nucleo comunista internazionalista
note



UN PRIMO MAGGIO
DA DIMENTICARE
(O SU CUI RIFLETTERE)

C’era una volta il Primo Maggio: sfilata massiccia dei lavoratori a testimonianza fisica e rumorosa del proprio esser classe, dei propri bisogni – in qualche modo antagonisti rispetto alle regole del capitale, pur se sotto l’ala di partiti e sindacati in realtà “responsabili” (di fronte al capitale in questione) –, di una propria prospettiva “alternativa” al sistema.

2015: niente di questo è in programma. La Trimurti sindacale abbozza una presenza a Pozzallo per attestare la propria “solidarietà” con gli immigrati (che si spera bloccabili alle coste di Libia grazie ad un’“umanitaria” azione anti-scafisti – ovvero: anti-immigrati –, sotto l’egida dell’ONU). Il clou della stessa resta a Roma: il famoso “concertone” con cui, sull’orma dei classici ludi et circenses di antica memoria, si appagano i clientes del sistema (la famosa “gioventù”!), che, da parte loro, non darebbero un centesimo di euro per esodati, disoccupati e/o plebaglia più o meno del genere e, se proprio dovessero mobilitarsi, lo farebbero per la Million Marijuana Day sponsorizzata dai flippati del Manifesto per i quali la libertà è la droga che il sistema vende o può anche regalare qualora serva ad ottundere i sensi di classe (la spinta al consumismo individuale ne farà parte, magari coperta “a sinistra”). Secondo noi si tratta di una tipica “grande opera” inutile e dannosa contro cui dovrebbero scagliarsi gli “antagonisti”: No-Expo?, ebbene: No-Concertone. Ma i “consumatori antagonisti” non ci stanno.

Piccola, e tristissima, nota a margine. Qualche centinaio di operai celebra il Primo Maggio a Lourdes confidando nei miracoli “compatibili” con i poteri della Madonna. Che se poi non farà gran che non sfigurerà certo nei confronti della Camusso e soci... Abituati, nelle occasioni di crisi, ad invocare l’intervento di comuni, province, regioni, prefetti, vescovi e Papa è anche ovvio che si possa finire qui: la superstizione, sia religiosa che laica, è destinata a vincere in assenza di una prospettiva di classe.

Ma il punto centrale di questo Primo Maggio è stato Milano, e di questo occorre discutere..

Qui si è svolta una abbastanza nutrita manifestazione No Expo col seguito che sappiamo di violenze e scontri imputati ai soliti “facinorosi” infiltratisi, come si suol dire, nel corteo.

Parliamo, intanto, dei trenta o cinquantamila del “grosso” di essa. Gli argomenti portati avanti da essi erano senz’altro appetibili e non si limitavano esclusivamente alla contestazione dell’Expo, ma comprendevano la questione della casa, dell’acqua, della scuola, della salute, dei diritti per i migranti etc. etc., cioè tutto un insieme di problematiche nelle quali è per noi forza di cose riconoscerci in quanto chiamanti in causa la questione del capitalismo contro cui lottiamo. Tutto bene, dunque? Non precisamente. Sul tema centrale dell’Expo, in particolare, si mescolavano troppe cose diverse: dalla contestazione dell’improvvisazione e delle enormi spese “a perdere” dell’Expo, col suo corollario di malaffare più o meno legalmente malavitoso alla pura e semplice ripulsa delle “grandi opere”, quali che esse siano, in nome di un’economia di piccolo taglio attenta ai bisogni della gente (“dirottare le risorse dalle grandi opere al popolo”). Del tutto evidente e sottoscrivibile il primo punto se non limitato alla questione delle “mani sporche” (e bucate). La gestione di questa Expo è stata effettivamente disastrosa anche e proprio dal semplice punto di vista dell’efficienza e della produttività capitalista salvo che noi non ci limitiamo a queste ultime né ci battiamo per esse come nostro fine. Il malaffare e tutte le altre porcherie vanno denunziati come espressione connaturata al meccanismo stesso del “capitalismo reale”, di cui non sogniamo una diversa e buona gestione, ma che ci proponiamo di affossare. Quanto all’idea di una “migliore allocazione delle risorse sociali” siamo alle solite: noi rivendichiamo i nostri interessi antitetici alle logiche del capitalismo e non una riforma di esso che “venga incontro ai bisogni della gente”. Non è una questione di lana caprina. Il fatto è che spesso alla base delle più accese contestazioni a “questa gestione” dell’Expo serpeggia un atteggiamento di “sana ragioneria” riformisteggiante interna al sistema. Quanto poi al rifiuto “di per sé” di grandi opere di questo tipo ci limitiamo a stabilire che le Esposizioni Universali hanno potuto rappresentare nella storia delle utili occasioni di conoscenza, confronto e conquiste scientifico-economiche rilevanti in positivo sia per il capitalismo che, di converso, per noi e non è che ne faremmo a meno “a prescindere”. Meno ancora se in nome del “piccolo è bello”. Un piccolo esempio: la costruzione della superferrovia ultraveloce che, in Cina, collega il Tibet al resto del paese mostra bene di cosa possa trattarsi. Naturalmente c’è chi trova che con ciò Pechino violenti lo splendido isolamento del paese (fu)lamaista, le sue magnifiche tradizioni etc.etc. Noi diciamo: ben venga. Dopo di che si può anche concludere che nell’attuale fase di putredine capitalista anche le attuali esposizioni universali et similia (vedi le Olimpiadi) vedano sempre più ristretti i margini “progressisti” di cui si fanno vanto, anche se a noi non farebbe schifo visitare questa stessa Expo, per tanti versi detestabile, con la convinzione di aver qualcosa da apprenderne. In ogni caso badiamo bene a farne nostre le potenzialità produttive a capitalismo kaputt evitando la fuga verso i micro-orticelli “ecologicamente compatibili” (con che?, col regresso) tipica di quella che Marx definiva “socialismo reazionario”, cioè una risposta agli orrori del capitalismo (perfetto!) con gli occhi rivolti all’indietro.

Piccola notazione che ci viene suggerita da una lettera al Manifesto. La “coalizione sociale” di Landini si è in pratica tolta di mezzo rispetto alla manifestazione No Expo. Eppure quale altra magnifica occasione per dare ad essa un senso di classe? Il suo cahier de doléances era quanto mai ricco ed appetitoso. Ed allora? Ci sa che la coalizione si sia già scoalizzata...

Ahinoi!, la massa dei manifestanti non ha fatto neppure notizia, salvo che in distratte cronache che ne registravano i numeri, e tutto si è focalizzato sull’uragano scatenato da qualche centinaio, od anche meno, di pessimi soggetti “infiltratisi” in essa... per rovinarne la festa.

Su questo dobbiamo un po’ discutere.

Chiariamo subito la nostra abissale distanza da due posizioni antitetiche (e... complementari, recto e verso della stessa medaglia).

La prima quella che si scaglia contro l’“illegalismo”, la “violenza” (oggi di quattro fessi, domani – orrore! – delle masse), in nome di una educatissima contestazione fatta secondo tutte le buone regole del sistema. Quando, ad esempio, Norma Rangeri sul Manifesto qualifica come semplicemente controproducenti le azioni “fuorilegge” dei cosiddetti black bloc e ne analizza tutta l’intrinseca debolezza anarcoide, luddistica etc. etc. che fa del male alle ragioni (ed alla configurazione fisica) di quello che l’“autentico movimento” vorrebbe e dovrebbe essere non è che “in astratto” possiamo darle torto. Solo che per lei e i suoi consimili il movimento buono dovrebbe connotarsi non per la ripulsa (legittima) delle più stupide e dannose fughe anarcoidi per la tangente, ma per il suo assoluto credo democratico, giammai violento “per principio”, dialogante, costituzionale, ... parlamentare (possibilmente da affidare ad un’Expo Universale dei superfessi “di sinistra” tipo Vendola). Il No-qualcosa ha un senso solo se realmente anticapitalista ed, in quanto tale, non può anatomizzare lo scontro in quanto tale, che è un traguardo necessario; può e deve, semmai, sceverare mezzi e scopi dell’azione antagonista. Ovvero, come avvertiva un certo Engels in un ben preciso momento: noi non cadremo fuori tempo e luogo nella trappola di uno scontro insensato, ma badiamo a raggruppare e centralizzare le nostre forze per i momenti decisivi a venire, badando bene a non cadere, nel frattempo, nell’altra e più insidiosa trappola: quella delle “pacifiche riforme” per trasformare il sistema dall’interno (il che altro non significherebbe che diventare interni al sistema).

Da questo punto di vista potremmo, sempre “in astratto”, sottoscrivere delle prese di posizioni, qua e là affiorate nel “movimento”, contro il legalitarismo per principio tipico del Manifesto e degli stessi “rappresentanti autorevoli” del No Expo che si rivendicano “democratici sino in fondo” rivendicando il “diritto” (“costituzionalmente previsto”) di manifestare “democraticamente” le proprie “idee” in attesa che esse trovino spazio istituzionale. Solo che questa rivendicazione del “diritto alla rivolta” vi assume un ben tristo colorito: quella del bel gesto – ovviamente “spontaneo”, “dal basso”, extra ed anti-partito – contro certi simboli del potere (molti dei quali in realtà del tutto immaginari e fuori luogo). Per l’appunto: il bel gesto anarcoide fine a se stesso, il piacevole spaccar tutto il possibile senza menomamente intaccare nulla del sistema, che anzi ne può solo trarre vantaggio, come poi diremo. E neppure alcun Bresci all’orizzonte, di cui si potrebbe parlare in altri termini... Due osservazioni in merito. Primo: noi non addossiamo nessuna croce a questa specie di “ribelli”, né tantomeno li additiamo a responsabili delle difficoltà e contorsioni del “movimento buono”. Il loro “istinto” spaccatutto, in gran parte dei casi, ha delle solide radici giustificative e non va affatto condannato come tale, men che mai imputato di colpe che risiedono, invece, nella mancanza di un organo capace di convogliare su di sé le spinte ribellistiche per quel che esse hanno di buono e disciplinarle. In secondo luogo: non facciamo di tutte le erbe un fascio e teniamo piuttosto presente che altrove, in Europa e fuori, abbiamo anche dei fenomeni di una certa strutturazione del fenomeno tanto sul piano delle idee che su quello dell’organizzazione.

Un codicillo finale merita un’altra versione sul tema. Quella (di cui non nomineremo l’autore per non fargli torto) secondo cui gli “antagonisti” del caso sarebbero stati semplicemente provocati dalla polizia che dapprima li avrebbe tenuti d’occhio con ispezioni in seguito alle quali sarebbero stati trovati come corpo di reato solo aranciate e utensili da cucina (scolapaste?) e poi li avrebbe costretti a darsi una mossa aggredendoli a suon di cariche, bombe d’acqua e cloro etc. etc. Curiosamente questa lettura, pur improntata all’esaltazione della lotta frontale antisistema, ne fa un semplice ricorso allo sfasciamento come misura obbligata contro la “provocazione” statuale in contrasto con la propria predisposizione all’... aranciata. Siamo al grottesco.

Chi ha seguito la vicenda degli scontri di Milano non può non essersi accorto del contrario: la polizia ha in pratica permesso lo sfascio astenendosi dall’attacco frontale ai “ribelli”. Questo per due motivi, tutt’altro che di benevolenza per “evitare il peggio”. Il primo: ci fosse stata tale azione un settore del movimento “pacifico di massa” poteva anche dimettere questo suo carattere solidarizzando coi cosiddetti “black bloc”, fautori (ancora una volta “in astratto”) di ragioni anti-Expo comuni all’insieme del movimento globale. Il secondo: l’aver lasciato abbondantemente fare costituisce il fattore propedeutico non solo per mettere nell’angolo la “massa democratica” colpevole di non aver mosso un dito di suo per “isolare” i cattivi soggetti attraverso un suo “servizio d’ordine” (e la Rangeri ne prende ben nota), ma per ridisegnare il quadro futuro delle manifestazioni contestatrici di qualsivoglia sorta che, d’ora in poi, saranno ferreamente tenute a rispettare determinata regole E su questo terreno “il movimento”, così come oggi si configura, ne risulta – meritatamente – indebolito e confuso. Qualcuno tra gli organizzatori lo ha chiaramente detto: noi non siamo una squadra compatta, ma un insieme di “istanze”, di “voci diverse” che si ritrovano assieme in modo informale; non siamo un’organizzazione centralizzata e coesa (giammai!, puzzerebbe di qualcosa di simile ad un partito!). E che possiamo fare allora? A queste condizioni una cosa soltanto: evitare altri bis di quel che è stato. La cosa migliore: tirare i remi in barca.

Per noi vale l’esatto contrario su tutta la linea.

Un appunto sul giorno dopo, quello della “pulizia” cui ha concorso spontaneamente un bel sacco di milanesi di varia estrazione sociale. Su questo c’è stata l’irrisione da parte di molti “antagonisti”, compresi taluni dello stesso Manifesto. Il “popolo Mastrolindo”, si è detto. Bene: è pur vero che l’azione-ripulitura è avvenuta sotto il segno dell’interclassismo o addirittura quello della rivendicazione alla Pisapia delle virtù dei “milanesi tutti”, senza colore di sorta, per il bene e l’orgoglio della “città”. Ma è su questa base di presa nelle proprie mani del lavoro di pulizia, senza invocare o aspettare che “ci pensi lo Stato”, ossia – in un certo senso – di “socializzazione” (quindi con un contenuto ben diverso rispetto alla sfilata “Nessuno tocchi Milano”), che un reale movimento antagonista con gli attributi avrebbe ben potuto dire la sua a questi “onesti cittadini” scesi in strada con sverniciatori e ramazze, rivendicando le proprie insopprimibili ragioni di fondo, incompatibili con l’azione scriteriata di anarcoidi scatenati (e ci scusiamo con l’anarchia degna di tal nome!) irresponsabilmente sfuggita al proprio controllo. Un Mastrolindo rosso avrebbe molto da ripulire in effetti anche per quel che lo riguarda e non solo quanto a vetrine smerdate o spaccate per propria incuria. Si tratterebbe di tener alte le ragioni di una lotta anticapitalista che non si limita a colpire presunti “simboli” e ad “atti dimostrativi”, che sa parlare ai “cittadini” sul proprio terreno di classe e si dà la struttura a ciò necessaria: ideologica, organizzativa e militare anche (che è cosa alquanto diversa dai cecchini individuali, e ciechi).

20 maggio 2015