Il 4 luglio 2020 al Confederate Memorial di Stone Mountain, Georgia nella ricorrenza della dichiarazione di indipendenza delle 13 colonie americane dalla madre patria britannica avvenuta il 4 luglio 1776, un distaccamento della comunità nera americana ha voluto celebrare a modo suo la storica data: alcune centinaia di miliziani neri, avanguardie della “colonia interna” sono sfilati inquadrati ed in armi per ricordare che la comunità degli oppressi neri non ha nulla da sparire con quella storica ricorrenza, che non si sente parte dell’AmeriKKKa e che la sua propria liberazione è ancora tutta da conquistare. Attraverso la sua propria auto-organizzazione, attraverso la messa in campo di una sua propria Forza di auto-difesa anche armata e separata “dai bianchi” vale a dire separata anche dal proletariato bianco. Una Forza che seppur (per il momento) separata dall’esercito unitario dei senza-riserve americani (tutto ancora da costituire) noi ci auguriamo sappia comunque assumere e sostenere sia i compiti di auto-difesa che quelli necessari di contro-attacco e di offesa, dentro ad una guerra sociale che si combatte (e prevedibilmente ancor più si combatterà) senza requie e in forme brute quanto cruda, spietata, implacabile è la sostanza dell’oppressione e totale l’alienazione umana nel cuore del capitalismo mondiale, dentro la potenza centro e faro universale della libertà e della democrazia.
La dimostrazione armata del 4 luglio è stata solo un episodio spettacolare avvenuto in un momento incandescente dello scontro sociale e politico interno agli Usa (a cui altri analoghi sono seguiti) ma segnala l’emergenza (la ri-emergenza) di una non episodica ma profonda corrente di generale riscatto (morale, sociale, politico) che attraversa la comunità nera negli Usa e con essa la rinnovata emergenza dell’eterno implicato e storico “dilemma” di prospettiva: lotta per l’indipendenza della “nazione-colonia nera oppressa”; per il “diritto all’autodecisione” del popolo afroamericano; per il ritorno da qualche parte nella madrepatria Africa; per l’integrazione e confluenza dentro ad un unitario movimento proletario per la rivoluzione negli Stati Uniti e nel mondo…
Svolgiamo qui solamente qualche appunto sulla questione estremamente complessa con lo sguardo proiettato oltre le vicende contingenti e più o meno effimere di questa o quella milizia/organizzazione nera assurta “agli onori delle cronache” (si fa per dire, dato che del fenomeno se ne parla il meno possibile, essendo “imbarazzante” per molti anche fuori e oltre il campo delle due fazioni borghesi che si fronteggiano). Lo facciamo, al solito, in maniera senz’altro rozza, largamente parziale ed incompleta. Ma intanto vogliamo segnare il campo al fuoco di una lotta (di cui la scadenza elettorale del 3 novembre è solo un passaggio) che se ci trasmette una grande energia sappiamo essere quanto mai irta e complicata all’inverosimile per il corso della Rivoluzione nostra che per vincere dovrà trascinare e riuscire ad affasciare la massa dei senza-riserve di ogni razza e colore. Ricordando sempre (prima di tutto a noi stessi e al manipolo dei nostri fedeli) l’enormità rivoluzionaria “della cosa” in cui si situa e di cui è parte il processo di riscatto della comunità degli oppressi neri di cui trattiamo, ossia il combattimento “per la vita o per la morte” in atto, finalmente ora possibile all’interno del santuario Usa inviolato e “inviolabile” del capitalismo mondiale, dentro il suo territorio, dentro la sua principale tana. (1)
Sappiamo, per quanto riguarda le vicende contingenti, che molti (non tutti) dei superstiti dirigenti militanti del vecchio storico Black Power-Black Panther Party disconoscono ogni legame con le attuali milizie/organizzazioni nere tipo il New Black Panther Party ed altre, qualificandole quasi al livello di “gang” dedite al culto organizzativo paramilitare vuoto di prospettiva politica e quando questa vi si rintraccia essa viene bollata come “reazionaria”. Per non dire dell’ostracismo e della condanna alla risorgente tendenza separatista/nazionalista nera tacciata di “razzismo al contrario”, di “antisemitismo” e quant’altro di scandaloso, decretata dallo stormo di colombelle multicolori liberal – “progressiste” bianche. Quelle in odore (puzza, tanfo) di Open society specialmente sensibili nel fiutare… puzza di bruciato, nel fiutare cioè le avvisaglie della Rivoluzione brutta, sporca e cattiva che si prepara e che le spennerà senza tanti complimenti.
Per quanto da lontano e dal di fuori possiamo vedere le cose, a noi sembra di poter dire che questo giudizio di condanna sia sbagliato in quanto svilisce un movimento reale di una massa di oppressi che in superficie si manifesta “come può”, dato il peso delle sconfitte subite e il contesto generale ed internazionale in cui viene a risorgere prepotente la questione di razza e di classe nel cuore statunitense del capitalismo mondiale. Le attuali cristallizzazioni esteriori del rinnovato “risorgimento afroamericano” possono certamente sembrare ed essere assai lontane “dall’ideale” (in astratto) ma a noi pare che si debba cogliere e valorizzare il senso profondo del movimento in atto (che per noi deve sfociare nell’unità rivoluzionaria di classe passando anche per la transitoria organizzazione separata).
Il vecchio e “originale” Black Panther aveva potuto crescere e fiorire respirando a pieni polmoni l’ossigeno rivoluzionario sprigionato dall’”incandescente risveglio dei popoli colorati” scaturito dopo la seconda guerra imperialista mondiale, ne era in qualche modo “il terminale” dentro il cuore della Metropoli. Le nuove pantere risorgono, rabbiose sì come un tempo ma inizialmente ripiegate su sé stesse, lo sguardo rivolto all’ambito esclusivo e ristretto della propria reietta comunità ed al suo eterno bisogno di autentico riscatto umano che nessuna montagna di dollari stanziata per integrarla nello Stato borghese può e potrà mai appagare (uno sforzo notevolissimo certamente messo in atto dal capitalismo americano che gli ha consentito di stroncare la sfida audace lanciata dal vecchio e glorioso Black Panther “nel ventre della bestia” come si diceva allora, insieme all’impiego di tutti i mezzi della più spietata repressione: piombo a volontà sui ribelli, secoli di galera inflitti ai militanti, fiumi di eroina fatti scorrere nei ghetti ecc.).
Come dice il capo di una milizia nera (NFAC, “Not Facking Around Coalization”): “… finché non impariamo ad amare noi stessi, non possiamo amare un’altra gente. … I neri desiderano ardentemente appartenere a qualcosa, dobbiamo dare loro qualcosa a cui appartenere. Preferirei dare la mia vita per qualcosa di nobile come la liberazione del mio popolo, piuttosto che sprecarla rimanendo in vita essendo un debole”. Il fiore del risorgente Black Power-Black Panther rinasce nell’atmosfera livida della catastrofe capitalistica mondiale che prelude, come quella del 1929, ad una distruzione generalizzata di capitale, ad un nuovo macello imperialista mondiale SE la Forza del Proletariato Internazionale non sbarrerà in tempo la strada alla soluzione borghese della crisi universale in atto. E il “qualcosa” a cui deve appartenere ed appartiene la comunità degli oppressi afroamericani, nient’altro è che il proletariato internazionale e la sua causa rivoluzionaria, ne siano coscienti o meno le attuali sue vere o presunte avanguardie organizzate.
D’altra parte le dirigenze delle attuali milizie/organizzazioni black (che talvolta ci appaiono “pittoresche” secondo i criteri “bianchi europei”) (2) replicano con fondati argomenti ai molti dei vecchi militanti “dell’autentico” BPP che le sviliscono, di essersi, loro antiche pantere, trasformati nel corso di un tempo carico di sconfitte e arretramenti in mansueti animali domestici e addomesticati, appendici radicali delle frazioni liberal-“progressiste” dell’imperialismo democratico.
A nostro giudizio è cosa buona e giusta che, per intanto e in questo passaggio della lotta, la comunità dei neri d’America o una sua parte combattiva senta ed esprima la necessità di organizzare la propria auto-difesa e il percorso verso la propria liberazione anche in forme separate “dai bianchi”, separate dal resto della classe proletaria e dai senza-riserve bianchi. Per intanto.
E’ cosa buona e giusta, sapendo benissimo che l’orizzonte delle attuali organizzazioni/milizie d’avanguardia black non è, evidentemente, quello della Rivoluzione Comunista Internazionale (come del resto non lo era quello del vecchio e “autentico” BPP sorto nel 1966: vedi il testo del 1971 di Programma comunista che ripubblichiamo in calce) e che la attuale scarna loro “base programmatica” e rivendicativa (vedi i 10 punti del programma New BPP di cui diremo) è, certamente se vogliamo, ancora più arretrata rispetto al quadro programmatico comunque democratico-borghese del primo glorioso Black power. Ma se lo è, ciò riflette il generale arretramento subito dal proletariato internazionale in questi decenni e, in particolare, la prolungata eclissi della lotta di classe proletaria nelle metropoli bianche.
Sono passati ben 87 anni da quando Trotsky (esiliato a Prinkipo, 1933), rispondendo alle domande dei compagni americani circa l’atteggiamento da tenere rispetto al movimento nazionalista dei neri d’America e alla loro domanda di separazione/autodecisione, diceva:
«Certo, noi non costringiamo i negri a divenire una nazione; se lo sono, allora questa è una questione che riguarda la loro coscienza, cioè è una questione che dipende da quello che desiderano e a cui tendono. Diciamo: se i negri lo vogliono, allora dobbiamo lottare contro l’imperialismo fino all’ultima goccia di sangue perché abbiamo il diritto di godere di un territorio indipendente, dove e come vogliono. Il fatto che ora non siano una maggioranza in nessuno Stato, non ha importanza. Non si tratta dell’autorità degli Stati, ma dei negri. (…) In ogni caso l’oppressione subita dai negri li spinge verso un’unità politica e nazionale. (…) Se in America ci fosse una situazione tale da aver già consentito azioni comuni tra operai bianchi e operai di colore, se la fraternizzazione fosse già diventata una realtà, allora forse l’argomento dei nostri compagni avrebbe un fondamento (i quali erano favorevoli alla lotta per “l’eguaglianza sociale, politica ed economica dei neri” ma non al sostegno al loro “diritto all’autodecisione”, ndr) – non dico che avrebbero ragione – allora forse divideremmo gli operai di colore dagli operai bianchi se cominciassimo con la parola d’ordine dell’”autodecisione”. Ma oggi nelle relazioni con i negri gli operai bianchi sono degli oppressori, sono dei miserabili che perseguitano i negri e i gialli, li disprezzano e li linciano. (…) Il 99,9 per cento degli operai americani sono sciovinisti, nei confronti dei negri sono dei carnefici e lo sono anche nei confronti dei cinesi. E’ necessario ammaestrare le belve americane. E’ necessario far loro capire che lo Stato americano non è il loro Stato e che non devono essere i guardiani di questo Stato. Gli operai americani che dicono: “I negri devono potersi separare se lo vogliono e noi li difenderemo contro la nostra polizia americana” sono dei rivoluzionari e ho fiducia in loro».
E ne sono passati 81 da quando sempre Trotsky (esiliato a Coyoacan, 1939) sulla stessa questione ancora diceva:
«Non possiamo dir loro di formare uno Stato perché ciò indebolirà l’imperialismo e ciò andrà bene per noi, operai bianchi. Ciò sarebbe contrario all’internazionalismo. Non possiamo dir loro: “Installatevi qui, anche a prezzo del progresso economico”. Possiamo dire: “Spetta a voi decidere. Se volete prendere una parte del paese, benissimo, ma non vogliamo decidere per voi”. (…) La battaglia per la possibilità di realizzare uno Stato indipendente è un segno di grande risveglio morale e politico. Sarebbe un enorme passo in avanti rivoluzionario». (3) sottolineature ns
Ne è passata di acqua sotto i ponti da allora, e certamente la struttura sociale e le condizioni oggettive e soggettive dello scontro di classe e di razza dentro gli Stati Uniti sono notevolmente cambiate rispetto al quadro del 1933/39. Nel… frattempo, per dire di un cambiamento “epocale” nella sovrastruttura della società, i neri d’America hanno potuto vedere coi loro occhi un figlio della loro razza assurgere addirittura al vertice “del potere supremo” (potere nominale, of course) e per ben due mandati di fila, cosa letteralmente impensabile non solo ai tempi di Trotsky ma anche in quelli a noi più vicini di Malcom e del primo BPP. Ma, scavallando i cambiamenti e le trasformazioni “epocali” della società, permane per noi il profondo senso storico rivoluzionario delle indicazioni tracciate allora da Trotsky.
Possiamo riassumere ciò che a nostro giudizio in esse permane di profondamente vivo, oggi 2020 e oltre, nei seguenti punti:
– Essa e solo essa, comunità di oppressi neri, deve poter decidere il percorso della propria liberazione: “non vogliamo decidere per voi”, si diceva nel 1939. E lo stesso diciamo oggi. Se la comunità nera ritiene di dover seguire una strada separata (noi diciamo: provvisoriamente separata) dai fratelli di classe bianchi verso l’obiettivo che vorrà darsi, sia esso “l’autodecisione nazionale” o che altro, noi comunisti internazionalisti la appoggeremo con tutte le nostre forze. Non è la comunità degli oppressi neri a doversi “aprire” in prima battuta alla prospettiva rivoluzionaria generale, quanto piuttosto deve essere un autentico movimento di classe ad “alzarsi” al livello di lotta solo abbordato dalle avanguardie del nuovo Black Power (… “dobbiamo lottare contro l’imperialismo, contro il nostro imperialismo!, sino all’ultima goccia di sangue”… si diceva nel 1933) che, a suo modo, abborda la questione non della “riforma” dello Stato americano bensì della sua distruzione. “Il potere è l’unico modo per porre fine all’oppressione” diceva Malcom (in questo caso autenticamente… bordighista cioè marxista!) e riprendono oggi a dire le avanguardie afroamericane: questo è il livello a cui si eleva l’odierna fase di lotta “per la vita o per la morte”!
Allora, e solo allora, quando il proletariato bianco dimostrerà coi fatti di non essere “guardiano dello Stato americano”, non saranno certo la comunità nera e le sue avanguardie a tenersi chiuse in un ambito (allora sì reazionario) di identità nazional-razziale. Non saranno certamente i proletari neri a “chiudersi” e a respingere il piano dell’unità di classe se e quando saremo noi ad esserne degnamente all’altezza. Non è la comunità degli oppressi neri e nemmeno i suoi attuali distaccamenti armati e di auto-difesa ad essere “arretrati”: semmai siamo noi (il movimento complessivo del proletariato internazionale e le sue sezioni bianche-occidentali in particolare)ad esserlo!
- La potente ri-emersione del bisogno/necessità di auto-organizzazione e auto-difesa è “un segno di grande risveglio morale e politico, enorme passo in avanti rivoluzionario” si diceva allora (1939), e tanto vale per il presente. Sottolineiamo l’aspetto “morale” del processo di riscatto, che è un aspetto assolutamente concreto e materiale per il combattimento nel quale la comunità degli oppressi neri è in prima linea. Lo spiegheremo più precisamente quando diremo di un punto in particolare che ci preme del programma rivendicativo NBPP.
“… sarebbe un enorme passo in avanti rivoluzionario”: è, oggi, un enorme passo in avanti sul piano storico che va oltre il destino dei 40 milioni di afroamericani poiché essi, come intravvisto profeticamente da Malcom, sono solo una piccola parte dei “colored” del mondo. Il loro risveglio alla lotta sociale e politica è dunque, secondo la dialettica marxista, segnacolo di possente ripresa della lotta anti-imperialista ovunque, a cominciare dall’Africa. La Forza che comunque sia gli afroamericani mettono in campo nella “loro propria” guerra interna, comunica e si trasmette agli oppressi di colore di tutto il mondo. Ne siano coscienti o meno le attuali, più o meno effimere non lo sappiamo, avanguardie della comunità afroamericana.
– “E’ necessario ammaestrare le belve americane”! diceva Trotsky nel 1933. Ancora una volta la necessità di gettare una propria forza organizzata sulla bilancia permane oggi più che mai per le masse nere. E’ cosa buona e giusta che la loro forza auto-organizzata ed indipendente metta paura non solo alla borghesia (compresa quella nera!) ma costringa spalle al muro, per così dire, lo stesso proletariato bianco statunitense: esso dovrà “tradire” la sua razza e “la sua” nazione per arrivare finalmente ad abbracciare la causa di classe, oppure sapere di dover pagare un prezzo salato. Diceva Malcom nel 1964: «Può darsi che i nazionalisti neri vi diano l’impressione (egli si rivolgeva ad una platea di bianchi radical di sinistra, ndr) di rappresentare una piccola minoranza della cosiddetta comunità negra, ma capita che essi sono fatti della stoffa che ci vuole per dar fuoco alla comunità nera nel suo complesso. Questa è una di quelle cose che voi bianchi , sia che vi chiamate liberali, conservatori, razzisti o quel che volete, dovete cercare di capire, e cioè che se anche la grande maggioranza della comunità nera con cui venite in contatto può darvi l’impressione di essere composta da gente moderata, paziente, affezionata, ormai abituata alle sofferenze e cose del genere, la minoranza che voi considerate composta di Muslims o di nazionalisti ha la stoffa di chi può dar fuoco a tutta la comunità nera. Questo dovete capire. … Si deve tenere in mente che i focolai di lotta razziale accesi oggi qui in America possono facilmente trasformarsi in un immenso incendio all’estero, il che equivale a dire che tutti i popoli della terra possono trovarsi coinvolti in una gigantesca guerra razziale. Queste non sono cose da restar chiuse nel quartiere, in una piccola comunità o in una nazione perché, oggi, tutto quello che succede al nero americano, succede al nero africano, agli asiatici e ai latino-americani». (4)
Queste parole profetiche di Malcom valgano, per estensione nel tempo e nello spazio, per tutto il proletariato bianco-occidentale: “questo dovete capire”!
Quindi, è cosa buona e giusta… I distaccamenti d’avanguardia degli afroamericani fanno bene a non fidarsi “dei bianchi” in generale. Tutta una amara e lunga storia di fiducia mal risposta e di atroci tradimenti spiega la loro diffidenza che è, secondo noi, più che storicamente giustificata. E vogliamo ricordarne uno di questi storici tradimenti subiti dai neri d’America che generalmente si tende a dimenticare (e non per caso).
Negli anni ’20 e ’30 del secolo passato una parte significativa dei neri d’America fu attratta dalla luce dell’Ottobre, dal messaggio comunista di autentica liberazione che si rivolge a tutti gli sfruttati di ogni razza e colore. Si integrarono ed aderirono con entusiasmo nelle fila (non pletoriche) del PC Usa. Credettero di aver finalmente trovato nel Comunismo l’agognato “qualcosa” di cui sopra, una vera Comunità di fratelli uniti e protesi verso la più nobile e sacra delle cause Umane contro la potenza disumana del Capitale. Come avrebbe dovuto essere ma non è stato. Come dovrebbe essere ma ancora non è. Come dovrà effettivamente essere!
Il “comunismo” al quale ardentemente essi avevano creduto ed aderito infatti li tradì. Furono, ancora una volta, piantati in asso dai bianchi, persino dai “comunisti”. E la disillusione fu enorme. (5)
Il nazional-comunismo in salsa americana sacrificò le istanze di liberazione degli oppressi neri che dovrebbero essere naturale parte della generale emancipazione di classe ed umana sans phrase di cui il comunismo autentico è portatore, agli interessi della sua “casa madre” moscovita i quali interessi allora si incrociarono proficuamente con il corso “progressista” assunto dall’imperialismo americano di Roosevelt e del suo New Deal. Fino ad arrivare all’infamia di tacciare le rivolte degli oppressi neri che si scatenarono durante il macello imperialista (1943 Harlem-New York, Detroit) come “Hitler’s Uprising”. Riots che, secondo i caporioni “comunisti” americani, se non manovrati direttamente senz’altro facevano “il gioco del nazismo” (dopo essere stato, il “comunismo” moscovita con tutte le sue succursali internazionali al seguito, per quasi due anni, dal settembre ’39 al giugno ’41, legato al patto con la Germania hitleriana!). I neri d’America urlarono la loro disperazione: “Voi bianchi (voi “comunisti” pure) ci chiedete di versare il nostro sangue contro la barbarie di Hitler mentre ci reprimete e ci perseguitate quando ci solleviamo contro gli Hitler che abbiamo in casa nella vostra democratica America!”.
Acqua passata di una storia che nessuno ormai ricorda o che addirittura non si è mai conosciuto? Credete davvero che simili storici tagli incisi in profondità nella carne e nello spirito dei popoli siano ferite che il solo “passare del tempo” e “le nuove condizioni della lotta” possano cicatrizzare? Noi non lo crediamo, e non è questione di difetto “informativo/culturale” ma di prolungata assenza nell’agone della lotta di una viva e attiva organizzazione politica comunista rivoluzionaria.
Noi pensiamo che, come un Malcom o le prime Pantere, anche le nuove risorgenti Pantere si portino dietro e dentro quella ed altre lontane storie di dolore, di tradimento, di contro-rivoluzione. Il pittoresco capo delle NFAC, per fare un esempio, può benissimo non saperne nulla ed infischiarsene di “quella storia” e con ogni probabilità così è, ma la sua azione concreta discende, dipende, è il frutto anche di quella profonda ferita inferta “al suo popolo” (e, conseguentemente, inferta al proletariato internazionale di cui gli oppressi afroamericani sono indissolubile parte) ne sia individualmente cosciente o meno.
Indubbiamente non si può pensare che il risorgente Black Power possa replicare puramente e semplicemente la passata esperienza BPP. Le nuove condizioni storiche spingono oggettivamente verso un superamento di quella esperienza di lotta “nel ventre della bestia”. Spingono oggettivamente al superamento della innaturale (in astratto) divisione/separazione della Forza proletaria.
L’autentico profeta Malcom si sbagliava quando diceva (discorso del 13 febbraio 1965, poco prima d’essere assassinato): “ E’ quindi importante per voi e per me comprendere che si deve cercare una soluzione che vada a beneficio delle masse e non delle classi privilegiate, delle cosiddette classi privilegiate, perché tra i negri tali classi non esistono. Anche chi ha più soldi si trova a dover affrontare gli stessi guai e le stesse umiliazioni degli altri negri: tutti devono subire le stesse angherie e questa è una delle poche cose buone del sistema razzista: ci unisce indissolubilmente…”. Malcom in questo si sbagliava: anche fra i negri le classi esistono ed il processo storico lo ha pienamente dimostrato. Come dimostra che ad essere legati indissolubilmente, sotto la pressione della corrente storica oggettiva, sono i destini e gli interessi materiali dei proletari, dei senza-riserve di ogni razza e colore.
La potenza immensa del capitalismo americano ha saputo e potuto integrare nel suo meccanismo una parte della Comunità afroamericana, e non semplicemente e superficialmente cooptare una serie di “zii Tom”, di “negri da cortile”, di “servi di Charlie”, di “buffoni con il corpo di nero e la testa di bianco” per usare le espressioni con cui Malcom bollava i suoi fratelli di razza che altro non desideravano che condividere democraticamente “il sogno americano” insieme al padrone bianco. Gli Obama, i Colin Powell, le Condoleeza Rice ecc. ecc. non sono “buffoni con il corpo di nero e la testa di bianco”, sono borghesi rappresentanti di una classe sociale dentro una società aperta come quella borghese che non funziona per caste chiuse come le società feudali. Le loro teste ragionano ed agiscono in base ad una intelligenza e a degli interessi materiali che non hanno colore: quelli della potenza impersonale del Mostro-Capitale e del suo terrificante tentacolo nordamericano.
Ma la potenza del capitalismo americano, per quanto immensa, non ha potuto “trarre a sé”, integrare, la massa della Comunità afroamericana così come non potrà in eterno “trarre a sé”, integrare, nemmeno la massa del proletariato bianco statunitense. L’eloquenza dei fatti si incarica oggi di mostrare proprio questo processo in atto.
Le cose sono cambiate dal tempo in cui Trotsky ammoniva i suoi discepoli americani ricordando loro “che il 99,9 per cento degli operai americani sono sciovinisti…” (egli calcava la mano apposta, come fa il maestro che vuole far entrare un concetto nella zucca degli allievi) e lo sono anche dal tempo (1970)in cui la Lega degli Operai Neri Rivoluzionari sorta a Detroit scriveva nell’introduzione al suo programma: «La subordinazione al razzismo del popolo nero e degli operai neri, crea una condizione privilegiata per gli operai bianchi. Mentre l’oppressione imperialista e lo sfruttamento del mondo crea uno strato di privilegio per gli operai Usa, il movimento operaio bianco non è riuscito ad affrontare l’aggravarsi delle condizioni degli operai neri, il loro ruolo chiave nell’economia e nella classe operaia. Il movimento operaio bianco ha voltato le spalle ai problemi degli operai neri. … L’aristocrazia operaia bianca collabora con il governo imperialista Usa nelle sue lotte di aggressione… La LORN è sorta in particolare dal fallimento del movimento operaio bianco per indirizzarsi alle condizioni razziste di lavoro e alla situazione inumana in cui si trova il popolo nero». (6)
La razzia imperialista di cui la democrazia nordamericana è principale artefice ai danni dei paesi e dei popoli “delle periferie” del mondo non riesce più a garantire come un tempo quell’immenso cumulo di risorse di cui ha potuto beneficiare anche il proletariato bianco. La indomita e stoica lotta anti-imperialista (stoica: si pensi solo all’immenso sacrificio sopportato dai popoli di Iraq piuttosto che di Venezuela, di Siria ecc.) è stata ed è uno dei principali fattori che ha fatalmente incrinato il magico e infernale meccanismo capitalistico. Siamo giunti al punto che tanto il borghese nero Obama prima, quanto il borghese bianco Trump dopo, hanno entrambi dovuto ricorrere alla più falsa e spudorata delle demagogie, “promettendo al popolo” di por fine alle guerre… infinite in cui è impegnata l’America e che ora la sfibrano invece di rafforzarla.
La cruda e dura verità enunciata a suo tempo da un altro notevole intellettuale-militante nero (James Boggs, cfr. “The meaning of Black Revolt in Usa”, 1963): «La verità è che i lavoratori bianchi hanno tratto profitto dallo sfruttamento di quelli neri da così tanto tempo che unirsi ora con questi farebbe loro l’impressione di tagliarsi addirittura la gola con le proprie mani» per cui lo slogan “bianchi e neri uniti nella lotta” era destituito di fondamento, poteva essere appunto solo uno slogan “ideale”, quella cruda e dura verità può materialmente assumere oggi tutt’altro e opposto aspetto, può rovesciarsi: essi lavoratori bianchi americani “si tagliano la gola con le proprie mani” se restano uniti al “loro” Stato, alla “loro” nazione. E, più che “un’impressione”, ciò è un dato materiale che essi possono constatare nella dura esperienza per tutti i senza-riserve dentro la presente catastrofe capitalistica.
Condizione essenziale del processo di rovesciamento di “quella verità” passa necessariamente dalla auto-organizzazione degli oppressi afroamericani e dal fatto che la loro forza auto-organizzata metta paura alla borghesia (di ogni razza e colore). La forza dei neri deve mettere paura: lo abbiamo già detto e apposta lo ripetiamo!
Infine, l’aspetto “morale” del “risorgimento afroamericano” e il particolare punto programmatico del New Black Panther Party che vi si collega, a cui sopra abbiamo alluso.
E’, a nostro giudizio (scusate l’ennesima ripetizione), di grande importanza che la Comunità degli oppressi neri dimostri fisicamente, materialmente, di essere in grado di schierare suoi distaccamenti in forma di milizia disciplinata, inquadrata e armata come avanguardia della sua forza, la quale cova dispersa e disordinata nei ghetti e nelle periferie in cui i senza-riserve neri sono relegati . Non si tratta solo di una questione superficiale di forma ma di sostanza: gli oppressi neri dimostrano anche attraverso queste manifestazioni “spettacolari” di avere e di trovare in sé stessi la capacità e l’energia per rigettare la tendenza alla disgregazione, alla “perdita di sé stessi” fino all’autodistruzione personale e collettiva, tendenza indotta e solleticata in mille modi dal sistema di potere. Poco? Insufficiente? Tutto quello che volete, ma intanto si muove un passo nella direzione giusta…
Si tratta, sia come sia, di un fattore di galvanizzazione e moltiplicazione di forza non solo per la Comunità nera ma per tutto il proletariato. Detto e ripetuto a differenza e al contrario rispetto ad un sentire comune diffuso “nel movimento” americano, fors’anche in esso maggioritario a occhio e croce. Citiamo (e chiosiamo) da un documento che abbiamo sottomano e che ci sembra sintetizzi bene questo tale diffuso “sentire comune”:
«Deve essere chiaro che piccoli gruppi armati non possono sostituirsi al potere organizzato di milioni di lavoratori (ndr: giustissimo! Ma questo le Pantere lo sanno bene… ). Piccoli gruppi non possono sconfiggere il potere combinato e centralizzato dello stato borghese e dei suoi strumenti di repressione (ndr: idem con patate). Inoltre, mentre queste azioni (ci si riferisce alle dimostrazioni armate , ndr) hanno certamente portato molta attenzione sulle Pantere nere, sono state anche usate dai media, dalla polizia e dal Fbi come un modo per marginalizzare e isolare le Pantere stesse dai settori più ampi della classe lavoratrice (ndr: ogni movimento di proletari auto-organizzati provoca codesta attenzione e reazione da parte dei guardiani l’ordine costituito: e allora?). Lungi dal portare all’unità di classe, quella tattica a quel tempo ebbe effetti opposti (ndr: perfetta logica “marxista”-cadaverica). Le immagini delle pantere nere, vestite di pelle che brandiscono coraggiosamente pistole e fucili per le strade di Sacramento, sono diventate un’icona: avevano tutti i diritti di farlo (ndr: infatti lo Stato democratico Usa non nega questo diritto, non servono i “marxisti” per ribadirlo). Ma dobbiamo chiederci: era la tattica migliore per guadagnare l’appoggio di settori sempre più ampi di lavoratori?». (7)
Morale della favola “marxista” (“trotskista”)-cadaverica: non bisogna “spaventare” i lavoratori bianchi non diciamo usando i fucili ma nemmeno mostrandoli per “spettacolo” dimostrativo, sennò non se ne “guadagna l’appoggio”. Cioè esattamente il contrario di quanto noi sosteniamo (e fin qui nulla importa), l’esatto contrario di quanto sostenuto e predicato dal Trotsky che abbiamo ampiamente citato sopra! (e questo dovrebbe voler dire qualcosa per dei compagni che si dicono suoi continuatori, i quali tra l’altro suggeriscono involontariamente l’idea di lavoratori bianchi ridotti a gregge di pecore “che non vanno spaventati”, cosa che non è).
Dunque: organizzazione, disciplina individuale e di gruppo. E lotta per la disintossicazione. Il punto 4. del programma del New Black Panther Party (un programma che abbiamo detto essere democratico-borghese come quello del vecchio BPP) è, a nostro giudizio, di particolare e vitale importanza. In esso si stabilisce, fra gli altri obiettivi di natura immediata (diritto ad abitazioni, servizi decenti ecc.), la necessità di una implacabile lotta contro il flagello della droga cioè contro una subdola arma usata massicciamente contro la Comunità degli oppressi neri (contro tutto il proletariato in verità) per annichilirla nel corpo e nello spirito. E’ la stessa necessità di disintossicazione posta innanzi da Malcom e dalla vecchie Pantere che ingaggiarono una durissima lotta contro la diffusione nei ghetti della “peste bianca-eroina” (Cfr. fra gli altri lo straordinario testo della Pantera Michael Cetewayo Tabor: “La peste. Capitalismo + droga = genocidio” che prima o poi dovremo rifare venire alla luce. Straordinario anche perché fatto da una Pantera ventenne che dai 13 ai 18 anni è stata schiava dell’eroina). Ogni passo compiuto per realizzare l’obiettivo dichiarato rappresenterebbe un grandissimo avanzamento reale per l’insieme della “comunità proletaria” vittima e schiava del Capitale e delle sue subdole armi.
E qui la piantiamo: abbiamo voluto, come detto all’inizio, segnare il campo. Per intanto.
Possano questi appunti largamente insufficienti e parziali essere, in qualche modo, cosa utile per “la loro” lotta che poi è, indissolubilmente, “la nostra” e viceversa.
NOTE
1) Non si deve dimenticare l’enormità rivoluzionaria “della cosa”: il perno del capitalismo mondiale, gli Stati Uniti d’America, erano il concreto simbolo del “capitalismo popolare”, la realizzata “società del benessere”, addirittura la società “senza classi” come diceva una sfilza di illustri apologeti della favolosa american way of life irridendo “alle teorie” destituite di ogni fondamento del cane morto-Karl Marx e seppellendo vivi il pugno di marxisti rimasti sulla breccia costretti ad ingaggiare battaglia solo al livello teorico (pienamente vinta!) contro il mito della società del welfare e del falso socialismo emulativo moscovita e che lucidamente hanno preveduto e descritto l’inesorabile catastrofe a venire. Apocalisse capitalistica che oggi è, esattamente, il nostro pane quotidiano.
All’apogeo del capitalismo mondiale essi scrivevano: «La vera e propria crisi che si porrà storicamente tra la seconda e la terza guerra mondiale sarà, più ancora di quella tra la prima e la seconda, internazionale; e ne è una prova quanto andiamo sottolineando sulla collaborazione del capitalismo di Stato russo alle “misure anticrisi”; collaborazione che, culminando nella terapia dell’estensione del commercio mondiale tra i due pretesi blocchi, anche colla solo sua presentazione ideologica sta invece a provare, con forza dialettica, che la prossima autentica crisi di sovrapproduzione colpirà ad un tempo tutte le mostruose macchine produttive del mondo, sarà la crisi della follia superproduttrice che accomuna America e Russia nella vantata, da entrambe, competizione emulativa». (Programma comunista, n. 9/1958) Davvero ben scavato Vecchia Talpa!
2) Il capo di una di queste milizie (NFAC), un rapper piuttosto famoso negli States, spesso guida super-armato le spettacolari dimostrazioni di forza (per il momento solo spettacolari): non imbraccia un solo fucile mitragliatore, ma due alla volta! Se il piano riformista della lotta fosse superabile “tecnicamente” in questo modo saremmo… a cavallo o quasi. Purtroppo le cose sono molto più complicate e difficili: uno può esibire tutta l’artiglieria che vuole (ed anche usarla) ed essere perfettamente riformista (ed agire nel senso della contro-rivoluzione)…
3) Cfr. Trotsky: “La questione negra negli Stati Uniti”, 28 febbraio 1933; “Autodecisione per i negri americani”, 4 aprile 1939. In “I problemi della rivoluzione cinese e altri scritti su questioni internazionali 1924-1940”, Einaudi Ed.
4) Cfr. “La rivoluzione nera”, discorso pronunciato da Malcom il 8 aprile 1964 ad un raduno promosso dal Militant Labor Forum a New York. In “Malcom X, ultimi discorsi”, Einaudi ed.
5) Per farsi un’idea viva dell’enorme e straziante “disillusione nera” verso il “comunismo” (quello dominante sul mercato, cioè quello avariato di marca staliniana) vedi il racconto di un proletario/scrittore nero (autentico intellettuale e compagno, sospinto infine dallo schifo del “comunismo” stalinista in salsa americana verso il nazionalismo nero): “Fame americana” del (lasciatecelo dire) fratello e compagno Richard Wright.
6) Cfr. “USA ’70 le lotte, il programma degli operai neri”, Edizioni Politiche n. 2 di “Potere operaio”marzo 1971
7) Cit. da uno scritto del 2014 del compagno
“trotskista” John Peterson:
“Sul programma del Partito delle Pantere nere: quale
prospettiva per i lavoratori e i giovani neri?”
riproposto recentemente dal sito marxismo.net.
L’ampio documento intende “smontare” da
un punto di vista “marxista” i classici 10 punti
programmatici delle pantere (quelle nuove ricalcano sostanzialmente il
programma del 1966). In pratica “dimostrare” (per
l’ennesima volta) ai neri che ci vuole la lotta di
classe… Il senso dello scritto sembra filare
formalmente, per chi è di bocca buona (per modo di
dire. Ad esempio ad un certo punto il buon
“trotskista” dice: “un lavoro,
un salario garantito ed un alto tenore di vita dovrebbero essere
assolutamente un diritto basilare specialmente nel paese più
ricco del mondo”!!! Una assoluta
bestialità dal punto di vista dell’autentico
marxismo, ma lasciamo stare…). In realtà
la sostanza è tutta sbagliata. Se si pretende di
“attirare al marxismo” le Pantere con queste
filastrocche e su questa base, stiamo freschi!
Appunto: è cosa buona e giusta per intanto… Che dire
o tentare di dire alle Pantere allora? Riferitevi, riflettete,
studiate, sugli originali. Non confondete gli originali con
gli epigoni (vale per tutti gli
“…isti”) soprattutto: fatelo
non mollando dalla mano il fucile!
21 ottobre 2020
ALCUNE INDICAZIONI PER UN MAGGIORE E PIU’ COMPLETO INQUADRAMENTO DELLA QUESTIONE
Oltre ai nostri classici, agli scritti di Malcom, del BPP e di altri militanti neri, sollecitiamo i compagni alla lettura e allo studio dei seguenti testi:
– dal blog “Noi non abbiamo patria – gazzettino rosso sulla lotta di classe all’epoca del coronavirus”, in particolare:
“Il ritorno di John Brown: i traditori della razza bianca nella sollevazione del 2020”; “Donald Trump versione due punto zero: origini e natura”
– tutti i materiali sulla rivolta sociale iniziata questa primavera via via pubblicati dal sito “Pungolo rosso” curato dai compagni del Cuneo rosso
– il saggio “La sollevazione anti-razzista e il declino Usa” fatto dal compagno Nicola Casale reperibile dal sito “sinistra in rete”
Nel quadro di un’informazione sui movimenti di classe in USA alla quale intendiamo dare carattere continuativo, accenniamo anzitutto brevemente alle Pantere Nere, il movimento che oggi meglio esprime l’aspirazione all’emancipazione della “comunità” negra, in lotta quotidiana contro la violenza della polizia, accanita nella sua reazione contro uno strato sociale senza peso economico e totalmente abbandonato a sé stesso, come il sottoproletariato.
Il giornale Black Panther è l’eco assidua di queste battaglie e dei problemi di difesa e organizzazione della “comunità” che esse comportano. Le sue fotografie sono quelle dei militanti uccisi, o imprigionati, delle manifestazioni e delle lotte contro gli sbirri, delle devastazioni da questi compiute, dei campi di battaglia e anche dei nemici uccisi nello scontro – i “pigs” – i porci (i poliziotti).
Questa lotta contro un nemico che ha sempre e solo la faccia del “porco” poliziotto, oltre il quale non si riesce a vedere la determinazione di classe e politica, rappresenta la vera anima del movimento e anche il suo graduale dissanguamento in una lotta che non si può affrontare alle radici.
I suoi dirigenti vengono deliberatamente e ripetutamente colpiti dalla polizia, che cerca ogni pretesto per ingaggiare una battaglia che le consenta l’eliminazione degli elementi pericolosi – cosa che le è riuscita più volte – come nell’attacco in cui furono uccisi Bunchy Carter (membro del “ministero della difesa”) e John Huggins (del “ministero delle informazioni”) e in cui venne ferito Eldridge Cleaver (poi rifugiato in Algeria); l’arresto e il processo, naturalmente con verdetto di classe, sono l’altra via: il dirigente Huey P. Newton, che è il teorizzatore del gruppo, Bobby Seale, e Angela Davis sono tra i nomi più noti incorsi in queste retate. Risulta che, attualmente, le carceri statunitensi “ospitano” almeno 400 membri delle Pantere Nere. La polizia attacca anche le sedi di partito, come si è verificato durante i preparativi della sessione plenaria di Filadelfia per la “Convenzione costituzionale del popolo rivoluzionario”, o sostiene battaglie scaturite da episodi singoli, come il maltrattamento di un bambino o di un ubriaco, cui ben presto partecipano tutti i membri del quartiere. La guerra aperta è lo stato normale di vita di una comunità che si vede come blocco contrapposto al resto della società.
Al di sopra di ogni differenza, i membri della “comunità”, si sentono uniti da una solidarietà effettiva; le Pantere Nere pongono infatti in primo piano l’unità totale del loro gruppo razziale e assumono la direzione anche della più insignificante battaglia, senza arrestarsi – ed è questo un loro punto d’onore – di fronte a scrupoli morali e legali: non esitano a difendere neppure “l’elemento criminale”, visto come risultato di una situazione di disperata oppressione. Le Pantere Nere si pongono effettivamente come rappresentanti del popolo negro contrapposto al popolo bianco. Qui vi è certamente un limite teorico; ma quale partito “marxista” ha oggi il coraggio di difendere un “delinquente” comune, un “teppista”, di mostrare i nessi sociali e gli aberranti rapporti di classe che producono questi elementi “asociali”, e le ribellioni individuali che possono trovare un’unica via di salvezza nell’incanalarsi in una spinta di rivolta sociale organizzata? La difesa dell’azione anche individuale degli elementi della loro comunità rappresenta nel contempo il carattere di forza e la debolezza teorica di un movimento che oltrepassa i limiti di classe per raggiungere quelli della comunità razziale. Il partito delle Pantere Nere non lotta per il negro in quanto proletario oppresso, colpito e anche buttato in un angolo o depauperato in tutti i sensi, per conseguenza più sensibile alla propaganda della rivoluzione sociale, ma per il negro in generale, allo scopo di affrancarlo dall’oppressione del bianco in generale, dando quindi un peso ben maggiore alle differenze etniche che a quelle di classe. La lotta di classe viene riconosciuta come esistente solo nelle comunità singole, quasi come un affare interno di esse, e se il richiamo è apertamente verso il sottoproletariato negro, del quale si rivendica lo spirito di lotta accanita, ciò avviene perché nel suo stato si vede la condizione generale del negro e perché esso diviene mezzo dell’emancipazione della comunità negra al di fuori dell’emancipazione della classe lavoratrice dal capitale, unica condizione per l’emancipazione di tutti gli strati oppressi e il superamento di ogni “questione razziale”.
La comunità negra è certo, insieme con diverse altre minoranze razziali, la parte della società americana che riunisce in sé gli elementi più sfruttati, peggio trattati, i manovali senza alcun altro attributo che quello di fornire forza lavoro grezza, i senza-lavoro che il “progresso tecnologico” produce e riproduce continuamente, gli elementi ad occupazione saltuaria, “senza dio né morale”, gli “asociali” e i “teppisti”, quelli col “cromosoma sbagliato”, “tendenti al crimine”, ecc.; ma non va assolutamente considerata come una comunità a sé, un gruppo indipendente, che può venire slegato dall’insieme della società, se non si cade nell’utopia da una parte e in un disegno a dir poco retrogrado dall’altra.
È perfettamente comprensibile che i proletari e i sottoproletari di pelle nera, rimasti isolati in una lotta che solo saltuariamente riceve un appoggio dagli altri lavoratori in un paese in cui avere la pelle bianca equivale a ricevere un trattamento di favore sul posto di lavoro e nella società, un privilegio che in una certa fase (quella della disgregazione degli organismi di classe, politici ed economici) si difende anche contro la concorrenza dei compagni della stessa pelle nell’applicazione della legge inumana della lotta fra uomo e uomo dominante nel mondo del capitalismo, in questa situazione, dicevamo, è perfettamente comprensibile che essi non vedano nei loro compagni di classe bianchi i loro fratelli, tanto più che lo Stato borghese ha capito da un pezzo che fomentare l’odio razziale significa scongiurare ogni solidarietà di classe capace di scuoterlo nelle sue fondamenta. Ed è giusto che chi, in una tale situazione, con la scusa dell’assenza politica dei salariati bianchi, conclude che quelli neri devono stare ad “aspettare”, raccolga il più grande disprezzo. I proletari combattivi, anche in una piccola avanguardia, indipendentemente dal colore della loro pelle, devono muoversi per trascinarsi dietro gli strati indecisi, devono mostrare loro la necessità di organizzarsi per contrastare lo sviluppo stesso del capitalismo, la sua pressione schiacciante sulla classe venditrice di forza lavoro, e per abbatterne il dominio. Che una tale organizzazione per una serie di circostanze, abbia temporaneamente una maggioranza di salariati neri, non deve cambiare nulla al carattere non razziale dell’organizzazione stessa.
La classe operaia americana, tuttavia, è rimasta per troppo tempo priva della sua guida politica perché possa superare le enormi difficoltà che si frappongono allo sviluppo di un simile processo, senza dover affrontare una lotta durissima non solo contro il capitale ma per decifrare gli stessi suoi interessi di classe, e sopportare sacrifici dolorosi e tentativi destinati al fallimento. Un prezzo che inevitabilmente dovrà pagare, sarà di porsi momentaneamente al seguito di ideologie improprie, non adeguate alla lotta di classe proletaria.
Il movimento delle Pantere Nere risente in modo determinante di questo isolamento tragico; il suo errore è di ritenerlo ormai definitivo. Incapace di giungere per proprio conto alla analisi della situazione attuale, frutto di quella vittoria della controrivoluzione che coinvolge un periodo di vari decenni e una area di estensione mondiale, esso ha cercato un’intesa con il partito comunista ufficiale degli Stati Uniti, totalmente ancorato alle posizioni dello stalinismo e peggio, giungendo poi inevitabilmente alla rottura per il diversissimo atteggiamento di fronte all’uso della violenza. La ricerca di un contatto con forze più combattive ha quindi portato le Pantere Nere all’incontro con i cosiddetti “marxisti-leninisti” con a capo da una parte la Cina e dall’altro il “terzo mondo” in genere, che apparentemente si trovano nella stessa condizione di oppressi dal medesimo imperialismo, e che hanno al loro attivo una guerra nazionale contro gli Stati Uniti.
È con questo ibrido apporto – che confonde la lotta di indipendenza (più o meno reale) dal legame dell’imperialismo con quella dell’emancipazione di classe – che le Pantere Nere hanno “arricchito”, le loro posizioni precedenti: di qui nasce la teoria che mette sullo stesso piano la lotta dei sottoproletari neri e quella dei popoli coloniali, che stabilisce un nesso fra la metropoli e la colonia da una parte e fra la metropoli bianca e la colonia nera all’interno dello stesso Stato dall’altra, concludendone che c’è una “classe operaia della metropoli e c’è una classe operaia della colonia” negra, con interessi propri e divergenti; e che afferma quindi la necessità di organizzazioni distinte e anche contrapposte fino a postulare una vera e propria solidarietà fra gli operai bianchi e la loro classe borghese dominante da un lato, e fra i diversi strati di pelle nera dall’altro. Alla lotta di classe, in breve, si contrappone la lotta delle “comunità” di colore. La responsabilità di un tale atteggiamento viene, per la verità addossata ai proletari bianchi, “parassiti che vivono alle spalle dell’umanità”, e in parte una tale responsabilità esiste (vista tuttavia con analisi e prospettiva errate); ma non sembra che le Pantere Nere abbiano mai concepito la solidarietà di classe se non in funzione dei propri interessi di comunità, invece di farli confluire in quelli generali della classe operaia. Inoltre, come si è visto, il richiamo esplicito non è alla classe operaia ma al sottoproletariato in genere e negro in particolare: “Siamo lumpen” (straccioni) – dichiara orgogliosamente Cleaver (ved. Quaderni Piacentini, Nr.42, nov. 1970) – “il lumpen-proletariato è costituito da tutte quelle persone che non hanno alcun rapporto sicuro o non hanno investito alcun capitale nei mezzi di produzione o nelle istituzioni della società capitalistica; che sono parte perpetuamente in riserva dell’‘esercito industriale di riserva’”; che non hanno mai lavorato e che non lavoreranno mai, ecc., ecc.<
Il tentativo è di adeguare a questa categoria sociale una teoria ed una tattica, cercando nelle ragioni storiche e sociali stesse dell’impotenza politica del sotto-proletariato, una forza e una via nuove e originali: il sottoproletariato, non avendo la possibilità di boicottare la produzione con uno sciopero, ed essendo costretto alla lotta nelle strade, sarebbe più rivoluzionario, non avrebbe “nessun diretto oppressore eccetto forse la polizia dei pigs con la quale si scontra quotidianamente”, e non si capisce che questo significa anche la sua fatale sconfitta.
Ben diverso è il rapporto colonia-metropoli: anche una colonia è in un certo rapporto di dipendenza dal paese imperialista, ma è nello stesso tempo produttrice e fornitrice di alcuni prodotti, in genere materie prime, e in alcuni casi è in grado di svolgere una vera e propria opera di ricatto, mentre spesso è ben disposta a raggiungere accordi con l’imperialismo per lo sfruttamento del proprio proletariato. Non ha quindi la caratteristica, descritta da Cleaver per il sottoproletariato, di essere “tagliata fuori dall’economia”. Tutt’altro! Essa si lamenta di essere tagliata fuori dal commercio mondiale, che è ben altra cosa. Si può anche notare di passaggio che parimenti errata è l’applicazione della guerriglia come forma di lotta armata: per la colonia, essa trova la sua origine nel fatto che la lotta non può essere spinta fino alla distruzione dei rapporti borghesi, ma è solo un modo per esercitare una certa pressione a cambiarne l’indirizzo. Il movimento di classe, al contrario, sappiamo bene che non ha da perdere che le sue catene e perciò si organizza in una vera e propria guerra che lo deve condurre al controllo totale del potere politico (non ammette quindi alcuna autonomia locale al suo interno).
Il punto debole delle Pantere Nere è decisamente la teoria; e la cosa salta agli occhi se si considerano i punti programmatici. Non si tratta nemmeno di un programma politico, ma di punti che dovrebbero servire alla mobilitazione delle masse. La “piattaforma-programma” è dell’ottobre 1966, ma viene rivendicata tale e quale anche oggi, e merita la definizione, nel caso più benevolo, di riformismo tradizionale, appoggiato da una forma di lotta di guerriglia. I dieci punti rivendicano per la comunità negra: libertà, pieno impiego, alloggio decente, educazione adeguata alla propria storia e razza (punto particolarmente retrogrado), esenzione dal servizio militare, cessazione delle persecuzioni poliziesche, libertà ai prigionieri negri, tribunali con giurie negre, plebiscito sotto patrocinio delle Nazioni Unite (sic!) per stabilire la volontà della comunità negra; chiedono infine che si ponga termine alla razzia capitalistica e si tenga fede alla promessa di cento anni fa, cioè il pagamento di 40 acri e 2 mules a titolo di risarcimento del lavoro schiavistico e delle soppressioni in massa (accettato anche in denaro contante!).
Quello che manca è una minima analisi politica ed economica della via per il conseguimento dell’emancipazione (e che cos’è un programma se non la formulazione di tesi che esprimono tali analisi?): vi è solo una serie di richieste allo Stato dominante, concepite come suoi doveri, che potranno anche mobilitare sul terreno della violenza gruppi di sfruttati, ma non possono modificare l’essenza dei rapporti di classe se non sulla carta.
Indicativo, a questo proposito, è che si giunga a scrivere petizioni alle Nazioni Unite che dovrebbero, “in base alla semplice giustizia”, svolgere “un’azione universale, comprese sanzioni politiche ed economiche, contro gli USA” colpevoli del reato di genocidio così come è stato definito dalle stesse Nazioni Unite nella Assemblea Generale del 9 dicembre 1948. Si potrebbe pensare ad una pura e semplice, anche se molto ingenua manovra per rendere “pubblica” la situazione negra, ma la conclusione della piattaforma-programma sintetizzata più sopra dà il giusto fondo “teorico” alla cosa: “tutti gli uomini sono stati creati eguali e dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili, fra cui la vita, la libertà, il conseguimento della felicità”, che comportano i soliti interventi correttivi del “popolo” più o meno sovrano, quando, come nel classico pensiero borghese democratico, sorge il tiranno o i diritti vengono comunque calpestati.
Il movimento che oppone violenza aperta alla violenza mistificata dello Stato democratico e razzista degli Stati Uniti, intende dunque agire nell’ambito stesso di questa società e si riduce a reclamare una certa autonomia per la propria gente. Ammirevole nella sua battaglia a viso aperto, si muove tuttavia su un terreno equivoco e sostanzialmente antistorico.
Proprio questo aspetto, che si ritiene legato alle esperienze degli “eroici” popoli nord-coreano e vietnamita, è la parte retrograda del movimento ed entra in crisi e contraddizione intrinseca man mano che la lotta di classe si sviluppa e riprende il suo contenuto reale, ponendo come vero suo protagonista il proletariato (non importa in quale pelle!), cioè la classe che sopprime ogni pretesa di autonomia in tutti i campi, da quello della scuola, della “giustizia”, del “servizio militare”, della famiglia, a quello dell’organizzazione politica, economica, statale, perché tutto è fuso in un unico irresistibile movimento, quello della classe sfruttata nel suo insieme, guidata da un unico partito.
Tuttavia, è indubbio che la esperienza dolorosa dei proletari e sottoproletari negri, limitati in una lotta a sfondo razziale che veda chiusa davanti a sé la via di un reale affrancamento nelle condizioni economiche e sociali date, potrà contribuire con i suoi continui sacrifici di generose forze, gli assassini perpetrati dai difensori dell’“ordine”, i processi scandalosamente repressivi e lo stesso razzismo crescente al polo opposto (tutte cose che potranno anche condurre a un lento dissanguamento di energie proletarie), ad aprire gli occhi al proletariato bianco e non bianco e a generare un’avanguardia politica che sappia unire nelle sue file tutti i proletari senza discriminazioni di razza – l’augurio e anche l’omaggio che noi formuliamo per il bene dei negri in coraggiosa battaglia come dei bianchi in torpido sonno!