Quest’anno ricorre il centenario della Rivoluzione d’Ottobre. E quando si celebra un centenario, di regola, si sottintende: onoriamo i nostri morti, di cui nutriamo un dolce ricordo, ma destinati a non ritornare mai più. Omaggio tombale con tutti i riti a memoria del caso. Sarà così anche dell’Ottobre? Noi, ovviamente, e testardamente, non lo crediamo, ma sarebbe il caso di interrogarci su questo secolo di silenzio, sia pur inframmezzato da tentativi di replica andati a mal fine, dell’antagonismo proletariato-borghesia o, meglio, come scrisse Bordiga, socialismo-capitalismo.
Noi qui ne tentiamo un sommario schema.
Un proletariato combattivo noi lo registriamo sin dal 1848, anticipato dal nostro Manifesto del Partito Comunista dell’anno prima, allorché esso costituì l’anima radicale della rivoluzione borghese già in distinzione e contrapposizione per il futuro rispetto a quella borghese. Era pensabile che il 1848 segnasse l’avvio della rivoluzione socialista ivi tracciata? Ciò poteva essere nell’aspirazione del nostro movimento di classe, ma i tempi storici non lo consentivano. Nella prefazione all’edizione italiana del Manifesto del 1893 Engels riassume splendidamente la questione: «Se dunque la rivoluzione del 1848 non fu una rivoluzione socialista essa spianò la via, preparò il terreno a quest’ultima. Collo slancio dato, in ogni paese, alla grande industria, il regime borghese in questi ultimi quarantacinque anni ha creato, dovunque, un proletariato numeroso, concentrato e forte; allevò dunque, per usare l’espressione del Manifesto, i suoi propri seppellitori. Senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione, né l’unione internazionale del proletariato né la tranquilla e intelligente cooperazione di coteste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi. Immaginate, se vi riesce, un’azione internazionale comune degli operai italiani, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi nelle condizioni politiche precedenti il 1848!». La stessa Comune di Parigi, con le sue splendide anticipazioni sul tema dello stato rispetto alla prospettiva socialista, non costituisce che una tappa verso questo futuro. La Seconda Internazionale ne doveva essere il necessario completamento.
Un terreno tutt’altro che sgombro da ulteriori insidie. Le conquiste realizzate dal proletariato all’interno del sistema borghese in nome dei propri interessi di classe in una fase ascendente del capitalismo portavano in sé il pericolo di una ritirata dall’antagonismo di fondo secondo una visione riformista legata al carro della “propria” borghesia. Engels stesso dirà: ci siamo sbagliati quanto alla prospettiva di una prossima non via d’uscita del capitalismo rispetto alle sue storiche contraddizioni; il momento della resa dei conti finale è tuttora lontano. Ed in una magistrale lettera a Kautsky del 1882 così lucidamente si esprimerà: «Voi mi chiedete che cosa pensino gli operai inglesi della politica coloniale. Esattamente ciò che pensano della politica in generale. Qui non esiste alcun partito operaio (...) e gli operai (gli operai, si badi bene!, e non solo alcuni loro strati privilegiati, n.n.) non fanno altro che partecipare al godimento dei beni che il monopolio inglese ha rapinato sul mercato mondiale e nelle colonie». “Piccola”, ma indispensabile aggiunta: ma aspettatevi una crisi verticale del sistema e li vedrete ritornare all’antagonismo di classe loro assegnato dalla storia. Non così facile ed immediata come ci si aspettava. Per due motivi di fondo: a) la forza vitale del capitalismo, erroneamente data in via di esaurimento già nel passato, dimostrava di essere tuttora ben lungi dall’esaurirsi (e tanto varrà anche per i cicli successivi sino ad oggi allorché sembra davvero che ci stiamo avvicinando a momenti decisivi dello scontro storico di classe – anche se siamo abbastanza avvertiti da non porre la questione in termini pressoché immediati –); b) nonostante il suo rafforzamento esponenziale del proletariato nel periodo della Seconda Internazionale, ormai dotato in più paesi di una vasta rete di partito e sindacato, di mutue, cooperative, scuole ed attività cultural-ricreative “in proprio”, il peso specifico del proletariato nella società rimaneva tuttora ridotto, le basi di un sistema capitalista strettamente interconnesso a scala mondiale (la “globalizzazione”) ancora tutto sommato agli inizi, il collegamento tra le varie sezioni nazionali del proletariato del pari ancora idealmente programmatico (“sulla carta”, il che non era poco, ma ancora da scrivere in concreto).
Nel suo ABC del Comunismo così Bucharin ci darà ragione delle dégringolade subita dalle forze di classe sino alla vigilia della prima guerra mondiale (ed anche, purtroppo, dentro e dopo di essa, lo diciamo noi ex post), sia pure riconnettendola troppo strettamente al fenomeno colonialista – non universalmente preminente – ed alla posizione di solo “alcuni strati della classe operaia” (la famosa “aristocrazia operaia” di cui non si spiega sino in fondo l’“egemonia” sull’insieme della classe).
«Per comprendere la ragione dello scioglimento e della fine ingloriosa della Seconda Internazionale bisogna avere un’idea chiara delle condizioni in cui si sviluppò il movimento operaio prima della guerra. Fino a quel momento, il capitalismo nei paesi avanzati e negli USA si era sviluppato a spese delle colonie. Era là che si manifestava essenzialmente l’aspetto ripugnante e sanguinario del capitalismo. (..) Più un trust capitalista statale si sentiva forte e potente sul mercato mondiale più consistente era il profitto che esso intascava dallo sfruttamento coloniale. Con questo plusvalore poteva pagare un po’ più del compenso normale i suoi schiavi salariati. Certamente non tutti, ma almeno gli operai qualificati. Questi strati della classe operaia furono quindi corrotti dal capitale. Essi ragionavano così: “Se la nostra industria possiede degli sbocchi commerciali nelle colonie africane questo è un vantaggio anche per noi”. (..) Le masse operaie non erano abituate a condurre una lotta sul piano internazionale, e non ne avevano neppure l’occasione. L’attività delle loro organizzazioni era generalmente limitata dentro lo Stato della propria borghesia. E questa “propria” borghesia riusciva ad interessare una parte degli operai, soprattutto (ma solo soprattutto, n.) gli operai qualificati, alla propria politica coloniale. (..) Una parte degli operai, e tra essi anche i dirigenti, si convincevano sempre più che anche la classe operaia fosse interessata alla politica coloniale e dovesse perciò assecondare la propria borghesia per il successo di questa “causa nazionale”. Anche le masse piccolo-borghesi cominciarono ad affluire nei partiti socialisti. Non c’è da meravigliarsi se, nel momento decisivo, l’attaccamento allo stato dei briganti imperialisti abbia preso il sopravvento sulla solidarietà internazionale della classe operaia. (..) Nella storia del movimento operaio ci sono stati anche dei casi in cui l’operaio ha cooperato coi suoi oppressori. (..) Soltanto la guerra ha insegnato loro che non conveniva stare dalla parte del proprio stato borghese».
Il 1914 sarebbe dovuto essere il momento topico di questo rovesciamento di fronte col precipitare delle contraddizioni interne al sistema capitalista sul terreno della prima guerra mondiale. La rivoluzione russa ne diede il primo formidabile segnale che la Terza Internazionale cercò d’incanalare. Il maglio del sistema fu spezzato nel paese meno adatto, da un punto di vista economico astratto, ad una soluzione socialista. Ma, come ricordava la Luxemburg ne La crisi della socialdemocrazia, questa rottura, nel quadro del capitalismo internazionale (da qui la formula: l’anello debole della catena), richiamava necessariamente il suo estendersi, e con ciò la sua soluzione in positivo, ai paesi più sviluppati, Germania ed Italia in primo luogo, per passare da una dittatura del proletariato in un “solo” ed arretrato paese impossibilitato a costruire il socialismo entro le strettoie di uno stato nazionale economicamente e socialmente in arretrato sugli stessi standard borghesi più avanzati alla prospettiva di una dittatura internazionale (sia pur ancora intesa essenzialmente nel ristretto europeo) del proletariato.
La Terza Internazionale partiva dall’ipotesi che con il precipitare del capitalismo nella tragedia della prima guerra mondiale avesse segnato il suo limite estremo di sopravvivenza rispetto al rinascente conflitto di classe sotto le bandiere del socialismo. Non fu così: le energie del capitalismo si rivelarono più forti dell’attacco dell’autonomia di classe finendo per inghiottire i pur vari e generosi sforzi rivoluzionari del primo dopoguerra e la stessa Unione Sovietica che aveva dato con un momentaneo successo l’assalto al cielo. La cosa si ripeterà, peggiorata, nel corso della seconda guerra mondiale col traino del proletariato alla coda delle proprie borghesie in nome della crociata “democratica” antifascista. E questo a smentita dei pur generosi tentativi, in particolare da parte del “trotkzkismo”, di replicare l’Ottobre rosso a più vasta e decisiva scala mettendo in campo mezzi “tattici” e “transitori” autosuicidi in replica parodistica di quelli che già nella Terza Internazionale si erano evidenziati come slittamenti opportunisti.
Forse, allora, sarebbe stato meglio evitare l’Ottobre in quanto “immaturo”? Questo pensava Kautsky coi suoi Turati alla coda, ma anche un Zinov’ev ed un Kamenev. Noi, come già sopra accennato, siamo del parere esattamente contrario e, per spiegarne le ragioni, ci appoggiamo ancora una volta alla Luxemburg (stralciando dal suo scritto La rivoluzione russa):
«Secondo l’opinione di tutti e tre (opportunisti russi, opportunisti tedeschi e socialisti governativi tedeschi, n.) la rivoluzione russa avrebbe dovuto fermarsi allo stadio (..) dell’abbattimento dello zarismo. Se la rivoluzione è andata oltre, se si è posta il compito della dittatura del proletariato, ciò è stato, secondo quella dottrina, semplicemente un errore dell’ala radicale del movimento operaio russo, i bloscevichi. (..) Teoricamente questa dottrina (..) corrisponde all’originale scoperta “marxista” che la rivoluzione sia una faccenda nazionale, per così dire domestica, di ogni singolo Stato moderno. (..) Praticamente questa dottrina rappresenta la tendenza ad allontanare la responsabilità del proletariato internazionale, in primo luogo del proletariato tedesco, per la storia della rivoluzione russa; a negare i nessi internazionali di questa rivoluzione. Il corso della guerra e della rivoluzione russa ha messo in evidenza non l’immaturità della Russia, ma l’immaturità del proletariato tedesco all’adempimento dei suoi compiti storici, e far risaltare ciò con chiarezza è il primo compito di una trattazione critica della rivoluzione russa. La rivoluzione russa per i suoi destini dipendeva completamente dagli avvenimenti internazionali. Il fatto che i bolscevichi abbiano basato interamente la loro politica sulla rivoluzione mondiale del proletariato è proprio il segno più luminoso della loro lungimiranza politica, della solidità dei loro principi, dello slancio ardito della loro politica. (..) Lenin e Trotzkij con i loro amici sono stati i primi che hanno dato l’esempio al proletariato mondiale e sino ad ora sono stati gli unici che possano gridare con Hutten: “Io l’ho osato!” Questo è l’elemento essenziale e duraturo della politica bolscevica. In questo senso resta loro immortale merito storico di aver marciato alla testa del proletariato internazionale conquistato il potere politico e ponendo praticamente il problema della realizzazione del socialismo come di aver dato un possente impulso alla resa dei conti fra capitale e lavoro nel mondo. In Russia il problema poteva soltanto essere posto. Non poteva essere risolto in Russia. Ed è in questo senso che l’avvenire appartiene dappertutto (ricordate il Bordiga del “bolscevismo pianta di ogni clima”?, n.) al “bolscevismo”.»
Se già l’“esempio” russo aveva suscitato ovunque in Europa (e molto più limitatamente altrove) fiammate di classe e primi tentativi di costituzione di partiti comunisti la prospettiva di una nuova Internazionale, rossa da cima a fondo, diventava essenziale. I bolscevichi se ne assunsero il compito in prima persona rispondendo ad un’esigenza oggettiva di concentrazione e centralizzazione delle forze proletarie. La stessa Luxemburg (vedi l’appendice a La crisi della socialdemocrazia) l’aveva apertamente proclamato (e su ciò si registra la piena sintonia della Sinistra italiana): «In considerazione del tradimento, da parte delle rappresentanze ufficiali dei partiti socialisti dei principali paesi, degli scopi e degli interessi della classe operaia, visto che essi hanno deviato dal terreno dell’Internazionale proletaria sul terreno della politica borghese-imperialistica, è una necessità vitale per il socialismo costruire una nuova Internazionale dei lavoratori, che guidi e riunisca la lotta di classe rivoluzionaria contro l’imperialismo in tutti i paesi». Com’è noto, però, la Luxemburg era contraria ad una formalizzazione immediata di detta Internazionale con centro a Mosca per due motivi che possiamo ben supporre: a) il persistente ritardo nella formazione di effettive compagini comuniste nei vari paesi, a cominciare dalla Germania, cui far fronte sul campo di battaglia senza possibilità di surroghe formali esterne destinate, in certi casi, più a complicare che a facilitare il cammino; b) la preoccupazione che un centro russo attanagliato dalle proprie contraddizioni economico-sociali e quindi anche politiche interne potesse inclinare fatalmente a declinare dal “bolscevismo pianta di ogni clima” sulla via di una sua meccanica applicazione “alla russa” all’insieme dell’Internazionale stessa (preoccupazione, peraltro, manifestata dallo stesso Lenin). La Sinistra italiana accettò la prima sfida mettendo in campo le proprie energie in direzione di Livorno ’21 (e si badi alle date!) e, su questa base, restando sul terreno del secondo punto come si vedrà nella sua lotta contro le scivolate dapprima tattiche e poi di principio della centrale di Mosca che sarebbero poi sboccate nella teoria (e nella pratica esiziale) del “socialismo in un solo paese” sollevando il problema di un “rovesciamento della piramide” nel rapporto stato-partito e partito russo-Internazionale.
L’“attualità” di questa questione ci viene confermata da un insospettabile lontanissimo da noi, il Pierre Frank degli Appunti per una storia della Quarta Internazionale nel delineare i dati di fatto concreti della strada degenerativa imboccata dall’Internazionale (cui egli aggiungerà di suo l’esaltazione di tutte le successive degenerazioni dell’opposizione “trotzkista” sino al riaccostamento allo stalinismo):
«Al periodo rivoluzionario aperto dalla rivoluzione russa del 1917 succedette, dal 1923 al 1929, un periodo di riflusso della rivoluzione e di relativa stabilizzazione del capitalismo. (..) In diversi paesi d’Europa i partiti socialisti sono al potere mentre l’Internazionale comunista e le sue sezioni entrano in crisi, percorrendo le prime tappe della loro degenerazione burocratica (di cui la Russia sarà il centro, n.) (..) Il rapporto delle forze evolveva in senso inverso rispetto al periodo rivoluzionario e l’apparato statale ne ricavò una indipendenza e una potenza accresciuta . L’ultima parte dell’attività di Lenin fu interamente spesa nella denuncia di questo pericolo (perfettamente d’accordo!, n.) (..) La burocratizzazione dello Stato fu accompagnata ed agevolata dalla burocratizzazione del partito bolscevico, che si arrugginiva come strumento rivoluzionario. Uno strato di parvenus, soddisfatti dei risultati raggiunti, prese il sopravvento. La segreteria organizzativa del Partito nella persona del “vecchio bolscevico” Stalin rappresentò l’espressione politica più adeguata di questi strati sociali e dell’apparato statale (di cui l’Internazionale veniva a ridursi ad appendice, n.)» e, di fronte a ciò, veniva a mancare una risposta adeguata da parte degli altri partiti dell’Internazionale: «Ciò si spiega facilmente se si tiene presente il fatto che i partiti comunisti erano stati formati da correnti di origine assai diversa del movimento operaio e che era mancato il tempo (il tempo?, ne riparleremo, n.), prima che iniziasse la degenerazione, di realizzare una rieducazione e omogeneizzazione di questi partiti sulla base dell’apporto teorico, politico e organizzativo del bolscevismo».
Già: la famosa “bolscevizzazione” che cominciò ad attuarsi per via amministrativa, burocratica, e che ebbe tutto il tempo utile per aprire la strada dell’allineamento dei vari partiti “riveduti e corretti” (già al tempo, ahinoi!, della presenza di autentici bolscevichi alla testa del partito) al successivo corso degenerativo nel nome della fedeltà perinde ac cadaver al papà del “socialismo in costruzione” entro la “patria” sovietica. Il tutto lungo un crinale che implicava la revisione delle stesse basi costitutive dell’Internazionale. A farne le spese sarà di buonora la Sinistra italiana sostituita d’arbitrio alla testa del PCd’I col centro gramsciano (e poi togliattiano una volta resosi “inaffidabile” lo stesso Gramsci) in una con la rimessa in causa della linea di Livorno giudicata ormai troppo “a sinistra”, “settaria”: vedi la rincorsa al fusionismo coi terzini serratiani (cui poco prima l’IC aveva dedicato un aspro libello a firma Lunacarskij) e “frontismi” vari dilatatisi sino alle “forze” aventiniane.
Certamente la sinistra russa restava fondamentalmente fedele alle trincee dell’internazionalismo, ma, incapsulata all’interno delle contraddizioni interne al paese che portavano alla “degenerazione burocratica” di cui sopra, non fu in grado di pararne il colpo come mostrano gli avvenimenti che portarono dapprima alla costituzione della trojka Stalin-Zinov’ev-Bucharin (con un Zinov’ev che addirittura chiede l’espulsione di Trotskij dal partito – con uno Stalin provvisoriamente “democratico” a freno) e poi, finalmente, a quella di una vera e propria Opposizione di sinistra alla teoria del “socialismo in un solo paese” su cui si scrissero da parte di essa pagine gloriose, ma ormai confinate entro il perimetro del partito russo come “affare interno” su cui l’Internazionale era chiamata solo alla sottoscrizione della linea imposta dal “partito guida”. Su queste basi la battaglia era persa in partenza dopo che le migliori energie del proletariato internazionale, a cominciare da quelle tedesche, erano risultate bruciate dalla politica imboccata dall’Internazionale a guida russa grazie alla sua pretesa “bolscevizzazione” e l’invito a reagire rivolto al proletariato russo non poteva incontrare alcuna eco sostanziale anche perché tutt’altro che chiamato in causa come classe compressa nei suoi diritti ed interessi di classe all’interno dello stato “proletario” (questione invece ben presente in anticipo sui tempi in Lenin). Si realizzava così l’infausto pronostico avanzato dalla Luxemburg: «La vita pubblica cade lentamente in letargo; qualche dozzina di capi di partito di energia instancabile e di illimitato idealismo dirigono e governano; tra loro guida in realtà una dozzina di menti superiori; e un’élite della classe operaia viene convocata di quando in quando a delle riunioni per applaudire i discorsi dei capi e per votare all’unanimità le risoluzioni che le vengono proposte: è dunque in fondo un governo di cricca, una dittatura certamente, ma non la dittatura del proletariato, bensì la dittatura di un pugno di uomini politici, una dittatura nel senso borghese».
All’indomani della sconfitta dell’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra il movimento proletario si trovava diviso su due fronti (escludendo qui la “terza via” fascista che pur vi ha attinto, specie con Hitler in Germania, ben al di là del solo impiego del bastone): la socialdemocrazia, doppiamente rivitalizzata dalla ripresa capitalista postbellica e dalla dimostrata incapacità dell’IC di addivenire ad una soluzione rivoluzionaria del conflitto di classe in quanto ben collaudata “rappresentante” degli interessi immediati della classe operaia entro un sistema da cui poter ricavare dei provvisori benefici e lo stalinismo, tuttora impregnato di demagogia rivoluzionaria, capace di attrarre a sé, a rimorchio delle sorti del “socialismo in costruzione” in URSS, un somma di energie di classe capace di lotte reali, ma sempre più costrette nell’ambito borghese ad onta di tutte le sue classiche fiammate “rivoluzionarie”. Il punto “massimo” di questa tendenza si vedrà nella pretesa svolta dell’IC sul “socialfascismo” poi (stranamente?) risoltasi nella politica dei “fronti popolari”, “democratici” in consonanza con gli interessi di stato dell’URSS per arrivare sino alla riverniciatura “internazionalista” e “disfattista” antiborghese all’indomani del patto Hitler-Stalin (come documenteremo successivamente) rapidamente (e ancora una volta: stranamente?) capovoltasi d’un tratto con l’alleanza di guerra dell’URSS con le forze “democratiche” dell’imperialismo.
Contro questa deriva si ergevano solo delle ormai sparute minoranze a vocazione autenticamente comuniste. Una di queste era quella costituita dai “consiliaristi” dell’area germanica che, disgraziatamente, mal tradussero l’esigenza primaria luxemburghiana del “protagonismo delle masse” quale soggetto portante della rivoluzione in chiave antipartito con ciò minando le stesse possibili basi di una ripresa di classe (senza nulla togliere ad alcuni non trascurabili contributi in termini di analisi delle situazioni di fatto).
La seconda e più corposa tendenza fu quella del “trotzkismo” che, per opera precipua del grande Leone, ha lasciato anche dei semi di reazione al disastro in corso di prima grandezza, ma incapace di svincolarsi sino in fondo dalle maglie dello stalinismo. Sull’onda del feticcio dello “stato proletario” da difendere comunque in quanto “tappa” post-capitalista (ad onta del dichiarato spossessamento del proletariato da un’effettiva direzione di esso, come mille volte ben detto dallo stesso Trotzkij) la risposta del trotzkismo non poteva che essere del tutto monca. Ancora nel ’33 si scriveva: «l’Opposizione non si adatta ala burocrazia staliniana, non tace sui suoi crimini; al contrario li sommette alla sua critica implacabile. Tuttavia lo scopo della critica non consiste ad opporre dei partiti concorrenti ai partiti comunisti esistenti, ma ad attirare al fianco dell’Opposizione di sinistra il nucleo proletario fondamentale dei partiti ufficiali e, in questo modo, a ristabilirli su base marxista. (..) La politica di un secondo partito significherebbe una politica di insurrezione armata e di una nuova rivoluzione. La politica della frazione significa invece la riforma interna del partito e dello Stato operaio. Contrariamente alle calunnie della burocrazia staliniana e dei suoi partner l’Opposizione di sinistra resta pienamente e totalmente sulla via della riforma». Ma proprio nel ’33, a seguito della disfatta in Germania, c’è un rovesciamento di fronte. Come scrive il Frank «A questo punto abbiamo distinto in modo assai preciso tra la riforma del partito bolscevico, ormai impossibile, e la riforma ancora possibile dello Stato sovietico che rimaneva uno Stato proletario». Il che è precisamente un ribaltamento dei termini della questione: lo Stato non ubbidisce più alla leva corretta di partito cui ne è demandato il comando o quanto meno il controllo in quanto la leva stessa s’è spezzata e da quale parte va per questa strada? Avremmo uno Stato gestito da irriformabili, ma comunque riformabile di suo, e beninteso senza bisogno di una rivoluzione sociale, per virtù sue indipendenti dall’organo-guida del partito.
Quanto alla prospettiva ora segnata di un “secondo partito” ci limitiamo qui a segnalare di sfuggita (e potremo ben ritornarci sopra) i tentativi micidiali del “trotzkismo” di aggirarne i termini attraverso la costituzione di informi agglomerati di forze malamente tenute assieme (attraverso mille inevitabili rotture) dal prestigio di Trotzkij e i vari espedienti entristi in seno a formazioni di sinistra socialdemocratica (dapprima entristi sui generis in quanto ancorati all’“autonomia” (ideologica) della corrente “trotzkista” per finire poi, nel secondo dopoguerra in mano a inaffidabili seguaci, in entrismo profondo, magari passando – come in Italia – attraverso il partito socialdemocratico di Saragat prima di ri-approdare al PCI togliattiano per poi concludersi in Rifondazione accanto a degli stalinisti doc del calibro di un Cossutta). Resta certamente il fatto che, vivo Trotzkij, mai si era decampato da una prospettiva, almeno nominalmente, rivoluzionaria e lo attesta il Manifesto lanciato in occasione della seconda guerra mondiale per tanti versi ineccepibile, salvo il fatto della palla al piede della “difesa dell’URSS” coi proletari sovietici chiamati all’appoggio (“militare e non politico”) come carne da cannone ai comandi di Stalin. Il Manifesto proclamava apertamente quanto ai rimanenti paesi il disfattismo rivoluzionario e ai proletari dei paesi alleati con l’URSS raccomandava vivamente di non dimettere in nessun caso la consegna secondo cui il nemico principale è in casa nostra senza alcuno spazio per fronti nazionali, patriottici, interclassisti di tipo partigianesco, ma era ineluttabile che sulla base del riconoscimento prioritario della “difesa dell’URSS” i proletari lo traducessero nella necessità di far blocco con la propria borghesia nazionale antifascista a garanzia del “socialismo” stesso; questione di pura logica militare relativa ad una determinata “logica” politica. Ridotti schieramenti quartinternazionalisti si mantennero fedeli alle consegne del Manifesto di un Trotzkij all’altezza dell’Ottobre (ricordiamo in particolare i compagni che osarono lanciare l’appello alla fraternizzazione proletaria oltre e contro i fronti di guerra e quanti seppero lavorare clandestinamente all’interno delle formazioni militari naziste per recuperarne i fratelli proletari alla nostra causa; onore imperituro ad essi!), ma la gran massa del movimento cadde immediatamente nella trappola del frontismo antifascista rivestendone semplicemente l’aspetto (borghese) “più radicale” sotto le insegne di una pretesa “resistenza rossa”. Eppure Trotzkij aveva parlato chiaro, in termini che a molti suoi “seguaci” nominali potranno sembrare addirittura... bordighisti: «“Ma la classe operaia non è obbligata, nelle condizioni attuali, ad aiutare le democrazie nella loro lotta contro il fascismo tedesco?” (..) Noi respingiamo questa politica con indignazione. (..) Per le sue vittorie e le sue bestialità Hitler provoca naturalmente l’odio acuto degli operai di tutto il mondo. Ma tra questo odio operaio legittimo e l’aiuto apportato ai suoi nemici più deboli, ma non meno reazionari, c’è un abisso incolmabile. La vittoria degli imperialismi britannici e francesi (cui poi si aggiungerà il top statunitense, n.) non sarebbe meno esiziale per i destini ultimi dell’umanità di quella di Hitler o Mussolini. La democrazia borghese non può essere salvata (nel senso che il suo contenuto originario ha fatto il suo tempo, n.). Aiutando le proprie borghesie contro il fascismo straniero gli operai non farebbero altro che accelerare la vittoria del fascismo nel proprio paese». Come scriverà, con grande scandalo, Bordiga: i regimi fascisti hanno perso la guerra; il fascismo come contenuto storico l’ha vinta.
La terza corrente di opposizione è quella cui noi tuttora ci riferiamo, della Sinistra cosiddetta italiana in quanto promanante dall’esperienza del PCd’I. Non ne parliamo come di un qualcosa a sé, di “originale” (razionalmente e/o individualmente visto il parlare che se ne fa spesso come di “bordighismo”), ma come il frutto di una maturazione severa alla scuola del marxismo autentico laddove in Italia lo si cucinava in salsa umanitaria-riformista capace di sintonizzarsi immediatamente con l’esperienza bolscevica (“pianta di ogni clima”, al contrario della gramsciana rivoluzione russa a smentita del Capitale) e quindi con l’appello alla costituzione della Terza Internazionale. L’essersi solidamente radicata in profondità nelle basi del marxismo doc aveva messo questa Sinistra in grado tanto di compiere ulteriori passi integrativi in avanti alla scuola di Lenin (vedi soprattutto la questione nazionale e coloniale relativamente “nuova” quanto alla sua attualità politica concreta, un debito poi ampiamente onorato), quanto di porre a tempo dei solidi antemurali contro incipienti pericoli deviazionisti dell’IC (dapprima sul terreno tattico per concludersi infine su quello degli stessi principi): l’elasticità discrezionale di talune formulazioni e soprattutto della loro traduzione pratica sul fronte unico, la più evidente e grave slittata sul “governo operaio”, la falsa pratica “centralista” della bolscevizzazione, la graduale estromissione dei partiti dell’IC dalla discussione e dal potere decisionale sulle “questioni interne russe” (diventate “affare interno” a sé, ma poi messe avanti come preminenti e vincolanti per l’insieme dell’Internazionale) e, per finire, la questione del “socialismo in un solo paese” come esito di tutto un lungo processo degenerativo di cui solo la Sinistra aveva ben colto i passaggi propiziatori.
Per offrire una risposta risolutiva in termini teorico-programmatici alla degenerazione sino ad esiti controrivoluzionari dell’IC resta indispensabile rifarsi a questo filo continuo e coerente tessuto dalla Sinistra “italiana” evitando le letture delle “cose” a metà e il ricorso ad ogni sorta di espedienti “tattici” per recuperare spazio – come fu per il trotzkismo – nei confronti dello stalinismo sbilanciandosi sul suo stesso terreno. I nostri compagni all’estero di Prometeo e Bilan tentarono con estrema correttezza di stringere un contatto unitario con l’Opposizione di Trotzkij, ma quest’ultima non poteva sopportare un bilancio dell’IC che la chiamava in causa non solo come parte lesa, ma anche in qualche modo dolosa e non è un caso se in contemporanea alla rottura con la nostra Frazione Trotzkij arruolasse a sé come “rappresentanza italiana” delle scorie tardivamente pentite su questioni non di principio dello stalinismo nostrano già partecipe in prima fila della caccia al “bordighismo” in nome della “bolscevizzazione” made in Kremlino.
Tutto perfetto?, tutto esente da cadute? Non diciamo affatto questo ed, anzi, su taluni punti (vedi questione nazionale e coloniale) si registrarono dei passi indietro rispetto alla lezione impartita in merito da Lenin e tuttora difesa sostanzialmente da Trotzkij (anche se non proprio dai suoi). Un certo rigidismo principista era in qualche modo inevitabile e nel secondo dopoguerra se ne darà una sgrezzata adeguata. L’importante, comunque, stava nella complessiva coerenza rivoluzionaria della Frazione restia a cadere nei tranelli dei continui espedientismi “tattici” per tenersi a galla costi quel che costi e ben se ne potrà rendere conto chi soppeserà da un lato la nostra stampa di allora e dall’altro quella ben più materialmente attrezzata del quartinternazionalismo tutta sbilanciata su una rincorsa attivistica al “che fare” in termini concorrenziali con lo stalinismo. Le questioni teorico-programmatiche di fondo restavano ancora in qualche modo sospese a metà, ma il senso dell’intransigenza di classe bastava ad indicare nello sparuto gruppo degli internazionalisti (non più solo italiani) della Sinistra un sicuro baluardo contro la caduta nelle insidie dell'“esistenzialismo” tributario (al di là di tutte le buone intenzioni, lo spirito combattivo etc. etc.) dello stalinismo e dell’imperialismo. E, nell’immediato secondo dopoguerra, questi internazionalisti raccolti attorno a Prometeo e Battaglia Comunista nel Partito Comunista Internazionalista furono l’unica voce presente sul campo in coerenza ai postulati diciamo pur “bolscevichi”, tanto per intenderci, di classe ed anche con un certo seguito di effettivi a testimonianza di quanto si era precedentemente seminato.
Tutto questo, però, non bastava ancora. Il secondo dopoguerra era ben lungi dal permettere l’apertura di un nuovo ciclo rivoluzionario o anche solo di solido impianto di partito nella società. L’orgia “antifascista” e la cura della ricostruzione, attraverso la quale il capitalismo si ridava una nuova giovinezza, avevano esaurito il grosso delle forze proletarie. Per di più quasi immediatamente a ridosso della vittoria congiunta imperial-stalinista sul nazifascismo, si apriva una fase di guerra fredda (e persino prossima ad accendersi) tra il capitalismo d’Occidente e Mosca e quest’ultima rilanciava sul movimento proletario di qui tutta la sua demagogia classista intransigente. Una calamita, quest’ultima, date le condizioni generali, troppo forte per evitare di attrarre una massa di sfruttati disposti alla lotta in presenza di un esercito a grosso potenziale e non di “idealisti” disarmati. Era inevitabile che anche i nostri contingenti, già di per sé leggeri, si assottigliassero ulteriormente. Il 18 aprile ’48 segnò sì una sconfitta del PCI togliattiano sul piano elettorale, ma anche, contestualmente, la sua piena affermazione in seno alla massa proletaria contro la persistente presenza di “moscerini” internazionalisti. Doppio trionfo borghese!
L’imperativo che ci si poneva era questo: per preparare il futuro occorre riforgiare da cima a fondo le nostre armi di battaglia teorico-programmatiche ripristinando con nettezza i cardini del marxismo autentico a 360° a cominciare dallo stesso abc del comunismo troppe volte dimesso in ragione delle “opportunità concrete dell’ora”. Non c’à stato tema dottrinario che non sia stato rimesso a punto, a parte la definitiva messa a punto sul tema-Russia, da quello delle rivoluzioni nazional-coloniali (di cui abbiamo riproposto tempo fa una corposissima antologia) a quello – con che anticipo sulle scoperte ultime! – cosiddetto “ecologico” in salsa non verdastra. Questo enorme lavoro, di cui possiamo qui solo rimandare alle fonti dirette, oggi largamente e facilmente consultabili, costituì l’asse dell’opera di Amadeo Bordiga e del suo ridotto cerchio di compagni deterministicamente piegatisi ad un compito di “restaurazione del marxismo” tra un pugno di compagni disposti a “dimenticare” il proprio passato di agitatori e capi di masse in nome del futuro stesso della classe (massimo sacrificio “individuale”). Su questa pietra angolare si diede il nostro lavoro di allora nell’incomprensione, magari, di una “base” che protestava contro un nostro preteso “tirarsi indietro” di fronte ai compiti “concreti” del “fare” immediato; e su questo punto ubbidivamo ad una stessa indicazione del Trotzkij 1933 che ci “limitavamo” a fare pienamente nostra: «I dilettanti, i ciarlatani o gli imbecilli incapaci di penetrare nella dialettica del flusso e reflusso della storia hanno tentato più di una volta di esprimere il loro verdetto: “Le idee dei bolscevichi-leninisti sono forse giuste, ma essi sono incapaci di edificare una organizzazione delle masse”. Come se un’organizzazione delle masse potesse edificarsi in qualsiasi situazione! Come se un programma rivoluzionario in un’epoca di reazione non obbligasse a restare in minoranza ed a nuotare contro corrente! Non vale niente il rivoluzionario che misura i ritmi della propria epoca sulla propria impazienza!». Da rileggersi in proposito i nostri “libelli” contro l’attivismo malattia dell’opportunismo!
A ciò noi ci siamo dedicati con Programma Comunista e poi mentre, ad esempio, il “trotzkismo” ufficiale, calpestando l’insegnamento permanente del grande Leone (che noi rivendichiamo) scopriva germi di autorigenerazione nel sistema sovietico o si industriava a gettare ponti verso il titoismo (eletto a protagonista della lotta “antiburocratica” e designato come parte “onoraria” della Quarta Internazionale suo malgrado), oppure ad appoggiarsi al terzomondismo delle lotte nazional-coloniali al di fuori della prospettiva segnata a Baku, e a ripercorrere in peggio la via dell’entrismo nel PCI per solleticare gli umori “rigenerativi” dei vari Ingrao, o magari anche Secchia, sino alla vergogna estrema degli appelli a Mosca all’indomani del XX° Congresso per ricostruire le basi dell’internazionalismo proletario tra ritrovatisi fratelli della stessa causa... sottostalinista.
Abbiamo su queste basi “costruito” un embrione di partito? No di certo ed in ciò ci mettiamo onestamente delle riflessioni critiche, su cui ritorneremo espressamente in seguito, quanto a nostre debolezze e vuoti dettati dal peso di una controrivoluzione che tuttora il movimento di classe non riesce a scrollarsi dalla schiena ed ha determinato la crisi che ben sappiamo della nostra compagine di allora per l’incapacità di restar fermi sui cardini fissati in termini teorico-programmatici. Ma ad essi sarà impegnativo che ci ritorniamo noi militanti e ci ritorni il movimento di classe.
La fase attuale, senza che ci sbracciamo nel definirla in articulo mortis per il capitalismo, rappresenta senz’altro un punto di rottura con tutti i precedenti giochi al compromesso capitale-lavoro in ragione della crisi profonda in cui versa il processo di accumulazione e mai come oggi la “globalizzazione” comporta una somma di problemi strutturali tanto per i capitalisti da una parte ed i proletari dall’altra al di sopra di ogni ridotto nazionale o di area. La realtà della crisi attuale è già valsa a demolire il muro dei “socialismi reali” inglobandoli all’unitario destino cui essi intrinsecamente concorrevano (a piena smentita delle analisi trotzkiste) e i kapataz “socialisti” non hanno trovato difficoltà a riconvertirsi in più corrivi maneggiatori e profittatori di capitali. In Occidente quel che restava dei partiti “comunisti” di un certo peso nel passato (Italia e Francia) hanno parimenti chiuso la loro traiettoria storica nella loro risocialdemocratizzazione (quando non, come nel PD, democristianizzazione). Le socialdemocrazie classiche restano le antesignane di questo corso di distacco dalla primitiva base operaia che fu in quanto ad interessi riformisti di classe in nome di quelli nazionali borghesi, ma senza poter elargire alla propria “plebe”, utile solo a scopi elettorali, qualcosa di sostanziale. Il cerchio si stringe e la massa lavoratrice se non vuole farsi ridurre alla fame ed in catene deve cozzare contro il muro del sistema, ciò che, al momento, avviene ancora a sprazzi isolati, ma che cominciano a “chiamarsi”, a comunicare e mettersi assieme. Tutto semplice e scontato allora? Al contrario. In assenza di una chiara visione del campo di battaglia (diciamo pure “la scienza della rivoluzione” ed evochiamo pure il partito) le masse proletarie potrebbero essere orientate verso soluzioni borghesi estreme sotto l’insegna di nazionalismi (od... altercontinentalismi) e populismi a tinta “sociale”, tanto più in assenza di solidi e credibili referenti “di sinistra”. Proprio per questo sarebbe necessario un lavoro concertato e in profondità tra le attuali sparute forze comuniste conseguenti per rimettere a fuoco le lezioni tratte dal passato e che abbiamo sopra richiamate ad evitare ogni tipo di replica distruttiva delle vecchie scorciatoie opportuniste (e peggio) che la critica marxista ha già da tempo messe a nudo e svergognate, ma sempre pronte a ripresentarsi sotto vesti nuove. La situazione di persistente “nullità politica” della nostra classe e della sua difficoltà a tradurre delle spinte di lotta che pur ci sono in direzione di un programma ed un’organizzazione di partito è testimoniata dal fascino esercitato dalle più perniciose sirene che da “sinistra” e “sinistrissima” virano a destra: la lotta del “paese” per affrancare la “nostra economia” dalla stretta euro-germanica sino alla rivendicazione del ritorno alla lira; la straripante ondata di fiducia nel M5S quale garante “anticorruzione” con cui fare fronte unico; le farsesche alternative elettoralesche “alla Syriza” (e perché non De Magistris o, domani, Emiliano?): il tuffo entusiasta nelle risorse liberatrici elettorali e referendarie quali strumenti “interpreti” e risolutori delle lotte (specie se non ci sono o ce se ne astiene) ed il peggio che bussa alle porte con l’esplosione del tema-immigrazione contro cui va in frantumi la politica cristianoide dell’“accoglienza” incapace di tradursi in termini di classe e che lascia – disgraziatamente – le porte aperte ad un movimento anti-immigrati a tinte “popolari”, “sociali”. .
Noi non chiediamo l’obbligo di partire dai nostri testi di
riferimento, ma quello di un lavoro di scandaglio marxista della
realtà di fatto di cui essi – noi crediamo
– costituiranno comunque un punto di arrivo e ripartenza in avanti verso
il partito del futuro una volta assimilate davvero e sino in fondo le
lezioni del passato. Come e più che “allora” l’alternativa resta
socialismo o barbarie o, se volete, socialismo o “civilizzazione”. La civilizzazione borghese che marcia inarrestabilmente verso nuovi sbocchi di guerra.
2 febbraio 2017
«E’ certo che ogni passo della inabissata degli uomini del Cremlino nelle sabbie mobili della controrivoluzione borghese, avvicina il duro, aspro traguardo della ricostituzione del partito rivoluzionario, cui tutto dedichiamo delle nostre possibilità, meno che una bolsa impazienza.
Quando l’ora sarà dalla storia segnata, la formazione dell’organo di classe non avverrà in una risibile costituente di gruppetti e di cenacoli che si dissero e dicono antistalinisti o che oggi si dicano bene o male “anti-ventesimo congresso”.
Il Partito, ucciso goccia a goccia da trent’anni di avversa bufera, non si ricompone come i coktails della drogatura borghese. Un tale risultato, un tale supremo evento, non può che essere posto alla fine di un’ininterrotta unica linea, non segnata dal pensiero di un uomo o di una schiera di uomini, presenti “sulla piazza”, ma dalla storia coerente di una serie di generazioni.
Soprattutto non deve sorgere da nostalgiche illusioni di successo, non fondato sulla incrollabile dottrinale certezza del corso rivoluzionario, che da secoli possediamo, ma sul basso soggettivo sfruttamento dell’annaspare, del vacillare altrui; che è misera, stupida, illusoria strada per un risultato storico ed immenso».
(Dal Dialogato coi Morti, 1956)
«Poiché il punto di arrivo di tutta la degenerazione fu l’abilismo tattico e manovriero, e della sua nefasta influenza la nostra corrente dette una esatta critica ribadita dalla Storia di oltre trent’anni, nulla possiamo avere in comune coi partiti malamente definiti della quarta internazionale, o trotzkisti, che quel metodo vorrebbero riapplicare per conquistare le masse aggiogate ai partiti stalinisti, che a questi rivolgono inascoltate richieste di fronti comuni, e che per forza di cose arrivano atto stesso punto nel sostituire rivendicazioni vuote, retoriche e demagogiche alle finalità comuniste e rivoluzionarie. Tale movimento ha poi una concezione assolutamente non marxista dello stadio di sviluppo delle forme di produzione in Russia, contraddicente alla tesi condivisa dallo stesso Trotzky che senza rivoluzione politica proletaria in Europa non può esservi economia proletaria in Russia.
Tanto meno possiamo avvicinarci ad altri sparuti cenacoli in cui si cerca di attribuire la soluzione sfavorevole ad errori della dottrina generale del movimento, e si permette a ciascun adepto di elaborare suoi progetti di aggiornamento e correzione del marxismo in risibili “libere discussioni”, dando una falsa soluzione del problema della coscienza teorica che non si poggia sui genii, né su consultate maggioranze di grandi e piccole basi, ma è un dato che scavalca nella sua invariante unità generazioni e continenti. Costoro non meno falsamente risolvono il problema della ripresa dell’azione, pensando che tutto consista nel dare alle masse una nuova Direzione rivoluzionaria, ognuno di essi scioccamente sognando di entrare in questo stato maggiore, e portare nello zaino il bastone di maresciallo, visto che troppi" semi-uomini vi sono riusciti».
(Dal Dialogato con Stalin, 1954)
La caratteristica dell’opportunismo è l’incapacità di aspettare
« Sembrerà forse un paradosso il dire che la caratteristica psicologica dell’opportunismo è la sua “incapacità di aspettare”. Eppure è cosi. Nei periodi in cui le forze sociali alleate e avversarie, col loro antagonismo e con le loro mutue reazioni, portano nella politica una calma piatta; quando il lavoro molecolare dello sviluppo economico aumenta ancora le contraddizioni – e, invece di rompere l’equilibrio “politico”, dà piuttosto l’impressione di rafforzarlo per il momento e di assicurargli una specie di perennità – l’opportunismo, divorato dall’impazienza, cerca attorno a sé “nuove” vie, “nuovi” mezzi per realizzarsi.
Essa si esaurisce in lamentele sull’incertezza delle proprie forze e cerca degli “alleati”. Esso si getta avidamente sul letamaio del liberalismo. Lo scongiura, lo chiama. Inventa ad uso del liberalismo speciali formule di azione. Ma il letamaio non esala che il suo tanfo di decomposizione politica. L’opportunismo allora razzola nel mucchio di letame qualche piccola perla di democrazia. Ha bisogno di alleati. Esso corre a destra e a sinistra e ad ogni crocicchio cerca di prenderli per la giacca. Si rivolga ai suoi “fedeli” e li esorta ad usare la massima cortesia verso ogni eventuale alleato. “Del tatto, ancora e sempre del tatto!”. Esso soffre di una malattia che è la mania della prudenza verso: il liberalisrno, la “mania del tatto”, e, nel suo furore, schiaffeggia e ferisce la gente del suo stesso partito.
L’opportunismo vuol tener conto di una situazione, di condizioni sociali che non sono ancora mutate. Esso vuole un “successo” immediato.
L’opportunismo non sa aspettare. Per questo i grandi avvenimenti gli sembrano inaspettati. I grandi avvenimenti lo sconcertano; non tocca più il fondo, è trascinato come un truciolo nel loro turbine, e va a finire a volte su una sponda a volte sull’altra... Tenta di resistere, ma invano. Allora si sottomette, fa finta di essere soddisfatto, muove le braccia per dar l’impressione di nuotare e grida più forte di tutti... E quando l’uragano è passato, arrampicandosi a riva, si scrolla con aria disgustata, si lamenta di avere il mal di capo, di essere indolenzito e, nel malessere dell’ubriachezza che ancora lo tormenta, non risparmia le parole crudeli verso gli uomini della rivoluzione “che non fanno che castelli in aria... “».
(Trotzky, 1905)