nucleo comunista internazionalista
note






La riunificazione dei cocci
di una “nuova sinistra” vecchissima.
Tutti insieme appassionatamente…
con i carnefici della ex-Jugoslavia



Dopo Sinistra Italiana (il grosso di SEL più la prima pattuglia di fuoriusciti dal PD -Fassina, D’Attorre-), abbiamo contato i “civici” del Brancaccio e poi quelli di piazza Santi Apostoli, dove Pisapia, incassata l’indisponibilità di Renzi per interlocuzioni “alla pari” con chicchessia della costituenda “nuova sinistra”, ha infine sciolto le sue riserve varando “Insieme”… insieme alla seconda e più consistente pattuglia di fuoriusciti dal PD, quelli che con Bersani e D’Alema avevano nel frattempo dato vita a Movimento Democratici e Progressisti. Chi ha stomaco può provare a leggere la diarrea di parole rovesciata ogni giorno sul manifesto da quanti si provano a delineare i contorni della “nuova sinistra”, che, secondo i voti del quotidiano comunista, dovrebbe unire innanzitutto Insieme (Mdp/Campo Progressista) con Sinistra Italiana e con quelli del Brancaccio, agganciando a seguire Possibile di Civati (primissimo fuoriuscito in solitaria dal PD), e si vedrà infine cosa fare con Rifondazione Comunista (che tira a unirsi con SI e “civici”). L’ex SEL è spalmata in tutte le conventicole citate: i più in SI con Fratoianni, Scotto scisso e confluito in Mdp, Smeriglio aggregato da un pezzo a Pisapia… senza dimenticare Migliore, finito direttamente nel PD.

Il “programma unitario” della “nuova sinistra”


A leggere A. Florida sul manifesto del 4/07/17, l’unità di Insieme, SI e “civici” sarebbe a portata di mano. Per Florida “i richiami ascoltati al Brancaccio” e i “discorsi di Santi Apostoli” integrano quella ”piattaforma programmatica condivisa” che tutti invocano come precondizione per la “prospettiva unitaria”. Quanto allo “schieramento” del “soggetto unitario”, D’Alema avrebbe centrato la quadra: anche i più proiettati verso un’idea di “centro-sinistra” devono prendere atto che, dopo la scissione pesante di Mdp, le prossime elezioni saranno per forza di cose “un terreno di scontro molto aspro” con il PD di Renzi; nulla toglie, però, che, se ”la sinistra” avrà conseguito sufficienti voti, si potrà poi “contrattare con il PD un possibile programma di governo”. Soluzione digeribile per quelli del “mai più con il PD di Renzi”, e per quegli altri che all’idea di “centro-sinistra” non rinunciano, sperando di potersi alleare con un PD senza Renzi, azzoppato dal voto. Ma quale sarebbe il famoso “programma comune”? A leggere Florida “la Costituzione” è “l’asse politico-culturale e programmatico della sinistra” (e questi sarebbero i “richiami” del Brancaccio…) corroborato dalla “radicale discontinuità con le politiche seguite dal PD di Renzi” (… e questi sono invece i “discorsi” di Santi Apostoli). E se qualcuno osservasse che a questa stregua il “programma” risulterebbe fin troppo vago, Florida è pronto ad aggiungere: “lotte alle disuguaglianze, diritti e dignità del lavoro, politiche economiche neo-keynesiane, difesa dell’universalismo dei diritti alla salute e all’istruzione, valorizzazione dei beni comuni”. Ecco la “prospettiva unitaria”! Tutti i giorni questi signori declinano il vuoto, che -attenzione!- non significa assenza di programma, ma sostanziale accettazione dell’agenda del capitale non minimamente messa in discussione da siffatte fumosità costituzional-riformistiche. Il quotidiano comunista, poi, raccoglie diligentemente lo sciocchezzaio di formulazioni pseudo-programmatiche, cui mostra di non credere lo stesso trombone “neo-sinistro” che le verga, e cui soprattutto non potrà mai credere quel proletario che, ascoltando per caso una proposta meno evasiva che in ipotesi potrebbe interessargli, alzi lo sguardo a misurare il pulpito da cui gli proviene. Vero è che di un effettivo programma politico (figuriamoci poi di un programma orientato da uno spirito di classe) tutti costoro se ne strafottono, essendo interessati a calcoli elettorali -non facili nella situazione data, possiamo riconoscerglielo- e conseguenti slogans di servizio a tal fine. Il “nuovo” che tutti costoro premettono a qualsivoglia riedizione di “sinistra” sta a significare la preventiva abiura, quanto a programmi e forme organizzative, dei “vecchi ed obsoleti canoni della sinistra ottocentesca”, il che sta a dire del programma di classe e della “forma partito” (vero incubo per tutti costoro, che a ogni passo “unitario” premettono la preservazione della propria indiscussa autonomia, del pluralismo delle diverse sensibilità e quant’altro…). Ricordate la Rossanda che, lamentandone l’assenza totale, voleva “rimettere negli impianti teorici un po’ di Marx e anche di Lenin”, ma per carità “non tutto” e men che meno “la violenza e la dittatura del proletariato”? Vero è che anche i più “sinistri” non osano spingersi più in là di un’attenzione umanitaria per gli svantaggiati nella società capitalistica, contro la quale non mettono in conto né rotture rivoluzionarie né effettiva lotta di classe, limitandosi a una lamentosa petizione morale tutta interna all’attuale sistema, le cui punte di asprezza sarebbero da bilanciare in stile keynesiano con alcune ricadute welfaristiche a favore di chi “resta indietro”. A dispetto della continua evocazione della questione sociale, è proprio il conflitto (“ottocentesco”) tra lavoro salariato e capitale, tra socialismo e capitalismo, che non deve essere portato in avanscena, né tantomeno promosso. Parlare di operai non paga elettoralmente (un tal Salinari lo aveva già scritto alla lettera). In primo piano vanno messi altri temi: l’ambiente, la violenza contro le donne, i diritti civili, le tematiche gender, le stepchild adoption… .. Si evocano anche tematiche giuste, ma assolutamente disorganiche, declinate come singole istanze piccolo-borghesi, nella rigorosa assenza di una visione generale e -va da sé- di una alternativa di sistema al capitalismo. Il richiamo alla Costituzione si presta benissimo a questa melassa. Secondo alcuni sognatori, nella Costituzione antifascista sarebbero sparsi “semi di socialismo”… in un terreno -aggiungiamo noi- socialisticamente sterile, dove sono radicate innanzitutto le colonne portanti dell’ordine borghese e capitalistico. Chiunque può leggere nella Costituzione ciò che più gli aggrada, e i “nuovi sinistri” vi trovano per questo il proprio programma già bello e scritto: tante belle formule universalistiche di diritti e uguaglianza per tutti… in un solido impianto che non ammette deroghe alle leggi del capitale. Sarà un caso se la vittoria del 4 dicembre “per difendere la Costituzione dalle manomissioni di Renzi” se la sono intestata innanzitutto le destre, come a nostro giudizio è confermato dall’andamento delle amministrative, vinte dal centro-destra? Quanto alla “discontinuità con Renzi”, siamo al ridicolo. La discontinuità che possono rivendicare D’Alema, Bersani e compagnia può riferirsi solo e unicamente al personaggio Renzi (nel senso di volerlo far fuori per prenderne il posto), datosi che stiamo parlando di quanti negli ultimi 20 anni e passa hanno condiviso e condotto dalle massime cariche istituzionali tutte le politiche antiproletarie più odiose in ossequio ai diktat del capitalismo imperialista del “proprio paese” (dalle leggi che hanno precarizzato il lavoro, alle continue riforme pensionistiche compresa la Fornero del governo Monti da essi sostenuto, alle guerre neo-coloniali contro i paesi del Sud e dell’Est del mondo con la Jugoslavia fiore all’occhiello del premier D’Alema, etc. etc.). Costoro hanno votato il jobs act, sostengono il governo Gentiloni, e ora cianciano di discontinuità con Renzi! Sono usciti dal PD non per quello che dice Speranza (restituire centralità alla “questione sociale e del lavoro”, già messa al centro nel senso che ben evidenziano le leggi dei governi Monti, Letta e Renzi da essi tutte approvate), ma perché hanno inteso che Renzi è intenzionato a non concedergli nulla, nel PD e fuori dal PD, costringendoli a giocarsi l’ultima carta della propria sopravvivenza politica.

Il disegno di Renzi: un deciso spostamento a destra
dell’asse della politica nazionale


Checché ne dicano i cialtroni che esaltano “da sinistra” la vittoria del NO al referendum costituzionale, il passaggio in atto, introdotto dall’esito del referendum costituzionale, segna un deciso spostamento a destra dell’intero asse della politica nazionale. Il tentativo (l’ennesimo) di mettere in piedi una “nuova sinistra” (questa volta a più larga partecipazione) avviene in un contesto in cui Renzi, dopo aver conquistato ciò che resta del fu-PCI, procede con determinazione verso la cancellazione di ogni residuale pseudo-“sinistra” dentro e fuori il PD, proiettando il suo partito decisamente a destra, non esclusa una Grosse Koalition in piena regola (in tal senso i tentennamenti di Pisapia sono quelli di una “sinistra” che giustifica il suo disperato ancoraggio al PD come tentativo estremo di prevenire più sostanziose virate a destra di Renzi e del quadro politico generale; il che non cambia il dato di un generale risucchio a destra cui i “sinistri radicali” non sono stati in grado di opporre nulla). Renzi ha fallito nel realizzare le cosiddette riforme, ma procede a passo spedito verso un’operazione ancora più complessa (che altri, ad esempio Napolitano, potevano non ritenere strettamente necessaria): azzerare in Italia ogni reminiscenza residua di una sinistra di (lontanissima) derivazione terzinternazionalista, cancellarne la storia avendo preso in mano il timone di comando dei resti del partito che fu (oltre al danno la beffa…) per “rifondarlo” a destra e occupare la scena politica con un partito nuovo che non ha più ponti di collegamento con il suo passato. Il partito di Renzi non assomiglia neanche alla vecchia DC, adusa al consociativismo interno degli accordi tra le diverse correnti, perché qui è solo la corrente di Renzi e Renzi stesso a tenerne le redini. Il tentativo allude piuttosto a un partito di stampo anglosassone, che, senza trascorsi decisivi che lo colleghino alla storia del movimento comunista mondiale, occupi “a sinistra” l’intero campo politico della borghese democrazia, così garantendo ai massimi livelli la stabilità politica del capitalismo (questo è il disegno in corso: il che non toglie che barano clamorosamente quanti trovano comodo associare le compagini di PD/MDP sic et simpliciter alla “socialdemocrazia”, omettendo di dire che è il corso politico inaugurato dalla svolta di Salerno in un partito già aderente alla Terza Internazionale e con un seguito proletario di tutto rispetto a concludersi in modo pietoso con D’Alema/Bersani prima e con Renzi poi -non è una differenza irrilevante per quanti non intendano negarsi all’infinito alla necessità di un bilancio serio sulla svolta del 1944!-). In tal senso con Renzi siamo oltre lo stesso disegno di Veltroni, il leader che più di ogni altro ha anticipato Renzi nel rifiuto delle coalizioni a sinistra, e che oggi alza anch’egli la sua voce critica. Ma Renzi tira dritto: in uno scenario bipolare il veltronismo senza accordi a sinistra era destinato alla sconfitta; ora Renzi gioca una partita a tre e può ben permettersi il lusso di non battere tutti al primo giro senza per questo restare fuori dai giochi decisivi (ma intanto asfaltando la “sinistra”, per rilanciare in futuro la sua partita una volta assodato che essa non è in grado di rialzarsi, e confidando soprattutto nella difficoltosa tenuta sui tempi lunghi dei Cinque Stelle). Un corso che comunque Renzi difficilmente riuscirà a lucrare pro domo sua, posto che, pur fatta terra bruciata a sinistra -anche con le leve del ”voto utile” e del “meno peggio” agitate davanti al supposto elettorato di riferimento-, resta il fatto che le cosiddette “sinistre” alla Obama/Clinton, Blair, Hollande… Renzi, con le loro politiche sfacciatamente allineate ai diktat dei poteri forti del capitalismo, preparano impetuosi ritorni delle destre DOC, che, coniugando la difesa aggressiva del capitalismo nazionale con promesse di tutela su queste basi delle classi lavoratrici (previa rinuncia a ogni rivendicata identità e istanza di classe), vanno raccogliendo ovunque le aspettative e il consenso di significativi pezzi del mondo del lavoro (gli esempi abbondano).

Dopo la “ri-affondazione”… non resta che San Corbyn


Giunti al convulso epilogo (e si vedrà il seguito…) di questa storia di infinite scissioni “a sinistra” (con non pochi ritorni contro-scissionistici a destra), confermiamo che l’unica “scissione” rispondente al posizionamento di settori proletari disposti a tenere il campo contro la smobilitazione di classe è stata quella di Rifondazione Comunista del 1991. Le scissioni dei nostri giorni attengono con ogni evidenza al mero riposizionamento di pezzi di ceto politico rottamati da Renzi, ed è per noi disgustoso sia il tentativo degli scissionisti ex PD di rifarsi una verginità “di sinistra”, sia l’afflato unitario con il quale stanno lì ad accoglierli gli scissionisti del 1991, che peraltro li hanno sempre rincorsi in questi anni accettando ogni compromesso pur di potersi rivendicare “forza di governo” (se non a livello nazionale, almeno nei governi locali). A differenza dei brancacci di oggi, la scissione del ’91 si avvalse di una significativa partecipazione proletaria con discreti coefficienti di militanza e organizzativi disposti a non abbandonare il campo. La sostanza non era quella di salvare alcune poltrone d’oro, ma di reagire alla deriva della leadership del PCI, che, approssimandosi l’appuntamento con il governo del paese (archiviata la “conventio ad excludendum”), si sottoponeva a congruo make up gettando alle ortiche i simboli del comunismo, dopo averne sostanzialmente abbandonata da tempo la prospettiva. Nell’arco temporale successivo questi coefficienti sono stati purtroppo bruciati nel peggiore dei modi da una leadership incapace di avviare un bilancio serio sul corso politico che aveva portato alla Bolognina, epilogo inscritto nelle premesse della svolta di Salerno. Per opporsi alla Bolognina sarebbe stato necessario riorientare le forze in campo verso il programma di Livorno ’21 (e infatti: o programma del capitale -più o meno mascherato dietro fumisterie riformistiche- o programma del comunismo rivoluzionario, tertium non datur). La leadership del PRC ha inteso opporsi alla Bolognina nel segno della ripresa di un togliattismo “duro”: un controsenso e un’illusione! Perché la prospettiva di una lotta riformista entro l’orizzonte del capitalismo poteva darsi e si è data all’interno della fase affluente del capitalismo, dove, mettendo in campo organizzazione di classe e lotte riformistiche reali, si potevano strappare margini di redistribuzione a favore del proletariato. Nell’attuale scenario di crisi questa possibilità è venuta meno, e l’accettazione del capitalismo e delle regole della democrazia (la sostanza di quella svolta) relega la “sinistra” a insignificante “coscienza critica” del capitale, dalla cui crescita -presuntamente infinita- attendersi impossibili ricadute welfaristiche tutte interne all’ipnosi riformistica che mal si concilia con i tempi storici. A ciò si è aggiunta la consegna dell’abbandono del “partito di tipo militare” -Bertinotti dixit-, anch’esso “di vecchio e superato stampo ottocentesco”, per una leadership proiettata a condividere le massime responsabilità istituzionali con PDS/DS e altri campioni ex-demoscristiani (compreso il rospo Dini…), che non a caso si sentiva intralciata dalla partecipazione della residua organizzazione delle sezioni del vecchio PCI (ribattezzate “circoli”), da liquidarsi in funzione del cosiddetto “partito leggero”… cioè delle mani libere nella partecipazione ai governi di centro-sinistra e relative politiche antiproletarie. Il continuo lamento di un’impossibile “svolta” -istituzionale!- “a sinistra” restava inevaso, per un Prodi che applicava il programma dato considerando “mero folklore” quelle lamentazioni. I cossuttiani si rivelavano “governisti” fino in fondo, non staccandosi neanche dal governo D’Alema che capitanò i bombardamenti occidentali sulla Jugoslavia (vergogna incancellabile, che ricade anche su quanti, allora fuori da quel governo, oggi stringono le mani sporche di sangue ai carnefici del 1999!!). Infine i gruppetti trotzkisti davano al tutto una ridicola parvenza di classismo, impedendo una chiarificazione politica in tempi utili, salvo il saltar giù dal bastimento -ormai vuoto- un minuto prima dell’affondamento finale. In sintesi l’odierna ricucitura del PRC (SEL per ora, per Acerbo/Ferrero si vedrà) con gli “svoltanti” della Bolognina avviene quando la “rifondazione” ha ri-affondato e disperso un cospicuo patrimonio di energie proletarie... Non rimane a costoro che invocare i santi Corbyn e Sanders cui da ultimo si raccomandano tutti i “nuovi sinistri” in ritiro di preghiera per non sparire alle prossime elezioni politiche. Un’invocazione che lascia il tempo che trova, perché la storia della sinistra in Italia è molto diversa da quella della sinistra nei due paesi anglosassoni, in relazione alla quale, tutt’al contrario di quel che è dato per D’Alema, Vendola e quant’altri sperimentati servi del capitalismo e/o inesistenti rappresentanti dei lavoratori nei governi da essi partecipati, Sanders e Corbyn vantano qualche chance per proporsi come “fattore di novità” sulla scena politica dei rispettivi paesi (il che non significa reale valenza di classe dei programmi da essi agitati). Entrambi hanno catalizzato partecipazione e voti con una critica aperta alla leadership dei rispettivi partiti, agitando contenuti a favore delle classi più colpite un tantinello più semplici e concreti rispetto alle nebbiose declamazioni costituzionalistiche in voga da noi. In tal modo sono riusciti a intercettare in misura più o meno significativa la rabbia di quanti sono disgustati alle politiche antiproletarie dei vari Blair, Obama, Clinton, identificati come leadership asservite ai poteri forti del capitalismo. Novità -e relative aspettative- che, non dubitiamo, verrebbero drasticamente ridimensionate una volta messe alla prova di governo. Mentre nell’attuale profonda assenza di riferimenti per un programma e un protagonismo di classe, c’è un filo che lega il voto proletario per il Brexit (o a Trump) a quello dato a un Corbyn, se egli promette più Stato sociale contro l’austerità della May. Il proletariato, incalzato dalla crisi, cerca in ogni direzione ritenuta utile la soluzione dei propri problemi. Difficilmente, noi crediamo, darà ancora fiducia ai pifferai della nostrana “nuova” -vecchissima- “sinistra”.

Rilanciare la prospettiva di classe


Purtroppo il ri-orientamento di forze in direzione del programma di classe latita ben oltre il recinto dei tronconi sparsi della ex-sinistra istituzionale che fu (cosa questa che si poteva dare per scontata). La più gran parte dei raggruppamenti collocati più a sinistra, pur condividendo sulle generali quanto scriviamo sulla “nuova sinistra”, a conti fatti sono ad essa allineati su più di un punto essenziale: nell’enfasi balorda sulla presunta vittoria del “NO sociale” al referendum costituzionale del 4 dicembre (e come mai dopo cotanta vittoria il movimento di classe nei mesi successivi ha continuato -purtroppo- a languire?), e a seguire sulla “difesa della Costituzione”, la trincea più avanzata “da difendere” per una sinistra “estrema” colpita anch’essa in profondità dal risucchio di forze al centro e a destra di cui abbiamo detto più sopra. Al tempo stesso vediamo in corso altri ricongiungimenti singolari: nella piattaforma Eurostop -l’area più politicamente strutturata della “sinistra conflittuale”-, i compagni della Rete dei Comunisti, che ricordiamo in campo contro l’aggressione del “nostro” imperialismo alla ex-Jugoslavia, vanno a braccetto con gli epigoni del partitino cossuttiano che invece faceva parte del governo D’Alema, che, insieme ai partners occidentali e alla NATO, bombardò per 90 giorni la Serbia e il Kosovo (quando si dice la coerenza di chi rivendica l’esclusiva sui tre NO a Euro, UE e NATO!!!). Va da sé che su queste basi (l’esaltazione di un NO sociale che nella realtà guarda alla destra politica, il costituzionalismo democratoide -inconsistente quale che sia il contesto più o meno pseudo-“sinistro” che lo propone-, la legittimazione di figuri che hanno condiviso da postazioni di governo l’aggressione imperialista alla Jugoslavia) il ri-orientamento di classe è escluso. Infatti Eurostop neanche si pone il problema, preferendo scantonare nella demagogia dell’antieuropeismo, un sostitutivo in voga che nella crisi del capitalismo scansa la necessità della ripresa del programma di classe e su Italexit e in generale prepara il terreno alle destre. Ai compagni che condividono la sostanza profonda di questi spunti di analisi, noi diciamo che a tutte le ri-affondazioni di energie proletarie e della prospettiva del comunismo, oggi come ieri, è necessario opporre il programma e la prospettiva di classe. Le nostre più che modeste forze sono in campo per questo.


19 luglio 2017