nucleo comunista internazionalista
note







Sviluppi in Medioriente e Nord-Africa

PROSEGUE L’AGGRESSIONE IMPERIALISTA:
SI STRINGE IL CERCHIO SULL’IRAN

Ai primi di maggio, nella città kazaka di Astana, i rappresentanti ufficiali di Russia, Iran e Turchia hanno firmato un accordo sulla guerra in Siria. Al tavolo del negoziato promosso dalla Russia erano presenti anche l’inviato speciale dell’ONU e una delegazione di osservatori americani e giordani.

L’accordo di Astana

Russia e Teheran, alleati di Damasco, e la Turchia, che appoggia i “ribelli” jihadisti (e soprattutto contrasta l’autonomia territoriale dei kurdi ai propri confini), hanno sottoscritto un memorandum per un nuovo “cessate il fuoco” e la tregua parziale dei combattimenti. Esso prevede “lo stop a tutte le ostilità fra jihadisti e forze governative per una durata di sei mesi (e un eventuale prolungamento per altri sei mesi) e la creazione di ‘zone di sicurezza’ dotate di check-point e punti di osservazione, ai confini di ‘zone a bassa tensione’ indicate nel documento come ‘zone di de-escalation’”(il manifesto del 5/05/17). Il delegato russo ha dichiarato che “Russia e Siria sospenderanno le operazioni dell’aviazione sopra le zone a tensione ridotta”. Le zone di cosiddetta de-escalation sarebbero localizzate nelle province o in parte delle province di Idlib, Latakia, Aleppo, Hama e Homs, Ghouta a est di Damasco, Daraa e Quneitra al confine con la Giordania.

cartina Siria

Sul manifesto del 5/05/17 si legge ancora che Putin aveva informato Trump dei contenuti dell’accordo “ottenendo evidentemente l’appoggio della Casa Bianca”. Gli jihadisti “ribelli”, presenti ad Astana non solo per interposta Turchia, non hanno gradito “la benedizione di Trump al coinvolgimento dell’Iran nella chiusura dell’accordo e se ne sono andati sbattendo la porta” dichiarando “inaccettabile ogni accordo di cessate il fuoco che non comprenda tutto il territorio della Siria”. La tregua concordata ad Astana, infatti, è solo parziale. Essa sancisce il ripiegamento in atto delle forze anti-Assad e la stampa mondiale vi legge il suggello della sconfitta dell’Isis in Siria. Nondimeno la realtà della Siria è quella di un paese smembrato e devastato, con un governo “vincitore” che ha perso il controllo di larga parte del territorio e con 13 milioni di siriani (su 24) fuggiti dalle proprie abitazioni. L’accordo crea delle “zone sicure” e altre ad esse collegate di “de-escalation”; si tratta di porzioni di territorio già incalzate dall’avanzata dei governativi (supportati dai russi), ora disposti a cessare completamente le ostilità nelle prime e a sospendere i bombardamenti aerei nelle seconde. Poiché contestualmente è in corso, né viene fermato, l’assedio di Raqqa condotto dalle Forze Democratiche Siriane - SDF (coalizione a guida Usa con prevalenza di effettivi a terra curdi), di fatto si spingono i miliziani jihadisti, assediati a Raqqa dalla coalizione filo-occidentale e attaccati altrove dai governativi che riconquistano il controllo su porzioni sempre più ampie di territorio, ad abbandonare le zone meno difendibili e in procinto di cadere per spostarsi in queste “enclavi protette”. In tal senso il ripiegamento (e la sconfitta) dei combattenti jihadisti è un dato reale.

Lo smembramento della Siria

Dopo la recente riconquista di Aleppo, seguita dal bombardamento americano sull’aeroporto militare di Shayrat -un monito contro l’ulteriore avanzata dell’esercito di Assad-, lo scenario della Siria appare segnato dalla frammentazione e dallo smembramento dell’unità territoriale del paese. Le opposizioni islamiste, pur in ripiegamento, controllano tuttora importanti parti del territorio: Raqqa al centro-nord e Deir Ezzor verso il confine con l’Iraq, Idlib a nord ovest, Quneitra a sud ovest e poi il confine est con la Giordania (manifesto del 23/05/17). Quanto alle porzioni sotto controllo governativo, Assad controlla adesso la fascia che da Aleppo scende verso Hama e Homs ricongiungendosi alla capitale Damasco. Non solo: l’effetto congiunto della “chiusura dei miliziani in zone definite” e della sospensione delle ostilità in queste zone già teatro del più cruento confronto tra governativi e jihadisti, sta consentendo all’esercito di Damasco di riconquistare altrove ulteriori porzioni. Ha spiegato Mustafa as Said in un suo editoriale sul giornale egiziano al-Ahram che “Quelle aree (le cosiddette enclavi di de-escalation stabilite ad Astana, n.n.) hanno permesso all’esercito siriano di riprendersi il controllo di 15mila kmq di territorio in pochi giorni nella Siria orientale e di avvicinarsi ai confini con l’Iraq, mentre le milizie sciite irachene si precipitavano nel distretto di al-Ba’aj vicino ai confini siriani (siamo all’estrema proiezione della Siria a nord est al confine con l’Iraq, n.n.), consentendo il contatto tra le due parti per la prima volta dal 2011” (manifesto del 4/06/17). Le milizie sciite irachene, dopo aver ripreso il controllo della città di al-Ba’aj in Iraq (dunque l’Isis ripiega anche in Iraq), hanno accennato a valicare il confine per ricongiungersi con l’esercito e le milizie filo Assad in avanzata verso il medesimo confine nell’opposta direzione. Gli Stati Uniti si sono precipitati a contrastare questi effetti dell’accordo di Astana, riprendendo ad armare le cosiddette “opposizioni moderate siriane” chiamate a impedire il ricongiungimento delle milizie sciite sul confine Siria-Iraq (trattasi del redivivo Esercito Libero Siriano, dato da tutti come realmente assente dal campo di battaglia e nondimeno terminale di ingenti equipaggiamenti, già immancabilmente finiti nelle mani dei gruppi salafiti e qaedisti), senza risparmiarsi di lanciare moniti diretti alle milizie sciite in Iraq e in Siria perché da entrambi i lati non venga valicato il confine che separa i due paesi (mentre Israele sin dal primo momento ha dichiarato che non avrebbe rispettato gli accordi di Astana e che avrebbe continuato i suoi raid aerei “contro le attività terroristiche nei suoi confronti”). Più a sud la coalizione anti-Isis a guida occidentale ha chiesto a Damasco di “ritirare le milizie alleate, trasferite nelle ultime settimane alla frontiera con l’Iraq e la Giordania: ha lanciato 90mila volantini sull’area, ma al momento nessun miliziano si è allontanato. Quelle stesse milizie il 18 maggio hanno ricevuto un avvertimento aereo con il raid Usa a Badia (localizzata più a sud rispetto alla latitudine di al-Ba’aj in Iraq, n.n.), dove si troverebbero al momento 3mila uomini di Hezbollah” (manifesto del 1/06/17). Per completare il quadro dello smembramento della Siria occorre ricordare che al nord la regione del Rojava è sotto controllo curdo ed è divisa in due zone (a ovest Afrin e ad est Kobane) con in mezzo i turchi che hanno occupato Jarabulus. La Turchia, che ad Astana ha legittimato la sua “zona cuscinetto” che serve a impedire il ricongiungimento dei territori controllati dai curdi, reclama che non sia concesso ai “terroristi curdi” un ruolo da protagonisti nella cacciata dell’Isis da Raqqa.

L’imperialismo occidentale ridefinisce la propria strategia

Con la proposta di tregua i russi puntano a rendere definitivi i risultati conseguiti sul campo in attesa degli sviluppi in corso, consolidando le significative acquisizioni territoriali del governo di Damasco e innanzitutto garantendo protezione e rafforzando le proprie basi militari (quella navale di Tartus sul Mediterraneo e quella area di Humaymim nella vicina provincia di Latakia). Proprio per contenere i successi di Damasco e dei Russi e rilanciare più efficacemente la propria iniziativa, gli Stati Uniti stanno ridefinendo la propria strategia in Siria e nell’intero scacchiere. Gli attacchi lanciati nelle capitali occidentali da militanti che si richiamano all’Isis scuotono l’opinione pubblica interna (tanto indifferente alle guerre scatenate in lontani luoghi dai propri governi quanto desiderosa di “sicurezza” in casa propria) e rendono impossibile per i governi imperialisti continuare a garantire il proprio fattivo sostegno ai combattenti jihadisti (unici effettivi in Siria cui delegare credibilmente il “regime change”) facendo finta di supportare “opposizioni” “pacifiche, democratiche, moderate”. Gli imperialisti non disdegnano affatto di accordare il proprio appoggio a qualsivoglia organizzazione/movimento che nei paesi dominati possa essere utilizzato e strumentalizzato ai propri scopi (beninteso: che non sia un effettivo movimento di classi sfruttate che si mobilitino su parole d’ordine orientate ai bisogni e alla prospettiva di classe, che in tal caso difetterebbero da ambo i lati i presupposti per ogni sia pur contingente finalità comune). Gli esempi di questo segno riferibili alle organizzazioni che si richiamano al radicalismo politico di matrice islamica sono infiniti: si pensi ai Talebani, armati contro l’Urss dai governi occidentali, che poi nel 2001 scatenarono contro di essi la sanguinosa guerra in Afghanistan tuttora in corso; si pensi al clero sciita che, quando si impose nel 1979 alla guida dell’Iran rivoluzionario che aveva rovesciato lo Scià, lo fece con i favorevoli auspici dei governi Occidentali, i quali, viste scalzate -da una insorgenza delle masse proletarie e sfruttate che non accennava ad attenuarsi- tutte le soluzioni di governo ad essi più gradite, si affidarono infine agli ayatollah, unica forza borghese rimasta in sella in grado di puntellare l’ordine capitalistico in Iran e nell’area, imbrigliando e fermando la spinta di massa e organizzando la repressione a migliaia delle sue avanguardie più valide e coraggiose. Gli esempi citati (i Talebani e gli sciiti Khomeinisti… molti altri se ne potrebbero fare) rendono evidenti alcuni connotati ricorrenti dei movimenti sociali orientati all’Islam (politico) radicale (sunnita e sciita) e delle loro leadership: connotati borghesi quanto a direzione e programmi, che seppur -in determinati passaggi di frontale contrapposizione ai “Satana occidentali”- possono dirsi antimperialisti, occorre subito aggiungere però che di un antimperialismo reazionario si tratta, ispirato da un programma interclassista, e innanzitutto ferocemente anti-classista, che allo svolto successivo (o precedente) può determinarne il posizionamento nell’alleanza e al servizio degli oppressori occidentali (si pensi ai rivoltosi libici che inneggiando al jihad hanno reclamato a gran voce i bombardamenti occidentali per far fuori Gheddafi). Se non si tiene conto di questa generale ambivalenza propria delle compagini borghesi -statuali (in primis gli Stati imperialisti) e non- attive da sei anni nella devastazione della Siria, si rischia di non comprendere più nulla degli sviluppi in corso. Gli imperialisti d’Occidente continuerebbero ben volentieri a servirsi dei jihadisti per quanto ancora possano fare di utile contro Assad e la Russia (non molto a questo punto), ma sul fronte interno non possono non agitare la bandiera della “lotta al terrorismo”, e devono stare attenti a contenere la rabbia di quanti possano avvedersi che “i terroristi che ci attaccano in casa” lo fanno in nome delle forze che nello scacchiere mediorientale sono alleate e supportate dai “nostri governi” (dal che la spasmodica ricerca e reale mistificazione di improbabili “opposizioni moderate”, dando a vedere che gli “oppositori” supportati sarebbero questi e non i combattenti islamici).

Le coalizioni a guida occidentale attaccano l’Isis in Iraq e Siria…

Se a quanto sopra si aggiunge l’evidenza ormai conclamata che l’Isis e le formazioni jihadiste non riusciranno a far fuori Assad, di tal che la strategia finora seguita dal fronte occidentale si rivela perdente -e all’opposto vincente la risposta ad essa della rivale Russia-, ne consegue che è nuovamente arrivato il momento per i governi occidentali di abbandonare i combattenti islamici al proprio destino e di saldare ad essi il conto. Ecco dunque che divengono realmente stringenti le offensive per riconquistare Mosul e Raqqa, delle quali ha assunto il patrocinio l’Occidente (anche per evitare che dopo Aleppo anche Raqqa sia liberata dai russi e riconquistata da Assad). Se fino a poco tempo fa quella della “lotta all’Isis” in quanto riferita ai governi occidentali, e ai suoi alleati Turchia e Israele, era una pura mistificazione dell’opposta realtà, datosi che tutti essi (e non solo le petromonarchie del Golfo) sottobanco e alla luce del sole supportavano i combattenti jihadisti, ora invece la nuova amministrazione americana ha realmente cambiato il passo dei propri attacchi aerei, diretti a colpire non solo l’esercito di Assad ma anche le postazioni e le città sotto controllo dell’Isis. Il manifesto del 27/05 riferisce che “da quando Trump si è insediato alla Casa Bianca il numero di civili uccisi da raid statunitensi tra Siria e Iraq è lievitato: oltre 450 a febbraio, 1.803 a marzo, 1.193 ad aprile e 871 fino a metà maggio”. Milleduecento civili morti in un mese sono 40 morti al giorno: i governi Occidentali sono responsabili soltanto in Siria e Iraq di una Nizza ogni due giorni! Molti attacchi degli ultimi mesi sono diretti a colpire l’Isis con immancabile strage di povera gente, come è accaduto con i raid aerei in marzo a Mosul (dai 105 ai 200 civili uccisi), e poi il 14 maggio vicino Raqqa (23 contadini uccisi), il 15 maggio nel distretto di Deir Ezzor (59 civili uccisi), e ancora il 26 maggio a Madayeen città sotto controllo del califfato sempre dei distretto di Deir Ezzor (106 civili uccisi) (il manifesto). Intanto entrano nel vivo le battaglie di Raqqa e Mosul, dove con la conquista delle due capitali dell’Isis, la coalizione filo-occidentale punta a fermare le (ri-)conquiste territoriali di Assad, precludendo al suo esercito il rientro nei territori che puntano a “liberare” essi stessi. In tutto ciò, come avvisaglie premonitrici della crisi esplosa recentemente tra gli Stati del Golfo capitanati dall’Arabia Saudita e il Qatar, non sono mancate le notizie di scontri sanguinosi in corso tra le diverse milizie islamiche anti-Assad. Sul manifesto del 5/05/17 leggiamo che a seguito dell’accordo di Astana “a Goutha, a est di Damasco, le varie formazioni armate schierate contro il governo da giorni continuano a combattersi tra di loro. I morti sarebbero già 130 e i qaedisti di Hay’at Tahrir al Sham hanno anche eseguito la condanna a morte di un comandante militare del gruppo salafita Jaysh al Islam, finanziato e armato dall’Arabia Saudita”.

…e puntano il mirino sull’Iran

Questo lo scenario in corso quando Trump è sbarcato in Arabia Saudita per dichiarare al mondo intero la sua volontà di “combattere fino in fondo il terrorismo” e di creare a tal fine “una Nato araba”, cogliendo la totale disponibilità dei regnanti sauditi, riarmati da Trump per l’equivalente di 110 miliardi di dollari e completamente allineati sui discorsi obliqui di Trump genericamente riferiti al “terrorismo” ma in realtà contenenti la esplicita dichiarazione di ostilità, e relativa minaccia di guerra, all’Iran (alleato della Russia e anche per questo nel mirino di Washington). In una rapida accelerazione del quadro generale hanno fatto seguito la rottura delle relazioni diplomatiche delle monarchie del Golfo allineate a Ryadh con il Qatar, accusato di fomentare il terrorismo (da quali pulpiti?!?) e di coltivare relazioni non sufficientemente ostili con l’Iran, e, poi ancora, gli attentati rivendicati dall’Isis nel cuore di Teheran. Noi abbiamo letto in questa successione di eventi il cambio di strategia di Trump che abbandona l’Isis al suo destino per usarlo ora come obbiettivo dichiarato di una generale escalation militare in Siria ed Iraq, che, mentre espugna Raqqa e Mosul riarmando i curdi e le cosiddette “opposizioni moderate” e accentuando gli attacchi diretti, argina in questo modo l’avanzata di Assad e punta con decisione il mirino contro l’Iran. In ciò Trump si allinea all’estremismo anti-iraniano di Arabia Saudita ed Israele, con effetti che sembrano andare oltre le sue intenzioni immediate, se il giorno dopo l’Arabia Saudita rompe le relazioni con il Qatar, rivendicando brutalmente la sua leadership per una politica di ostilità anti-iraniana che non ammette debolezze e ambiguità (quelle rimproverate al Qatar). I commentatori borghesi non sbagliano quando attraverso questi fatti vedono maturare la minaccia di una nuova guerra delle monarchie sunnite, supportate dall’Occidente e da Israele, all’Iran (sarebbe un déjà vu… e un’acutizzazione dirompente dell’aggressione imperialista). Che a catena l’Isis, quand’anche sotto attacco della coalizione filo-occidentale nelle sue capitali, faccia la sua parte nella “coalizione internazionale anti-Iran” mettendo a segno con tempestività sorprendente gli attentati di Teheran, è la conferma di quanto abbiamo scritto più sopra sulla natura di queste forze, che, seppur portatrici in determinate contingenze di (parziali) istanze antimperialiste (potendo raccogliere per questo la genuina disponibilità di lotta di strati sociali diseredati, e anche per questo essere colpite al momento debito dall’imperialismo), giammai dismettono la propria ambivalenza, e, in linea con la prospettiva (sotto-)borghese del proprio programma di ”liberazione", non disdegnano di mettersi al servizio dell’imperialismo e di offrirsi ad esso come punta di lancia di una nuova aggressione (confidando che un domani i capobastone imperialisti possano rivedere i propri piani, ed essi conseguire i propri scopi avvalendosi dell’aiuto degli imperialisti).

Contro l’escalation dell’aggressione dell’imperialismo occidentale in Medioriente e Nord-Africa

In questa escalation noi vediamo la conferma di tutto quanto abbiamo scritto nei precedenti interventi. Nel decennio in corso non è mancato nel Medioriente e Nord-Africa il tentativo delle masse lavoratrici e povere di riprendere l’iniziativa di lotta contro condizioni di vita insopportabili in corso di ulteriore peggioramento nel contesto della crisi mondiale del capitalismo, un tentativo tuttora in corso in paesi come la Tunisia, l’Egitto, il Marocco... Contro le manifestazioni che in Tunisia ed Egitto portarono in piazza nel 2010 le istanze di riscatto sociale delle masse impoverite e oppresse dando uno scossone all’ordine imperialista, è scattata al momento propizio l’aggressione dei governi occidentali volta a rivendicare a sé la prerogativa di decidere le leadership statuali cui affidare la preservazione dell’ordine capitalistico in ogni singolo paese e nell’intera regione. In Libia e Siria ciò è potuto accadere non per “la magia dei complotti imperialisti” (come amano esprimersi quanti intendono accreditare autentiche “rivoluzioni” in quei paesi), ma in quanto gli imperialisti, che da molto tempo tengono sotto tiro questi “Stati canaglia” e le loro leadership non sufficientemente allineate (operando indiscutibilmente dietro le quinte e alla luce del sole: chi ha dimenticato, tanto per dire, i bombardamenti sulla Libia ordinati da Reagan nel 1986), hanno potuto cogliere nel 2011 l’opportunità di stringere accordi con le forze che hanno assunto la direzione reale della ribellione contro i governi locali. Quanti nel nostro campo hanno fatto e fanno fatica a riconoscere questa realtà, giungendo ad accreditare genuine “rivoluzioni popolari e proletarie” cui non far mancare la solidarietà degli “internazionalisti”, hanno in questo modo oggettivamente derubricato quello che per noi è il dato centrale: l’aggressione dell’imperialismo occidentale al mondo arabo-islamico da prendersi in carico e contrastare con una coerente denuncia e con la lotta. Le conseguenze sono quelle già altre volte dette: indifferentismo effettivo verso l’aggressione imperialista in corso o sua denuncia formale, oggettivo sabotaggio della mobilitazione contro la guerra imperialista se al primo punto si mette la cacciata del “tiranno” quando l’imperialismo muove i suoi eserciti per sloggiarlo. L’Occidente ha aggredito l’Iraq nel 1990, l’Afghanistan nel 2001, nuovamente l’Iraq nel 2004, la Libia nel 2011 e a seguire la Siria (l’elenco è sommario e incompleto). Gli sviluppi trattati in questa nota preannunciano la minaccia di una nuova aggressione all’Iran (già aggredito dall’Occidente e dall’Arabia Saudita per interposto Saddam nel 1980). Alla data del 2011 l’imperialismo era presente con i suoi eserciti occupanti in Iraq e in Afghanistan, senza dimenticare la costante guardia super-armata di Israele. Quando le manifestazioni di piazza in Tunisia ed Egitto hanno buttato giù storici alleati dell’Occidente del calibro di Ben Ali e Mubarak, i governi occidentali non si sono fatti scappare le opportunità date per rinsaldare la presa affondando i propri artigli prima in Libia e poi in Siria. E ora accennano ad andare oltre… Nondimeno langue, purtroppo, in Occidente e segnatamente in Italia l’iniziativa di lotta. Trump ha potuto attraversare le vie di Roma senza l’ombra di manifestazioni di ostilità alla sua politica di guerra cui si allinea ed aggrega il governo italiano (onore ancora ai pochi militanti che si sono attivati per appendere almeno uno striscione di denuncia). Questa assenza, lungi dal poter passare sotto silenzio, deve essere colmata al più presto, perché a breve l’incendio attizzato dall’imperialismo in Medioriente potrebbe deflagare in esplosioni e guerre di ancor maggiore potenza distruttiva, chiamando vieppiù inesorabilmente il fronte interno a irreggimentarsi nelle cosiddette “guerre al terrorismo” dei propri governi, oppure -e come è per noi necessario- a rilanciare nell’intero Occidente su basi più solide (quelle che facciano un bilancio delle esperienze trascorse e recuperino la disastrosa debacle della sinistra rivoluzionaria sulle “primavere” libico/siriane) l’opposizione di massa contro l’aggressione militare dei “nostri governi” imperialisti al mondo arabo-islamico. Con un ulteriore decisivo corollario. Come l’aggressione occidentale è volta a stroncare ogni tentativo delle masse impoverite ed oppresse di alzare la testa e rivendicare il proprio riscatto sociale contro l’ordine imperialista e i governi locali che se ne fanno tutori, così la nostra mobilitazione contro la guerra imperialista in Medioriente e Nord-Africa è tutt’uno con la mobilitazione che da qui punta a collegarsi e ad organizzare la solidarietà dei lavoratori occidentali alle lotte sociali in corso in quei paesi.

Solidarietà agli operai egiziani in sciopero a Torah e ai manifestanti tunisini e marocchini

Il quadro abbozzato in questa nota sarebbe incompleto se riferissimo soltanto delle manovre dell’imperialismo e delle coalizioni borghesi che si contendono il campo devastando e distruggendo. L’attenzione dei comunisti deve appuntarsi particolarmente al campo delle forze sociali cui noi ci riferiamo. Proprio mentre il presidente tunisino Essebsi partecipava al vertice dei paesi arabi con Trump a Ryadh, le lotte che da mesi in Tunisia hanno preso di mira le stazioni di pompaggio del greggio e del gas si sono dovute misurare con la repressione dell’esercito volta a rimuovere i blocchi che hanno costretto alla chiusura numerosi impianti. Negli scontri ci sono stati feriti e intossicati e un manifestante ventenne, Mustapha Sekrafi, è stato ucciso. Centro delle proteste, che rivendicano “occupazione e crescita” e reclamano la redistribuzione a beneficio della popolazione dei proventi degli idrocarburi con obbligo per le multinazionali di impiegare manodopera locale, è la città di El Kamur, nella provincia meridionale di Tataouine dove sono presenti gli impianti della Omv (austriaca), dell’Eni e della Serinus (canadese). Nel giorno dello sciopero generale (con esenzione per forni, scuole e ospedali) indetto dal coordinamento dei manifestanti di El Kamur, la città di Tataouine è stata bloccata dai manifestanti. Le proteste si sono estese anche nella provincia di Kibili al confine con l’Algeria, dove opera la anglo-francese Perenco, mentre anche a Sfax la britannica Petrofac ha minacciato la chiusura.


manifestazione a Rabat

Anche nel Rif marocchino (regione a maggioranza berbera) ribolle la protesta sociale. E’ da ottobre che si susseguono le proteste di piazza dopo la diffusione del video che ha documentato la fine orribile di un venditore ambulante di pesce, Mouhcine Fikri, di 31 anni, schiacciato nel camion della spazzatura nel tentativo di recuperare il pesce spada da lui pescato che la polizia gli aveva sequestrato buttandolo nel camion dei rifiuti. Nel corso delle proteste la polizia ha effettuato numerosi arresti, tra i quali quello di un leader riconosciuto del ‘Movimento Popolare’, di cui la piazza invoca la liberazione. Da Al-Hoceima la protesta si è estesa a Nador e Tangeri, fino a Casablanca, Marrakesh e Rabat. Le richieste sono di lavoro, sviluppo economico, giustizia sociale, lotta alla corruzione, contro gli abusi delle autorità e l’umiliazione dei lavoratori, contro le grandi compagnie europee che nella regione costiera del Rif gestiscono il grosso della produzione ittica ed esportano il pesce marocchino, causando al tempo stesso la lievitazione dei prezzi locali di due-tre volte (vedi il manifesto del 1/06/17). Anche in Egitto le lotte operaie, pur diminuite dopo il colpo di stato del 2013 che ha inasprito la criminalizzazioni di proteste e scioperi, non si sono mai fermate. Recentemente il presidio che va avanti da due mesi davanti ai cancelli del cementificio di Torah (sud del Cairo) è stato attaccato alle due del mattino dalla polizia con l’arresto di 32 lavoratori rinviati a giudizio e processati. Gli operai sono in sciopero da quando l’azienda ha negato il risarcimento alla famiglia di un lavoratore morto in servizio in quanto lavoratore part-time. La lotta in corso reclama la stabilizzazione e il pagamento di arretrati per 75 lavoratori e denuncia la condizione di quanti lavorano a tempo pieno anche da 15 anni ma hanno sempre avuto contratti a termine o part-time, laddove senza contratti a tempo pieno i lavoratori non hanno diritto all’assistenza sanitaria, non partecipano agli utili (come previsto dalla legge egiziana) e non possono iscriversi al sindacato. Lo stabilimento di Torah, recentemente ceduto alla tedesca HeidelbergCement, era uno dei 5 impianti dell’italiana Italcementi, che, con la società Suez Cement, è leader del settore in Egitto con oltre 3.000 dipendenti. Nel 2016 sempre a Torah ci sono state proteste analoghe contro la stessa Italcementi, che è stata condannata a riconoscere ai lavoratori egiziani le condizioni più favorevoli negate dall’azienda e rivendicate dai lavoratori. Più che munifica si mostra invece Italcementi con il regime presidenziale di al-Sisi, che ha sostenuto anche con la donazione di 30 milioni di lire egiziane a un fondo istituito da al-Sisi “per lo sviluppo del paese” (manifesto 1/06/17). Sono cronache eloquenti, che ci consentono una secca conclusione di queste note. L’Occidente imperialista punta a preservare il suo dominio sostenendo in Medioriente e Nord-Africa i Saud e gli al-Sisi, e attizzando ogni guerra e conflitto utili a tenere sotto il controllo delle proprie cannoniere, preservandolo, l’ordine capitalistico, quello che consente alle varie Eni ed Italcementi di veder prosperare i loro affari. Le masse lavoratrici del Medioriente e del Nord-Africa, che resistono ad una doppia oppressione -dell’imperialismo e della propria borghesia-, rilanciano la lotta sociale in Egitto, Tunisia, Marocco. Nostro compito è quello di lottare qui contro l’aggressione imperialista dei “nostri” governi, solidarizzando e gettando ponti di collegamento con la lotta degli sfruttati in quei paesi, che possa saldamente orientarsi al programma e alla prospettiva di classe respingendo altri programmi divisivi e suicidi. Solo in tal modo è dato alle masse lavoratrici e sfruttate mediorientali e maghrebine di unificare le proprie forze sul terreno dei comuni interessi di classe, oltre e contro perniciose divisioni e settarismi etnico/confessionali, per poterle opporre unite all’imperialismo e ai manutengoli locali cointeressati e disposti a spianargli la strada.


15 giugno 2017