Ancora stentiamo a realizzare: Paolo ci ha lasciato. Paolo Turco è uno di quegli uomini, di quei compagni la cui presenza sembra “debba essere per sempre”, sicché quando l’organismo umano viene a cedere, e tanto più improvvisamente come è accaduto per Paolo, non ci si capacita e si rimane smarriti.
Il vuoto che lascia nel nostro ultraristretto Nucleo e nel movimento comunista internazionalista in generale a cui ha dedicato tutte le sue energie per una vita intera è un vuoto che ci appare incolmabile.
Egli è uno di quei militanti che con rigore e disciplina esemplari e assolutamente fuori da ogni vacuo e imbecille personalismo – Egli dotato di una personalità e di uno spirito vivissimo, di una cultura vastissima – hanno saputo raccogliere il testimone del comunismo autentico nei momenti oscuri dominati dalle forze della controrivoluzione dalle precedenti generazioni di rivoluzionari, quelle di un Amadeo Bordiga per intenderci, per ritrasmetterne il patrimonio vivo alle generazioni nuove, alla rivoluzione proletaria che verrà.
Non sono frasi di circostanza. E’ una cosa, un rapporto, una continuità fisica addirittura quasi prima che politica. E’ la profonda “passione del Comunismo” che si trasmette fra le generazioni: il compagno Comunello di Treviso (vecchia guardia di Livorno ’21, poi della Frazione nell’emigrazione in Francia e poi ...il rientro sulla trincea internazionalista in Italia) gli aveva donato la bandiera ricamata del P.C.Internazionalista che Paolo gelosamente custodiva; Gigi, la vecchia quercia Gigi Danielis, anch’egli del PCd’I e di Bilan e Prometeo all’estero, poi dirigente della federazione torinese del P.C.Internazionalista nel ’45, in seguito rientrato a casa per guadagnarsi il pane come calzolaio, gli aveva trasmesso il filo dell’organizzazione in Friuli. Quando capitava di ricordare la figura di Gigi Danielis nei discorsi coi compagni, Paolo si commuoveva.
Entrato molto giovane, nel ’62, in “Programma Comunista” Paolo Turco ha da subito contribuito alla redazione del giornale quindicinale del Partito ed ha messo in piedi in Friuli una sezione numerosa ed attiva in grado di tenere perfettamente il campo come organizzazione reale e riconosciuta sul territorio nel panorama dei movimenti sociali e politici degli anni ’70.
Ha vissuto le crisi in serie prodottesi in “Programma”. Si è dato, ci ha dato e ne ha dato a tutto il movimento internazionalista una spiegazione, prevedendo e anticipando la frantumazione definitiva del P.C.Internazionale che avverrà nel 1982.
Uscendo nel dicembre del 1977 da “Programma”, Paolo è stato il propulsore – anima e corpo – del primo Nucleo Comunista Internazionalista il quale editò fino all’estate del ’79 cinque numeri della rivista “Partito e Classe”. Fu l’inizio di un lavoro rivoluzionario intensissimo “per il Partito a venire” a scala interna ed internazionale. Citiamo qui soltanto la partecipazione attiva alla “Conferenza internazionale della Sinista Comunista” svoltasi a Parigi nel 1978.
Quegli anni di lavoro rivoluzionario svolto con una straordinaria intensità fruttificarono prima con l’incontro e l’unione con i compagni milanesi de “Il Leninista” per seguire poi in breve lasso di tempo con la fusione con i compagni del “Centro di iniziativa marxista” basati principalmente a Napoli e in Campania.
Sorse così, nel 1984, l’Organizzazione Comunista Internazionalista di cui Paolo fu dirigente sino all’uscita dal gruppo (nel 2007, poi... la storia del nostro Nucleo, del nostro sito e dei giorni nostri) ed il suo organo di stampa, il giornale comunista “Che Fare” di cui Egli è stato uno dei principali redattori.
A Paolo Turco principalmente si debbono i lavori di notevole spessore teorico svolti dall’OCI sulla crisi dell’Urss e sulla devastazione della Jugoslavia. Crisi jugoslava che in particolare ha seguito passo dopo passo da vicino e ben da prima che la federazione slava si disintegrasse (fosse fatta disintegrare). La passione rivoluzionaria con cui ha partecipato a quel dramma – dramma di quei popoli e dramma nostro, della nostra classe – ci è trasmessa viva e pulsante dalle pagine raccolte nel volume “Jugoslavia, una guerra del capitale”, edito nel ’95 dalle “edizioni Che Fare”. La partecipazione dell’OCI, attestata sulla trincea di classe, comunista ed internazionalista, alla lotta attorno alla disintegrazione della Jugoslavia con tutte le sue implicazioni ha rappresentato forse il punto più alto raggiunto dall’Organizzazione in quanto capacità di direzione e di influenza anche e ben al di là del raggio coperto dalla forza immediata che si è potuto mettere in campo. E’ stata, quella diretta da Paolo nei passaggi della crisi e della guerra di Jugoslavia, una dimostrazione esemplare di che cosa sia e debba essere la messa in campo di una forza comunista rivoluzionaria dal punto di vista del lavoro teorico e pratico, uniti insieme e conseguenti.
Quando allo scrivente è giunta via telefono la notizia della sua morte, è scattata come in un rullo la memoria, riavvolgendosi nel corso del tempo. E fissandosi, chissà perché, su punti certo assolutamente marginali. Il ricordo del primo incontro nella sede di Udine nell’estate del ’76 quando Paolo, con a fianco Alba sua compagna di sempre e per sempre, ebbe a riportare le notizie che giungevano delle rivolte operaie in atto in Polonia. E il discorso seguì e cadde sulla rivolta proletaria di Berlino Est del ’53. Rivolta proletaria a Berlino Est? Che ne sapeva lo scrivente di una rivolta proletaria nella Germania “socialista”? Niente, assolutamente niente. Fu un colpo di frusta. E, ricorda ancora lo scrivente, di una riunione nell’ottobre del 1977 tenuta a caldo appena dopo l’assassinio dei tre combattenti della Raf tedesca avvenuto nel carcere di Stammheim, in pieno governo socialdemocratico alla guida della Germania occidentale. La relazione tenuta da Paolo fu un qualcosa di potente, di lancinante come un taglio di lama che ti segna profondamente e per sempre: lontani, anzi contrari alle “teorie” e alla conseguente prassi di quei combattenti trucidati, se ne rivendicava in pieno l’energia e lo spirito di ribellione e sovversione dell’infame ordine democratico che ci opprime, energia e spirito che si trattava (si tratta) di raccogliere, disciplinare e indirizzare attorno a un lavoro rivoluzionario, certo fuori da ogni ribalta e di lunga lena, rivolto verso la massa del proletariato che qualcuno (più di qualcuno) pretendeva (pretende) “integrata al sistema”...
E, chissà perché, lo scrivente si è ritrovato con la raccolta di “Partito e Classe” squadernata davanti agli occhi. I poverissimi (in quanto fattura “grafica”) numeri di “Partito e Classe” tirati al ciclostile, di giorno e di notte, dall’impagabile “nostro Gutenberg”: i ricchissimi e attualissimi numeri di “Partito e Classe”!
Apriamo quelle pagine. E’ “Partito
e Classe” n.5, siamo nel dicembre 1979. Qui sotto
riportiamo la “nota introduttiva” redatta
da Paolo Turco a “due lettere di Amadeo Bordiga su guerra e
socialismo”. Avevamo già in animo di
ripresentare questo lavoro, per scagliarlo come un sasso contro chi
oggi ancora una volta lancia al proletariato l’esca del
patriottismo, contro chi vuole riproporre al proletariato il legaccio
mortale fra nazione e classe. E’ un testo di
battaglia più che mai attuale e bruciante. Per dire che Paolo
vive.
27/05/17
DUE LETTERE DI
AMADEO BORDIGA SU
GUERRA E
SOCIALISMO
NOTA
INTRODUTTIVA
Riprendiamo
in questo numero di “Partito e Classe” due lettere
pressoché sconosciute ed
inedite di Amadeo Bordiga del ‘15 sulla questione del
socialismo e della
guerra. (1)
L’interesse di questi
documenti è duplice: uno, diciamo così, di carattere
“storiografico”, per un’ulteriore
accreditamento della “corrente Bordiga” quale unico
centro italiano
del Partito Socialista sin da allora in
sintonia coi capisaldi del marxismo ortodosso, secondo la linea che
avrà in
Lenin il suo più alto esponente, sulle questioni-chiave di
dottrina e programma
rivoluzionarî; l’altro più
“attuale” (come speriamo di riuscire ad
evidenziare)
in quanto la lezione che promana da queste due lettere conserva
intatta, oggi,
la sua attualità e più urgente, semmai, si presenta
la necessità di una riappropriazione
di essa in vista degli eventi, futuri. Ovviamente, questi due aspetti
si
collegano per noi in uno solo: 1’individuazione e la difesa
di un filo storico che non ha nulla
di.
metafisico, come talora ci si obbietta, né di
“settario” nel senso di difesa di
una sigla nominativa, d’individui o di gruppi. Non è
per giurare sull’infallibilità
del campione Bordiga o su quella di una generica “Sinistra
italiana” che ci rifacciamo
a queste fonti, bensì per riannodare alle lezioni di un
passato dell’intero
movimento rivoluzionario, nelle
sue manifestazioni particolari più
alte (giacché
la storia si fa con utensili vivi,
non con astrazioni geometriche, abitualmente del poi),
i destini del presente movimento e di quello futuro,
chiamati. a misurarsi sugli stessi,
problemi nelle forme sempre nuove
cui ci obbliga l’evoluzione oggettiva del capitalismo e la
sua sagace messa in
atto, soggettiva, di strumenti sempre più sofisticati di
diversione. (2)
Partiamo dall’aspetto
“storiografico”. Le due lettere sono rivolte a
Roberto Marvasi, pubblicista
socialista allora assai noto, animatore del giornale socialista La Scintilla di Napoli e collaboratore
a vari altri fogli del. variegato campo
socialista “indipendente”
dall’ufficialità di partito. (3) Marvasi è,
nel ‘15, uno dei sostenitori del
neutralismo socialista di fronte alla guerra minacciata per
l’Italia, dopo che
per tutta Europa già sono divampate le fiamme di essa, e
dell’internazionalismo.
Ma quel neutralismo è già condizionale, sotto il velo
di una serie di
preoccupazioni che appartengono in pieno al retaggio borghese (la
patria, il
nemico, il colpevole dell’accensione della miccia etc.),
mentre il preteso
internazionalismo è quello degenerato, che di socialista non
ha nulla,
cresciuto in seno alla 2^ Internazionale come riflesso di una crescita nazionale dei
vari movimenti socialisti,
interno al patrio capitalismo nel ciclo “pacifico”
ed espansivo; è l’internazionalismo
dei messaggi, delle dichiarazioni di principio, degli auspici, senza
che nulla
si faccia per rendere materiale, a cominciare dal piano teorico, il
fattore di
unità internazionale del proletariato di tutti i paesi. Si
può dire che l’intiero
movimento operaio è stato condizionato
– nell’epoca della 2^
Int. –
dal tipo di sviluppo oggettivo del socialismo, che esso ha subito come
un
insieme lo stesso tipo di condizionamento senza poterne integralmente
uscire in
quanto forza materiale di reinversione rivoluzionaria del corso
economico-politico-sociale; ma c’è chi ha subito
questa determinazione come puro e semplice riflesso (è il caso
di Marvasi – per
dire della stragrande maggioranza del movimento
socialista –), e chi ha reagito
ad essa nella previsione e per
la preparazione di tempi diversi, di brusca rottura con
1”‘ordine” del periodo
di “pacifica espansione”. E’ vero: il 4
agosto non cade dal cielo, covava già
nelle ceneri; il sccialsciovinismo è il frutto di un dato
corso oggettivo che
si è manifestato, a scala soggettiva, nella 2^
Int. ben prima del ‘14,
ma anche il bolscevismo e la sinistra italiana sono un frutto, di segno
opposto, dell’incubazione
prodottasi
nella stessa Internazionale. (4)
E’ fatale che per
tagliare con abitudini e incrostazioni che si formano in periodi di
preparazione occorrano delle forti scosse, tali da porre l’aut aut: o riforgiare le armi della
rivoluzione alla luce di questi
(non imprevisti) svolti, o cedere di fronte al nemico di classe con
l’adottarne
l’essenziale
de1l’ideologia e della pratica.
Rendere più evidente la linea di demarcazione e raccogliere
attorno ad essa le
forze materiali della rivoluzione è il compito che spetta, in
questi frangenti
decisivi, ai rivoluzionari conseguenti. Capire come
e perché il bolscevismo
e la sinistra di Bordiga (con pochissimi compagni, tutti di fresca
età) abbiano
assolto a questo compito fa un tutt’uno col lavoro di
riappropriazione del filo
storico di cui dicevamo all’inizio.
E’ caratteristico di
Bordiga l’andare sempre al nodo ultimo, non indulgere nelle
correzioni
superficiali di questa o quella formulazione, capire che il peggior
pericolo – per
un esito realmente rivoluzionario degli
eventi – si annida non tanto
nel nemico dichiarato quanto nel “vicino”,
nell’“intermedio”; e qui, nelle lettera
a Marvasi, si ha una chiara dimostrazione di quest’attitudine
e di un
corrispondente metodo. Non si
tratta
di rilasciare patentini personali, per cui
– certamente – un
Marvasi è mille volte meglio di un Mussolini (già
passato esplicitamente al
campo avverso), bensì di misurare i futuri sviluppi,
oggettivamente
determinabili, dello scontro tra le classi, e di prepararsi di fronte
ad essi
con le armi acconce. Si tratta non di dividersi uomini, ma di tracciare
divisioni di strade,
ed Amadeo sa che l’essere
taglienti su questa seconda linea non impedisce, al contrario!,
l’unico “dialogo”
serio con chi, provvisoriamente, sta su strade diverse: il dialogo tra
coerenza
rivoluzionaria ed una soggettività rivoluzionaria incoerente,
ma riscattabile
(a date condizioni) dalla prima (e fu il caso, ad es., di Gramsci, che
la
Sinistra difese dalle accuse gratuite per il passato interventismo, in
quanto,
proprio, Gramsci veniva a porsi sul terreno indicato sin dal
‘14, e prima, da
Bordiga o quanto meno si disciplinava ad esso, mentre nessun merito
poteva
riconoscersi a certi suoi accusatori exneutralisti di fronte alla
guerra ed ora
neutralisti di fronte alla questione del potere, del Partito, della
dittatura).
La discussione con Marvasi è in quest’ottica:
attraverso l’utensile vivo si
mira alle cose, ai fatti materiali che conseguono a certe formulazioni
teoriche, a certe rappresentazioni ideologiche dei problemi. Non lo
capirà
Marvasi, che rimarrà anzi costantemente stupito dalla
“virulenza” di un tale
attacco contro un comp., tutto sommato, “non
compromesso” con l’interventismo
aperto. Non lo capiscono molti neppur oggi, imputando a Bordiga
l’eccessiva
durezza contro possibili compagni di strada o quanto meno contro
elementi “neutralizzabili”,
il tutto, ben s’intende, previa accorta tattica che
– detta in soldoni –
vale come manovra ai bassi livelli
di persona. (Persino l’IC non comprenderà a fondo il
perché di una necessaria
lotta decisa, con separazione netta, nei riguardi del massimalismo
bagolone; dopo di che soltanto si
sarebbe potuta
e dovuta porre la questione della souplesse
di tattica e persino di manovra).
Cogliere a tempo tutte
le implicazioni, teoriche e
pratiche, del bernsteinismo, del kautskismo o, come qui, di certo
neutralismo
apparentemente in linea e reagire a tempo ad esse con tutte
le necessarie contromisure è una delle condizioni cardine per
non trovarsi in ginocchio quando le contraddizioni latenti
divengono attuali.
Il movimento rivoluzionario internazionale ha pagato un alto prezzo per
non
aver portato più avanti, sul piano delle conseguenze pratiche,
di partito, il “dibattito”
contro Bernstein lucidamente schizzato, sul piano teorico, dalla
Luxemburg. Ha
pagato caro per l’accredito oltre il lecito del kautskismo,
già in nuce
prima del “rinnegamento” aperto del marxismo.
Pagherà caro, è il pensiero di
Bordiga che possiamo leggere sotto queste lettere del ‘15, se
non taglierà a
tempo i ponti con l’intermedismo tra patria e socialismo, tra
proletariato e
nazione, tra riforma e rivoluzione; e condizione di ciò
può essere solo il
tracciato di una strada unica,
indivisibile, che non condanna i compagni a metà strada, ma
all’opposto li
salva (se e quando può farlo) proprio in quanto indica ad essi un approdo
reale, ben
solido.
1915: il tempo matura
per la creazione di uno strumento nuovo del proletariato
internazionale, un effettivo
Partito Comunista Mondiale;
strumento forgiatosi al fuoco della guerra attraverso un taglio materiale con tutte le varianti
riformiste, pacifiste, gradualiste dell’opportunismo
“socialista” covato dal
capitale nel seno della 2^ Int. La grandezza di questa proclamazione
chiara ed
anticipata di Bordiga si coglie nello stupore sgomento di Marvasi:
“Parlare di
rotture, e via!, che esagerazione, che truculenza!”. Ed
invece sta proprio qui,
nell’inchiodare sin d’ora
ai termini
della scissione futura gli elementi
dell’equivoco “socialista”. Alla data del
‘15 nessuno, neppure Bordiga, poteva
avere la facoltà di “creare”
un’utile scissione (come invece si sostiene, con
bella faccia tosta e in base a pure deduzioni ideologiche, a posteriori
da
parte di qualcuno) (5); ma Bordiga ebbe, sì, la capacità
di dirigere il corso verso la
necessaria
scissione ponendone le anticipate basi. Nella prima delle due lettere
vi è già
tutto 1’arsenale nostro: mai (né in pace né
in guerra) “unità nazionale”,
bensì
lotta di classe tanto nei periodi di “pace” che in
quelli di guerra; questa
come ogni altra guerra non interrompe lo scontro
proletariato-borghesia, ma lo
esaspera: occorre perciò dispiegare al massimo delle forze la
capacità di
fomentare e dirigere la “discordia nazionale”.
Al tempo stesso, vi è il
chiaro preannunzio di una nuova Internazionale capace veramente di
rompere, al
livello nuovo dato dall’imperialismo, con le mille caotiche
versioni dell’ideologia
borghese, e c’é la comprensione nettissima del senso
e della direzione dell’antimilitarismo
(termine che corregge
robustamente l’equivoco del
“neutralismo”) nel cuore del conflitto: non
episodio a sé, non risposta immediata alla guerra, ma episodio
della generale
battaglia contro il capitalismo: enucleazione della “tattica
dell’antimilitarismo
di domani che sarà la
piattaforma
dei tentativi rivoluzionari del proletariato”. I1 ciclo
è continuo, dalla
formazione del proletariato in classe sino all’abbattimento
definitivo del
sistema borghese, sì che l’atteggiamento dei
rivoluzionari in pace si salda a
quello in guerra, e viceversa, come dall’altra parte della
barricata sono
saldati i “socialismi” antimarxisti, del tempo di
pace, con la loro vasta gamma
che va dal riformismo sbracato al massimalismo, a quelli del tempo di
guerra,
con le varianti ondeggianti dall’interventismo aperto al
neutralismo pilatesco.
Avendone lo spazio,
meriterebbe pubblicare di seguito alle lettere di Bordiga le risposte
di Marvasi:
esse condensano in sé i luoghi comuni ormai abituali del falso
socialismo o
comunismo fattosi, deliberatamente, “nazionale”
(non a caso il 4 Novembre è
festeggiato, oggi, da PCI e PSI in piena dimenticanza persino delle
riserve
morali, irrilevanti in sé, ma sincere nel sentimento, dei tipi
alla Marvasi
contro il flagello della guerra). Egli rifiuta, naturalmente, e con
innocente
stupore dinanzi all’“insolenza” di
Bordiga, la qualifica di patriota puro e
semplice, alla borghese; per l’appunto: egli è il
patriota dei momenti d’emergenza,
il “neutralista sì e no”, che mira
all’internazionalismo, ma come coronamento
della patria, come insieme di patrie, E’ il fautore di
un’Internazionale a cui
si attribuisce il diritto di svolgere opera disfattista a
condizione che essa avvenga con “unico
ritmo”( testuale) “in
tutte le nazioni”. Quel che gli sfugge è proprio il
senso della nuova
Internazionale cui accenna Bordiga: Partito Mondiale in quanto organo
formale
di una classe storica legata al capitalismo “da rapporto di
causalità”, ma “in
antitesi”. E Bordiga puntualmente gli risponde:
“Era proprio con voi che
intendevo polemizzare, non con gli interventisti”, in quanto
rappresentante di
un punto di vista “più debole”, ovvero
più insidioso trasportato nella classe;
e finisce col provocarlo perché anch’egli vada sino
in fondo, risolvendo il
problema che, al di là dei distinguo e dei punti di vista
“personali”, sottosta
a tutto: con la Patria o col Socialismo.
Lasciamo
ai compagni lettori l’analisi dettagliata di questi due
documenti, limitandoci
qui a sottolineare un aspetto delle discussioni di allora che
è destinato a
ritornare puntualmente a galla ad ogni analoga esperienza: lo
sfruttamento da
parte del nemico di classe di sentimenti ed idee (a bocconi) del
socialismo per
arrivare al seppellimento di quest’ultimo. Non casuale
(buona fede individuale a parte) che Marvasi protesti, ad ogni sua
affermazione
patriottica, di farla in nome del socialismo, con la preoccupazione che
si crei
un’ambiente “più favorevole” al
socialismo, previo – ben
s’intende –
l’arruolamento del proletariato dietro le insegne borghesi
quando l’ora
incalza. Non si dichiara, ovviamente, di voler difendere “la
costituzione
capitalistica che noi, non meno di lui (Bordiga) e degli alteri
neutralisti a
oltranza, intendiamo abbattere”, ma la patria di
tutti, “la patria intangibile nei secoli e nei
secoli benedetta”,
“ ‘fiamma e nucleo
animatore’ dell’Internazionale
di domani” (!), “la mamma, la sposa, gli amici,
l’amante e financo le amarezze della
vita quotidiana, i propositi infranti dal destino, i sogni della
fanciullezza,
i generosi errori, la gioia e i tumulti dell’esistenza,
fugati ormai dal tempo,
e questi cieli d’Italia, coi suoi mari e coi suoi colli e col
segno fulgido e
non morituro dei poeti, sfolgorante nelle pagine del libro, sulle tele,
nel
bronzo, e nei canti del popolo.” Quanto poco romantico
appare, in confronto, il
Bordiga quando
– “schematizzando” –
risponde: “Si tratta di una
guerra imperialistica, una guerra per il dominio capitalistico del
mercato
mondiale, per la conquista di importanti punti per il collocamento del
capitale
industriale e bancario”! (6)
Ma c’è di
più. Dedicatisi al difficile compito di
smantellare il socialismo con argomenti
“socialisti”, “ingenui” e
smaliziati
che siano, i rinnegati del socialismo arrivano al punto di presentare
come
traditore degli “ideali” proprio colui che va
dritto per la via indicata da
Bordiga, del disfattismo rivoluzionario, della lotta implacabile tra le
classi.
Lo si fa, sempre, cominciando col distinguere uno
“spirito” del socialismo come
ideale più o meno lontano (roba da “messa della
domenica” per calmar gli animi)
ed una pratica di esso. “I nostri contraddittori
– scrive il Marvasi –,
librati tra la ‘lettera’ e lo ‘spirito’
del nostro vangelo, uccidono il
secondo per aggrapparsi troppo alla prima”. Occorre piegarsi
al reale, al movimento
imprevedibile delle cose: è il grido dal cuore del
piccolo-borghese illusosi di
essere socialista sul serio. “Se il tremuoto minaccia la
casa, non si discetta
di architettura”, ammonisce il Marvasi, “ma si
pensa solo alla vita che
pericola”. E c’è qui il modo
idealistico-religioso di intendere il socialismo
quale generico ideale, per l’appunto, e non,
com’è per noi, come dev’essere,
quale arma di battaglia concreta, di azione eminentemente pratica
– persino
nel momento dell’alta teoria –.
La patria in pericolo
e non se ne avverte il richiamo? Per questi rinnegati la spiegazione
è
semplice: si tratta di incoscienti, di “fiancheggiatori
oggettivi” (come si usa
dire oggi) del nemico. Bordiga? Un tedescofilo. La conclusione della
polemica
da parte del Marvasi è un capolavoro di insinuazione:
“A questi chiari di luna
bellica – mentre tante creature gettano fra le armi,
stoicamente, la loro
giovinezza – io sono quasi vergognoso di aver
polemizzato fin qua”. Tutto
taccia, fuorché l’amor patrio, e per tacitare
l’avversario si gettino sul
piatto le giovinezze stroncate. Da chi stroncate? Dal nemico, ben
s’intende. E
il nemico è sempre quello fuori di casa nostra. Che
più?
Per chi volesse
documentarsi su un simile modo di procedere nella polemica antimarxista
ai fini
di una ricostruzione concreta del clima ’15-’19,
suggeriamo la lettura di un
libro di Francesco Paoloni, un ex che si dichiara tuttora socialista: I sudekumizzati
del socialismo, edito, guarda caso!, dal
“Popolo d’Italia”di Mussolini.
(7) Ricordati tutti i meriti personali di pubblicista del PSI, il
Paoloni
afferma in prefazione: “Ho la soddisfazione di poter
rivendicare, oggi, la
logica del mio atteggiamento favorevole all’intervento
dell’Italia nella guerra
con gli Imperi Centrali, non per un lento processo di evoluzione
dall’Internazionalismo
al Patriottismo, ma per la immediata intuizione dei doveri che la
guerra
Europea imponeva agli Internazionalisti, come tali, e come cittadini
Italiani”.
Lo sconcio patriottardo borghese non trova sufficiente o conveniente
parlare
per sé solo in quanto difensore del capitale: ha bisogno di
dichiararsi
socialista, anzi l’unico vero socialista “dello
spirito”, perché sa che per
portare a termine la sua guerra, la borghesia deve penetrare
ideologicamente,
materialmente, tra le fila proletarie, scompaginarle, deviarle verso
obiettivi
fasulli, ma presentati come suoi. Togliatti poteva
“copiare” in occasione della
seconda guerra mondiale le stesse parole del Paoloni; i trotzkisti
odierni, in
nome di una patria “semi-socialista”,
“socialista degenerata”,
“deformata” etc.
etc. sarebbero pronti oggi a ripetere contro i marxisti di sempre le
argomentazioni di Marvasi: siamo contro la guerra “per
principio”, ma, quando
arriva il tremuoto, occorre verificare qual è il nemico
più temibile per le
sorti “concrete” del socialismo, e quindi...
Di fronte alle
posizioni di Bordiga, Paoloni scatta: “Questo si chiama
parlar chiaro: ben
vengano gli austriaci ed i tedeschi; anzi, aiutiamoli ad arrivare, e
vincere!”
(p. 153) Bordiga ha avuto la ventura, con la corrente che a lui si
richiamava,
di subire per due volte lo stesso gioco. “Il sinistrismo,
maschera della
Gestapo” (8) è lo sviluppo banditesco, ben al di
là delle polemiche dei pre-fascisti
del ‘15-18, dell’attacco contro le posizioni del
marxismo rivoluzionario con l’arma
del ricatto borghese fatto passare nel proletariato per merce
progressiva.
Studiosi picisti non sprovveduti, come il Livorsi, arrivano magari a
dar buona
la posizione di Bordiga di fronte al primo conflitto mondiale, ma poi
–sempre
in nome dello spirito contro la lettera e dei fatti
nuovi –, bollano come “oggettivamente
pro-fascista” la stessa
posizione di
fronte alla seconda guerra mondiale: e diciamo la stessa prendendo
lettera e
spirito rigorosamente ed unicamente proletarî, mentre affonda
miserabilmente la
menzogna staliniana-togliattesca dell’olocausto liberatore,
del riscatto
antifascista e via dicendo a prezzo del coinvolgimento servile del
proletariato
nei fronti di guerra; proprio mentre i risultati odierni, di preludio
ad una 3^
e più atroce carneficina mondiale, mostrano che ad aver vinto
allora è stato il
più feroce degli imperialismi, quello USA. La
vittoria “democratica” nella
1^ g.m. ha dato il fascismo
ed ha alimentato lo stalinismo; quella, sempre “democratica”,
nella 2^ ci ha regalato il totalitarismo
del dollaro, la spartizione del mondo col colosso russo depuratosi da
ogni
eredità socialista, una serie interminabile di guerre
“locali” (ove i morti,
però, sono da guerra generale) ed, infine, il preludio di un
terzo macello.
Quando verrà l’ora dei
conti
per i patriottardi ed i tedescofobi? (9)
E se non basta, si è
pronti persino a puntellare la propria politica sciovinista con le
prese di
posizione rivoluzionarie... degli altri. Liebknecht, come annota
Bordiga,
diventa argomento tedescofobo nelle mani dei neutralisti sì e
no, in realtà
patriottardi della più bell’acqua. Il rivoluzionario
purissimo che spezza la disciplina
falsa di partito in nome della
disciplina autentica del socialismo
è presentato dai Marvasi come l’antiprussiano, il
nemico del militarismo
tedesco. E si veda questa citazione
“pro-Liebknecht” da parte del mussoliniano
Paoloni:
«Liebknecht,
l’eroe
solitario, è nostro, non vostro.
Liebknecht formula contro la Germania e contro l’Austria
le
stesse accuse che formuliamo noi, e che voi invece respingete con gli
stessi
argomenti contrapposti a Liebknecht dai maggioritari tedeschi.
Liebknecht vuole, come
noi, la sconfitta del militarismo tedesco per liberare i popoli di
Germania e d’Austria,
e per rendere possibile quell’accordo fra tutti gli Stati,
che il vostro
Partito, con gli stessi argomenti dei maggioritari Tedeschi, dichiara
utopistico.
Liebknecht è il solo
socialista tedesco col quale noi possiamo riprendere i rapporti. Con
quali
socialisti Tedeschi riprenderà i rapporti il vostro
Partito?»
La risposta a
quest’ultimo
quesito è venuta dagli avvenimenti successivi: con Liebknecht
stettero i pochi “bolscevichi”
italiani, mentre il fascismo passava all’attacco contro il
socialismo sulle basi della
vittoria
delle democrazie, della civiltà imperialista.
Perché la lotta di Liebknecht
non era per liberare i “popoli” dal militarismo di
un colore, bensì per far
trionfare quel socialismo che può edificarsi unicamente sulle
ceneri dell’imperialismo
comunque aggettivato.
Nel corso della 2^
g.m. nessun Liebknecht poté far sentire la sua voce
all’interno di un movimento
operaio non ancora scisso (come poté darsi, invece, nel
‘14); in ogni caso, lo
sciovinismo “progressista” avrebbe ripetuto nei
suoi confronti la manovra di un
Paoloni, di un Mussolini, ed è da ricordare il sinistro
abbaglio di un Trotzkij
che finì per accusare di oggettivo appoggio alla barbarie
nazifascista quanti
(pochissimi) rifiutavano di consegnarsi ai fronti di guerra
imperialisti come “premessa
migliore” di un socialismo a venire: col che, sia ben chiaro,
non intendiamo
stabilire assurde identità tra rinnegati aperti e Trotzkij, ma
vedere come una
data logica porti a inevitabili, mostruose conseguenze controrivoluzionarie.
Il mito
di cui si avvalsero tutti i nostri
avversari nel corso della 1^ g.m., da Turati a Mussolini, via
neutralismi
condizionali alla Marvasi, fu quello della vittoria democratica quale
garanzia
per un migliore, se non unico, sviluppo del socialismo; nella 2^ si
giocò la
stessa carta (“paradossalmente” contro un regime
– come quello di
Mussolini – nato anche anagraficamente dal seno
della democrazia: vedi i
soldi francesi portati da Cachin al “Popolo
d’Italia” per favorire la campagna
interventista pro-democratica), con in più l’altro
mito, quello della “patria
del socialismo” russa. Chi, memore ancora di principi
socialisti, non cadde
nella prima trappola precipitò nella seconda. Ed anche allora
contro i
rivoluzionari si agitò lo specchietto per le allodole della
“tedescofilia”, del
“nazismo mascherato” e via dicendo. Questa
è la storia del passato: può essa
dare alcune indicazioni per i tempi a venire?
Abbiamo parlato
inizialmente di un aspetto attuale
delle lezioni del passato che è, per noi, ineliminabile da
quello “storiografico”.
Riprendiamo di qui il filo del discorso.
Oggi, fine ‘79, siamo
già alla fine di un ciclo di ricostruzione
“pacifica” e di relativa
prosperità. Le “magnifiche sorti e
progressive” vantate contro il catastrofismo
marxista sono andate a farsi benedire, se anche il PCI si interroga
preoccupato
su un futuro che si preannunzia sinistro, con pericoli di guerra non
solo
fredda. E’ interessante che le avanguardie, sia pur
debolissime, oggi operanti
a scala mondiale si pongano con buon anticipo la
questione della guerra
e dell’azione proletaria di fronte ad essa. Ciò
significa che veramente i ritmi del
nuovo ciclo di scontro
avvengono secondo lo schema da noi disegnato: si riparte da condizioni
di
terribile prostrazione del movimento rivoluzionario, senza più
alcun possibile
disegno di riconquista di direzione o di scissione da un movimento
operaio “unitario”
entro un arco di forze che va dai Bernstein ai Liebknecht; e tuttavia a
questo
enorme handicap fa da contrappeso
la
necessità materiale per le ristrettissime avanguardie
comuniste attorno a cui
si ionizzeranno le contraddizioni dello scontro di porsi i problemi del
programma e dell’azione rivoluzionaria senza rinvii, senza
spazi in bianco, di
aggredire il nemico alla radice. Nel ‘15
potevano ancora coesistere
nello stesso partito, transitoriamente, un Marvasi ed un Bordiga, e
questo fu
un peso materiale enorme contro la chiarezza di principi e programmi
del
socialismo; oggi, si riparte da un terreno più sfavorevole, in
quanto a forze
fisiche immediate disponibili, ma incomparabilmente più
alto rispetto a quelle che chiamiamo le basi
costitutive del Partito, dell’Internazionale
futura. E’ questa
l’unica garanzia
(relativa, come
tutte le garanzie di questa fatta) perché non si ricada
già in partenza nei
vizi d’origine che pesarono sulla stessa 3^
Int. (10)
Nel n°
3
di “Prometeo”
prima serie (ottobre ‘46) apparvero, per la penna di Bordiga,
le “prospettive
del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito”. In
esse la lezione
dei due cicli precedenti si proietta nel tracciato delle
“linee interpretative
e tattiche corrispondenti alla situazione di cosidetta pace, succeduta
alla
cessazione delle ostilità” nella prospettiva del
riaprirsi del nuovo ciclo di
antitesi guerra-rivoluzione. Conscio dell’inesistenza di un
reale Partito
agente (il che non significa affatto rinvio a compiti di puro studio o
di
esclusiva propaganda ideologica) Bordíga scrive:
«L’essenza
del
compito pratico del Partito e della sua possibilità di
influire sui rapporti
delle forze agenti e sul succedersi degli eventi sta appunto non nella
improvvisazione
ed escogitazione di abili risorse e manovra mano
a mano che le nuove situazioni maturano, ma nella stretta continuità fra le
sue
posizioni critiche e le sue parole di
propaganda e di battaglia in
tutto il succedersi ed il contrapporsi delle diverse fasi del divenire
storico.
(...)
Il nuovo Partito di
classe internazionale sorgerà con vera efficienza storica, ed
offrirà alle
masse proletarie la possibilità di una riscossa solo se
saprà impegnare tutti i
suoi atteggiamenti futuri su una ferrea linea di coerenza ai precedenti
delle
battaglie classiste e rivoluzionarie.» (11)
Nel documento vengono
previste le possibili false crociate sotto cui il capitalismo
impegnerà il
mondo al terzo macello mondiale e le loro conseguenze nel proletariato;
di qui
discende “l’opposizione marxista al futuro
opportunismo di guerra”, che non è
un’opposizione rinviata al momento, quando che sia, dello
scoppio della
conflagrazione, ma la conseguenza di tutta
l’azione dei rivoluzionari a partire dai momenti di
“pace” e la premessa della
soluzione definitiva (con l’abbattimento violento del potere
borghese) di uno
scontro continuo che non necessariamente si arresta o conclude con la
guerra.
Le dichiarazioni di futuro disfattismo, su cui vediamo con favore porsi
sin d’ora
vari gruppi d’avanguardia già disintossicati del
manovrismo di tipo trotzkista
(per dire l’ala più a sinistra
dell’opportunismo), hanno un senso solo in
quanto sappiano farsi sin da ora anche guida per 1’azione
“in tempo di pace”,
sappiano tradursi in adeguata tattica rivoluzionaria superando la
soglia di un
generico estremismo pago delle sue proclamazioni di principio. Un vero disfattismo antiborghese si prepara, in sostanza, col
disfattismo attuale, con l’attuale “di
scordia nazionale”: sappiamo bene come, in caso
contrario, si possa arrivare
tranquillamente, sotto l’onda delle “nuove
situazioni”, alla revisione totale
dei principi nella pratica “d’emergenza”
(non a caso gli anarchici sono stati
resistenzialisti e persino ministerialisti, come in Spagna, in quanto
incapaci prima del fatto militare
di dare
consistenza al loro antistatalismo di principio). Va compreso, insomma,
che non
è un caso se Lenin, Liebknecht o Bordiga si sono schierati
sullo stesso ed
unico fronte rivoluzionario nel ’14: in ciò vi era
solo la conseguenza necessaria e naturale
di tutto il corso precedente delle
loro battaglie.
Tanto vale anche per il futuro.
NOTE
(1)
Cfr.
R. MARVASI, …tutte
le fiamme, Roaia, 1916. Questo raro libre
è ricordato da
F. Livorsi nel suo Amedeo
Bordiga, Roma, Riuniti, 1976, p.
43, mentre non
appare nella Storia
della Sinistra, scritta, relativamente al primo
volume,
dallo stesso Bordiga. A quest’ultima opera rimandiamo per la
ricchissima
documentazione prodotta e per l’inquadramento
storico-politico della questione.
(2)
Ci
capita di essere accusati di atteggiamento storiografico o di
astrattismo
perché ci rifacciamo alle lezioni del passato, nel falso
presupposto che lo scopo del nostro
lavoro sia quello di
attaccarci alla difesa di un’eredità di gruppo. Ora,
può benissimo darsi che
noi non riusciamo ad evidenziare come necessario il senso della
continuità che
rivendichiamo, ma ci pare che la metafisica stia proprio in coloro che
– in
nome di una vera strategia ottimale, che sarebbe solo oggi da
costruirsi,
oppure in nome di un richiamo astratto a modelli staccati dalla storia,
presi a
sé (foss’anche il leninismo) –
evitano di considerare il filo rosso del
marxismo nel suo svolgersi, nelle sue contraddizioni se del caso, in
quanto
filo continuo. L’unico
modo per non
essere “bordighisti” (o
“leninisti” od altro) nel senso banalmente settario
ci
pare possa derivare solo da questa visione continuativa,
il che non significa affatto “mescolare”,
“sovrapporre” o comunque combinare
assieme cose diverse.
(3)
Accanto
alla stampa ufficiale di partito vi è tutta una fioritura di
pubblicazioni socialiste,
talora estremamente eclettiche. La
Scintilla di Marvasi è un esempio
di queste pubblicazioni da “tribuna libera” delle
“intellettualità” socialiste
più disparate. Su Marvasi non si hanno molte notizie,
né conta qui raccoglierle
ad uso erudito. Ricordiamo solo un suo libriccino post-’45, Echi
dei terrore, in cui si ha l’eco di un di
socialismo generico, “indipendente”
nel senso piccolo-borghese.
(4)
Se
è ben vero che l’incubazione
dell’opportunismo esploso nel ‘14 si ha
già prima,
nella 2^ Int., come frutto di un adattamento al ciclo capitalista, non
si può
arrivare all’esagerazione di risolvere in socialdemocrazia
pura e semplice
tutto il corpo della 2^ Int. arrivando a
comprendervi poi lo stesso
Lenin (e Bordiga). Quello che i metafisici sul serio non riescono a
comprendere
(vedi nella Rass.
Stampa di questo n. la nota sul gruppo Internationale) è il processo di decantazione e formazione
di un reale partito comunista condotto avanti dalla Sinistra
secondintern.;
processo che non poteva darsi al di fuori dell’ambito condizionato del movimento
“unitario”. Abbiamo forte il sospetto
che Lenin avesse “capito” prima del ‘14
dottrina e programma internazionalisti:
il fatto è che non si trattava semplicemente di
“capire” per scindersi (come?
da, che cosa?) in conventicola intellettuale. Ricordiamo sempre
l’avvertimento
di Bordiga: i partiti non si fanno, si dirigono, ed il problema
è di sapere
come ricongiungere la curva spezzata del movimento formale
all’altezza del filo
storico ed agire di conseguenza. La II^ Int. è sì, da
un lato, l’incubatrice
dell’opportunismo più triviale; ma è anche
il terreno d’incubazione del
marxismo della 3^ Int. e la premessa fisica,
non aggirabile coi “se” ed i
“ma” intellettualistici del, poi, della stessa
nostra lotta di oggi per la rinascita di un’Internazionale oltre il livello della 3^.
Anche Bordiga parla di “vizî
di origine” a proposito della stessa 3^ Int. di Lenin: ma si
comprenda come
quest’espressione esprima tutt’altro che il salto di un passaggio necessario, ed anzi
come essa ponga il superamento di
domani sulla base di una
rigorosa difesa della validità essenziale e permanente della
3^ Int. e di Lenin
nella fattispecie.
(5)
Anche
recentemente si è tornata ad agitare contro Bordiga
l’accusa di non aver rotto
prima, nel ‘19 o magari nel ‘14, col PSI.
Rimandiamo alla nota qui sopra ed a
quanto abbiamo altrove scritto in materia: la rottura
col vecchio partito, così come la formazione
di un nuovo partito, non sono questioni che si risolvono
col semplice rilievo delle differenze tra realtà (staticamente
intesa) e
obiettivo. Così fosse, potremmo quotidianamente fondare nuovi
partiti (e,
infatti, c’è chi crede di poterlo fare). Dal
‘
(6)
Contro
il fariseismo alla Marvasi che lacrima sulle mamme, i figli e 1e amanti
vale bene
l’articolo
di Bordiga dell’ 1-5-’15
su “Il
Socialista” La
bestialità
sessuale nella guerra (vedi nel vol. I bis della Storia della Sinistra,
p.
59), con la conclusione: «Noi malediciamo il fenomeno della
guerra che
imbestialisce e disonora l’uomo sotto ogni cielo».
Ma il “proprio” cielo, per
la morale borghese, è sempre più bello e da difendere
dove (offendendo gli
altrui) di quelli del “barbaro straniero”.
(7)
Cfr.
F. PAOLONI, I
Sudekumizzati del socialismo, Milano, “Il
Popolo d’Italia”,
1917. Per ricchezza di documentazione polemica si tratta di uno dei
testi più
interessanti di difesa dell’interventismo
“dall’interno” del socialismo.
Meriterebbe, comunque, studiata tutta la vastissima produzione
libellistica di
questo tipo, a cominciare dall’attività
giornalistica, smaliziatissima, di
Mussolini col suo “quotidiano socialista”., Un
anticipo su quello che sarebbe
accaduto nel ‘14-15 si poté avere in Italia con la
questione della guerra
libica, laddove
furono proprio molti “rivoluzionari” soreliani a
dar veste “socialista” all’impresa
del democratico Giolitti.
(8)
Già
nel ‘38 il PCI si era premunito per i tempi di guerra
indicando, ad un suo CC,
1’equazione trotzkismo-bordighismo-fascismo. Si
passerà poi alla formula di
Secchia (uno staliniano veramente ... sinistro!) sul
“sinistrismo maschera
della Gestapo”, ed alla eliminazione morale e fisica degli
internazionalisti
(con identico schema si procederà ovunque fuori
d’Italia), Più gentile (a
posteriori) ed in un clima di “riabilitazioni”
peggiore, se possibile, di quello
stalinista di eliminazione del nemico è il PCI odierno.
Livorsi parla di tesi “strabilianti
e fosche” per il Bordiga della 2^ g.m., ammette che certe
“tedescherie” non
dipendevano da “alcuna simpatia per Hitler”, ma
“c’è, certo, in lui una
persistente germanofilia” (p. 373 op. cit.). Insomma, gli
internazionalisti
sono, per chi sta all’opposta sponda, dei perenni
“sudekumizzati” del
socialismo, cioè, nel migliore dei casi, dei favoreggiatori
incoscienti del
nemico (borghese) contro la patria (borghese).
(9)
Livorsi
parla di un Bordiga che rimpiange la mancata vittoria di Hitler proprio
citando
questo suo passo: “Il crollo di questo (il fortilizio
inglese, n.) (..) avrebbe
sommerso il capitalismo mondiale o per lo meno lo avrebbe travolto in
una crisi
spaventosa, mettendo in moto le forze di tutte le classi e di tutti i
popoli
straziati dall’imperialismo e dalla guerra, e forse
invertendo tremendamente le
direttive sociali e politiche del colosso russo ancora
inattivo.” (p. 373)
Questa sarebbe la “tesí strabiliante e
fosca” di “rimpianto” sulla mancata
vittoria di Hitler! Il tutto in nome della
“tedescofilia” inveterata di
Bordiga. Quando si dice chiarezza!
(10)
Vedi sopra nota
4.
(11)
Per una ricca
documentazione sui
problemi di valutazione e prospettiva degli anni del dopoguerra
rimandiamo
(senza poter qui esprimere un giudizio articolato e complessivo su di
esse) al
vol. di “Programma” Per
l’organica
sistemazione dei principi comunisti ed alla raccolta Le prospettive rivoluzionarie della crisi,
ed. dal “Filo del Tempo”,
più volte richiamati sulla ns. rivista. Se vediamo come limite
(non casuale)
delle formazioni “bordighiste” dal dopoguerra ad
oggi l’incertezza nel
collegamento tra posizioni critiche e battaglia propagandistica e
d’azione,
resta comunque vero per noi che le coordinate
interpretative dei fatti per l’innesto, su di esse, di una
complessiva azione
dell’avanguardia rivoluzionaria emergono al massimo della
chiarezza negli
scritti, in particolare di Bordiga, sullo svolgersi dello scontro di
classe a
scala mondiale, specie con le splendide pagine raccolte nelle Prospettive… E’ un
lascito che appare
tanto più enorme se confrontato con le
“analisi” via via degradanti dell’altra
corrente che aveva cercato di salvare la continuità
bolscevica, quella
trotzkista degenerata, per non dire delle altre formazioni estemporanee.
PRIMA
LETTERA
Caro
Marvasi,
domando la
parola. Il
signor Herberg, deputato socialista al Reichstag, contro il quale tanto
vi
accanite, non è peggiore di tanti socialisti italiani,
interventisti o quasi,
che si credono logici nell’applaudire
all’atteggiamento di Carlo Liebknecht.
Liebknecht
contro la guerra è per voi un argomento tedescofobo. I1 nostro
partito contro
la guerra è per Herberg un argomento italofobo. Voi giurate di
difendere l’Italia,
e trovate giusto che Herberg giuri di difendere la Germania. Egli
è che voi
conciliate l’internazionalismo con la convinzione che la
causa socialista coincida
con la vittoria degli alleati. Herberg e i suoi pari lo conciliano con
la
convinzione che sia necessaria al socialismo la vittoria dei tedeschi.
Voi
ed essi volete in questa guerra dividere la ragione dal torto e,
stabilito da
qua1 parte siano le vostre simpatie, ragionate in conseguenza.
Volete
negare ad Herberg il diritto di dire: i socialisti italiani sono contro
la guerra,
dunque l’Italia ha torto?
Rinunziate
a dire: una coraggiosa minoranza di socialisti tedeschi è
contro la guerra,
dunque la Germania ha torto. E questo voi l’avete detto.
Liebknecht
e noi ci muoviamo in un piano diverso dal vostro e da quello di
Herberg.
Compiendo opera di discordia nazionale contro gli stati rispettivi noi
sappiamo
di non favorire i nemici, ma di
lottare per l’internazionale di domani, per il socialismo,
dinanzi al quale hanno torto tutte
le borghesie.
Il
signor Herberg è un buon cavaliere che sa stare in arcioni tra
il socialismo (a
modo suo) e il patriottismo. E’ una qualità che non
invidiamo né a lui, né
– perdonatemi – a voi.
E
– poiché ci siamo – mi
consentirete un’altra obiezione. Voi mostrate
di ritenere che la tesi nostra, che ieri si chiamava correntemente
neutralismo,
ma che meglio si sarebbe chiamata e si chiamerebbe antimilitarismo, sia
caduta
nel nulla per la fine della neutralità statale. E’
un modo troppo comodo di
provare che la storia ha dato ragione agli interventisti, o ai
neutralisti sì e
no (i quali, giova osservare, avrebbero potuto apparir profeti in tutti
i
casi). La posizione storica del Partito socialista, almeno secondo la
maggioranza di esso, non ha ragione di modificarsi pel fatto della
guerra. Per
quanto grandiosi siano gli avvenimenti attuali, pur tuttavia la pace e
la
guerra non sono i termini assoluti di una antitesi nei limiti della
quale sia
costretto a muoversi il socialismo. E guerra e pace sono manifestazioni
della
società capitalistica che il socialismo tende a superare.
Come
in pace il socialismo subisce il fatto dello sfruttamento economico,
che è
ancora più forte di lui, ma ne resta ostinato avversario,
così, in guerra, il
socialismo, pur dovendo subire una avversa condizione di cose, non
rinunzia
alla sua posizione ideale e non fa tacere la sua condanna e la sua
rampogna al
mondo presente.
Questa
non sarà l’ultima guerra, e tanto meno
segnerà la fine del capitalismo. Perciò
in Germania, in Russia, in Italia, dovunque vi sono socialisti non
divenuti
complici delle borghesie, si lavora ad enucleare la tattica
dell’antimilitarismo
di domani che sarà la piattaforma dei tentativi rivoluzionari
del proletariato.
Il
fatto che in Italia ci sia la guerra, malgrado che il partito
socialista l’abbia
avversata, non dimostra il fallimento di questa aspirazione storica.
E’ solo
dopo lo scioglimento dell’attuale conflitto che si potranno
tirare le somme.
Allora
si vedrà se la storia abbia denunziato la bancarotta del
socialismo o quella
delle mille caotiche ideologie borghesi che portano oggi milioni di
lavoratori
alla più immane strage, abbagliati
dalle luci false dei vessilli nazionali.
Credetemi, caro
Marvasi,
vostro
AMADEO BORDIGA
SECONDA
LETTERA
Caro
Marvasi,
la
cortese vostra ospitalità e la larghezza della postilla che
avete fatto seguire
alla letterina che vi inviai mi incoraggiano a scrivervi ancora. In
verità
quelle poche righe polemiche mi furono suggerite solo dalla vostra
rovente
filippica contro l’ Herberg e da una vostra prematura
affermazione intorno alle
direttive antiguerresche del Partito socialista, punti che mi pare di
aver
chiarito a sufficienza, senza però pretendere di confutare
tutto quanto avete
scritto sulla guerra da dieci mesi.
Ma,
dato che voi avete, nel rispondermi, allargato il dibattito in modo
addirittura
allarmante, vorrete accordarmi di rivolgervi alcune obiezioni, alle
quali
perdonerete la forma sommaria e schematica
1)
Limitatamente a quelle due questioni, era proprio con voi che io
intendevo
polemizzare, non con gli interventisti... Ad ogni modo scorgo
più debole
avversario nel neutralista “relativo” che
nell’interventista deciso. Più logico
di tutti è, a mio modo di vedere,
il
nazionalista borghese, mentre difettano di ogni. buon senso quei miei
compagni,
già neutralisti assoluti, che sono oggi, con voi, infiammati
da patriottismo.
2)
Se i vostri scrupoli di non professarvi apertamente interventista
derivavano,
anziché dalla obbiettiva valutazione della realtà,
soltanto dalle tradizioni
del “verbo” socialista, avreste fatto meglio a
gettare nel fuoco i sacri testi.
Così non esiteremmo a fare noi, se per poco la realtà
storica smentisse le concezioni
e i metodi dottrinarii del socialismo. Credere che le due cose possano
essere
in antitesi, o comunque sdoppiate, vuol dire avere già ucciso
e seppellito la
lettera e lo spirito degli insegnamenti marxistici. Ed allora
perché esitare a
staccarsene?
3) 1
due “doveri” che vi piace innestare sul famoso
“verbo” hanno ben poco da spartire
col socialismo e colla presente situazione internazionale. Si deve,
anche correndo alle armi (ed allora
addio “verbo”!)
impedire la vittoria della nazione più lontana dalla
civiltà? Ma in ogni
nazione vi sono classi e partiti che sono assai diversamente
“vicini alla civiltà”.
Tutti gli Stati sono nelle mani dei partiti e delle classi che
esercitano
funzioni conservatrici. E questi Stati non si battono per il lusso di
vedere
affermata universalmente questa o quella scuola politico-filosofica,
bensì per
il trionfo degli interessi delle rispettive classi dominanti. Ogni
nazione si
avvicina alla civiltà quando nel seno di essa si determina e
precisa la lotta
di classe. La guerra produce l’effetto opposto, e per
conseguenza determina un
ritorno a forme politiche più conservatrici. Questa
conclusione viene oggi
confermata dagli avvenimenti.
4)
Il dovere di garantire le
“autonomie
nazionali” spetta alle borghesie, che invece
– tutte – se ne
infischiano. Infatti la formazione delle unità nazionali fu
uno degli aspetti
della affermazione storica della borghesia contro il regime feudale.
Tale
processo è oggi già sorpassato. Deve preoccuparsi il
socialismo di riprendere
questo compito a cui gli altri partiti imbevuti di nazionalismo e
d’imperialismo
non pensano più? Affermare ciò è la
conseguenza di un equivoco. Che il
socialismo sia storicamente condizionato
da un adeguato sviluppo della società capitalistica,
è vero, ed è questo che
dicono i patriarchi. Ma
ciò non vuol
dire che per agevolare certi momenti dello sviluppo capitalista il
socialismo
debba transigere alla sua opposizione politica. Il completamento della
evoluzione
borghese si fa invece meglio sotto la pressione della lotta di classe.
L’internazionale
dunque non nasce dalla patria attuale per processo di evoluzione
riformistica.
L’internazionalismo sarà la forma politica
dell’economia comunista, come lo
stato nazionale è quello dell’economia capitalista
Le due forme storiche sono
legate da un rapporto di causalità, ma sono in antitesi,
considerate come
tendenze sociali delle due classi opposte: borghesia e proletariato.
Questo è
lo scheletro dialettico del socialismo rivoluzionario, sul quale ben si
adagiano gli avvenimenti d’oggi.
Infatti,
mentre voi volete attendere “prima del trionfo del
socialismo” che le guerre
borghesi ricaccino nella preistoria il fenomeno imperialista,
è questo che
grandeggia e soffoca la timida e clorotica teoria del rispetto delle
nazionalità. Quando questo fenomeno si sarà
esasperato, soltanto il socialismo,
appunto col suo trionfo, lo sorpasserà abbattendo il regime
borghese.
5) I1
vostro punto di vista è irto di contraddizioni. Infatti voi
dite che “il
partito ha diritto di impedire la guerra se essa sia di oppressione e
di conquista”,
ma asserite poco più oltre che quando la patria è in
pericolo “sia pure a causa di errori
di goveranti”
bisogna aderire alla concordia nazionale. Col primo asserto potete
impiccare i socialisti
tedeschi, col secondo dovete assolverli. Un paese che fa guerra di
conquista è
a sua volta in pericolo,
ed è esposto allo spettro dei “due padroni invece di
uno” in
caso di sconfitta. Ricordatevi in ogni
modo che il detto turatiano non va applicato solo al proletariato
d’Italia, ma
anche a quello dei paesi nemici.
Lo
invocherete quando si tratterà della Dalmazia slava, di Valona
albanese, delle
isole egee e greche.
6)
Vi preoccupate che di antimilitarismo non ve ne fosse in egual misura
in ogni
paese? Non esageriamo. Quando vi sarà il caso di giudicare con
cognizione di
causa, temo forte che i socialisti tedeschi hanno fatto più di
molti altri per
evitare la guerra... Ma l’argomento è scabroso.
Citate a riprova la conversione
di Hervè? Ma via! Essa è più vecchia della
guerra. Hervé era bloccardo nel
penultimo congresso socialista francese, avversò
nell’ultimo fieramente la proposta
di Jaurès per lo sciopero generale in caso di mobilitazione, e
tutto ciò assai
prima dell’agosto 1914. Lo sapevano già un rinnegato.
7)
Dobbiamo rileggere i discorsi di Liebknecht? Rileggiamoli pure:
«L’attuale
guerra, che nessuno dei popoli trascinativi ha voluto, non è
scoppiata nell’interesse
del popolo tedesco o di qualunque altro popolo.
Si
tratta di una guerra imperialistica, una guerra per il dominio
capitalistico
del mercato mondiale, per la conquista di importanti punti per il
collocamento
del capitale industriale e bancario.
La
parola d’ordine tedesca “contro lo
czarismo” ha servito – come
l’attuale
parola d’ordine inglese o francese “contro il
militarismo” – allo scopo di
asservire all’odio dei popoli i più nobili istinti,
le tradizioni rivoluzionarie,
le aspirazioni delle masse proletarie.»
Io
sottoscrivo. E voi? Riconoscete di aver fatto dire a Liebknecht il
contrario di
ciò che ha detto, assumendo che nella critica alla borghesia
tedesca egli
giustificasse le altre borghesie.
(8)
Concluderò, sconfinando a mia volta dalla vostra postilla, per
dire che non
divido le idee esposte, nello stesso numero della Scintilla... , dal
compagno Sacerdoti.
Che
l’avversione alla guerra vada fatta prima,
per trasformarsi dopo in collaborazione, io non posso mandarla
giù. Se il
Partito incautamente seguisse il consiglio di Sacerdoti e facesse una
simile
dichiarazione, sarebbe liquidato. Dirò queste sole ragioni: in una futura analoga situazione
il Governo potrà ridere del nostro movimento, sapendo a priori che basterà la
dichiarazione di guerra a farlo
spontaneamente capitolare. Diventeremmo squallidi e sterili pacifisti.
Appunto
perché non siamo tali, avversiamo la guerra principalmente
perché smorza la
lotta di classe. E poi dovremmo accentuare questa conseguenza della
guerra con
la nostra stessa opera?
Dite
chiaramente che, secondo voi, il Partito dovrebbe essere
l’organo per la
propaganda patriottica fra il proletariato. E decidiamoci ad andare
divisi per
strade diverse, voi con la Patria, noi col Socialismo.
Vedo
di non essere stato né completo né breve e chiudo col
domandar venia del
secondo fallo.
AMADEO BORDIGA