nucleo comunista internazionalista
note




“OLOCAUSTI” IERI E OGGI
E “QUESTIONE EBRAICA”

Il nostro recente articolo sul “negazionismo” (“Contro il negazionismo antiproletario”) può aver suscitato varii tipi di reazione con cui siamo sempre pronti a confrontarci. La più stolida sarebbe quella che ci imputerebbe la pura e semplice negazione del ricorso nazista a soluzioni estreme contro gli ebrei, camere a gas comprese, sulle quali ci siamo limitati a dire che la cosa è dubitabile come presunto mezzo di “soluzione finale” premeditata, senza nulla togliere alla semplice constatazione degli orrori nazisti consumati a danno degli “incomodi” ebrei così come (però) di tutta un’altra serie di “indesiderabili” (a cominciare dagli odiosi comunisti e tutto un largo seguito) secondo una legge di guerra imperialista che di simili orrori ne ha accumulati da entrambi i campi in causa. Noi non siamo certo di quelli che ipotizzano che i nazisti si siano limitati alla “disinfestazione” dei pidocchi in campi ben attrezzati secondo tutte le buone regole umanitarie, anche se la stessa Croce Rossa internazionale, che ebbe modo di visitare i lager, l’abbia potuta lasciare per buona. Tutto qui.

Il Dino Erba da noi evocato per un suo intervento contro il “negazionismo” di Corrado Basile e dei suoi “autori” pubblicati nelle edizioni della fu-Graphos, sembrerebbe incline a considerare oggi qualsiasi studio in merito alle supposte camere a gas come un revisionista pro-nazista. Ce ne corre, per quanto anche noi troviamo piuttosto incomprensibile l’acribia con cui certi studiosi (del tutto insospettabili in materia di antisemitismo o addirittura di “filosterminonismo”, e parliamo di una certa “nostra” parte) si sono dedicati a smantellare la “menzogna di Ulisse” facendo, in qualche modo, astrazione dal problema d’insieme relativo all’esame della reale portata e dei reali mezzi di attuazione di una “politica” di sterminio generalizzato degli “indesiderabili” di cui disfarsi per le ovvie necessità militari imperialiste (vale per gli uni e per gli altri).

Tra i testi cui Dino Erba ci richiama è una tesi di laurea di una certa Daniela Rana che, in ben 260 pagine, ricostruisce con precisione (sino a un certo punto, perché quando si tratta dei “negazionisti” cosiddetti “bordighisti” il discorso fa acqua da tutti lati). La Rana in oggetto bene individua le matrici ideologiche di un certo negazionismo di destra, cui forse dispiacerà che Hitler non abbia adottato sul serio la “soluzione finale” di cui correntemente si parla. Ma è sintomatico che da nessuna parte della sua tesi ci sia una replica nel merito dei “fatti” su cui tale negazionismo fa leva. Questo ci ricorda un “dibattito” svoltosi a suo tempo sulle colonne della Storia Illustrata in cui dapprima Faurisson portava le sue “prove” negazioniste e in seguito interveniva in opposizione ad esso Enzo Collotti (uno studioso davvero esemplare sotto mille aspetti). Solo che la risposta del Collotti si riduceva più o meno a questo: tu neghi la realtà delle camere a gas quindi sei un pro-nazista, confesso o meno. Su questa strada non si va molto lontano.

E, naturalmente, la Rana applica lo stesso criterio ai supposti “negazionisti” bordighisti (con o senza virgolette). Tu, comunista internazionalista, banalizzi gli orrori del nazismo e lo fai perché non prendi le distanze tra i due campi (per noi parimenti imperialisti) in lotta, quindi neghi antifascismo e democrazia come “valori” antitetici (ce ne facciamo volentieri carico).

Sia ben chiaro: l’eventuale negazione, o la sua riduzione a fenomeni limitati e/o confinati alle fasi più stringenti della guerra, delle camere a gas non mette assolutamente in causa l’onta indelebile dell’antisemitismo nazista. Si tratterebbe “semplicemente” di non ridurre lo sterminio degli ebrei ad una sorta di unicum dell’orrore della guerra stessa di cui in nessun modo sarebbero deputati a farsi parte altri soggetti. Le perdite umane furono onnilaterali e, in molti lager, se ne registrarono sino al 90% degli “ospiti” anche senza il concorso di mezzi di sterminio straordinari. E ciò non solo nei lager tedeschi. In quelli russi, ad esempio, come attesta uno studio di Maria Teresa Giusti in Nuova storia contemporanea (novembre-dicembre 2000), dei 64.500 italiani imprigionati solo 21.800 poterono uscirne vivi e rimpatriare, e questo escludendo qualsiasi volontà “sterminazionista” ad hoc da parte dei sovietici, come onestamente annota l’autrice. E lì addirittura arriviamo al macabro: “Il cannibalismo vi era comunemente praticato (..) I rumeni detenuti nello stesso campo (di Tambov, n.) trafficavano carne umana tagliata dai cadaveri contro pane”. A chi metterlo in conto se non alla “logica” della guerra imperialista? E proprio questo è il fatto banalizzato da un certo “antifascismo” per non dire dalla propaganda dell’Olocausto come privativa ebraica.

Ora noi non siamo, per nostra natura, degli “archivisti”, ma ci capita sotto gli occhi un breve testo proprio dello stesso Dino Erba che sintomaticamente s’intitola A proposito della soluzione finale .

L’Olocausto fu premeditato? Un mito duro a morire, nonostante Gaza. Questo intervento ci trova largamente concordi, anche se – per paradosso – avremmo qualcosa da obiettare... “da destra”. Cioè: gli orrori di Gaza non possono essere assunti come “contraltare” di ciò che gli ebrei hanno dovuto sopportare da parte del nazismo, ossia come una sorta di “compensazione” preventiva di ciò che è imputabile allo stato d’Israele oggi, come malevolmente (e a torto) si potrebbe desumere dal titolo. Ciò per vari motivi. Il primo: a meno di condividere la bestialità nazistoide (Preziosi compreso) sulla intrinseca ed immutabile natura dell’“ebreo internazionale”, sempre eguale a se stesso come nemico della civiltà ariana, secondo un identico immutabile gene che va dai Rotschild ai Trotzkij, dal banchiere ipercapitalista “talmudico” al proletario “della stessa malefica razza”, occorre distinguere ebreo da ebreo, nel tempo e nello spazio, secondo categorie di classe e non, per l’appunto, di razza. Pertanto: l’attuale formazione borghese israeliana, con tutte le sue particolari ed abominevoli caratteristiche neocolonialiste, a tutto può essere ricondotta tranne che ad una supposta immutabile natura ebraica.

La questione ebraica è messa nella sua giusta luce marxista in due testi della Frazione di sinistra all’estero, pubblicati nel 1936 sulla rivista “Bilan” a firma Gatto Mammone (Virgilio Verdaro) proprio in relazione agli inizi dell’attuale questione palestinese, ma “prendendola da lontano” (in appendice ne pubblichiamo la traduzione italiana). E noi toto corde sottoscriviamo la conclusione cui già allora arrivava il Verdaro: “Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “ebraica” né una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fa parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivoluzione socialista”. Detto senza nulla nascondere delle difficoltà storicamente determinate di arrivare a questo obiettivo viste le condizioni materiali per cui allo stadio attuale gli sfruttati ebraici risultano incapsulati entro una visione sciovinista nazionale (o persino “razziale”, di stampo – ribaltato – nazista) e quelli palestinesi prigionieri di un’impotente visione di “liberazione nazionale” dello stesso – sia pur opposto – tipo consegnato nelle mani della “propria” borghesia legata mani e piedi alla dittatura imperialista.

Noi, dunque, non parliamo dell’“ebreo”, ma di borghesi e proletari ebrei in storico antagonismo di classe tra loro da portare sul piano della nostra prospettiva rivoluzionaria internazionale.

A questo punto, però, va detto qualcosa di più sulla composizione di classe dell’elemento ebraico secondo i tempi ed i modi della storia.

In un’intervista a Mondo Operaio (n. 7-8, luglio-agosto ’79) – rivista socialista certamente lontana le mille miglia da noi, ma non scevra di utili contributi documentari ed analitici, perlomeno sino alla sua liquidazione craxiana – un certo Luciano Tas introduce alcuni interessanti elementi di studio.

Scrive il Tas: “Quanto a Marx, egli era un tedesco. Non conosceva degli ebrei che la classe agiata di ricchi mercanti. E’ perciò comprensibile che identificasse nell’ebreo il borghese agguerrito che si affaccia alla società capitalista, più forte degli altri borghesi perché affinato da secoli di dure lotte per l’esistenza e dalla dimestichezza con il commercio e la finanza (...) ma ignora che oltre le frontiere orientali della Germania vivono milioni di ebrei la maggior parte dei quali non è nemmeno giunta alla condizione proletaria”. E, per far risaltare questo fatto, continua: “All’epoca di Alessandro III gli ebrei presenti in Russia e nel “Territorio di colonizzazione” erano più di 3 milioni. Verso la fine del secolo avevano superato i 5 milioni. In alcune città la popolazione ebraica raggiungeva il 75-80% della popolazione. A Varsavia, Odessa e Lodz un terzo della popolazione era ebraica, a Byalistock il 75%, a Minsk il 50, a Berlick l’80, a Vilna oltre la metà”, e in nessun caso si trattava di “borghesi agguerriti”.

Ci sono delle correzioni da fare. Marx non conosceva gli ebrei soltanto dall’angolo visuale tedesco (e ne è a testimonianza una messe di appunti in materia), né, rispetto a questo punto centrale per il suo lavoro, identifica l’ebreo in generale col “ricco mercante”. Di quest’ultimo può ben irridere quanto alla sua pretesa particolaristica ebraica, non trattandosi altro che di un borghese della specie capitalista universale (per quanto sottoposto all’odio dei concorrenti “ariani” per la spartizione del malloppo giocando sulla carta razziale). Ma, accanto ad esso, c’è il proletariato ebraico che Marx chiama, assieme al suo storico fratello tedesco di classe, alla lotta rivoluzionaria. E di ebrei di questa “razza” ce n’erano già allora ben molti, sparsi per tutta l’Europa, territori zaristi compresi.

Detto questo ci sta bene il richiamo alla concreta realtà del “Territorio di colonizzazione” e, nel prosieguo dell’intervista, il Tas illustra abbondantemente il percorso del proletariato, del semi-proletariato e di certe fette dell’intellettualità ebraica di esso verso il socialismo. E qui vi è tutta la storia del Bund, del menscevismo e del bolscevismo in cui questo sforzo si articola con tutte le complicazioni e contraddizioni del caso dovute alla pressione antisemita zarista. Onestamente il Tas riconosce in Lenin un campione della lotta all’antisemitismo e, insieme, dello sforzo di evitare le scorciatoie (sappiamo poi quanto pericolose!) di soluzioni “ebraiche” indipendenti dall’unità internazionalista di classe. E vi è successivamente tutto un capitolo sul rigurgito antisemita dello stalinismo sino al vagheggiamento di “una soluzione finale con la deportazione in massa degli ebrai nella regione del Birobigian” (nonché con più drastiche “soluzioni finali” per un’infinità di presunti “controrivoluzionari” ebrei”), così che Trotzkij viene dipinto come un “ebreo senza patria” (ed ancora nel 1970, 14 anni dopo il XX Congresso, si scriverà che “Trotzkij era un sionista, un tipico agente del sionismo, un provocatore internazionale numero uno”). Conclusione: “A più di 60 anni dalla rivoluzione del ’17, che ebbe tra i suoi quadri molti ebrei, così fra i bolscevichi come fra i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, la «questione ebraica» in URSS sembra tutt’altro che risolta”. Noi diciamo: e questo è nient’altro che il frutto della mancata soluzione del programma rivoluzionario comunista con tutti i necessari rigurgiti sciovinisti borghesi.

Nello stesso numero di Mondo Operaio appare un articolo del giornalista israeliano Alberto Nirenstein sulla rivolta del ghetto di Varsavia del gennaio 1943 (la “piccola rivolta” prima della gloriosa Comune di Varsavia), di cui riportiamo in appendice ampi stralci a dimostrazione di alcuni punti fermi sulla questione. Primo: da questo episodio si vede di quale fatta fosse la presenza dell’elemento proletario ebreo su frontiere di classe per quanto inficiate dalla mancanza di un coerente orientamento comunista internazionalista sotto l’influenza imperante dello stalinismo. Secondo: il Nirenstein constata a dovere, pur senza trarne le debite conclusioni, l’“indifferenza del mondo” (il mondo delle “democrazie antifasciste” e dello stesso stalinismo) nei confronti di questa rivolta di classe che osava dire a tutti i popoli circostanti: la nostra lotta è anche per voi, è la comune lotta cui vi chiamiamo per la “libertà” (ed era, nelle circostanze di allora, il massimo che ci si potesse immaginare come punto di partenza verso una soluzione comunista internazionalista cui erano state tarpate le ali da chi ben sappiamo).

Quando di lì a poco - nell'agosto del '44 - il proletariato insorse contro le truppe naziste, dando vita alla Comune di Varsavia,  la rivolta fu soffocata dalla complicità controrivoluzionaria delle forze statali “antifasciste” agenti, e dallo stalinismo in primo luogo. Come chiaramente sottolineato nell'articolo "Viva la Comune di Varsavia" - pubblicata da "La Sinistra Proletaria" il 28 ottobre 1944 e riprodotto in appendice - a nessuno degli stati “antifascisti” in guerra poteva tornare utile una Comune proletaria che parlasse per sé da un punto di vista di classe a differenza dell’“esistenzialismo” inquadrato nel loro gioco. Unica, monca, realtà provvisoriamente sottrattasi ad esso fu quella della resistenza jugoslava, dapprima subita obtorto collo dagli “alleati” per essere successivamente riassorbita grazie alla condanna cominformista del “titofascismo” e poi delle catene ad essa imposta dall’imperialismo USA-occidentale sulle ceneri dello “stalinismo anomalo”, nazional-borghese, del titoismo col suo “socialismo in un solo paese”, il proprio.

Ed arriviamo ad una conclusione.

Con la tragedia consumatasi nel corso della seconda guerra mondiale si è assistito all’amputazione di massa dell’elemento proletario ebreo. Il “risarcimento” in parte obbligato, in parte offerto dall’imperialismo ai sopravissuti si è concretizzato nell’esodo colonizzatore verso Israele. I residui del movimento “socialista” ebraico vi hanno “forzatamente” (intendiamoci bene sul significato del termine!) concorso tentando soluzioni meno forcaiole del rapporto arabi-israeliani sino a qualche sforzo di “fraternizzazione” (sub condicione) retrocedendo abbastanza celermente anche da esse per difetto proprio (il “sionismo buono”!) ed anche per il tipo di ostilità “antiebraica” del movimento di resistenza palestinese incapsulato entro le maglie di una direzione che non basta definire “inconcludente”. Gaza sta al termine di questo percorso a precipizio di cui sarebbe stolido incolpare il solo “sionismo” come fattore a sé stante. Da qui deve ripartire la prospettiva, oggi più che mai accidentata, cui richiamava Verdaro. E questo è quanto.

Torna utile in merito la conclusione cui arriva Ivo Sullam: “Lo sviluppo degli avvenimenti dell’ultimo decennio comprova che, a differenza dell’Intifada del 1987-1993 cui erano seguiti gli accordi di Oslo, il conflitto di classe non può trovare una soluzione su basi nazionali. Esso infatti supera il ristretto quadro dei rapporti borghesi /di conflitto/concorrenza/collaborazione tra le borghesie israeliana e palestinese) e sconta il fallimento storico del nazionalismo dell’OLP. Anzi, qualsiasi accordo raggiunto sulla costituzione di uno stato vassallo di Israele su parte della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, per il quale proseguono trattative più o meno segrete, non può che aggravare la situazione. Nel quadro nazionalistico, i lavoratori israeliani e palestinesi sono e saranno condannati a continuare a scannarsi: i primi sotto la bandiera dell’imperialismo sionista; i secondi dietro una borghesia pronta a qualsiasi compromesso per conquistare un posto sullo scacchiere mediorientale (e questo vale sia per gli affaristi arafattiani che per i loro concorrenti islamismi legati ai ceti possidenti interni e all’Arabia Saudita). Non si deve dimenticare poi che tanto la borghesia israeliana quanto quella palestinese utilizzano sempre l’odio nazionalistico e il fanatismo religioso per deviare e imprigionare il sollevamento delle masse immiserite; senza rinunciare a stipulare momentanei accordi, tregue tra un massacro e quello successivo, ma sempre fondati sull’oppressione del proletariato palestinese.” (Tenuto sempre presente – precisiamo noi – che la lotta del proletariato palestinese oppresso da Israele – in quanto tale, non parificabile alla situazione del proletariato israeliano soggetto di uno stato oppressore –, in nome della propria emancipazione nazionale, di un proprio stato, va sempre e comunque sostenuta come potenziale detonatore di una lotta di classe capace di fare i conti con la “propria borghesia” nella conduzione di essa e, attraverso ciò, di elevarsi alla soluzione cui il Sullam richiama. Senza salti ultimatistici richiesti all’una come all’altra parte. Solo a questa condizione possiamo pretendere, da comunisti internazionalisti, di indicare ai doppiamente oppressi, e di converso ai loro potenziali fratelli di classe israeliani, come uscire dal vicolo cieco di cui sopra).

6 maggio 2015



APPENDICE

L’articolo di Virgilio Verdaro

Il conflitto arabo-ebraico in Palestina

L’aggravarsi del conflitto arabo-israeliano in Palestina, l’accentuarsi dell’orientamento antibritannico del mondo arabo che durante la guerra mondiale fu una pedina dell’imperialismo inglese, ci ha indotto ad affrontare il problema ebraico e quello del nazionalismo panarabo. Tenteremo in questo articolo di trattare la prima di queste due questioni.

Si sa che dopo la distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani e la dispersione degli ebrei, i vari paesi nei quali questi emigrarono fino a che non furono espulsi dai loro territori (non certo per le ragioni religiose invocate dalle autorità cattoliche quanto per motivazioni economiche, leggasi la confisca dei loro beni e l’annullamento del loro credito), ne regolarono le condizioni di vita secondo la bolla papale della metà del 16° secolo che divenne regola in tutti i paesi, obbligandoli a vivere rinchiusi in quartieri recintati (ghetti) e costringendoli a portare un marchio infamante.

Espulsi nel 1290 dall’Inghilterra, nel 1394 dalla Francia, emigrarono in Germania, in Italia, in Polonia; espulsi dalla Spagna nel 1492 e dal Portogallo nel 1498, essi si rifugiarono in Olanda, in Italia e soprattutto nell’Impero Ottomano che occupava allora l’Africa del nord e la maggior parte dell’Europa del sud-est; là formarono e formano ancor oggi questa comunità che parla un dialetto giudeo-spagnolo, mentre quelli emigrati in Polonia, in Russia, in Ungheria, ecc., parlano il dialetto giudeo-tedesco (Yddisch). La lingua ebraica che resta in questo periodo la lingua dei rabbini fu tirata fuori dal regno delle lingue morte per divenire la lingua degli ebrei di Palestina con il movimento nazionalista giudeo attuale.

Mentre gli ebrei di Occidente, i meno numerosi, ed in parte quelli degli Stati Uniti, hanno acquisito una influenza economica e politica attraverso la loro influenza borsistica ed un’influenza intellettuale per l’elevato numero di quelli tra loro occupati in professioni liberali, le grandi masse si concentrarono nell’Europa orientale e già, alla fine del 18° secolo, costituivano l’80% degli ebrei dell’Europa. Con la prima spartizione della Polonia e l’annessione della Bessarabia, essi passarono sotto il dominio degli zar che, all’inizio del 19° secolo, avevano sui loro territori i due terzi degli ebrei. Il governo russo adottò fin dall’inizio, a partire da Caterina II, una politica repressiva, che trovò la sua espressione più feroce sotto Alessandro III che ipotizzava come soluzione del problema giudeo la seguente: un terzo deve essere convertito, un terzo deve emigrare ed un terzo deve essere sterminato. Essi erano rinchiusi in un certo numero di distretti di province del nord-ovest (Russia Bianca), del sud-est (Ucraina e Bessarabia) ed in Polonia. Erano queste le loro zone di residenza. Non potevano abitare al di fuori delle città e soprattutto non potevano risiedere nelle regioni industrializzate (bacini minerari e regioni metallurgiche). Ma è soprattutto tra questi ebrei che penetrò il capitalismo nel 19° secolo e che si determinò una differenziazione in classi.

Fu la pressione del terrorismo del governo russo che diede il primo impulso alla colonizzazione palestinese. Tuttavia i primi ebrei ritornarono in Palestina già dopo la loro espulsione dalla Spagna alla fine del 15° secolo e la prima colonia agricola fu costituita presso Jaffa nel 1870. Ma la prima emigrazione seria cominciò solo dopo il 1880, quando la persecuzione poliziesca ed i primi pogrom determinarono una emigrazione verso l’America e la Palestina. Questa prima “Alya” (immigrazione ebrea) del 1882, detta dei “Biluimes”, era in maggioranza composta da studenti russi che possono essere considerati come le pedine della colonizzazione giudea in Palestina. La seconda”Alya” si verificò nel 1904-05, a seguito dello schiacciamento della prima rivoluzione in Russia. Il numero degli ebrei stabilitisi in Palestina, che era di 12.000 nel 1850, salì a 35.000 nel 1882 ed a 90.000 nel 1914.

Erano tutti ebrei russi o rumeni, intellettuali e proletari, perché i capitalisti ebrei dell’Occidente si limitarono, come i Rothschild e gli Hirsch, ad un sostegno finanziario che dava loro anche un benevole alone di filantropia, senza dover mettere a disposizione la loro preziosa persona.

Tra i “Biluimes” del 1882, i socialisti erano ancora poco numerosi, e ciò perché nel dilemma dell’epoca, cioè se l’emigrazione degli ebrei dovesse essere diretta verso la Palestina o l’America, loro parteggiavano per quest’ultima. Nella prima emigrazione giudea verso gli Stati Uniti, i socialisti furono dunque molto numerosi e vi costituirono subito delle organizzazioni, dei giornali e praticamente anche dei tentativi di colonizzazione comunista.

La seconda volta che si pose la questione di decidere verso dove dirigere l’emigrazione ebrea, fu, come abbiamo detto, dopo la sconfitta della prima rivoluzione russa ed in seguito all’aggravarsi dei pogrom come quello di Kitchinew.

Il sionismo che tentava di assicurare al popolo ebreo un territorio in Palestina e che aveva costituito un Fondo Nazionale per acquistare le terre si divise, all’epoca del 7° Congresso sionista di Baie, in una corrente tradizionalista che restava fedele alla costituzione dello Stato ebreo in Palestina e in corrente territorialista che era per la colonizzazione anche altrove, e nello specifico nell’Uganda, offerta dall’Inghilterra.

Solo una minoranza di socialisti ebrei, i Poales sionisti di Ber Borochov, restarono fedeli ai tradizionalisti, tutti gli altri partiti socialisti ebrei dell’epoca, come il partito dei socialisti sionisti (S.S.) ed i Serpisti – una specie di riproduzione negli ambienti ebrei degli Socialisti Rivoluzionari russi – si dichiararono per il territorialismo. La più antica e la più potente organizzazione ebrea del mondo dell’epoca, il Bund, era, come si sa, tutt’altro che contraria alla questione nazionale, per lo meno a quell’epoca.

Un momento decisivo per il movimento di rinascita nazionale fu aperto dalla guerra mondiale del 1914, e dopo l’occupazione da parte delle truppe inglesi della Palestina, alle quali era collegata la Legione ebrea di Jabotinsky, fu promulgata la dichiarazione di Balfour del 1917 che prometteva la costituzione in Palestina del Nucleo nazionale Ebreo.

Questa promessa fu sancita alla Conferenza di San Remo del 1920 che pose la Palestina sotto mandato inglese.

La dichiarazione di Balfour provocò una terza “Alya”, ma fu soprattutto la quarta, la più numerosa, che coincise con la rimessa del mandato palestinese all’Inghilterra. Questa “Alya” ebbe al suo interno numerosi strati di piccolo borghesi. Si sa che l’ultima immigrazione in Palestina, che seguì l’avvento al potere di Hitler e che è certamente la più importante, era composta già da una forte percentuale di capitalisti.

Se il primo censimento, effettuato nel 1922 in Palestina, considerate le devastazioni della guerra mondiale, non aveva registrato che 84.000 ebrei, l’11 per cento della popolazione totale, quello del 1931 ne censì già 175.000. Nel 1934, le statistiche dicono 307.000 su di una popolazione totale di un milione 171.000. Attualmente la cifra è 400.000 ebrei.

L’80 per cento degli ebrei sono stabiliti nelle città il cui sviluppo è ben illustrato dalla comparsa rapida della città fungo di Tel Aviv; lo sviluppo dell’industria giudea è molto rapido: nel 1928 contava 3.505 fabbriche di cui 782 con più di 4 operai, cioè un totale di 18.000 operai con un capitale investito di 3,5 milioni di lire sterline.

Gli ebrei stabiliti nelle campagne rappresentano solo il 20% rispetto agli arabi che costituiscono il 65% della popolazione agricola. Ma i fellahs lavorano le loro terre con dei mezzi primitivi, mentre gli ebrei nelle loro colonie e piantagioni lavorano secondo i metodi intensivi del capitalismo, con della manodopera araba pagata molto poco.

Le cifre che abbiamo fornito spiegano già un aspetto dell’attuale conflitto. A partire dal 20° secolo i giudei hanno abbandonato la Palestina ed altre popolazioni si sono stabilite sulla riva del Giordano. Benché le dichiarazioni di Balfour e le decisioni della Società delle Nazioni pretendano di assicurare il rispetto del diritto degli occupanti della Palestina, in realtà l’aumento della immigrazione giudea significa cacciare gli arabi dalle loro terre anche se esse sono state comprate a basso prezzo tramite il Fondo nazionale giudeo.

Non è per umanità verso “il popolo perseguitato e senza patria” che la Gran Bretagna ha scelto una politico filo-ebraica. Sono gli interessi dell’alta finanza inglese dove gli ebrei hanno un’influenza predominante che hanno determinato questa politica. D’altra parte, dall’inizio della colonizzazione ebrea si evidenzia un contrasto tra i proletari arabi ed ebrei. Inizialmente i coloni ebrei avevano utilizzato degli operai ebrei perché sfruttavano il loro fervore nazionale per difendersi contro le incursioni arabe. Dopo, con il consolidarsi della situazione, gli industriali ed i proprietari fondiari ebrei preferirono alla mano d’opera ebrea più esigente, quella araba.

Gli operai ebrei, costituendo i loro sindacati, più che alla lotta di classe, si dedicarono alla concorrenza contro i bassi salari arabi. Questo spiega il carattere sciovinista del movimento operaio ebreo che viene sfruttato del nazionalismo ebreo e dall’imperialismo britannico.

Vi sono naturalmente anche delle ragioni di natura politica che sono alla base del conflitto attuale. L’imperialismo inglese, a dispetto dell’ostilità tra le due razze, vorrebbe far coabitare sullo stesso territorio due Stati differenti e creare anche un bi parlamentarismo che prevede un parlamento distino per ebrei ed arabi.

Nel campo ebreo, oltre alla direttiva temporizzatrice di Weissman, vi sono i revisionisti di Jabotinsky che combattono il sionismo ufficiale, accusano la Gran Bretagna di assenteismo, o addirittura di venir meno agli impegni assunti, e che vorrebbe indirizzare l’emigrazione ebrea verso la Transgiordania, la Siria e la penisola del Sinai.

I primi conflitti, che si manifestarono nell’agosto 1929 e che si svolsero intono al Muro del pianto, provocarono, secondo le statistiche ufficiali, la morte di duecento arabi e centotrenta ebrei, cifre certamente inferiori alla realtà, perché se negli insediamenti moderni gli ebrei riuscirono a respingere gli attacchi, a Hebron, a Safi e nei pochi sobborghi di Gerusalemme, gli arabi effettuarono dei veri pogrom.

Questi eventi segnarono la fine della politica filoebrea dell’Inghilterra, perché l’impero coloniale britannico aveva sul suo territorio troppi musulmani, compresa l’India, per avere sufficienti ragioni per essere prudenti.

In seguito a questo comportamento del governo britannico verso il Nucleo Nazionale Ebreo, la maggior parte dei partiti giudei: i sionisti ortodossi, i sionisti generali ed i revisionisti passarono alla opposizione, mentre l’appoggio più sicuro alla politica inglese, diretta in questa epoca dal Labour Pary, fu rappresentato dal movimento laburista ebreo che era l’espressione politica della Confederazione Generale del lavoro e che raggruppava quasi la totalità degli operai giudei in Palestina.

Di recente si era manifestata, in superficie soltanto, una lotta comune del movimento ebreo ed arabo contro la potenza mandataria. Ma il fuoco covava sotto le ceneri e l’esplosione si ebbe con gli eventi del maggio scorso.

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La stampa fascista italiana è insorta contro l’accusa fatta dalla stampa “sanzionista” che fossero stati degli agenti fascisti a fomentare i moti in Palestina, accusa già avanzata a proposito dei recenti eventi egiziani. Nessuno può negare che il fascismo ha tutto l’interesse a soffiare su questo fuoco. L’imperialismo italiano non ha mai nascosto le sue mire verso il Medio Oriente, cioè il suo desiderio di sostituirsi alle potenze mandatarie in Palestina ed in Siria. Esso possiede, d’altronde, nel Mediterraneo una potente base navale e militare rappresentata da Rodi e le altre isole del Dodecanneso . L’imperialismo inglese, da parte sua, se si trova avvantaggiato dal conflitto tra arabi ed ebrei, perché secondo la vecchia formula romana divide et impera, bisogna dividere per regnare, deve tuttavia tener conto della potenza finanziaria degli ebrei e della minaccia del movimento nazionalista arabo.

Quest’ultimo movimento, di cui parleremo più diffusamente un’altra volta, è una conseguenza della guerra mondiale che ha determinato una industrializzazione nelle Indie, in Palestina ed in Siria e rafforzato la borghesia indigena che pose la sua candidatura a governare, cioè a sfruttare le masse indigene.

Gli arabi accusano la Gran Bretagna di voler fare della Palestina il Nucleo Nazionale Giudeo, che significherebbe rubare la terra alle popolazioni indigene. Essi hanno inviato nuovamente degli emissari in Egitto, in Siria ed in Marocco per proclamare un’agitazione del mondo mussulmano a sostegno degli arabi di Palestina, al fine di cercare di intensificare il movimento, in vista dell’unione nazionale panislamica. Essi sono incoraggiati dai recenti avvenimenti della Siria dove la potenza mandataria, la Francia, è stata obbligata a capitolare davanti allo sciopero generale, ed anche dagli eventi di Egitto, dove l’agitazione e la costituzione di un Fronte unico nazionale hanno obbligato Londra a trattare da pari a pari con il governo del Cairo. Noi non sappiamo se lo sciopero generale degli arabi di Palestina otterrà parecchio successo. Esamineremo questo movimento insieme al problema arabo in un prossimo articolo.

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Come abbiamo visto nella precedente parte di questo articolo, quando, dopo cento anni di esilio, i “Biluimes” acquistarono un pezzo di territorio sabbioso a Sud di Jaffa, essi trovarono altre tribù, gli Arabi, che si erano sostituiti a loro in Palestina. Questi ultimi non erano che poche centinaia di migliaia, o Arabi fellah (contadini) o beduini (nomadi); i contadini lavoravano con dei mezzi molto primitivi, il suolo apparteneva ai proprietari fondiari (effendis). L’imperialismo inglese, come si è visto, spingendo questi latifondisti e la borghesia araba ad entrare in lotta al suo fianco durante la guerra mondiale, ha loro promesso la costituzione di uno Stato nazionale arabo. La rivolta araba fu nei fatti di un’importanza decisiva per il crollo del fronte turco-tedesco nel Medio Oriente, perché essa vanificò l’appello alla Guerra Santa lanciato dal Califfo ottomano e tenne in scacco numerose truppe turche in Siria, senza parlare della distruzione delle armate turche in Mesopotamia.

Ma se l’imperialismo britannico aveva determinato questa rivolta araba contro la Turchia, grazie alla promessa della creazione di uno Stato arabo composto da tutte le province dell’antico impero ottomano (ivi compresa la Palestina), non esitò, per la difesa dei suoi propri interessi a sollecitare come contropartita l’appoggio dei sionisti giudei, dicendo loro che la Palestina sarebbe stata loro restituita tanto dal punto di vista dell’amministrazione quanto della colonizzazione.

Nello stesso tempo si metteva d’accordo con l’imperialismo francese per cedergli un mandato sulla Siria, dividendo così questa regione, che forma, con la Palestina, un’unità storica ed economica indissolubile.

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Nella lettera che Lord Balfour scrisse il 2 novembre 1917 a Rothschild, presidente della Federazione sionista d’Inghilterra, e nella quale egli comunicava che il governo inglese guardava con simpatia alla costituzione in Palestina di un insediamento nazionale per il popolo ebreo e che avrebbe impiegato tutti i suoi sforzi per la realizzazione di questo obiettivo, Lord Balfour aggiungeva che: niente si sarebbe fatto che potesse portare pregiudizio sia ai diritti civili e religiosi delle collettività non ebree esistenti in Palestina, sia ai diritti e allo statuto politico di cui gli ebrei godevano negli altri paesi.

Malgrado i termini ambigui di questa dichiarazione, che permetteva ad un nuovo popolo di insediarsi sul loro territorio, l’insieme della popolazione araba restò indifferente all’inizio ed anche favorevole alla creazione di un insediamento nazionale ebreo. I proprietari arabi, per il timore che venisse varata una legge agraria, si mostrarono disposti a vendere alcuni terreni. I capi sionisti, unicamente per delle preoccupazioni di ordine politico non approfittarono di queste offerte e giunsero fino ad approvare la difesa del governo Allenby a proposito della vendita dei terreni.

Ben presto, la borghesia manifestò delle tendenze ad occupare totalmente dal punto di vista territoriale e politico la Palestina, spodestando la popolazione autoctona e respingendola verso il deserto. Questa tendenza si manifesta oggi presso i sionisti revisionisti, cioè nella corrente filofascista del movimento nazionalista giudeo.

La superficie delle terre arabe della Palestina è di circa 12 milioni di “dounnams” metrici (1 dounnams = 1 decimo di ettaro) di cui tra 5 e 6 milioni sono attualmente coltivati.

Ecco come viene stabilita la superficie delle terre coltivate dai Giudei in Palestina, dopo il 1899:

1899: 22 colonie, 5.000 abitanti, 300.000 dounnams;

1914: 43 colonie, 12.000 abitanti, 400.010 dounnams;

1922: 73 colonie, 15.000 abitanti, 600.000 dounnams;

1931: 160 colonie, 70.000 abitanti, 1.120.000 dounnams.

Per giudicare il valore reale di questa progressione e dell’influenza che ne deriva, non bisogna dimenticare che gli Arabi coltivano ancora oggi la terra in un modo primitivo, mentre i coloni ebrei impiegano i metodi più moderni di cultura.

I capitali ebrei investiti nelle imprese agricole sono stimati in molti milioni di dollari, di cui il 65% nelle piantagioni. Benché gli ebrei non possiedano che il 14% delle terre coltivate, il valore dei loro prodotti raggiunge il quarto della produzione totale.

Per quel che riguarda le piantagioni di arance, gli ebrei arrivano al 55% della raccolta totale.

* * *

E’ nell’aprile del 1920, a Gerusalemme, e nel maggio 1921, a Jaffa, che si ebbero, sotto forma di pogrom, i primi sintomi della reazione araba. Sir Herbert Samuel, alto commissario in Palestina fino al 1925 tentò di tranquillizzare gli arabi fermando l’immigrazione ebrea, promettendo agli Arabi un governo rappresentativo ed attribuendo loro le migliori terre del patrimonio statale.

Dopo la grande ondata di colonizzazione del 1925, che raggiunse il suo massimo con 33.000 immigrati, la situazione peggiorò e finì per determinare i movimenti di agosto 1929. Fu allora che si ricongiunsero alle popolazioni arabe della Palestina le tribù beduine della Transgiordania, chiamate dagli agitatori mussulmani.

In seguito a questi eventi la Commissione di Inchiesta parlamentare inviata in Palestina, e che è conosciuta con il nome di Commissione Shaw, concluse che i fatti erano dovuti all’immigrazione operaia ebrea e alla “penuria” di terra e propose al governo l’acquisto di terre per risarcire i fellah sradicati dalle loro terre.

Quando, successivamente, nel maggio 1930, il governo britannico accettò nel loro insieme le conclusioni della Commissione Shaw, e sospese nuovamente l’immigrazione operaia giudea in Palestina, il movimento operaio ebreo – che la Commissione Shaw non aveva voluto ascoltare – rispose con uno sciopero di protesta di 24 ore, mentre in altri paesi si ebbero numerose manifestazioni di ebrei contro questa decisione.

Nell’ottobre 1930 vi fu una nuova dichiarazione riguardante la politica britannica in Palestina, conosciuta con il nome di Libro Bianco.

Essa era ugualmente troppo poco favorevole alla tesi sionista. Ma, di fronte alle proteste sempre più crescenti degli ebrei, il governo laburista rispose, nel febbraio 1931 con una lettera di Mac Donald, che riaffermava il diritto al lavoro, all’immigrazione ed alla colonizzazione ebrea e che autorizzava i datori di lavoro giudei ad impiegare la mano d’opera ebrea – se preferivano questa piuttosto che gli arabi – senza tener conto dell’eventuale aumento di disoccupazione tra questi ultimi.

Il movimento operaio palestinese si affrettò a dare fiducia al governo laburista inglese, mentre tutti gli altri partiti sionisti restavano in un’opposizione diffidente.

Noi abbiamo mostrato, nell’articolo precedente, le ragioni del carattere sciovinista del movimento operaio in Palestina.

L’Histadruth – la principale Centrale sindacale palestinese non comprende che degli ebrei (l’80% degli operai ebrei sono organizzati). E’ solo la necessità di elevare lo standard di vita delle masse arabe, per proteggere gli alti salari della mano d’opera ebrea, che ha determinato, in questi ultimi tempi, i suoi sforzi di organizzare gli arabi. Ma gli embrioni di sindacati raggruppati nella “Alliance” restano organicamente separati dall’Histadruth, eccezion fatta per il sindacato dei ferrovieri che raggruppa i rappresentanti di tutte le due razze.

* * *

Lo sciopero generale degli Arabi in Palestina entra ora nel suo quarto mese. La guerriglia continua, malgrado il recente decreto che infligge la pena di morte agli autori di attentati: ogni giorno si fanno delle imboscate e si assalgono treni ed automobili, senza contare le distruzioni e gli incendi di proprietà ebree.

Questi eventi sono costati alla potenza mandataria già quasi mezzo milione di lire sterline per il mantenimento delle forze armate e per la diminuzione delle entrate, conseguenza della resistenza passiva e del boicottaggio delle masse arabe. Ultimamente, ai Comuni, il ministro delle colonie ha fornito come cifre delle vittime: 400 Mussulmani, 200 ebrei e 100 poliziotti; finora 1.800 arabi ed ebrei sono stati giudicati e 1.200 sono stati condannati di cui 300 ebrei. Secondo il ministro, un centinaio di nazionalisti arabi sono stati deportati nei campi di concentramento.

Quattro capi comunisti (2 ebrei e 2 armeni) sono detenuti e 60 comunisti sono sorvegliati dalla polizia. Ecco le cifre ufficiali.

E’ evidente che la politica dell’imperialismo britannico in Palestina si ispira naturalmente ad una politica coloniale caratteristica di ogni imperialismo. Questa consiste nel fare affidamento soprattutto su certi strati della popolazione coloniale (opponendo le razze tra loro, o delle confessioni religiose differenti, o meglio ancora risvegliando delle gelosie tra clan o capi), il che permette all’imperialismo di stabilire solidamente la sua super oppressione sulle stesse masse coloniali, senza distinzione di razza o confessione.

Ma, se questa manovra è potuta riuscire in Marocco e in Africa centrale, in Palestina ed in Siria il movimento nazionalista arabo presenta una resistenza molto compatta. Si appoggia sui paesi più o meno indipendenti che lo circondano: Turchia, Persia, Egitto, Irak, Stati arabi ed, inoltre, si lega all’insieme del mondo mussulmano che conta parecchi milioni di individui.

A dispetto dei contrasti esistenti tra differenti Stati mussulmani e malgrado la politica anglofila di alcuni tra loro, il grande pericolo per l’imperialismo sarebbe la costituzione di un blocco orientale capace di imporsi – il che sarebbe possibile se il risveglio e il rafforzamento del sentimento nazionalista delle borghesie indigene potesse impedire il risveglio della rivolta di classe degli sfruttati coloniali che hanno da rompere tanto con i loro sfruttatori che con l’imperialismo europeo – e che potrebbe trovare un punto di legame con la Turchia che viene da poco ad affermare i suoi diritti sui Dardanelli e che potrebbe riprendere la sua politica panislamica.

Ora la Palestina è di un’importanza vitale per l’imperialismo inglese. Se i sionisti si sono illusi di ottenere una Palestina “ebrea”, in realtà essi non otterranno altro che una Palestina “britannica”, via dei transiti terrestri che lega l’Europa all’India. Essa potrebbe rimpiazzare la via marittima del Suez, la cui sicurezza viene ad essere indebolita dallo stabilirsi dell’imperialismo italiano in Etiopia. Non bisogna dimenticare inoltre che l’oleodotto di Mossoul (zona petrolifera) giunge al porto palestinese di Haifa.

Infine, la politica inglese dovrà sempre tener conto del fatto che 100 milioni di mussulmani popolano l’impero britannico. Finora l’imperialismo britannico è riuscito, in Palestina, a contenere la minaccia rappresentata dal movimento arabo di indipendenza nazionale, opponendogli il sionismo che, spingendo le masse ebree ad emigrare in Palestina, dislocava il movimento di classe del loro paese d’origine dove questo avrebbe trovato il loro posto ed, infine, si assicurava un appoggio solido alla sua politica in Medio Oriente.

L’espropriazione delle terre, a dei prezzi irrisori, ha spinto i proletari arabi nella miseria più nera e li ha buttati nelle braccia dei nazionalisti arabi e dei grandi proprietari fondiari e della borghesia nascente. Quest’ultima ne ha approfittato, evidentemente, per estendere le sue mira di sfruttamento delle masse e dirige il malcontento dei fellah e proletari contro gli operai ebrei nello stesso modo in cui i capitalisti sionisti hanno diretto il malcontento degli operai ebrei contro gli arabi. Da questo contrasto tra sfruttati ebrei ed arabi, l’imperialismo britannico e le classi dirigenti arabe non possono che uscire rafforzate.

Il comunismo ufficiale aiuta gli arabi nella loro lotta contro il sionismo qualificato come strumento dell’imperialismo inglese. Già nel 1929 la stampa nazionalista ebrea pubblicò una lista nera della polizia dove gli agitatori comunisti figuravano al fianco del gran Mufti e dei capi nazionalisti arabi. Attualmente numerosi militanti comunisti sono stati arrestati.

Dopo aver lanciato la parola d’ordine di “arabizzazione” del partito, i centristi hanno lanciato oggi la parola d’ordine “l’Arabia agli arabi”, che non è altro che una copia della parola d’ordine “Federazione di tutti i popoli arabi” propria dei nazionalisti arabi, cioè dei latifondisti (gli effendi) e degli intellettuali che, con l’appoggio del clero mussulmano, dirigono il congresso arabo e canalizzano, in nome dei loro interessi, le reazioni degli sfruttati arabi.

Per il vero rivoluzionario, ovviamente, non c’è una questione “palestinese”, ma unicamente la lotta di tutti gli sfruttati del Medio Oriente, arabi ed ebrei compresi, che fanno parte della lotta più generale di tutti gli sfruttati del mondo intero per la rivolta comunista.

Gatto MAMMONE

(traduzione dell’articolo “Le conflit arabo-juif en Palestine” –"Bilan” a. IV, n. 31, maggio giugno 1936, p. 1028 [Prima parte]; a. IV, n. 32, giugno-luglio 1936, p.1072 [Seconda parte]



L’articolo di Nirenstein...

LA RIVOLTA DEL GHETTO DI VARSAVIA

Alla fine dell’anno 1942 lo stato Maggiore delle SS decise di affrettare al massimo lo sterminio definitivo degli ebrei, ad onta della grande necessità di mano d’opera di cui la Germania scarseggiava come non mai nel catastrofico periodo della sconfitta di Stalingrado. Il piano delle SS prevedeva la rapida liquidazione di tutti i ghetti rimasti ancora nel General Gouvernment e la concentrazione degli ebrei indispensabili allo sforzo bellico in due grandi campi di concentramento, uno a Lublino e uno a Varsavia. Questi ebrei sarebbero stati ben presto sostituiti con operai polacchi, in modo da poter procedere allo sterminio assoluto.

Il ghetto di Varsavia – che, con i suoi, sessantamila abitanti rimasti dopo la massiccia deportazione di ben trecentocinquantamila ebrei durante l’estate dello stesso anno, continuava ad essere il più grande centro ebraico dell’Europa – figurava al primo posto, in questo piano, giacché Varsavia era nel centro nevralgico delle retrovie del fronte orientale e rappresentava il fulcro delle sue comunicazioni.

Nel gennaio 1943 Himmler stesso visitò il ghetto di Varsavia, disponendo un graduale trasferimento delle fabbriche e degli operai ebrei al campo di concentramento di Lublino. Ma dal periodo della grande deportazione dell’estate precedente la situazione nel ghetto era completamente cambiata.

Dalla rassegnazione all’insurrezione

La grande svolta nella situazione dei ghetti coincide con il risveglio generale della Resistenza europea nella primavera del 1942. In Polonia si organizzò allora in clandestinità, dopo anni di inattività imposta dal Comintern, il Partito comunista polacco (con la denominazione di Partito operaio polacco). La nuova forza politica diede subito un grande impulso all’attività antinazista in tutto il paese, insistendo sulla necessità di una lotta immediata e generale contro l’invasore, condannando la tattica temporeggiatrice della resistenza legata al governo polacco di Londra.

Questo nuovo alleato fu preziosissimo per la Resistenza ebraica. I comunisti ebrei nel ghetto svolsero subito un’intensa attività politica ed organizzativa. In conformità al programma comunista, che voleva un fronte nazionale per la lotta antitedesca, essi presero l’iniziativa della creazione di un Fronte antifascista nel ghetto, senza l’adesione, però, del «Bund», il partito radicato nel proletariato ebraico, che in mezzo alla morte e alle deportazioni continuava a soffrire di un complesso di classismo esasperato, e senza l’adesione dei partiti e dei circoli borghesi opportunisti, che tentarono di giustificare il loro atteggiamento passivo con ragionamenti filosofici. Il famoso storico ebreo Izhak Shipper, una delle più alte autorità intellettuali del ghetto di Varsavia, cercava di giustificare «storicamente» questo atteggiamento passivo. Ci sono dei periodi – diceva – nei quali un popolo non può e non deve lottare, perché in certe circostanze si deve salvare il salvabile, mentre la resistenza causerebbe lo sterminio non già di un gruppo di deportati, ma di tutta la comunità.

Anche i circoli religiosi, così potenti e influenti fra gli ebrei polacchi, predicavano la sottomissione: Iddio ha dato (la vita), e Dio riprende – ripetevano, secondo il Talmud, sconsigliando ogni azione che potesse provocare repressioni collettive contro la comunità ebraica.

Tutto questo spiega in parte come la società del ghetto sia stata per così lungo tempo moralmente disarmata e disorientata.

C’era l’«Hechalutz», una specie di confederazione di organizzazioni (per lo più giovanili) sioniste, alcune delle quali professavano il marxismo-leninismo più ortodosso («Hasciomer Hazair»), altre invece erano legate alla II Internazionale («Poale Sion») ecc.

Nel fronte stesso non cessarono mai le differenziazioni fra i comunisti e i raggruppamenti che facevano capo all’«Hechalutz». I primi avevano in primo luogo di mira l’attuazione delle parole d’ordine dei partiti comunisti: aiuto all’Unione Sovietica, partecipazione alla lotta partigiana che si stava organizzando nei confini orientali della Polonia. I secondi sottolineavano la particolare situazione ebraica, la lotta fra le mura del ghetto, coordinando, sì, l’azione con la Resistenza generale del paese, ma mettendo in primo piano le necessità delle masse recluse, il pericolo immediato di sterminio fisico.

Ma le divergenze e le sfumature politiche fra le diverse correnti scomparvero quasi completamente poco più tardi, quando la grande deportazione verso la morte di sei settimi della popolazione del ghetto, avvenuta nell’estate del ’42, mise le varie forze politiche del ghetto davanti alle loro estreme responsabilità: Treblinka o lotta senza quartiere, senza bilanci politici, senza coordinamenti programmatici. Con questo spirito nuovo di combattività il «Fronte antifascista» si trasformò nell’Organizzazione ebraica di combattimento, a cui aderì più tardi anche il «Bund».

La Resistenza ebraica

In quale rapporto numerico erano le unità di combattimento messe a disposizione del comando dell’Organizzazione ebraica di combattimento dalle diverse forze politiche? Ce lo dice la relazione del comando inviata a Londra, un documento, preziosissimo ritrovato sotto le macerie del ghetto nel famoso «Archivio di Ringelblum»: quattordici unità delle organizzazioni dell’«Hechalutz» e di quelle sioniste in generale, quattro dei comunisti, e altre quattro del «Bund».

E così verso la fine del ’42 la situazione nel ghetto era completamente cambiata. La Resistenza antinazista che infiammò tutta l’Europa in seguito alla disfatta tedesca di Stalingrado e in Africa settentrionale diede le ali anche alle forze della Resistenza ebraica, le quali in un periodo di tempo relativamente breve seppero aver ragione dell’inerzia, del disfattismo e della rassegnazione.

Infatti quando, dopo la visita di Himmler, il 18 gennaio 1943 l’SS Polizeiführer del distretto di Varsavia, von Sammern – Frankenegg, mandò nel ghetto i Kommandos delle SS per riprendere la deportazione per Treblinka e per i campi di lavoro forzato, il ghetto rispose con una resistenza armata durata diversi giorni, e le SS dovettero rinunciare all’azione, accontentandosi di seimilacinquecento vittime, sorprese nelle fabbriche militari.

La «piccola rivolta del ghetto» del gennaio 1943 innervosì e spaventò i tedeschi. Nel breve periodo di tempo che ad essa seguì, prima della grande rivolta dell’aprile 1943, Himmler sollecitò i suoi luogotenenti nel General Gouvernment, Krueger e Pohl, a farla finita una volta per sempre con il ghetto di Varsavia. Nella lettera a Krueger, Himmler spiega l’urgenza di tale passo con ragioni di sicurezza del Reich, e «perché altrimenti non otterremo mai la quiete a Varsavia».

Alla luce della documentazione tedesca si può affermare che i tedeschi provavano il crescente timore che una sommossa nel ghetto diventasse il focolaio di una rivolta generale in tutta Varsavia e nella Polonia intera. Il generale delle SS, Jürgen Stroop, che diresse l’azione contro il ghetto in rivolta, durante il suo processo celebratosi a Varsavia nel 1951, ebbe a dichiarare: «Se fosse scoppiata una rivolta in tutta Varsavia, le nostre forze militari e quelle della polizia non sarebbero state sufficienti a domarla».

Spinti da queste preoccupazioni, i tedeschi provarono a prendere il ghetto con le buone: i proprietari tedeschi delle fabbriche nel ghetto (i cosiddetti «shops») e i loro aiutanti ebrei svolsero un’intensa propaganda per convincere gli operai delle fabbriche a sottostare alla «deportazione volontaria», definendola un mezzo di rimanere in vita fino alla fine della guerra (offrivano perfino un tozzo di pane e un chilo di marmellata a chi si presentava all’Umschlagplatz volontariamente per essere portato via); ma i trucchi tedeschi non ingannavano più nessuno. La Resistenza era ormai una forza che decideva del comportamento del ghetto, smascherando implacabilmente gli sforzi propagandistici delle SS con manifesti i quali chiarivano che «la deportazione significava lo sterminio del ghetto».

Nei mesi di febbraio e marzo si ripeterono alcuni tentativi tedeschi di deportare le maestranze degli «shops» con la forza e con l’inganno, tentativi che fallirono miseramente. I tedeschi si convinsero infine che l’unico modo di risolvere la situazione imbarazzante e pericolosa era quello di compiere un atto di forza nei confronti della popolazione del ghetto. L’azione preparata dal Polizeiführer dei distretto di Varsavia, von Sammern, doveva durare, secondo le sue intenzioni, tre soli giorni, e doveva essere una delle tante «azioni» più o meno spietate di deportazione.

Himmler invece si era reso conto della situazione, se aveva ritenuto necessario affidare l’azione nel ghetto al generale delle SS Jürgen Stroop, mettendo a sua disposizione battaglioni di fanteria e di cavalleria, provate unità delle Waffen SS, unità del genio e dell’artiglieria, reparti di polizia polacca (la «polizia blu»), ucraina ecc. Paragonando queste forze con le cinquanta SS, che con il solo aiuto di due reparti di poliziotti ucraini e lettoni, erano bastate per effettuare la deportazione quando nel ghetto c’erano ancora oltre quattrocentomila ebrei, è facile afferrare il grande cambiamento avvenuto durante quei pochi mesi nell’atteggiamento del ghetto verso i suoi oppressori.

Jürgen Stroop arrivò a Varsavia il 17 aprile 1943; aveva allora quarantott’anni, e possedeva una lunga esperienza di azioni repressive fra le più spietate, eseguite dalle SS nei vari paesi dell’Europa oppressa. Proveniva da un ambiente piccolo borghese prussiano, imbevuto del più bieco nazionalismo tedesco. Nel 1932 era entrato a far parte delle SS, e da allora aveva rapidamente salito i gradini della gerarchia della più criminale fra le organizzazioni hitleriane. Nell’anno 1939 è SS Oberfüh-rer (colonello delle SS) nei Sudeti, dove reprimere il movimento patriotico cèco; appena invasa la Polonia, Stroop si trova a capo della «Selbstschutz» nella regione di Poznan, che sotto la sua guida compie la strage di duemila cittadini polacchi. Con lo scoppio della guerra fra la Germania e l’Unione Sovietica, Stroop è impegnato nella sanguinosa lotta contro il movimento partigiano. È promosso al grado di maggior generale di polizia e Brigadenführer delle SS.

Dopo la prova soddisfacente sostenuta in Russia, Stroop frequenta un corso speciale riservato agli alti gerarchi delle SS a Berlino, sotto la guida dello stesso Himmler. Appresi gli insegnamenti di questo autorevolissimo maestro dell’assassinio, all’inizio del 1943 torna a Lwow (Lemberg o Leopoli) nella Galizia orientale, per dirigere le stragi degli ebrei, dopo di che viene mandato a Varsavia per sostituire il Polizeiführer von Sammern nella «grande azione» contro il ghetto.

Gli uomini delle macerie

II 18 aprile cominciò l’azione delle SS e la rivolta. La confusione e lo sbigottimento dei tedeschi dopo la prima batosta ricevuta dai resistenti è indescrivibile. Von Sammern, che nel primo giorno comandava l’azione, appena fuggito dal ghetto insieme a tutti i reparti tedeschi, riferì drammaticamente: «Alles is verloren!» (Tutto è perduto!). Fu senz’altro sostituito dal generale Stroop.

L’importanza e l’entità della rivolta del ghetto di Varsavia risulta dallo stesso rapporto di Jürgen Stroop, che era tenuto a mandare rapporti, specie di bollettini di guerra, ogni giorno e perfino due volte al giorno. I rapporti erano destinati a Himmler per il tramite di Krueger, e sappiamo che lo stesso Hitler voleva essere tenuto al corrente dell’azione.

È importante sottolineare quanto lungamente si sia protratta la resistenza del ghetto. I rapporti giornalieri di Stroop si riferiscono a un intero mese (dal 18 aprile al 16 maggio, un periodo più lungo della campagna del settembre 1939 in Polonia, come pure della campagna di Francia del 1940). Inoltre, non v’è dubbio che anche dopo l’ultima data erano rimasti ancora dei combattenti ebrei, i cosiddetti «uomini delle macerie», che per molte settimane continuarono ad impegnare in combattimento reparti tedeschi assai forti, come risulta dal rapporto di Stroop, a guardia del ghetto.

Una notizia pubblicata dal clandestino «Glos Warszawy» (Voce di Varsavia) dell’8 luglio 1943, a Varsavia, informava che «nella notte fra il 30 giugno e il 1° luglio ha avuto luogo un acceso combattimento per un bunker. Il bunker è stato liquidato, il gruppo di combattimento si è ritirato, probabilmente in un altro punto del ghetto». Una sicura conferma, dunque, che ai primi di luglio 1943, cioè un mese e mezzo dopo la fine ufficiale della rivolta, che Stroop volle simbolicamente concludere con la distruzione della grande sinagoga di Varsavia in via Tlomacka, nel ghetto si svolgevano ancora combattimenti per la conquista di bunkers.

Un altro elemento da sottolineare, nel rapporto del generale nazista, è il grande eroismo del ghetto nella sua lotta disperata, che risulta da questo documento spiccatamente hitleriano con maggiore efficacia probatoria di tutte le altre testimonianze ebraiche e filoebraiche. È vero che il generale delle SS adopera il linguaggio sprezzante, comune ai nazisti, definendo i combattenti antinazisti e i partigiani in generale come «banditi», «Untermenschen» (sotto uomini) ecc., ma tuttavia, suo malgrado, dal suo rapporto risulta in pieno la grandezza epica della battaglia del ghetto. È nel rapporto nazista che spiccano le figure delle donne e degli uomini ebrei che insieme ai loro bambini «preferivano buttarsi nelle fiamme che arrendersi a noi», le figure dei combattenti ebrei che sparavano sui loro nemici «con una rivoltella per mano»; delle donne combattenti, che pur già catturate, tiravano fuori le rivoltelle nascoste per sparare sui tedeschi e scappare di nuovo nei bunkers. È il burocratico e monotono resoconto di Stroop che ci offre un quadro di questo esercito, unico nella storia, che seppe creare un fronte sotto terra, nelle fogne e nelle gallerie, e che continuò a combattere per mesi interi in una città tutta macerie, tutta morte, priva di speranza.

Venticinque fucili

La rivolta del ghetto fece enorme impressione sulla popolazione di là del muro. Ne fa fede la stampa, sia quella legale che quella clandestina di tutte le correnti dell’opinione pubblica polacca di quel tempo, come pure le numerose descrizioni pubblicate in Polonia dopo la guerra. La popolazione polacca di Varsavia seguì esterrefatta, per giornate intere, il grande mare di fiamme e di fumo che continuava per settimane a divampare dal ghetto. C’era qualcosa di apocalittico nella visione di un enorme quartiere della città messo a ferro e fuoco dai più spietati nemici dell’umanità.

«La Tribuna della libertà», un foglio clandestino polacco del periodo nazista, il 15 maggio 1943, quando le lotte nel ghetto non erano ancora spente del tutto, scriveva: «Le lotte del ghetto hanno un enorme significato politico, esse sono il più grande avvenimento di resistenza organizzata nei paesi oppressi... Gli. ebrei, ancora poco tempo fa così rassegnati, hanno opposto una resistenza che merita loro l’ammirazione e il plauso del paese e del mondo». Ludwik Landau, notissimo studioso polacco di economia e di scienze politiche che tenne un diario in cui annotava e commentava gli avvenimenti del periodo dell’occupazione (fu assassinato dalle bande fasciste po-lacche nell’anno 1944), nel brano del 5 maggio testimonia con melanconica umiltà: «La tragedia del ghetto si avvia alla fine... Ogni tanto si sentono ancora delle sparatorie. Ieri, per esempio, verso le due, ce n’è stata una molto violenta. Da diverse case si spara ancora sui tedeschi, ma la lotta vera e propria è finita. Continuano gli assassini degli ebrei e i loro suicidi. Da una delle case incendiate si son viste saltare otto donne, una dopo l’altra, dall’altezza di alcuni piani».

Che cosa fece la popolazione polacca per il ghetto In lotta? Ben poco. La sinistra simpatizzava con i combattenti del ghetto, manifestava la sua solidarietà con loro nella sua stampa clandestina, aiutava le staffette e gli emissari del ghetto che venivano nella parte ariana per acquistare armi. Fece poi assalire un posto d’artiglieria tedesca che cannoneggiava il ghetto in rivolta (in via Nowiniarska), e infine – e questa è l’azione più impor-tante – un gruppo della Guardia popolare (GL) negli ultimi giorni della rivolta salvò dalle fogne un gruppo di combattenti del ghetto, portandoli su un autocarro nelle foreste fuori di Varsavia. Ma sta di fatto che la stessa GL fornì ai combattenti non più di venticinque fucili (secondo fonti comuniste), e questo è ben poco per un partito (quello comunista) e per un’armata di combattimento. Senza alcun dubbio l’aiuto al ghetto in lotta avrebbe potuto essere ben più generoso.

Abominevole addirittura è stato il comportamento dei circoli di destra e dei nazionalisti polacchi, che non nascondevano nemmeno la loro soddisfazione per la «soluzione» della questione ebraica per mezzo del genocidio. L’Armata nazionale (Armia Krajowa) alle dirette dipendenze – per mezzo della cosiddetta «Delegatura» – del governo polacco in esilio a Londra, ignorò sistematicamente ogni appello dell’Organizzazione ebraica di combattimento per la concessione di aiuti di armi nelle giornate più drammatiche della lotta nel ghetto.

«Nonostante le promesse di intervenire nella lotta e di rifornirci di armi – si appellava il comando ebraico alla «Delegatura» in un messaggio inviato il 27 aprile – nessun aiuto ci è stato finora concesso. Nonostante gli appelli... il ghetto non ha finora ricevuto nemmeno il più piccolo aiuto in munizioni e in equipaggiamento militare. Vi rivolgiamo, ancora in quest’ultimo momento, in mezzo agli incendi, un appassionato appello affinché ci diate immediato aiuto, affinché ci inviate equipaggiamento e munizioni». L’appello rimase senza risposta. Alla vigilia dello scoppio della rivolta la «Delegatura» sconsigliava addirittura la ribellione stessa giungendo alle minacce.

Contro questo atteggiamento, certamente di marca antisemita, dei partiti polacchi e dello stesso governo polacco in esilio, che fingeva di ignorare la situazione, portò la sua protesta il rappresentante del «Bund» in seno a questo governo, Samuel Sigelblum, che si suicidò. «Che la mia morte – egli scrisse prima di suicidarsi – sia un grido di energica protesta contro l’indifferenza del mondo che vede lo sterminio del popolo ebraico, lo vede e non lo impedisce. So bene quanto poco valga nei nostri tempi la vita di un uomo, ma non essendo riuscito a fare qualcosa in vita, contribuirò con la mia morte a scuotere l’indifferenza di coloro che forse, ancora in questo estremo momento, possono salvare gli ebrei che ancora sono vivi in Polonia».

L’indifferenza del mondo

Sulla «indifferenza del mondo» all’olocausto bisognerebbe dedicare un volume a parte: su quella degli Stati Uniti, per esempio, che si rifiutarono ostinatamente di bombardare le linee ferroviarie che portavano ad Auschwitz, e perfino dell’illuminata Svezia che diede istruzioni ai suoi consolati di rifiutare visti d’ingresso in Svezia ai cittadini d’origine ebraica (durante tutto il periodo della guerra soltanto cinquecento ebrei tedeschi sono riusciti a «introdursi» in questo paese).

Nel rapporto di Stroop, i particolari assai confusi sui «banditi (leggi: combattenti) polacchi nel ghetto» sono per lo più frutti della sua ignoranza, oppure si riferiscono ai collegamenti all’esterno del ghetto. Infatti da nessuna fonte, nemmeno da quelle di sinistra, che per un certo tempo cercarono di mettere la loro ipoteca sulla rivolta del ghetto di Varsavia, risulta alcuna partecipazione di elementi polacchi alle lotte nell’interno del ghetto. Eppure i combattenti del ghetto, isolati ed abbandonati, come erano, avevano la mente e il cuore aperto a tutte le forze di resistenza fuori delle mura del ghetto. Questo è il significato della bandiera che sventolava fra le fiamme delle case in rovina nei giorni della rivolta: «Per la nostra e la vostra libertà!»

I rapporti del generale Stroop da Varsavia sono finiti nella cancelleria di Himmler, ma una collezione completa di essi, in copia, legata lussuosamente in cuoio, venne rinvenuta dopo la guerra nella villa di Stroop, in Baviera. Ai rapporti era allegato un album di fotografie eseguite durante la rivolta. I rapporti e le fotografie furono inseriti nella voluminosa documentazione presentata al processo di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti.

«Non esiste più un quartiere ebraico in Varsavia», così intitolò l’SS Polizeiführer Jürgen Stroop il documento sulla «Grossaktion» (grande azione) che doveva essere il coronamento della sua vita. Il Tribunale distrettuale di Varsavia lo condannò a morte nel luglio 1951. La condanna è stata eseguita.

Alberto Nirenstein

(ampi stralci da “Mondo Operaio”, n. 7-8, luglio-agosto ’79)



... e la nostra posizione

VIVA LA COMUNE DI VARSAVIA
Solo il proletariato aiutato dai semiproletari può dare all’Europa un governo veramente stabile e rivoluzionario

I socialcomunisti dell’Unità e dell’Avanti! si sono guardati bene dal pubblicare l’ordine del giorno del generale Monter-Chrusciel, già comandante del settore di Zolibor, diramato alle ore 19,30 del 3 ottobre. E pour cause.

Essi però si sono affrettati a diffondere l’O.d.g. del sedicente Comitato di Liberazione polacco, residente a Mosca e addomesticato alla maniera staliniana. La ragione di questo inqualificabile atteggiamento? Non è difficile stabilirla. Basta leggere l’O.d.g. degli eroici difensori di Varsavia.

Dopo sessanta giorni di aspra lotta, mancandoci gli aiuti necessari, la difesa non era più possibile. Avevamo due possibilità: o trattare con i tedeschi, oppure tentare di aprirci un varco verso le truppe sovietiche. Le autorità sovietiche non ci hanno assicurato di considerarci come soldati regolari. Si trattava quindi o di arrenderci alle truppe tedesche che tali qualità promisero di riconoscerci o di affrontare perfino la deportazione in Siberia”.

La caduta di Varsavia avvenuta nelle condizioni oramai a tutti note è un avvenimento troppo importante perché possa essere passato sotto silenzio da noi che nella resa delle forze partigiane polacche vediamo l’effetto di una determinata volontà di non intervento da parte dei dirigenti moscoviti. Quali le ragioni essenziali che hanno indotto i russi a non portare aiuto agli eroici combattenti di Varsavia? E per qual motivo il comando russo ha rifiutato a questi strenui difensori delle libertà essenziali del popolo polacco il trattamento che è stato poi riservato loro dal Comando tedesco?

I funzionari del PCI e del PSI avranno un po’ di pena a rispondere a un quesito così imbarazzante. A meno che essi non vogliano annoverare i duecentomila caduti a Varsavia e i centomila prigionieri partigiani come membri della... Quinta Colonna! Ma l’interpretazione dell’avvenimento non può essere che unica ed irrevocabile. Anzitutto le autorità russe hanno valutato i partigiani polacchi per quello che essi sono realmente, cioè dei combattenti proletari senza padroni, dei combattenti autonomi della classe operaia, lottanti non per la libertà della Polonia dei capitalisti e degli agrari, bensì per l’emancipazione delle classi lavoratrici contro tutti i padroni dell’Est e dell’Ovest, del Nord e del Sud. È contro questo atteggiamento communard che i dirigenti russi hanno inteso reagire negando anzi tutto gli aiuti militari a questi combattenti del fronte proletario mondiale e permettendo in secondo luogo il massacro da parte dei nazisti di 200.000 uomini quasi tutti militanti del Bund socialista rivoluzionario di Varsavia.

Così mentre la storia del tradimento di Mosca perpetrato in Ispagna si è ripetuta a Varsavia, balza fuori preciso e netto quel carattere di classe che sta acquistando il movimento partigiano europeo, respinto fino ad oggi nell’ombra, in ragione della lotta contro il nazifascismo. Carattere che, bisogna precisarlo, è l’elemento classista progressivo scaturito dialetticamente dalla guerra imperialistica in cui la Russia giuoca un ruolo di primo piano.

La resistenza dei partigiani di Varsavia al ricatto politico di Mosca ha perciò una impronta proletaria ben designata. E come tale essa rappresenta una prima tappa verso la libertà d’azione delle classi lavoratrici dell’Europa e del mondo intero.

(Da "La Sinistra Proletaria", 28 ottobre 1944)