto di cui diciamo appresso, la piazza, non quattro estremisti ma l’intera piazza dei lavoratori, lo ha subissato con un crescendo di insulti e improperi, con cori nutriti che hanno invocato lo sciopero generale, con “buffone, buffone” e gesti eloquenti che irridevano i passaggi con i quali Scudiere rivendicava una presunta opposizione della Cgil agli attacchi padronali e governativi. Vista la mala parata, Landini a destra e Airaudo a sinistra si sono avvicinati all’oratore per far capire alla piazza che doveva parlare. Lo ha fatto, ma dall’inizio alla fine hanno parlato sonoramente anche i lavoratori, gridando contro la segreteria confederale tutta l’incazzatura per essere stati lasciati soli non solo a subire l’attacco più duro ma anche a dover prendere in carico l’impegno e il sacrificio dello sciopero, quando a scioperare avrebbero già dovuto essere tutti i lavoratori con maggior forza e compattezza di classe per tutti e anche per i metalmeccanici. Scudiere, quando sembrava che l’urlo della piazza stesse per tacitarlo definitivamente, ha lanciato un monito inequivoco rivendicando e ponendo ad esempio il “senso dello Stato” che avrebbe ispirato le decisioni delle più alte cariche istituzionali (riferimento a Napolitano e al sostegno garantito dal Pd al governo “tecnico”) e della stessa Cgil, e semmai rivolgendo (a chi? al governo, ai dirigenti Fiom o ai lavoratori che gli gridavano contro?) la critica di non tenere conto della necessità di “coesione sociale” in una fase così difficile.

Resta il dato significativo di una piazza fortemente identificata con la Fiom e la sua leadership e invece durissima contro il Pd e la casa-madre Cgil. Non è un dato né scontato né di poco conto.

Non a caso, mentre siamo stati abituati a settimane e mesi interi di strumentali polemiche contro “i violenti” e gli “estremisti” da “condannare e isolare” se poco poco una sparuta delegazione di lavoratori autorganizzzati si rendeva protagonista di qualche più che circoscritto parapiglia sotto il palco confederale, invece il giorno dopo vediamo che la stampa glissa elegantemente e minimizza su questa corale e prolungata contestazione di lavoratori Cgil contro il vertice della propria stessa confederazione, dando distrattamente conto di “Scudiere fischiato dalla piazza” (niente di più si è letto su l’Unità e la Repubblica del 10 marzo).

Il manifesto riferisce addirittura di “Scudiere più volte fischiato per quel che andava dicendo nel suo intervento, non certo per partito preso” (!?) (così Francesco Piccioni), mentre Loris Campetti, in genere preciso, scrive che “tutti devono farsi una ragione per i pochi (!? n.n.), rispettosi (!? n.n.) fischi raccolti dal segretario nazionale della Cgil che è intervenuto dal palco con un atteggiamento decisamente più comprensivo nei confronti dei Monti boys” (!?).

A leggere questi resoconti capiamo molto bene che sono innanzitutto quelli del manifesto a non potersi fare una ragione della contestazione, ben diversa da quella raccontata dai suoi cronisti, essendo stati proprio essi, insiene alla Sel di Vendola, gli sponsor di un formale riavvicinamento tra i vertici della Fiom e della Cgil che ha lasciato però contraddittoriamente irrisolti e aperti tutti i punti in contestazione, che dunque vengono – finalmente! – riaperti da un sacrosanto sussulto di rabbia della base operaia, che ci auguriamo sappia organizzarsi per poter procedere oltre.

Una contestazione, quella di piazza San Giovanni, che dunque rappresenta un problema per la stessa maggioranza della Fiom, per quei Landini-Rinaldini che, dopo aver detto di tutto contro la segreteria confederale (che non aveva neanche discusso nelle istanze interne la contestata firma dell’accordo del 28 giugno 2011 sulla riforma della contrattazione e della rappresentanza), avevano successivamente frenato la battaglia “riappacificandosi” con la Camusso “pur nella diversità di alcuni punti di vista”, come suggello e come garanti sul versante sindacale di un’auspicata coalizione elettorale Pd-Sel.

L’incalzare della crisi economica ha bruciato molti ponti, se è vero che Vendola/Landini già proiettatisi all’abbraccio con Bersani/Camusso, se li vedono sfuggire, perché questi, dimissionato Berlusconi, hanno saltato il fosso verso l’area del “governo tecnico”. Un governo chiamato a bastonare i lavoratori molto più duramente di quello che lo ha preceduto e a sostenere con ancora maggiore forza (rispetto ai pur “bravi” Sacconi-Brunetta) l’attacco della Fiat, elevata a modello generale di moderne relazioni sindacali.

La realtà è, secondo noi, che l’intera “sinistra” (quella democratica coerentemente al suo programma, quella “radicale” con l’obiettivo di rientrare nei palazzi importanti, quella cosiddetta “rivoluzionaria e di classe” decampando miseramente dai propri compiti) si è adagiata per quattro lunghi anni nell’ “antiberlusconismo”, coltivando un fasullo e perdente scenario di “mobilitazione unitaria”, dando fiato da tutte le trombe (anche quelle di “sinistra più estrema”) alla retorica di un amplissimo “fronte di salvezza nazionale” contro la minaccia – anch’essa immancabilmente antidemocratica – del cavaliere, uno schieramento che andava dal Pd/Italia dei valori fino ai terribili “trotzkisti” senza escludere a tratti neanche Fini e la stessa Confindustria anti-cavaliere, il tutto in funzione di un “cambio” a venire e ormai avvertito come prossimo, sul quale tutti in un modo o nell’altro avevano puntato le proprie diverse fiches. Lo scenario in cui la Cgil, sia pur blandamente e del tutto a vuoto, mobilitava di tanto in tanto le piazze in quanto impegnata anch’essa a modo suo a preparare il cambio dell’esecutivo.

Dal canto loro e su un diverso ma non scollegato piano, anche i lavoratori (e con essi non pochi delusi dal centro-destra già da essi votato) hanno voluto illudersi ancora una volta che i nuovi non secondari tornanti dell’attacco capitalistico andati in scena sotto il governo Berlusconi potessero in qualche modo essere arginati e recuperati grazie a un nuovo cambio per via elettorale.

Se questo era, e questo era, la grande onda (in realtà miseri spruzzi!) di cosiddetta mobilitazione che di qui a tappe ravvicinate avrebbe travolto il cavaliere... sotto una valanga di voti e niente altro, non può stupire che per larghissima fetta della cosiddetta “maggioranza del paese” già “in campo” per “il cambio” si sia dato un sostanziale appagamento con il dimissionamento di Berlusconi. Appagamento che si traduce in consenso e sostegno convinto al nuovo esecutivo per le forze dichiaratamente borghesi e antioperaie presenti nel nutrito fronte “per la difesa della democrazia”; e che invece sconfina in accettazione passiva o comunque nell’incapacità di reagire per quanti negli anni trascorsi hanno messo in scena velleità oppositive rigorosamente contenute entro il nulla politico nostro dell’ “antiberlusconismo” (sempre arretrando sui contenuti di classe per poter favorire “la più ampia unione di forze a difesa del bene supremo e di tutti”).

Secondo i corsi già visti il ricorso a partire da queste premesse sarebbe dovuto essere quello della vittoria elettorale del centro-sinistra, la bolsa celebrazione della “vittoria di tutti” (con tutti a riscuotere il proprio grande o piccolo dividendo, quotidiani a corto di quattrini e centri sociali già disobbedienti compresi), le pressioni sul nuovo governo da parte dei cosiddetti movimenti perché tenesse fede a chissà quali “impegni”; solo poi, ma molto lentamente, il nuovo disincanto e quindi il prender corda di una mobilitazione di determinati settori di proletariato in un contesto di paralisi sociale, con Pd al governo e Cgil a tener ferma la piazza a supporto di esso.

Le tappe sono state bruciate e non ce ne rammarichiamo. La crisi ha accelerato tutto, prendendo in contropiede la “sinistra” “unitariamente” antiberlusconiana, sbalzandone una parte al governo (addirittura insieme a Berlusconi), e l’altra a non saper più che razza di opposizione fare e come dare seguito alla iniziative già in corso, posto che tutto era tarato per l’ “ampia” mobilitazione insieme a chi oggi è passato dalla parte del governo e comunque in funzione di un cambio elettorale che non potrà più essere giocato allo stesso modo. Landini aveva appena fatto la pace con Camusso come manovra di assestamento del campo centro-sinistro, ma, con il Pd che sostiene Monti, per la Cgil l’agenda è cambiata: scatta l’imperativo che il governo sostenuto dal Pd è sacro e viene di fatto sostenuto, anche gli scioperi inefficaci che andavano benissimo contro Berlusconi ora sono aboliti, quando invece massimamente ci sarebbero la necessità di scioperi veri per quello che il governo sostenuto dal Pd ha fatto e ancora si appresta a fare.

Anche per questo va dato merito ai sindacati di base che, contro il repentino scenario di dichiarato attacco bipartisan alla classe operaia (tolte di mezzo le finte opposizioni), hanno coraggiosamnete indetto lo sciopero del 27 gennaio, il primo sciopero generale dichiaratamente contro il governo Monti, con una risposta significativa (anche perché non scontata, visti i recenti scioperi anti-berlusconiani della Cgil) dei tradizionali settori di proprio maggiore insediamento.

Il 9 marzo il proletariato industriale in Italia ha battuto un piccolo non rituale colpo di presenza e disponibilità a difendersi. Altrettanto – e molto di più – stanno facendo i lavoratori in Grecia, Spagna, Portogallo, Romania e lo sciopero della Fiom ha anche potuto registrare in positivo il fatto che i lavoratori dei diversi paesi iniziano almeno a guardarsi e a percepire il collegamento che è dato tra problemi comuni oggi, tra risposte di lotta da unificare nella prospettiva che ci impegna.

Per contribuire utilmente affinché questo primissimo passo possa darsi il seguito nella giusta direzione occorre la consapevolezza della attuale, per certi versi inevitabile, nullità politica del proletariato, che si traduce nella sua estrema frammentazione dietro bandiere politiche che in nessun caso gli appartengono: si tratti del tentativo di accorparlo e asservirlo alle politiche di rigore in nome della “responsabilità nazionale” e dei “supremi interessi del capitalismo nazionale”, oppure del convergere su posizioni di opposizione che non fanno leva sull’unificante trincea di classe, perché si legano invece a rivendicazioni territorial-localistiche da un lato oppure alla petizione della “democrazia da salvare” (come ha fatto la piazza del 9 marzo) dall’altro. In entrambi i casi il proletariato appare lontano dal riacquistare fiducia nelle proprie esclusive forze e nel suo programma di classe e affida piuttosto l’illusione di una difesa vista come più a portata di mano chiamando in causa questioni e schieramenti interclassisti all’interno dei quali collocare, opportunamente limate e comunque in subordine, le proprie aspettative di una qualche attenuazione dei colpi.

Senza poter mettere da parte lo scenario, che incombe minaccioso anche contro questi primi tentativi di risveglio operaio, di nuove devastanti guerre di aggressione contro i cosiddetti “paesi canaglia” (la Siria, l’Iran...) che di qui a breve potranno ancora un’altra volta essere scatenate dal “nostro” imperialismo, che intenderà azzerare ogni tentativo di risveglio alla lotta per inchiodare la classe operaia d’Occidente al supporto incondizionato alle presunte ragioni delle sue “missioni” (per definizione “umanitarie” e “difensive”) e ai corrispondenti sacrifici che si vorranno imporre con crescentre forza di pressione.

Anche su questo decisivo versante la cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” decampa miseramente dai propri compiti quando (come ha fatto sulla Libia e come è pronta a replicare per la Siria...), invece di rafforzare la solidarietà e l’unità di lotta dei lavoratori occidentali con le popolazioni massacrate dal “proprio” imperialismo, accredita come “rivoluzionari” movimenti che si affittano all’Occidente e ne invocano l’aggressione contro il proprio popolo.

Il nostrro nucleo, per modesto che sia, è in campo come leva di ancoraggio a un corretto orientamento su tutti gli intrecciati temi sui quali si incrudisce, in condizioni di crescente difficoltà per la nostra parte, lo scontro internazionale tra proletariato e borghesia.

14 marzo 2012