Gli eventi che incalzano e scuotono tutto il mondo arabo e musulmano sono di portata storica.
E’ in corso un terremoto sociale e politico che sgretola il precedente status quo.
Questo sconvolgimento è in profondità originato dalle convulsioni e dalle esplosive contraddizioni del mercato capitalistico ossia è una manifestazione, una conseguenza della crisi capitalistica mondiale.
Pensiamo non solo alle determinazioni economiche immediate che hanno fatto da detonatore – l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, l’acuirsi dello stato di indigenza per larghe fasce sociali, l’intollerabile compressione dei livelli salariali –, ma anche ed insieme al “blocco di prospettive”, alla “mancanza di futuro” in cui si ritrova una massa enorme di popolazione giovanile che preme dentro tutti questi paesi.
“Blocco” che non può essere esclusivamente imputato, come può anche apparire in prima istanza a queste stesse masse entrate in azione, alle “cattive gestioni” dei vari Ben Ali e Mubarak, che peraltro giustissimamente esse annoverano tra i profittatori della propria disagiatissima se non miserevole condizione. Non può essere imputato, cioè, in esclusiva alle “forme ingessate” di quei regimi, i quali in realtà, si potrebbe dire, hanno fatto “quello che potevano” dentro il quadro intangibile del mercato capitalistico mondiale (che nessuna borghesia nazionale nemmeno quelle più radicali in senso “anti-imperialista” ha mai preteso di infrangere), provvedendo ovunque a scolarizzare in massa le nuove generazioni, ossia a parcheggiarle in attesa di un risolutivo e fantomatico “sviluppo equilibrato”.
La bomba sociale è tanto enorme (se si considera che nei prossimi 10 anni “ci sarebbe bisogno” di 23 milioni di nuovi posti di lavoro nel solo Maghreb) che essa non può, non potrà essere contenuta sul piano di un qualche credibile, materialmente spendibile, “nuovo slancio riformista”, assodato in particolare che “la democrazia” che disgraziatamente vi venisse caldeggiata – o, peggio ancora, “esportata” – dall’Occidente non riempirebbe la pancia delle masse, che dunque necessitano di dare seguito all’azione intrapresa prendendo fino in fondo nelle mani il proprio destino e rivendicandolo contro l’Occidente imperialista e i suoi locali manutengoli.
Il piano su cui lo stesso capitalismo in crisi pone le cose non contempla, non può contemplare, la possibilità di un “roseo e progressivo avvenire”. Quando il ciclo del capitalismo ha infine invertito il suo giro (si prenda atto che alcuni dei paesi in cui oggi esplode la protesta fino all’altroieri erano quasi considerati “emergenti” per gli alti tassi di crescita registrati negli ultimi tempi) e non si intravvedono orizzonti di una possibile “ripresa” (quella che oltre agli indici metta anche in campo un qualche effettivo avanzamento delle condizioni sociali di lavoro e di vita delle masse), allora la soluzione che si profila all’irresolvibile addensarsi di contraddizioni è solo quella di un redde rationem che il capitalismo non ha altre vie per sciogliere se non quelle che immettono al bivio tra guerra imperialista e Rivoluzione Proletaria. Di questo si tratta, per quanto la coscienza e la mentalità delle masse siano impregnate di spirito riformista. Tanto là, nel sud del Mediterraneo, che, soprattutto, qui al centro.
Cosa “si sarebbe dovuto fare”, cosa avrebbe dovuto fare “l’Europa”, si domanda una sconsolata Luciana Castellina, per evitare il disastro sociale che ci circonda? “Si sarebbe dovuto pensare a un grande storico compromesso sociale, analogo a quello che nel dopoguerra si è realizzato, con qualche successo, in Europa fra capitale e lavoro, in questo caso da stabilirsi fra le due sponde del Mediterraneo per pensare insieme ad una comune strategia di sviluppo a lungo termine” (Manifesto del 8/2/11).
Compromesso sociale qui, compromesso sociale lì. Ed invece è il contrario su entrambe le sponde. Parimenti è una colpevole bugia quella di accreditare un’Europa inesistente dispensatrice di compromessi sociali a favore dei popoli del Nord-Africa e del Medioriente, quando da sempre essa è stata ed è dispensatrice soprattutto verso quei paesi di spoliazioni, oppressione e guerre.
Da notare, poi, come lo sconsolato “progressismo” (che, in concreto, rimpiange una via esperita in effetti dalla propria borghesia: quella dei Mattei, degli Andreotti) nemmeno si avveda che è stato proprio il compromesso sociale fra capitale e lavoro nella metropoli, ossia l’affogamento e lo strangolamento in esso della prospettiva rivoluzionaria di classe del proletariato (operazione svolta tanto dalla socialdemocrazia che dallo stalinismo) il fattore decisivo che ha portato al ripiegamento e all’affossamento della spinta rivoluzionaria del grandioso movimento anticoloniale del dopoguerra (che però ha raggiunto il suo oggettivo traguardo sul piano economico nel contesto dato, cioè ha integrato i “popoli colorati” nella rete del capitalismo mondiale, spazzando gli antichi vincoli e retaggi).
Detto questo, il quadro che abbiamo di fronte non è né lineare né semplice.
Delle sollevazioni popolari del Maghreb noi abbiamo salutato il significato (non scritto in nessun programma dichiarato) della rivendicazione di potere alle masse sulle decisioni che riguardano le proprie vite. Ma la battaglia è appena iniziata e tutto predispongono questi primi passi tranne che un quadro omogeneo di avanzamento univoco verso la realizzazione di un programma peraltro tutto da idenfiticare e definire, oltre il dato – non insignificante – della cacciata di chi finora ha governato sotto dettatura dell’Occidente. In realtà le masse scese in strada, pur quando abbiano colto, ci riferiamo alla Tunisia e all’Egitto, alcuni importanti risultati, sono necessariamente chiamate al compito di organizzazione le forze e definire i passi ulteriori e la generale prospettiva (premessa e terreno della scomposizione del “popolo rivoltoso” in classi).
A questi non facili compiti sono chiamate quando, assente purtroppo la solidarietà classista del proletariato d’Occidente (figuriamoci poi la comunanza di lotta), tutto intorno e anche dentro di esse è un pullulare di forze e interessi borghesi, questi sì con programmi più che definiti, con forze organizzate, la più gran parte agganciati alle centrali occidentali e tesi a promuovere le soluzioni di ricambio che deviino il corso degli eventi verso soluzioni che possano garantire la ripresa dell’ “ordinario” corso dell’accumulazione in quelle regioni considerate di interesse vitale per il funzionamento della macchina mondiale del capitalismo.
Tutti i paesi del Nord-Africa e del Medioriente, fino al Golfo, venuti in avanscena negli ultimi mesi sono collegati dalla comune radice della scossa che li percorre; nondimeno gli eventi, alla luce dei fattori specifici in essi agenti, prendono all’immediato pieghe anche molto diverse, che però, al di là delle “specificità” date e attraverso e sopra di esse, descrivono le stazioni di una vicenda e di uno scontro unitari.
Sul decorso degli eventi in paesi come la Libia (o il Barhein) noi non diciamo le stesse cose che abbiamo detto per la Tunisia e l’Egitto, paesi questi ultimi di peso determinante perché più compiutamente strutturati da un punto di vista borghese. In essi, a differenza dei primi, è dato cogliere la dinamica più significativa e interessante degli eventi da un punto di vista nostro.
In Tunisia e soprattutto in Egitto la scesa in campo del proletariato e delle masse popolari è stato un passo decisivo per cacciare i Ben Ali e i Mubarak. Una certa piazza giovanile magari infatuata dal mito occidentale, che all’inizio del movimento sembrava indirizzare e dirigere il suo corso, è già nei fatti scalzata, sormontata dalla marea dei bisogni, delle aspirazioni, delle necessità vitali del proletariato e dei tagliati-fuori in generale. La lotta è già, virtualmente in Egitto, in Tunisia anche praticamente nelle battaglie aperte di strada, contro il “nuovo” regime (sul che, guarda caso – ma di che stupirsi? è il loro mestiere – l’orchestra della “libera informazione” ci passa brevemente quasi di sfuggita sopra) e quindi ad un livello più alto dove si urtano e si definiscono più nitidamente gli interessi delle classi.
I “liberi ufficiali” che gestiscono in Tunisia e soprattutto in Egitto la “transizione alla democrazia” sono perfettamente liberi di fare due cose. La prima: vegliare e montare la guardia sul proletariato acché le sue lotte e rivendicazioni non debordino dal quadro di un rinnovato “interesse nazionale”. La seconda: che i vincoli di politica internazionale, primariamente la cooperazione con Israele, non siano violati. Un passo azzardato più in là, magari per contenere o deviare il malcontento sociale interno, sarebbe un passo verso la guerra (che forse qualcuno a Tel Aviv e a Wall Street auspica e prepara come squisito mezzo utilissimo per contrastare una maledetta crisi in cui l’America e l’Occidente sono impantanati).
Con tutta evidenza gli eventi hanno preso un’altra piega in Libia.
Libia e Bahrein sono due paesi oggi investiti direttamente dal terremoto in atto. Due realtà diversissime e anche agli antipodi se consideriamo il loro rapporto con la potenza capitalistica egemone: la Libia già “stato terrorista e canaglia” nel mirino dell’Occidente e sotto il tiro effettivo dei bombardieri statunitensi; Bahrein il paese che ospita la flotta militare americana di stanza nel teatro di guerra del Golfo Persico.
Se della sollevazione in Tunisia ed Egitto abbiamo enfatizzato il segno di una rivendicazione di potere e di migliori condizioni di vita contro i quisling locali degli imperialisti, in Libia il corso degli eventi ha ben presto messo in secondo piano ed omesso la questione della radice profonda della crisi sociale e politica (e fin qui potremmo ancora dire che siamo alla logica normale e spontanea del manifestarsi delle lotte, nella normalità anche dei reali processi rivoluzionari stessi). Sennonché si è vista inoltre derubricata e rimossa la questione centrale del controllo e della pressione imperialista cui tutti gli stati ed i popoli dell’area sono soggetti. Anzi e peggio, questa decisiva questione è stata vergognosamente presa in carico al contrario nei pronuciamenti indecenti del cosiddetto “nuovo governo libico” di stanza a Bengasi (pronunciamenti che hanno potuto tenere banco senza significative smentite “dalla base”), con i quali si è invocato l’intervento degli imperialisti proprio quando le sollevazioni tunisina ed egiziana li hanno appena costretti a fare un passo indietro, così aprendosi la porta a un’aggressione militare volta non solo e non tanto contro Gheddafi, quanto direttamente contro le masse che nell’intera area si sono sollevate mettendo in discussione i capisaldi locali del dominio occidentale.
Dunque per Gheddafi sembra approssimarsi la stessa sorte dei Mubarak e forse dei petro-monarchi del Golfo, autentici cani da guardia degli interessi occidentali. Proprio lui che, al contrario, è stato alfiere del contrasto al super-imperialismo americano (e all’inizio della sua parabola nazional-rivoluzionaria borghese, primi anni ’70, contestatore anche della realpolitik dello stato russo), subendone tutte le conseguenze, bombardamenti inclusi, e che anche nella sua attuale fase declinante (le cui cause non vanno ricercate nell’ “addomesticamento” del soggetto, nella sua scelta volontaria di ritorno all’ovile) ha cercato di barcamenarsi dentro i contrasti fra le potenze capitalistiche nel tentativo di mantenere un margine di indipendenza a livello politico per il proprio paese (giacché a livello economico non se ne parla nemmeno. D’altronde quale paese, grande o piccolo, può dirsi “indipendente” sul piano economico? Lo è forse l’America? Lo è forse la Cina? Lo è forse l’Italia o ...Cuba? Nessuno lo è. Resta il fatto che sono la super-dipendente e super-indebitata America, la super-dipendente e super-indebitata Europa a imporre i loro diktat sul piano finanziario, e non la borghesia araba attraverso le quote azionarie che pur detiene, perché sono essi a ricattare e minacciare con la loro forza armata di cielo di terra e di mare l’Iran, la Libia, la Jugoslavia, l’Irak etc. e non viceversa).
Vi è però un tratto strutturale che accomuna la Libia a un Bahrein, questi due paesi così diversi e agli antipodi: il flusso enorme della rendita petrolifera ha permesso ad entrambi (così come alle altre petro-monarchie del Golfo) di “liberare dal lavoro manuale” la gran parte delle locali popolazioni. Il lavoro più gravoso e disagiato, il lavoro industriale e produttivo, tanto nei lerci stati e staterelli del Golfo quanto nella Libia “paese delle masse che si autogovernano”, è ad appannaggio di un proletariato multinazionale immigrato che nei paesi del Golfo è costretto ad una spietata condizione di super-sfruttamento mentre in Libia, dove non vigono certamente tali infami condizioni, resta comunque e certamente corpo estraneo al regime “delle masse che si autogovernano”. Sempre esposto a dover, senza tanti complimenti, fare le valigie e rimpatriare, quando ciò sia imposto dai venti della congiuntura economica, come è stato nel periodo critico dei primi anni ’80.
Nella minuscola ma strategica isoletta del Golfo, che ospita la V flotta americana, ci par di capire che i “sudditi” scesi in strada contestano alla regnante dinastia infeudata agli americani, oltre alla discriminazione della parte sciita della popolazione, “la mancanza di democrazia”. I conti però non tornano (o tornano in altro opposto senso) quando vediamo che le invocazioni sono indirizzate proprio al governo americano che dovrebbe aprire gli occhi e supportare la lotta “per la democrazia”. (Dice una intellettuale iraniana che contesta il regime degli ajatollah: “la nostra non è una contestazione ideologica, noi vogliamo solo vivere in pace e libertà”. Già, “semplicemente” vivere in pace – possibilmente come nei paradisi occidentali – sulle spalle e sulla pelle della massa dei diseredati e del proletariato! Per questo strato sociale, di cui ella è candida voce, il potere concentrato dell’imperialismo, il potere concentrato dell’alta finanza e delle portaerei nucleari scompare, si dilegua, diventa “forzatura ideologica”. Ma questo strato sociale di piccola e media borghesia, presente e attivo in tutte le società dei paesi dell’area, Palestina compresa, rappresenta nei paesi centrali e determinanti della stessa, come l’Egitto, l’Algeria, l’Iran, solo una schiuma sopra l’oceano delle masse diseredate.)
In Libia, mentre le statistiche registrano un livello di disoccupazione attorno al 30% (!) e rimangono in entrambi i casi ben presenti fra la massa della popolazione, o una buona parte perlomeno, malumori e recriminazioni in fatto di condizioni materiali di vita (mancanza di alloggi, stipendi che non seguono l’aumento dei prezzi, etc.), al tempo stesso la rivendicazione liberal-democratica che fa da schermo alle proteste e alle sollevazioni in corso (con conseguente invocazione dell’intervento occidentale da parte di squallidi rappresentanti del “nuovo governo” che fino all’altroieri facevano i ministri di Gheddafi) riguarda, sembra riguardare, rigorosamente “gli indigeni”.
Nel caso libico, in verità, pare trattarsi di lotte e fratture interne alla borghesia nazionale. Per meglio dire: rotture interne, debitamente sobillate, dell’equilibrio fra clan tribalistici che gestivano e si spartivano il potere sotto la ...”feroce dittatura del tiranno” Gheddafi. Per i manovali, per la classe operaia, a cui d’altra parte tutti insegnano a “non impicciarsi negli affari in casa d’altri”, sembrerebbe non rimanere altro che l’amaro destino del duro lavoro. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. E zitti!
Noi ci auguriamo invece che un esito di questa prima convulsa tornata di moti sociali sia (restando ai casi dei due paesi di cui qui diciamo, ma evidentemente gli eventi in corso non si possono dividere in tanti compartimenti stagni locali e nazionali) che l’agitazione sociale in Bahrein e nel Golfo possa fungere da innesco ad una serie di rivendicazioni avanzate dalla massa proletaria multinazionale, indotta essa stessa ad alzare la testa dal presente stato di confusione generale.
Parimenti ci auguriamo, nel caso libico, di veder emergere la distinta voce degli interessi proletari che invada la scena oggi esclusivamente riservata alle bande borghesi in lotta tra loro, che da un lato invocano i raid aerei dell’Occidente e dall’altro se ne propongono come unico antemurale contro “Al Qaeda” e “nuove invasioni di immigrati”.
Ove si arrivasse a un diretto intervento armato degli imperialisti contro Tripoli, noi auspichiamo che le masse sfruttate dell’intera area, e innanzitutto quelle delle vicine Tunisia ed Egitto, reagiscano all’aggressione (che sarebbe, come è, anche e innazitutto contro di esse diretta) con un sussulto di lotta che faccia indietreggiare le cannoniere occidentali e ne respinga l’attacco.
Ove, peraltro, le forze di classe dovessero malauguramente restare imbrigliate, ci auguriamo che a quel punto la disperata resistenza di un regime alle corde faccia pagare ai burattinai democratici occidentali il più alto dazio possibile sul piano politico e su quello militare. In modo che i miserabili burattini locali, le miserabili fazioni borghesi che si apprestano a contendersi famelicamente la torta del petrolio e del gas, anche nel caso di probabile se non scontata “vittoria” acquisita grazie alle cannoniere imperialiste, ne restino marchiati di un’onta indelebile di cui risponderanno, presto o tardi, al loro stesso popolo che si apprestano a “liberare”.
Sin da subito, per quello che ci compete, occorre disporsi a dare battaglia qui in Occidente ed in Italia contro questa ennesima aggressione imperialista al solito ammantata di filantropia umanitaria, denunciando in particolare la funzione di chi la copre “da sinistra”. Funzione di rincalzo e di complemento alle cannoniere della democrazia imperialista (quelli, di RC e del PD, che vanno a issare la bandiera monarchica di re Idris sulla cancellata dell’ambasciata libica a Roma: “ecco la bandiera della Libia democratica”!!! – cfr. Il Manifesto del 26/02/11 –; quelli, la Federazione della Sinistra per bocca di Diliberto, che chiedono al governo di lavorare per un intervento dell’Ue in Libia: “l’Ue rompa gli indugi e intervenga prima che Tripoli sia ridotta ad un cimitero” – cfr. Agenzia TMNews 24/02/11 –; quelli che come lo showman Vendola sibilano alla TV: “...prego perché ciò avvenga” riferendosi al rilancio a Teheran dell’ “agitazione democratica” sulla stessa linea di una Emma Bonino autentica campionessa dei “diritti umani”...).
Né va omesso che il terremoto in atto ben difficilmente resterà circoscritto al mondo arabo-musulmano. Ciò è vero sia che il terremoto prosegua secondo il corso avviato in Tunisia/Egitto di un’insorgenza di massa sostanzialmente ostile all’Occidente e al Nord imperialista, sia invece che le consorterie borghesi e sotto-borghesi in guerra tra loro riescano a imbrigliare il protagonismo delle masse sfruttate di quei paesi proponendosi al servizio dell’imperialismo e favorendone il gioco.
I russi già temono per gli equilibri in Caucaso. Altri borghesi si aspettano che il continente africano intero sia investito da analoghi sommovimenti sociali. Inoltre, a rendere ancora se possibile più complesso il quadro che ci si para davanti, la campana a stormo che suona (in particolare con la caduta del regime “anti-imperialista” di Tripoli e se gli eventi dovessero prendere quella piega) rintocca non solo a Teheran. Rintocca sinistramente anche nella “lontana” Cuba, nella “lontana” Caracas, dove, certamente con tutte le differenze e particolarità dei casi, non è difficile immaginare quanto sia galvanizzato o possa galvanizzarsi dall’esito immediato degli eventi in corso un blocco sociale “di opposizione” che non è fatto solo di borghesi o piccolo-borghesi o aspiranti tali. Una massa sociale galvanizzata contro i “poteri tirannici” locali che, stando così le cose, minaccia di essere utilizzata in funzione apertamente pro-imperialista. Sicché gli stessi regimi non allineati all’imperialismo, da Teheran a Cuba, non possono rimanere fermi. Devono muoversi. Ma: in che direzione? Quale senso, quale contenuto dovrà, potrà assumere la loro resistenza alla pressione imperialista che si esercita da fuori e da dentro le rispettive frontiere?
Sugli stessi centri capitalistici dominanti, e quindi sul proletariato occidentale stesso, si riverbererà un tale terremoto sociale e politico, importando essi, insieme all’onda del disordine, i contraccolpi economici e il conseguente ulteriore minamento del proprio ordine sociale interno. Tutto un movimento di rimando e connessione reciproca che si trasmette se non con dinamica meccanica ed immediata, in tempi comunque stretti e ravvicinati. E con precipitosi svolti drammatici, ci azzardiamo a prevedere, per un paese imperialista come l’Italia, che, oltre a trovarsi geograficamente nel mezzo dello sconquasso, vede “una parte integrante del proprio sistema economico” travolto dal disordine.
I borghesi italiani, in tutte le loro frazioni, ne hanno ben donde di essere più che preoccupati per la sorte “dei nostri interessi” nel paese che un tempo essi chiamavano “quarta sponda” e su cui, giusto un secolo addietro (1911-2011), andarono a mettere le mani, mentre ora qualcuno (a parte il popolo libico stesso) minaccia di soffiarglielo. Leggiamo dal giornale della Confindustria (23/02/11): “In Libia gli appetiti e gli interessi internazionali sono molti. I servizi americani, per esempio, da tempo hanno condotto doppi e tripli giochi per conquistare consensi e quote di potere libico, a cominciare da quello economico. Un’azione che colpisce in linea diretta la presenza italiana nello stato di Gheddafi”.
Ciò sia detto mettendo qualche miglio di distanza tra noi e quanti “da sinistra” pensano di utilizzare contro l’intervento militare “americano” e “della Nato” l’argomento che esso sarebbe foriero di sottrarre terreno ai “nostri” interessi economici in Libia e nel Nord-Africa. I più fetenti di costoro coerentemente sponsorizzzano subito dopo, sempre “da sinistra”, l’intervento, anche apertamente militare, dell’Italia, foriero esso invece di “democrazia” a favore dei “patrioti libici”. Chi non ricorda i filistei di “sinistra” che al governo nel 1997 approvarono l’intervento militare “umanitario” in Albania e lo giustificarono dicendo che serviva a tenere lontani gli americani da quel paese (insomma: ci andiamo noi, affinché non ci vadano loro – quando si dice la “missione umanitaria”–)?
Noi diciamo sin d’ora “GIU’ LE MANI DALLA LIBIA!”, siano queste mani degli imperialisti americani o italiani, e innanzitutto di quelli italiani a noi compete di dire, si muovano essi in dichiarata combutta o in aperta concorrenza con i primi, poco cambia. Noi diciamo “GIU’ LE MANI IMPERIALISTE DALLA TUNISIA, DALL’EGITTO, DALL’INTERO NORD-AFRICA E MEDIORIENTE!”.
Lo diciamo indicando chiaramente nelle masse proletarie e sfruttate sia del Nord-Africa aggredito e sia dell’Occidente e dell’Italia aggressori i naturali potenziali protagonisti della risposta nostra contro l’aggressione.
Risposta da organizzare qui e lì, da collegare e unificare contrastando e superando le attuali sordità e indifferenze o peggio l’idea che sia interesse dei lavoratori dei paesi imperialisti “stabilizzare” la Libia con la “guerra umanitaria” portata dai “nostri” eserciti.
Solo in tal
modo potremo insieme sconfiggere l’imperialsimo, fermarne
l’aggressione.
10 marzo 2011