Da lungo tempo è in atto una violenta e costante campagna contro gli scioperi nei trasporti pubblici. Sono sempre più frequenti i “servizi” televisivi sui poveri utenti ostaggio di manipoli di facinorosi “garantiti” che ostacolano il diritto alla mobilità del cittadino e che mettono in ginocchio la nazione.
Nel corso degli anni erano già state introdotte delle limitazioni agli scioperi (fasce orarie “sociali”, periodi di vacanze etc). La legge 146 del 1990 aveva pesantemente condizionato questa forma di lotta nei servizi essenziali ed era stata poi rivista dieci anni più tardi con peggioramenti per i lavoratori e con l’introduzione di una Commissione di Garanzia con competenze conciliatorie ora anche obbligatorie. Ora, puntando contro la tornata di scioperi dei lavoratori Alitalia, il governo cerca di introdurre ulteriori limitazioni che bloccherebbero nei fatti la possibilità e/o l’efficacia degli scioperi stessi.
Il disegno di legge delega “per la prevenzione dei conflitti collettivi di lavoro” approvato a fine febbraio dal governo Berlusconi, prevede uno o più decreti legislativi (da emanare entro un anno) diretti a limitare il diritto di sciopero nel settore dei trasporti e dei servizi pubblici essenziali. Peraltro la valenza del disegno di legge è più generale e la sua azione infausta si estende ben oltre i settori citati, prevedendo il “divieto di forme di protesta o di astensione dal lavoro in qualunque attività o settore produttivo che, per la durata o le modalità di attuazione, possono essere lesive del diritto alla mobilità e alla libera circolazione”.
Si comincia dunque dai trasporti e dai servizi essenziali, ma non ci si ferma lì. Confindustria, infatti, già chiede l’estensione delle nuove regole al settore privato. Un attacco, dunque, che colpisce tutti i lavoratori, laddove la crisi rischia di mettere in gioco la ripresa del conflitto dei lavoratori e la lotta operaia.
Ma vediamo, in breve, quali sono i punti del disegno di legge.
E’ prevista l’introduzione di una “soglia di rappresentatività” superiore al 50% dei lavoratori per le organizzazioni sindacali che intendono proclamare lo sciopero. In ciò il disegno di legge ricalca i contenuti dell’accordo separato “per la riforma della contrattazione” sottoscritto lo scorso 22 gennaio da governo e padroni con Cisl–Uil e Ugl che prevede –“per la contrattazione di secondo livello nei servizi pubblici locali”– il criterio “dell’insieme dei sindacati, rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono proclamare gli scioperi al termine della tregua sindacale”.
In mancanza della “soglia di rappresentatività” necessaria, il sindacato che vuole indire uno sciopero deve avere un grado di rappresentatività almeno superiore al 20%. Con tale soglia può indire un referendum –“preventivo obbligatorio”– tra i lavoratori e solo con il voto favorevole del 30% di essi alla fine potrà dichiarare lo sciopero.
Peraltro l’introduzione di tutti questi paletti serve, all’immediato, a colpire i lavoratori dei sindacati di base, più combattivi (che hanno, per l’appunto, una significativa presenza nei trasporti). Ma nel mirino ci sono anche i lavoratori della stessa Cgil, se quest’ultima – laddove la sua rappresentatività è inferiore a quanto stabilito dal disegno di legge– non concorda i suoi passi con Cisl e Uil. Da qui ne consegue che ogni iniziativa che non sia assunta “unitariamente” dalle tre confederazioni è nei fatti ostacolata e vietata.
Ma i paletti frapposti non sono finiti. Serviranno infatti:
– l’adesione preventiva da parte del singolo lavoratore (quindi l’azienda avrà il tempo di dissuadere il lavoratore e, in caso di mancato successo, di sostituirlo);
– l’introduzione dello sciopero virtuale (il lavoratore resta al lavoro ma con una fascia al braccio che indica il suo stato di malessere...): una vecchia idea della Uil che è destinata a diventare regola obbligatoria nei settori “delicati”. Non ci vuole molta fantasia per immaginare che, in tempi di crisi, ogni settore diventerà “delicato”. In presenza di una crisi aziendale, sarà “criminale” scioperare, mettere a rischio la sopravvivenza dell’azienda e quindi anche dello stesso posto di lavoro. Il passo dalla singola azienda... all’azienda Italia, poi, è quanto mai breve...;
– revoca dello sciopero con un congruo anticipo per evitare il cosiddetto “effetto annuncio”.
Ovviamente, tutto questo è fatto anche nell’ottica della necessità di adeguarsi alle norme europee, a conferma di come la borghesia agisca politicamente e attacchi i lavoratori come classe e forza internazionale. Ne prendano nota i lavoratori e facciano altrettanto se vorranno difendersi.
La Cgil è contraria. Epifani su il Manifesto del 28.02.09 si sfoga: “Mettere una cappa su un diritto di libertà, come è quello dello sciopero, è il segno che si vuole rendere più debole la capacità di rappresentazione e di risposta del lavoro, per rendere più forte quella della sua controparte: per noi questo non è accettabile”. Invece secondo il segretario della Cisl si tratta di “regole equilibrate, rispettose delle esigenze di ciascuno e della maggioranza dei lavoratori”.
Ma, al di là delle dichiarazioni ufficiali, da ogni quinta che si solleva si scoprono ambiguità che certo non ci sorprendono e che solo la lotta dei lavoratori potrà spazzare via insieme a tutti i protagonisti da commedia. A parte il dibattito che sarebbe in corso nel vertice Cgil per quanti non da oggi si dichiarano a favore della limitazione del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, la Cgil ha invitato Cisl e Uil ad un tavolo unitario per la definizione di una posizione comune in materia di democrazia sindacale “per superare il trauma dell’accordo separato del 22 gennaio sul modello contrattuale”. Intanto Sacconi scommette sul “ritorno” al tavolo della Cgil e la Rete 28 Aprile denuncia “trattative misteriose” –che vedrebbero partecipe anche la Cgil– sull’applicazione –fortemente voluta da Confindustria– dell’accordo del 22 gennaio (mentre sono in corso nei posti di lavoro le assemblee promosse dalla Cgil per respingerlo e quando nel settore degli alimentaristi è stata comunque varata –dopo l’accordo separato sulla contrattazione– una piattaforma unitaria tra Cgil–Cisl–Uil per il rinnovo del contratto di categoria).
I sindacati di base (Rbd, Cobas Sdl e Slaicobas) hanno organizzato dal canto loro un primo presidio dei lavoratori dei trasporti davanti al Ministero del Lavoro, a Roma, per protestare contro l’abolizione del diritto di sciopero.
Protesta sacrosanta, che non viene rafforzata dalle voci –levatesi anche dal presidio dei sindacati di base– che denunciano la “lesa Costituzione” dove “il diritto di sciopero è sancito”.
Chi per difendere i lavoratori pensa di richiamarsi alla costituzione di uno stato borghese e imperialista come l’Italia (che di questo senza ombra di dubbio si tratta, mentre la firma in calce di Terracini testimonia soltanto il carattere non comunista del Pci che la sottoscrisse) è destinato a ritrovarsi con un pugno di mosche in mano e privo di difese reali.
Ecco infatti schiere bipartisan di “costituzionalisti” a precisare che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.
Per non parlare del coro, sempre bipartisan, che assume piuttosto il “diritto costituzionale” “dei cittadini” alla libertà di circolazione e di movimento, per dire che i lavoratori in lotta sono fuorilegge e vanno “limitati” o repressi.
Se restiamo in questo ambito –quello della legalità borghese– è proprio la costituzione a imporre e garantire l’osservanza di leggi e disposizioni dello Stato che mettono in chiaro di quale sistema di reale oppressione capitalistica si tratti. L’odiosa limitazione del diritto di sciopero è quindi più che in linea e intonata al senso generale di un ordine di classe che la carta costituzionale consacra con enfasi ipocrita.
Mentre all’attacco in corso su questo versante si è aggiunto di recente il nuovo protocollo che disciplina le manifestazioni nella capitale, promosso dal sindaco Alemanno con il plauso di tutte le forze politiche e sindacali, Cgil compresa. (Non invece con quello dei lavoratori Telecom e di altre realtà minori, ai quali in questi giorni viene impedito di portare la propria protesta nel cuore di Roma sotto i palazzi dove altri decidono la loro sorte. Ma che importa? Essenziale è –lo dice il segretario regionale della Cgil Di Berardino– che sia stato affermato “il diritto dei cittadini tutti, quelli che sono costretti a manifestare per rivendicare diritti che sono stati loro negati e quelli che debbono contemporaneamente muoversi nella città”).
I lavoratori dunque, già attaccati dal governo e dai padroni sul terreno delle condizioni materiali di lavoro e di vita, vengono colpiti anche dalla riorganizzazione dello stato democratico e delle istituzioni capitalistiche in senso ancor più antiproletario con la quale si punta a dividerli ulteriormente e a scongiurarne ogni possibile, potenziale, unificazione della loro forza e della loro lotta.
Ciò anche in previsione delle fiammate sociali che potranno determinarsi a seguito all’approfondirsi della crisi... basti pensare ai licenziamenti dei lavoratori interinali e di quelli precari, ai tanti lavoratori sprovvisti di una rete di protezione sociale... quando il governo già preannuncia che “non tutti possono essere salvati”...
La stretta parte ora dai servizi pubblici. Un terreno propizio al governo e ai padroni, visto che “molti italiani sono favorevoli a limitare il diritto di sciopero, almeno nei trasporti. Non servono i sondaggi per saperlo. Un sacco di persone sono d’accordo con le peggiori cose attuate o progettate da Berlusconi.” Così da un’intervista a Luciano Gallino, sociologo (su il Manifesto del 28.02.09). Ed è vero!
Ma come mai anche degli operai (e non già degli indistinti “cittadini”) sono, tra questo “sacco di persone”, per la regolamentazione del diritto di sciopero?
Spesso il cattivo funzionamento dei servizi sociali e anche dei trasporti si abbina ad un aumento dei costi e si traduce e viene percepito dai lavoratori come una perdita di salario: quindi anche molti operai, “individualmente”, possono vedere nella riduzione degli scioperi in questo settore un vantaggio. Esso però è quanto mai illusorio, perché la “contropartita” è un indebolimento di una sezione del proletariato (i lavoratori dei trasporti), una ulteriore divisione in seno alla classe lavoratrice e quindi un indebolimento generale della stessa.
Attualmente i lavoratori sono confusi, frastornati. Una lunga tradizione riformista ed interclassista li ha imbevuti di veleni, che hanno potuto diffondersi tra i lavoratori quando il corso del capitalismo procedeva “senza eccessivi scossoni” e fintanto che potevano darsi lotte che riuscivano a spuntare risultati tangibili a un sistema capitalistico ancora in grado di farsi “strappare delle briciole”.
Ma ora la crisi inizia a mordere e cominciano a pesare come un macigno, per il protagonismo politico della classe proletaria, l’abitudine ad accettare delle limitazioni alle lotte e il cordone ombelicale che lega i lavoratori alle proprie aziende.
E’ un dato di fatto che, all’esito del ciclo espansivo seguito alle distruzioni della seconda guerra mondiale, i lavoratori non riescono a demarcare la propria lotta sulla difesa intransigente dei propri interessi di classe contro il capitalismo e lo Stato. Sono piuttosto realisti, il che vale per un riformismo operaio che nei tempi buoni ha garantito qualche risultato, ma che da qui in avanti è destinato ad essere scosso da mille amare verifiche (a cominciare dalla perdita dei “risultati” di ieri).
Ad oggi e ancora per lunghissimo tratto, piattaforme –in sé sacrosante– dove si richiedono, per la astratta coerenza di classe di chi le propone, aumenti salariali per tutti e maggiori per i peggio pagati, riduzioni generalizzate di orario, la stabilizzazione di tutti i precari, un salario di cittadinanza sufficiente ed adeguato, etc., nei fatti non sono credibili agli occhi della stragrande maggioranza dei lavoratori, che le vedono come irrealizzabili in questo sistema (figuriamoci poi in tempi di crisi).
Su questo “realismo” fa leva la proposta della Cgil, che si fa carico –in modo distorto– degli interessi dei lavoratori, perseguendo l’equilibrio – sempre più difficile e, in tempi di crisi – del tutto impossibile– tra questi interessi, che non può rinunciare a rappresentare, e le “compatibilità” di un sistema –il capitalismo– che non ha alcuna intenzione di mettere in discussione (figuriamoci di combattere). La proposta della Cgil si sintonizza sul sentire operaio che chiede soltanto “che ognuno faccia la sua parte” e “che tra padrone ed operaio vi sia una suddivisione equa dei sacrifici”.
Il fatto è che neanche questa “responsabile condivisione dei sacrifici” rappresenta una soluzione accettabile per il capitalismo. Lo si è visto con il governo Prodi, che tanto l’ha sbandierata nei suoi programmi.
Dunque, la stessa Cgil è portatrice di interessi operai che, per quanto “responsabilmente e realisticamente” portati in piazza, sempre più divengono inconciliabili con le esigenze del capitalismo. Mentre un’altra parte di quella stessa massa (quanti anche recentemente hanno scioperato con i sindacati di base) già dichiara, quanto meno, di voler contrastare sul piano della lotta l’attacco padronale e del governo.
La lotta, anche a dispetto dei limiti e delle debolezze di partenza, non sempre è facilmente arginabile, e, con le sostanze infiammabili disseminate ovunque dalla crisi, potrebbe in futuro divenirlo sempre meno. E’ in questo contesto che anche la “autoregolamentazione” tarata sul quadro precedente inizia a mostrare le sue crepe. Serviva e serve una –preventiva– stretta dall’alto. “Non potevamo stare a guardare tutti questi scioperi”: Sacconi dixit.
Peraltro il tentativo di limitare il diritto di sciopero, questa misura di reale attacco al mondo del lavoro, è proprio di una fase in cui il governo, lo stato, i padroni, nel pieno della crisi del capitalismo, nel caos della crisi economica e sociale di questo periodo, con gli appelli “alla nazione” indirizzano di fatto un richiamo –e monito– ai lavoratori perché facciano proprio il “necessario senso di responsabilità e di coesione nazionali”, con il leit motiv del “siamo tutti nella stessa barca” e quindi “ognuno faccia responsabilmente quanto di sua competenza”. (A dire il vero la borghesia si era già mossa per tempo in direzione del rinsaldamento della coesione sociale per rilanciare la forza competitiva del capitalismo nazionale: ad esempio con la reistituzione delle feste del 4 novembre e del 2 giugno, o con la pacificazione ex post tra le due fazioni del periodo bellico –partigiani e ragazzi di Salò: ricordate l’ex “compagno” Violante?–, che avevano una funzione, sia pur simbolica, in questo senso).
In questi primi passaggi della crisi i governi occidentali e i poteri capitalistici mondiali sono essenzialmente concentrati a puntellare il sistema della finanza mondiale con massicce misure di sostegno a banche e assicurazioni, mentre gli effetti della recessione produttiva si scaricano impietosamente sui tantissimi lavoratori messi sul lastrico nel volgere di poche settimane. Oggi la priorità dei governi è il sostegno alle banche che rischiano di fallire e alle grandi imprese che rischiano di chiudere, costi quel che costi a carico della classe operaia.
Ma in questo quadro non possiamo affatto escludere che nel prosieguo il proletariato possa trovare una parzialissima soddisfazione ai suoi bisogni nell’ambito di una politica sociale che possa essere rilanciata dall’ “intervento dello Stato”, non disgiuntamente –è per noi chiaro– dal rilancio di una politica imperialista che ne garantisca i margini attraverso la rapina ancora più aggressiva dei paesi occidentali a danno dei paesi dominati.
La crisi dello scorso autunno segna la fine di un ordine mondiale a dominanza occidentale e il passaggio a un ordine in tal senso post–occidentale che sarà ancor più spietato, perché la borghesia mondiale vorrà scagliare i proletari del mondo intero gli uni contro gli altri in una competizione ancor più feroce nel tentativo di salvare i suoi profitti.
Sono questi i contorni del cosiddetto “interventismo dello Stato” nei periodi di crisi, sia che esso assuma la forma di un nuovo new deal democratico, sia che assuma la forma di un nuovo fascismo. In entrambe le due versioni si tratta di politiche “statal–interventiste” a “fini sociali” che irreggimentano e predispongono l’intero corpo sociale e i proletari alla competizione sempre più spinta della nazione sul mercato mondiale. Entrambe –non solo la seconda– concorrono al finale esito della competizione di guerra, in vista del quale preparano il “fronte interno”. Chissà se questo è mai venuto in mente ai troppi che in questi mesi hanno iniziato a invocare “da sinistra” “l’intervento dello Stato” per un “nuovo new deal risolutore”?
Non ci riferiamo, sia chiaro, a scenari immediati, ma a quelli che potrebbero venire a maturazione nel procedere della crisi. Il che non significa che non sia necessario mettere le mani avanti sin dall’inizio (memori dei baratri già attraversati dal proletariato). Lo Stato infatti svolgerebbe allora la funzione di supremo regolatore del sistema, non indietreggiando neppure davanti alla necessità di tagliare le unghie rapaci di qualche singolo capitalista nei confronti dei lavoratori, pur di salvaguardare il benessere dell’intero sistema.
Ciò però accadrebbe –“e non è un piccolo particolare”– con una conseguenza disastrosa per il proletariato: diventare carne da cannone per la proiezione imperialista della propria patria all’estero, per la contesa che ha a oggetto la spartizione dei mercati mondiali, o, meglio, in questa che si dimostra come la peggior crisi del capitalismo drogato, per la distruzione –nella guerra di vaste dimensioni– di merci e di uomini non più in grado di valorizzare il capitale stesso.
Già in questa fase iniziale della crisi sono scomparse le tradizionali certezze dei lavoratori. Il governo lo ha già detto: “Non si potranno salvare tutti”. Sarà necessario quindi abituarsi alle conseguenze di quella che sarà, con la crisi, una ulteriore ristrutturazione del sistema: non più lavoro certo a tempo indeterminato, ma periodi alternati di lavoro, disoccupazione, formazione, accettazione obbligatoria di qualunque lavoro proposto, pena il perdere ogni sussidio...
E’ il modello della flexsecurity, già sperimentata in Danimarca. Da noi, più modestamente, abbiamo sperimentato la legge 30, che però “era imperfetta”. L’Eurispes l’aveva già detto –quando non si parlava ancora di crisi– che occorreva procedere oltre la legge 30 per una piena organizzazione flessibile del lavoro: per dare all’Italia gli strumenti per essere competitiva sul mercato internazionale; per “la difesa dei lavoratori” (?!); per la difesa delle aziende.
Insomma, alla fine, i lavoratori risultano essere sempre più una variabile dipendente dall’andamento dell’azienda e del mercato: in tempi di crisi appare sempre più evidente l’inconciliabilità tra gli interessi dei lavoratori e le compatibilità economiche nazionali.
Nessuna retorica pro–costituzione quindi. Rilanciamo l’iniziativa di classe,
contro la concertazione tra padroni e operai. Rilanciamo il programma e la
prospettiva di classe.
21 marzo 2009