nucleo comunista internazionalista
note





Appunti:
COMUNISTI E QUESTIONE NAZIONALE,
DOVE SI BATTE SU UN TASTO DOLENTE
NELLA COSIDDETTA
“AREA INTERNAZIONALISTA”


L’incipit che appare in bella mostra sulle numerose testate che si richiamano alla Sinistra Comunista recita: “Distingue il nostro partito: la linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale Comunista e del Partito Comunista d’Italia...”. Peccato che ai giorni nostri i contenuti della quasi totalità di esse contraddicano la continuità di linea dichiarata, che anche per noi, invero, costituisce il patrimonio fondativo del comunismo di sempre, da tradurre al presente senza unilateralizzazioni che lo sfigurino.

Con questa nota torniamo su alcuni testi degli epigoni della richiamata Sinistra a proposito dell’ultima criminale aggressione israelo–occidentale contro i palestinesi a Gaza.

Chi avrà la pazienza di seguirci potrà accorgersi che la discussione non si libra nel vuoto dell’accademia, perché invece si accende sui meriti dello scontro tra imperialismo e “movimenti rivoluzionari di emancipazione nei paesi più arretrati e oppressi dall’imperialismo”.

Vedrà, quindi, che le posizioni si demarcano sull’ “obbligo” che incombe ai comunisti delle metropoli di “sostenere attivamente questi movimenti”, avendo chiara la “differenza –particolarmente importante– tra i popoli oppressi e i popoli oppressori” (l’azzeramento od omissione della quale rende invece fin troppo ambiguo e peloso il sostegno dichiarato, quando non decampa sostanzialmente da esso); e, in secundis, sulle condizioni e prospettiva nostri, in esclusiva presenza e direzione delle quali l’ “appoggio” dei comunisti viene garantito (così demarcandoci, sull’opposto versante, da un terzomondismo che sostiene i movimenti di lotta contro l’imperialismo così come essi attualmente sono, come un “in sé” e “a sé” staccato da una dinamica di sviluppo e dal quadro generale).

Il n. 1 di genniao–febbraio 2009 de il programma comunista dedica l’intera prima pagina, e non solo essa, all’aggressione a Gaza. Il linguaggio ultrarivoluzionario sostanzia una trama che si distingue fin troppo dalla famosa linea, nel senso di allontanarsene su aspetti essenziali. Senza che, peraltro, ci si sia mai curati di chiarire più di tanto in base a che cosa ciò sarebbe necessario.

Già nella mera descrizione del contesto dell’aggressione le contraddizioni si sprecano. (e ciò davvero non distingue la linea da...). Se al primo giro la “decapitazione di Hamas” è “il pretesto per colpire il proletariato palestinese”, nella colonna affianco Israele “vuole giungere all’obiettivo di eliminare nella situazione contingente (?) Hamas”... e si potrebbe continuare per un bel pezzo.

Sennonché questo contorcersi tra pretesti e obbiettivi non vale a nascondere che anche e innanzitutto Hamas (piaccia o no agli “ultracomunisti”) è oggi più che mai nel mirino di Israele e dell’imperialismo. Lo è perché, al pari di altre forze dell’islamismo politico agenti sulla scena, raccoglie attualmente la determinazione di lotta e lo spirito di militanza e di organizzazione di una parte consistente, altrochè connotata verso il basso della scala sociale, della massa palestinese. Di questa “concreta realtà”, nella conclamata assenza –in loco e in generale– di direzioni comuniste che godano di altrettanto seguito o di seguito in assoluto, occorrerebbe tener conto.

Invece l’auto–contraddizione prosegue, laddove dapprima viene detto che i proletari palestinesi di Gaza sono “controllati dalle milizie di Hamas” che “li costringe oggi ad una lotta senza speranza”; e poi si aggiunge che Al Fatah accusa Hamas di “tenere in ostaggio la popolazione civile”. E allora: a chi appartengono le “accuse”? Ai “comunisti internazionalisti”, nel qual caso dovremmo supporle vere, o ad Al Fatah, “interessata a tornare a Gaza sul carro dei militari israeliani”, nel qual caso trasuderebbero la falsità dell’avvoltoio?

Rivoluzione Internazionale la mena giù chiara (come si può leggere sul sito): “la popolazione palestinese è in ostaggio in questo conflitto tra frazioni della classe sfruttatrice”, mentre “Hezbollah ed Hamas si nascondono dietro le popolazioni palestinesi e libanese e le espongono cinicamente alla rivalsa israeliana, presentando l’uccisione di alcuni civili israeliani (!? n.) come esempio di ‘resistenza’ ” (!?).

Noi neghiamo che sia questo il rapporto che corre attualmente tra partiti islamici e popolazioni in armi (a Gaza e nel Libano). Il che non dovrebbe sfuggire neanche a Rivoluzione Internazionale, se essa ammette che “gli Hezbollah si sono rafforzati” con la guerra del 2006 (quando Hezbollah ruppe l’isolamento di Gaza anche allora attaccata da Israele –particolare completamente omesso da tutti gli ultracomunisti, n.–) e “la guerra contro Gaza avrà probabilmente lo stesso risultato per Hamas”. Se –come ancora scrive Rivoluzione Internazionale– gli strateghi israeliani prendono atto che è inutile aspettarsi una “ribellione dei civili palestinesi contro i propri capi nazionali” (per le sofferenze cui essi capi li costringerebbero –!?–), perché gli ultracomunisti sanno solo aggiungere che “Hamas, rafforzata o indebolita, non farà altro che rispondere con altri attacchi contro la popolazione israeliana, e se non con razzi, sarà con bombe umane”? (Sic!). A noi pare che l’attenzione (e l’intenzione) di chi scrive queste cose sia solo quella di mettere bene in chiaro, con argomenti molto poco “comunisti”, che niente si ha a che fare con i razzi sparati “sui civili israeliani” o con gli attacchi suicidi, quando invece nelle condizioni date la determinazione di lotta dei combattenti palestinesi si esprime anche –non solo, come intende chi legge Rivoluzione Internazionale– con queste azioni.

Anche Rivoluzione Comunista, che –vedremo– non stravolge in toto ogni aspetto della questione, non rinuncia a spararla grossa contro Hamas (e immancabilmente fuori bersaglio per quanto ci riguarda e interessa). Nel testo del 3/01/09 –visionabile sul sito– prima denuncia OLP e Hamas come “due bande antiproletarie e controrivoluzionarie, in permanente rissa per la gestione dei campi di concentramento delle masse palestinesi”, e poi, al rigo successivo, aggiunge che “gli epigoni di Arafat sono finiti da anni nella vergogna del collaborazionismo con il militarismo israeliano”. Per noi è vera... la seconda che hai scritto. Ma allora, se si è consapevoli del collaborazionismo dei caporioni dell’Anp “pronti a rientrare a Gaza sul carro militare di Israele”, veramente si può credere che “la rissa” in corso non abbia nulla a che fare con questo, ma solo con il “controllo del campo di concentramento”, reso tale anche (o solo?) dalla stessa Hamas?

Se sono questi gli argomenti con i quali si intende dare battaglia alle direzioni borghesi– nazionaliste–religiose (che di questo indubbiamente si tratta), se sono questi i meriti con i quali ci si vuol rivolgere ai “proletari” che oggi ad esse si riferiscono per scalzare la direzione delle prime e conquistare i secondi alla prospettiva del comunismo –come pure noi ci proponiamo di fare–, la “battaglia” sarebbe persa in partenza. Lo sarebbe peraltro giustamente, laddove queste sparate –a salve– contro “la peste nazionalista” non centrano nessuno dei nostri bersagli (tra essi le direzioni di cui sopra e le loro politiche), se non quello, non nostro, di svilire la spinta di solidarietà verso le masse mediorientali aggredite in un verboso indifferentismo che omette la “realtà” di uno scontro nel quale la nostra parte (il famoso proletariato), in assenza –oggi– di un proprio diretto protagonismo politico, è pur sempre schierato e partecipe in quanto soggetto attivo e non solo come “ostaggio” o in quanto “civili usati come schermo e obiettivo dalle opposte frazioni borghesi”, etc..

Volendo considerare le teorizzazioni a sostegno di queste posizioni (o almeno della più gran parte di esse), prendiamo atto che secondo Programma Comunista non esiste –o non esiste più– in Palestina una “causa nazionale irrisolta”. E, se non esiste in Palestina, ci sembra di doverne dedurre che la questione nazionale (questo è il termine nostro) sarebbe oggi inesistente (forse risolta?) ovunque.

“Chiusa ogni ipotesi nazionale” –prosegue Programma– ne verrebbe riaffermata “la necessità assoluta della dittatura proletaria diretta dal partito comunista internazionale”. Negli anni passati –ci viene spiegato– “altri avrebbero presentato la realtà palestinese come capace di divenire il detonatore della trasformazione sociale del Medio Oriente, una miscela esplosiva con il suo innesco in una pretesa causa nazionale irrisolta. Ma, come confermerebbero le vicende “succedutesi dalla metà degli anni ‘70”, la “realtà palestinese si è drammaticamente trasformata”, sicché “l’impronta proletaria che hanno assunto le contraddizioni sociali presenti nell’area emerge da decenni in forma sempre più esplosiva, dimostrando definitivamente che l’ideologia patriottarda alimenta unicamente un’oppressione sociale esercitata non solo dalla borghesia israeliana, ma anche dalla stessa borghesia araba e palestinese”.

Per poter rimettere le questioni su quelli che riteniamo essere i giusti binari ci incombe di “fare un po’ d’ordine” nel –voluto– disordine teorico e politico di Programma.

Perché mai si equivoca in lungo e in largo su “ogni ipotesi nazionale” o “causa nazionaleo “ideologia patriottarda” e mai si chiarisce, invece e innanzitutto, se esista o meno una questione nazionale degna della nostra considerazione?

Secondo noi lo si fa per poter confezionare una bella incartata di programma patriottardo e questione nazionale (che non sono propriamente la stessa cosa) e presentarle come un tutt’uno da negare e respingere al minimo accenno (“ogni ipotesi nazionale”...), così facendo largo alla “premessa astratta” di un campo mondiale sgombrato da “cause nazionali” –e da altre quisquilie del genere– e consegnato allo scontro tra proletariato e borghesia nella rivoluzione che possa darsi come compito immediato il passaggio diretto al socialismo ovunque –a Berlino e a Gaza– (e qui che vogliono arrivare gli “ultracomunisti” e, se occorre inventarsi la strada –come occorre–, essi lo fanno).

Le nostre Tesi sulla questione nazionale e coloniale (quelle approvate dalla Terza Internazionale nel 1920 –riportate sul nostro sito in appendice al testo “La concezione della rivoluzione in permanenza nella strategia e nella tattica della rivoluzione comunista internazionale”–) non possono che operare, invece, la necessaria distinzione tra la questione nazionale e le diverse “ideologie” che ne prospettano (a un altrettanto reale movimento di lotta) soluzioni di opposto segno, perché in linea con gli opposti interessi delle rispettive classi di riferimento. E’ qui, sui contenuti e sulla prospettiva del movimento che prende in carico l’oppressione nazionale, che si divaricano i campi e si accende la battaglia tra comunismo internazionalista e nazionalismo borghese.

Come i comunisti prendono in carico la questione nazionale (e coloniale)? Quale è la loro/nostra politica nel movimento di lotta contro l’imperialismo (che è insieme oppressione della nazionalità e oppressione sociale delle classi sfruttate) e contro la propria borghesia? (O, in condizioni anche molto diverse, contro l’oppressione di una nazionalità o di minoranze nazionali per mano di oppressori “minori”)?

E’ la politica della “dissociazione precisa degli interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati, nei riguardi della concezione generale dei cosiddetti interessi nazionali, che significano in realtà quelli delle classi dominanti”.

La politica dei comunisti consiste esattamente nella “dissociazione precisa” da questa concezione generale dei cosiddetti interessi nazionali (consegna che resta immutata laddove c’è da prendere in carico la questione di una nazionalità oppressa).

Su queste basi noi distinguiamo un movimento ”di liberazione” “democratico borghese” secondo gli interessi delle classi dominanti aduse a “tramare con la borghesia imperialistica contro tutti i movimenti rivoluzionari e contro tutte le classi rivoluzionarie” e “un vero movimento rivoluzionario”.

Annotiamo dunque: una questione nazionale, giammai sostitutiva o preminente rispetto alla questione sociale e all’oppressione della propria borghesia; un corrispondente movimento, non esclusivamente connotato dall’istanza contro l’oppressione nazionale, che però non ne può essere espunta se non immaginariamente, mentre invece va presa in carico, anche in quanto intrecciata a tutto il resto nostro; le contrapposte “concezioni” che in esso movimento agiscono in vista di distinti e non conciliabili interessi –e con relativi programmi– di classe.

Se poi si pensa che nel 1920 l’Internazionale Comunista avesse dimenticato qualcosa che ora gli “ultracomunisti” debbano correre a rettificare, si legga ancora nelle Tesi che la nostra battaglia nel “movimento rivoluzionario nazionale” delle colonie, da appoggiarsi se ed in quanto vero movimento rivoluzionario, è data non solo contro le direzioni borghesi nazionaliste che propugnano “i cosiddetti interessi nazionali” e “tramano con l’imperialismo”, ma, insieme ad esse, contro “l’influenza reazionaria e medioevale del clero, delle missioni cristiane e di altri elementi”, contro “il panislamismo, il panasiatismo e altri movimenti similari”, etc.

Senza dimenticare, infine, che la battaglia dell’Internazionale contro “la peste nazionalista” –quella più nera... e meno considerata dagli ultracomunisti– vi è data anche e soprattutto contro “il nazionalismo e il pacifismo picccolo–borghese” e “le deformazioni opportuniste e pacifiste dell’internazionalismo” che dilagano (allora e ancor più oggi) nel movimento operaio occidentale e tra le sue “avanguardie”, “non solo nella Seconda Internazionale ma anche nella maggioranza dei partiti che hanno intenzione di aderire alla Terza Internazionale” (così Lenin al secondo congresso citato).

Rivoluzione Comunista distingue almeno, a suo modo, tra il nazionalismo (in generale e quello islamico di Hamas) e la “coraggiosa lotta del popolo palestinese per la propria indipendenza e liberazione nazionale” (che dunque esistono anche dal nostro punto di vista di comunisti!) e ne evoca finanche il contenuto quando afferma che “non vi può essere alcuna pace o parità di diritti nazionali tra uno stato imperialista armato fino ai denti ed un mini–stato da esso dipendente”.

Si è visto invece che Programma aborrisce ogni ipotesi nazionale”.

Premesso che le tesi dell’Internazionale che abbiamo richiamato proprio per niente si compendiano in un’ “ipotesi nazionale” (perché si compendiano invece nella “dissociazione precisa” da ogni nazionalismo), a noi sembra che molti “ultracomunisti” –Programma tra questi– hanno deciso comunque di cestinarle, mettendole in uno strano mazzo che comprenderebbe tutte le posizioni che solo diano atto dell’esistenza dell’oppressione nazionale, anche quelle che ne assumono la prospettiva e la soluzione contrapposte a quelle proprie delle “classi dominanti”.

Si mettano l’anima in pace: internazionalismo proletario significa tutt’altro che questo. Mentre col dire che non esiste più la questione nazionale si fa un indebito regalo al capitalismo, quand’anche si voglia intendere che, “risolta” quella questione, tutto il resto si è invece vieppiù aggravato.

La propaganda borghese sul migliore dei mondi possibili si basa da sempre sul falso postulato dell’uguaglianza delle nazionalità nella “comunità mondiale” democratica. Un’uguaglianza che esiste solo sul piano formale (e in Palestina neanche su quello), mentre la reale ineguaglianza si traduce in un ulteriore aggravamento dell’oppressione sociale, dove gli sfruttati della nazionalità oppressa sono chiamati a scrollarsi di dosso (non senza il nostro “appoggio attivo” da qui) il duplice e concorrente giogo dell’imperialismo e della propria borghesia.

Ecco dunque il contenuto della questione nazionale. Sta nell’ineguaglianza e nell’oppressione di alcune nazionalità su altre, questa sì reale e gravida di materialissime conseguenze, laddove le “ingenti ricchezze” e la “forza militare poderosa” di cui dispongono un piccolo numero di popoli oppressori si traduce nello stato di dipendenza e soggezione di molti popoli oppressi. Una diseguaglianza che produce non solo le devastazioni che gli Stati occidentali decretano e attuano ai danni di Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Palestina, etc. (per limitarci a tempi recenti), ma anche e innanzitutto le regole più o meno codificate della dominazione imperialista che serra il mondo nella gabbia di uno sviluppo fortemente combinato (finché “sviluppo” è dato), epperò combinato in termini di diseguaglianza crescente (il che significa impossibilità per una larga parte del pianeta di organizzare una vita economica e sociale che sia appena decente).

Ma è qui che la linea da Marx a Lenin rivista e corretta dalla vulgata ultracomunista frana... su tutta la linea. Per Lenin e le Tesi “l’idea più importante” è quella della “differenza tra i popoli oppressi e i popoli oppressori”, perché “un tratto caratteristico dell’imperialismo sta nel fatto che tutto il mondo si divide oggi in un gran numero di popoli oppressi e in un piccolo numero di popoli oppressori”.

Gli ultracomunisti hanno scoperto invece che anche questa idea non è poi così “importante” come pensava Lenin, e, senza troppo clamore, l’hanno cestinata. Nei loro testi leggiamo che “non potrà mai esserci pace finché borghesie aggressive, espressione più o meno diretta dell’imperialismo Usa (Israele), o forti del ricatto della rendita petrolifera (tutti gli Stati arabi, più o meno “moderati”, o gli Stati più o meno “estremisti” come l’Iran), cercheranno di spartirsi aree di influenza nel gioco al massacro dei molti concorrenti imperialisti”. E qui ci viene da pensare a uno stranissimo imperialismo al contrario di come lo abbiamo sempre conosciuto e lo conosciamo: molti popoli oppressori e, of course, pochi popoli oppressi.

Ma non basta. Perché più sopra si dice ancora che il massacro di Gaza si è compiuto “con la complicità di tutti gli Stati dell’area (il che è vero, n.) e di tutte le fazioni borghesi, che si riconoscano in Al Fatah (e vada, n.), in Hamas, in Hezbollah, piuttosto che nei Fratelli Musulmani (e qui siamo fuori dalla decenza, n.) o nello Stato teocratico israeliano poco importa” (!?). Ma la perla viene subito dopo: “nessuno vuole i proletari palestinesi se non come forza–lavoro da spremere in epoca di pace o come carne da macello nelle proprie danze di morte interimperialiste”. Se le parole hanno un senso, tutti gli Stati e tutte le “fazioni borghesi” (Al Fatah, Hamas, Hezbollah, Fratelli Musulmani, etc.) sono imperialisti: questo qui si dice e si capisce. E la questione nazionale è davvero sparita se la borghesia nazionale palestinese può essere imperialista senza avere il proprio Stato!

Ci sbagliamo? E allora cosa vuol dire che occorrono “il drastico boicottaggio di tutti gli sforzi di guerra” e “il disfattismo rivoluzionario contro il comitato d’affari palestinese nella striscia di Gaza da parte del proletariato... controllato dalle milizie di Hamas e messo in stato di continuo allarme anche dai suoi missili da giardino”? (Sic!). Cosa vuol dire “riproporre la necessità del disfattismo economico, politico, militare” nella Gaza sotto assedio, per trasformare ovunque l’offensiva imperialista in “guerra civile”... contro Hamas? Non neghiamo che anche per i palestinesi bombardati da Israele “il nemico da combattere è nel proprio paese”, ma diciamo che disgraziatamente non è l’unico, sicché essi potranno combattere efficacemente il nemico “nel proprio paese” (la propria borghesia e gli Stati arabi che li tengono chiusi nei campi profughi) solo prendendo in carico la guerra di classe che è insieme lotta di resistenza armata contro l’aggressione dell’imperialismo e lotta per il riscatto sociale degli sfruttati dell’intera area.

La realtà è che più che mai in Palestina una questione nazionale è aperta con il suo aggiuntivo carico specifico di oppressione sulle vite degli sfruttati e delle sfruttate palestinesi.

I compagni di Programma, che scrivono ancora che “la proletarizzazione sia all’interno che all’esterno dello Stato israeliano è giunta da tempo a maturazione”, che “la realtà palestinese si è drammaticamente trasformata”, che “le contraddizioni sociali presenti nell’area hanno assunto ormai un’impronta proletaria”, hanno in realtà demolito nella loro testa un altro pilastro della famosa linea da... Precisamente quello che, coerentemente con le altre tesi del marxismo che crediamo di avere qui riportato, riconosce l’esistenza di paesi arretrati e la necessità per questi paesi di un percorso differenziato della rivoluzione nell’ambito dell’unitaria strategia della rivoluzione mondiale.

Dire che anche a Gaza la proletarizzzazione sarebbe giunta (da tempo!) a maturazione significa non solo annunciare un altro miracolo in eccesso (dell’odiato capitalismo), ma anche affermare (questo ci par di capire) che più o meno in ogni parte del mondo avremmo ormai uno sviluppo capitalistico completo (tutti paesi “a proletarizzazione matura”, tutti “Stati imperialisti”). Sicché cadrebbe la necessità del percorso differenziato della rivoluzione socialista nei paesi arretrati, già “ipotizzata” da quegli “antiquati” di Marx e Lenin.

Ora, è indubbio che in particolare nel secondo dopoguerra il contesto generale della decolonizzazione del Medioriente e la stessa presenza di Israele hanno concorso a diffondere anche in Palestina il capitalismo, con un inizio di proletarizzazione della massa sfruttata via via più marcato. E dunque è vero che nei decenni a noi più vicini la questione di classe è emersa a demarcare sempre di più i contenuti dei movimenti di lotta contro l’imperialismo (uno spostamento sociale verso il basso nel corpo palestinese mobilitato contro Israele e l’imperialismo che con ogni evidenza ha ingrossato finora le file del radicalismo islamico).

Ci sembra però francamente eccessivo dire che la decolonizzazione ha condotto “a maturazione” lo sviluppo del capitalismo in generale e ovunque nei paesi oppressi e dominati (se ha potuto farlo in Palestina!), che dunque oggi non debbano più considerarsi come paesi arretrati o sui quali non incidano tuttora e molto pesantemente svariati fattori comunque collegati a uno sviluppo avvenuto in ritardo, sotto e contro la cappa opprimente e squilibrante dell’imperialismo. Soprattutto ci sembra paradossale che ciò venga detto per la Palestina e per Gaza, quest’ultima appena sopra descritta come campo di concentramento.

Quand’anche Israele possa vantare –in parte– uno sviluppo capitalistico di segno occidentale, la presenza in Palestina di uno stato colonial–razzista e di un popolo –quello palestinese– che conosce dentro i suoi stessi confini e tutto intorno i massimi diversificati livelli della più odiosa oppressione nazionale, e quindi l’inevitabile arretratezza di una nazione ridotta nei campi profughi, ci segnalano che il percorso della rivoluzione a Gaza, in Israele e in tutta la Palestina (per un unico Stato socialista dove possano vivere insieme arabi ed ebrei) proprio per niente potrà essere simile a quello che avverrebbe in un paese avanzato. Questo pensiamo per la stragrande maggioranza dei paesi tuttora dominati e oppressi dall’imperialismo, figuriamoci poi per una terra sfigurata al livello dei più profondi gironi infernali quali quelli che l’Occidente ha gradito riservare alla Palestina.

Concludendo. Soprattutto in Palestina esiste tuttora, innegabile, una questione nazionale grande come la Palestina stessa e più di essa. Questione nazionale per nulla “risolta” (che anzi proprio dal 1948 è stata posta nei termini attuali) e essa stessa fattore agente di squilibri e inibizioni della “maturazione” capitalistica di quel territorio (e non di esso solo), diviso in uno Stato coloniale e in tanti frammenti soggiogati e dilaniati in ogni aspettativa di vita sociale ed economica minimamente organizzata.

A queste condizioni non ci sorprende davvero che la costruzione astratta in cui si crogiuola l’enfasi programmista non trovi, a nostro modo di vedere, alcun punto di contatto né una pur piccola leva di applicazione utile allo scontro in corso, fosse anche per inquadrarne un solo passo in avanti nella nostra direzione, anche così contribuendovi –per quanto oggi è dato fare– in positivo.

Il presente vi è descritto in modo stravolto e distorsivo. Il futuro, a queste condizioni, diviene articolo di fede, posto che non se ne vedono le potenzialità in cammino a partire dalle quali tracciare le dorsali del possibile avanzamento. Tra presente e futuro, così deprivati di ogni vitale dinamica e dialettica, rimane soltanto il vuoto.

La conclusione immancabile ed esclusiva è che “solo la dittatura del proletariato”... potrà risolvere tutti problemi; e “ciò sarà possibile solo se il proletariato delle metropoli euro–americane saprà finalmente spezzare ogni solidarietà e complicità con le proprie borghesie nazionali, riprendendo la strada...”, etc. Il che indica un punto d’arrivo (riferito al proletariato d’Occcidente) ma niente altro.

Così, dopo aver giurato su una “proletarizzazione giunta a maturazione” (e nondimeno aver descritto il “proletariato” di Gaza non come protagonista della guerra che pur combatte –che sia lontano dal farlo come protagonista in proprio lo diciamo anche noi– ma come “ostaggio” “messo in pericolo” da quelli di Hamas “che vanno a mettergli i missili nel giardino”...), non si è minimamente contaminati dall’idea di rivolgersi ad esso assumendosi il compito di favorirne l’assunzione della prospettiva di classe.

Questo invece si può e si deve fare entrando in modo pertinente in tutte le questioni sul tappeto e conducendo su questo piano la nostra battaglia serrata contro la politica delle direzioni nazionaliste, come abbiamo inteso fare in altri testi presenti sul nostro sito e in particolare su quelli che intervengono sull’ultima battaglia di Gaza, ai quali qui rimandiamo. Intervento politico certo non facile, vista l’attuale distanza tra proletariato e comunisti delle metropoli e lavoratori e sfruttati dei paesi oppressi (anche in proposito le famose Tesi hanno consegne essenziali da trasmetterci e anche queste vengono puntualmente tradotte al contrario da Programma...), ma intervento necessario e decisivo se si vuole che le acquisizioni teoriche e le lezioni del passato oltre a non essere dimenticate siano anche rese vive nello scontro.

Non solo il proletariato occidentale è chiamato a scuotersi dal torpore pluridecennale. Anche i combattenti di Gaza sono chiamati (sulle basi indicate dalle nostre Tesi e non già cestinandole) a lasciarsi alle spalle l’orizzonte nazionale della lotta. Ad alimentare questo orizzonte, e il seguito di cui godono le direzioni nazional–islamiche, concorre l’indifferenza del proletariato occidentale (oltre che gli interessi delle borghesie e sotto–borghesie locali e degli Stati arabi ben decisi a stroncare in loco ogni nascente classismo e internazionalismo).

Scontando le attuali distanze e difficoltà di interlocuzione (ma non sottovalutando né lasciando cadere le possibilità che ugualmente si danno), spetta ai comunisti una duplice ed unitaria battaglia che si applica a un doppio percorso del proletariato metropolitano e degli sfruttati dei paesi oppressi. Un percorso che, da condizioni di partenza anche molto lontane, proceda verso la congiunzione e saldatura dell’unità internazionale di classe.

Una battaglia, duplice e unitaria, che punta a eradicare lo sciovinismo metropolitano dalle fila del proletariato occidentale e a favorire la dislocazione della lotta delle masse oppresse oltre e contro “la concezione degli interessi nazionali”, in versione laica o religiosa, verso la comune coscienza di classe internazionale.

Non pensiamo di indicare un percorso oltre che virtuoso anche del tutto virtuale, a misura che, a saper leggere la situazione data con le giuste lenti, riteniamo di coglierne non solo le premesse ma anche passaggi, più o meno significativi ma pur sempre reali, di concreto avanzamento in questa direzione (passaggi, beninteso, sempre esposti al rischio del transitorio riflusso, ma mai persi del tutto in quanto tali). In tal senso, volendo fare un esempio riferito all’argomento in esame, non abbiamo mai liquidato come bazzecola di poco conto la battaglia apertasi nei primi anni ’70 nel movimento palestinese tra la linea di nazionalismo borghese maggioritaria nell’OLP e i primi, parziali e insufficienti, tentativi di definire i termini di una diversa soluzione in senso classista. (Si vedano al riguardo le posizioni del FPDLP –in “dopo il luglio 1971: La Rivoluzione Palestinese Oggi”, Bertani editore, 1972– che, in particolare, oppongono l’esistenza delle classi anche tra i palestinesi contro la tesi che prendeva a pretesto la condizione di profughi per ammettere come unica “categoria sociale” quella di “rifugiati”; che contestano la cosiddetta “non ingerenza negli affari interni degli altri Stati arabi”, vero architrave del nazionalismo, per unire la rivoluzione palestinese con quella degli sfruttati dei paesi confinanti e rovesciare i governi arabi compromessi con l’imperialismo; che rivendicano la distruzione di Israele e un unico Stato in Palestina, contro la soluzione illusoria dei “due popoli due Stati”; etc. ... In altra sede potremo evidenziare gli indubbi limiti delle posizioni richiamate, il decorso da esse avuto, e l’assenza allora e tutt’oggi di una posizione coerentemente comunista; ciò non toglie che la concreta presa in carico di questi meriti, imposti dalla lotta e affrontati nel vivo dello scontro, ci riguardano).

Volendo veramente concludere questo appunto, noi invitiamo chiunque vi abbia interesse a confrontarsi con le nostre posizioni, a coglierne il senso profondo nel quale vediamo tradotta la lezione del marxismo. Invitiamo anche a rivolgerci eventuali critiche, che siano la premessa di un approfondimento da non scansare. A riconoscere la necessità di un lavoro collettivo di cui è necessario fissare le basi, che a noi sembrano già sufficientemente definite.

In tal senso non ci ha fatto piacere leggere sull’opuscolo “sindacale” che i compagni del Sin.Base di Genova ci hanno recapitato (li ringraziamo per questo) un volantino su Gaza che riproduce e allarga il campionario dell’ultracomunismo con altri spropositi da respingere nel modo più netto: dove “le popolazioni coinvolte sono semplici strumenti” (come “i bambini palestinesi in divisa da soldato, protagonisti in molte processioni di Hamas” o gli “uomini bomba, spesso soltanto ragazzini e ragazzine minorenni e inconsapevoli”); dove Israele e Hamas sono “amici/nemici” che si giustificano a vicenda (veramente Israele “si giustifica” da molto prima e del tutto a prescindere, n.); dove si legge del “mito di un movimento di liberazione nazionale palestinese... da Israele” (sic anche i puntini!? n.) “alimentato dall’URSS” (?!); dove “i palestinesi sono costretti ad una vita di inedia, da profughi o terroristi!” (?!).

Su questo genere di distorsioni (francamente indecenti) abbiamo già detto e non ci ripetiamo.

E’ giustissima l’intenzione e preoccupazione di demarcarsi dalle borghesie locali, di non dar credito ad esse, di non accodarsi ad Hamas od Hezbollah, ma farlo in questo modo giammai significa demarcarsene sulle corrette posizioni di classe contro il nazionalismo. Con questi argomenti si finisce dall’altra parte, non solo nel ridicolo (per una realtà stravolta nei suoi tratti più evidenti, che ben altri bilanci pretendono dai comunisti d’Occidente), ma anche nell’indifferentismo –in definitiva sciovinista– di fronte allo scontro in atto. Dove la lotta per la dittatura proletaria assoluta, ovunque immediatamente all’ordine del giorno, si annuncerebbe (mai annunciazione è stata più falsa) nel contesto di discorsi che smarriscono volutamente ogni “differenza” tra aggressore e aggredito, perché invece sarebbero tutti aggressori allo stesso modo (stiamo parlando di Usa/Israele e di Hamas) e il proletariato sarebbe niente altro che la vittima passiva tra essi (sbagliate entrambe ed entrambe buone per togliersi da davanti la scena reale di due eserciti in guerra –quello imperialista e quello degli sfruttati palestinesi, parte dell’esercito proletario internazionale che tarda fin troppo a prendere il suo posto nello scontro generale– tra i quali occorre schierarsi).

Sarà un caso se conditi nei paroloni ultracomunisti si ritrovano i più triti luoghi comuni sottoriformisti –tipo “la spirale della violenza” e “il ciclo del terrorismo e della violenza di Stato in Israele/Palestina” (vedi per l’ultima volta i campioni di Rivoluzione Internazionale)– che riproducono alla lettera gli slogans del più imbelle pacifismo (alla Rifondazione Comunista) e dell’equidistanza tra l’aggressore imperialista e le masse sfruttate dei paesi arabo–islamici aggrediti?

Secondo noi no e chi sia vaccinato contro questa falsa retorica potrà trovare nel nostro complessivo lavoro agganci utili per un comunismo autentico e dalla schiena dritta.

7 giugno 2009