nucleo comunista internazionalista
note




Dove è finito il movimento no war?

DISMISSIONE DELLA DENUNCIA DELLE GUERRE ATLANTICHE E ANTIAMERICANISMO NAZIONAL-POPOLARE:
DUE DERIVE SPECULARI CHE OSTACOLANO LA RIPRESA DELLA MOBILITAZIONE E APRONO LA STRADA AI PROGRAMMI ROSSO-BRUNI

Più di un intervento negli ultimi tempi ha denunciato la scomparsa del movimento contro la guerra, già presente e attivo agli inizi del secolo e poi rifluito ingloriosamente mentre gli imperialisti d’Occidente continuavano a fomentare e scatenare luride guerre di aggressione al servizio dei propri interessi di dominio e di rapina.

Il recente vertice Nato in Galles, con consiglio di guerra sulla nuova crociata in Iraq/Siria e convocazione del boss ucraino cui dettare il seguito dell’aggressione militare alle popolazioni del suo paese (e alla Russia), ha bensì visto modeste iniziative portare in strada la denuncia delle guerre atlantiche, ma ciò non cancella il vuoto di una mobilitazione minimamente adeguata in generale e con riguardo all’occasione specifica.

Eppure un tempo non lontano, si ripete, le piazze d’Occidente, e insieme ad esse quelle del mondo intero, si riempivano di manifestanti pronti a denunciare il capitalismo per i suoi “crimini di pace”, identificati nel sistema di spoliazione dei paesi del Sud del mondo condannati a subire il peso della “crescita” alienata dell’Occidente e dei suoi rivendicati irrinunciabili “stili di vita”, e per la catena delle sue guerre di aggressione mascherate dalla rivoltante retorica delle “missioni umanitarie”. Una denuncia non sempre (anzi quasi sempre non) adeguata quanto a coerenza dei contenuti, ma portata avanti con animo e aspettative sinceri da parte della massa partecipe e mobilitata, con una prima contraddittoria ma reale proiezione verso le sofferenze delle masse sfruttate e aggredite dall’Occidente.

Non a caso alle popolazioni occidentali è stata e viene proposta la propaganda martellante di un Occidente liberale e democratico in lotta contro tutte le potenze del male che di volta in volta gli si opporrebbero. Ad esse l’Occidente sarebbe a sua volta costretto ad opporre la forza delle proprie armi micidiali (gli assassini imperialisti hanno coniato la diversa aggettivazione di “chirurgiche”), regolarmente scaricate su popoli ribelli e “Stati canaglia”. E tutto questo non apparterrebbe al genere dei massacri di guerra, sì invece all’edificante categoria delle “missioni di pace”, con tanto di premi Nobel auto-distribuiti ai vari Obama e Peres!!

“Missioni di pace” o “guerra infinita”?

E’ stata una “missione umanitaria di pace” l’aver spalleggiato l’Iraq di Saddam Hussein per poterne scagliare l’esercito in otto anni di guerra reazionaria contro l’Iran, reo di aver liquidato con la forza di una rivoluzione popolare un regime affittato agli Stati Uniti (con un esito – tuttora in corso – che non ci piace, ma senza possibilità di rimpianti per lo scià di Persia teleguidato da Washington); è stata “missione di pace” non aver poi tollerato il risarcimento auto-attribuitosi da Saddam con il ricongiungimento della provincia kuwaitiana scatenando la prima micidiale guerra di aggressione all’Iraq; sono state “missioni di pace” i bombardamenti su Tripoli e Bengasi, quelli su Panama, l’invasione della Somalia; “missione di pace” è stata la disintegrazione della Jugoslavia ridotta in bocconi per poter essere più facilmente inghiottita nelle fauci dei nuovi padroni americani, tedeschi, italiani; “missione di pace” è stata l’invasione dell’Afghanistan per debellare i talebani prima sostenuti e armati contro i sovietici, e “missione di pace” è stata la nuova aggressione all’Iraq di Saddam che, secondo i menzogneri campioni della democrazia imperialista, andava terrorizzando il libero Occidente con le fialette di antrace esibite nel teatro delle assemblee dell’Onu; “missione di pace” è stata la più recente devastazione della Libia e quella in corso della Siria; “missione di pace” è la pretesa di portare i missili e le piazze d’armi dell’alleanza atlantica a ridosso dei confini della Russia, spalleggiando a tal fine le peggiori bande criminali di Kiev, elevate al rango di patrioti, armati e scatenati come belve contro le popolazioni che non intendono sottomettervisi. Manco a dire, “super missioni di pace” sarebbero le guerre di Israele in Libano, i suoi bombardamenti in Iran e in Siria, le ripetute aggressioni contro la martoriata Gaza, prima tra esse l’ “aggressione di pace” dell’assedio con tanto di embarghi e blocchi di terra e di mare che non conoscono tregue. Mandanti del boia israeliano sono i governi occidentali, che armano lo Stato sionista fino ai denti, e avallano le sue carneficine ripe tendo il mantra del “diritto di Israele ad esistere”... a scapito del popolo palestinese cui si è strappata la terra.

Così, svariate migliaia di morti in quel di Gaza e in Ucraina, comunque attribuiti alla responsabilità di Hamas che “usa i bambini come scudi” e ai filo-russi o ai russi direttamente, scivolano via nei media occidentali come niente fosse. Ma subito dopo la propaganda di guerra riscopre l’orrore per stragi e decapitazioni altrui (come se gli effetti di bombe cluster, all’uranio impoverito e al fosforo fossero più accettabili per il decoro di specie) e riprende a magnificare il baluardo di un Occidente nuovamente e per sempre opposto alle armate islamiche di vario genere che ora imperversano – guarda caso – in Libia, in Siria, in Iraq, laddove l’Occidente e i suoi alleati arabi le hanno chiamate a raccolta e addestrate per poterle sguinzagliare in feroci battute di caccia alla volpe contro i Saddam/Gheddafi/Assad di turno.

Perché le piazze restano vuote?

Perché a fronte di questo scenario così traboccante di massacri e di infamia di inequivoco marchio occidental-imperialista, come anche di oggettivi richiami a un nuovo scontro Occidente-Russia foriero di devastanti implicazioni, il movimento no war risulta sparito e le piazze restano vuote? Può essere mai che nel 1983 abbia potuto darsi una significativa mobilitazione nazionale per impedire che la Nato installasse a Comiso i missili nucleari puntati verso la Russia, e oggi che i missili glieli vogliono piazzare sotto il naso (mentre sarebbe stata guerra già nel 1962 se l’Urss avesse proseguito l’installazione dei suoi missili a Cuba) nessuno sembri preoccuparsene? Ben vengano le iniziative ora in programma in Sardegna contro le servitù militari e le esercitazioni congiunte con Israele, ma non ci nascondiamo che il quadro generale resta sconfortante.

A fronte della gravità di quanto accade nelle regioni orientali dell’Ucraina non si è vista un’iniziativa degna di questo nome (lo diciamo a maggior merito dei piccoli presidi che sono stati organizzati), mentre imparagonabilmente carente anche solo rispetto alle precedenti puntate della via crucis palestinese è stata la mobilitazione di questa estate contro l’ennesima guerra di Israele: a nostro avviso è mancata sia la mobilitazione degli italiani, sia la spinta della comunità palestinese. Leggiamo adesso un appello delle comunità palestinesi in Italia per un’iniziativa nazionale: non è mai troppo tardi e se ne vedrà il seguito.

Ciò a dire che le magagne non riguardano solo no-war e pacifisti nostrani ma anche le stesse componenti antimperialiste mediorientali e palestinesi, laiche o religiose senza differenze, con Abu Mazen che scodinzola dietro le cancellerie occidentali e Hamas che si è legata al governo del Qatar! Tutte esse sono rimaste silenti nel passaggio cruciale che ha visto andare in scena i bombardamenti alla Libia e poi al primo manifestarsi delle grandi manovre occidentali in Siria (e come si fa a prender parola se ci si è legati al Qatar, partecipe con il suo gioco a quelle aggressioni?). Mentre della stessa Hezbollah, ora mobilitata nella difesa di Assad, non ricordiamo una voce di protesta contro il prodromico scempio libico.

Già abbiamo avuto modo di fare il nostro bilancio sull’eclissi del movimento no-global/no-war e rimandiamo ai nostri articoli “Bilanci e scelte da fare: altermondialismo o comunismo?” di aprile 2013 e “No war o no capitalism? (da tradurre in italiano)” di aprile 2014. In questi articoli c’è tutto l’essenziale e non ci ripeteremo.

Pur in presenza allora di una mobilitazione ragguardevole, mai ci siamo negati che una vera mobilitazione contro la guerra non poteva e non potrà non vedere alla testa un proletariato che riconquisti l’orgoglio e il protagonismo della classe che produce l’intera ricchezza sociale di cui si alimenta il parassitismo delle classi dominanti. Un proletariato che assuma con coscienza e convinzione la lotta contro le guerre scatenate dal proprio imperialismo, spinto a tanto dalla necessità di difendersi e conquistare una vita finalmente degna di questo nome, mai più calpestata dal sistema del mercato e del profitto come oggi accade nei paesi imperialisti e a dosi centuplicate nelle periferie dominate. Il movimento no-global/no-war di inizio secolo, per quanto ampia sia stata la mobilitazione, non è stato in grado di conquistare alla lotta la partecipazione decisiva del proletariato organizzato. A nessuno è dato peraltro determinare a tavolino la mobilitazione e sollevazione proletaria contro le catene mortifere del capitalismo e non è di questo che dobbiamo darci o dare colpa.

La crisi capitalistica, scaricata sul proletariato, rende più ardua la presa in carico della lotta

Ai giorni nostri il capitalismo occidentale annaspa nella crisi e ciò rende di molto più ardua per i proletari la ripresa di fiducia nelle proprie forze per una lotta vera contro il capitalismo. Vale questo per la difesa dei propri interessi più elementari oggi calpestati senza pudori, vale a maggior ragione per la necessaria identificazione di questi interessi con la prospettiva e il programma della lotta a tutto campo contro il capitalismo, ivi comprese le sue guerre in terre oggi percepite illusoriamente come lontane e distanti dai problemi laceranti della realtà più immediata.

Nostro compito è quello di favorire e di contribuire alla ripresa. Nostro compito è far sì che la mobilitazione più ampia e decisiva, che già si è data e tornerà, non resti orfana della necessaria chiarezza della prospettiva e del programma (che necessariamente possano marciare sulle gambe di una corrispondente organizzazione di forze). Noi rivendichiamo fino in fondo la battaglia condotta come Organizzazione Comunista Internazionalista contro la guerra in Jugoslavia, nelle manifestazioni del pre e dopo Genova, nelle manifestazioni internazionali di quel periodo (contro i vertici imperialisti, per la Marcia Mondiale delle Donne, nei Social Forum mondiali, etc.), nelle manifestazioni dopo l’11 settembre del 2001 contro le nuove guerre in Afghanistan e poi in Iraq. Ci dissero allora che l’OCI “sputava merda sul movimento” (lasciamo perdere dove si trovino adesso costoro...) e disgraziatamente ci fu tra i nostri ranghi chi accreditasse confusamente mene di tal genere.

Se lo scriviamo non è per dare fiato a battibecchi sul passato, ma per trarre un bilancio proiettato al presente e al futuro. Noi non ci tiriamo fuori dall’eclissi totale del movimento non war e, nel rivendicare quanto di validissimo abbiamo fatto, non scansiamo la responsabilità di non aver saputo tenere coese le forze della nostra OCI, di non averle sapute confermare e rafforzare nell’acquisizione più a fondo delle nostre tesi fondative (che traggono il proprio cemento da precedenti e più solide fondazioni). Forze beninteso modeste, ma che sarebbero state riferimento utilissimo negli anni successivi e ad oggi contro la generale debacle della cosiddetta “sinistra rivoluzionaria” (altro che “merda sul movimento”!).

Il bilancio da trarre è che nessun ragionamento volto a “favorire il movimento” può e deve tradursi nella limitazione/abdicazione dalla necessaria battaglia politica dei comunisti. Essere parte e avanguardia attiva del movimento no global/no-war, come l’OCI è stata (riferito all’Italia per chiari limiti oggettivi), giammai può significare rinunciare a demarcare in esso una prospettiva coerentemente internazionalista e di classe. Valga questo per il movimento no war di quegli anni e valga in generale. La centralità del proletariato nella battaglia contro il capitalismo e la necessità di unificare attorno alla sua forza l’intera parte sfruttata della società ci fanno ripudiare la bolsa autoreferenzialità di quanti si candidano a “dirigere” i separati “movimenti dei più coscienti” fregandosene di questa più ampia visione dell’insieme delle forze di classe da unificare. Siamo quindi ben consapevoli e attenti alla necessità di una politica fronteunitaria verso la massa del proletariato e degli sfruttati. Laddove però la politica (politica!) fronteunitaria pencolasse a tradursi nel silenziatore applicato alla battaglia politica in omaggio alle “necessità della più ampia mobilitazione”, allora premesse corrette verrebbero squalificate nel loro contrario.

Bilancio e tracciato per una corretta linea di intervento

Si faceva benissimo a stare nelle piazze con la nostra stampa che certo non allisciava (e non alliscia) il lettore, a condurre i nostri interventi di necessaria rottura in molte assemblee, a stare nei coordinamenti (se e quando realmente corrispondenti a una partecipazione di massa che puntasse a darsi i propri organismi) non per crogiolarsi sull’unificazione di “stati maggiori” foriera di allargamento della partecipazione, sorvolando sui “minimi comuni denominatori” da digerirsi a tal fine (traduzione deviata della politica fronteunitaria), ma per dare battaglia in quelle sedi demarcandovi il riferimento a un coagulo di forze che iniziassero a schierarsi su posizioni coerentemente internazionaliste e di classe. Purché lo si facesse, quindi, per impedire ai pacifisti proni all’imperialismo (tipo Arci e Tavole della pace vari), ma anche ai campioni del radicalismo formale dai contenuti tutt’altro che radicali (tipo i disobbedienti di allora) di tirarsi appresso con facilità l’intero carrozzone, e lavorando per demarcare contro queste posizioni la necessità di un opposto coagulo che mettesse al centro tutt’altri contenuti. Il problema non è stato la battaglia dell’OCI, che suscitava, insieme a non pochi accenni di repressione statuale, le reazioni di quanti “nel movimento” perseguivano vuote visioni di pseudo-riforma di “un altro capitalismo possibile”. Il problema è stato l’indebolimento prima e il venir meno poi di questa battaglia in quanto forza organizzata di un qualche ponderabile peso.

Il seguito visto conferma appieno quanto abbiamo sempre creduto. Con l’arrivo di Prodi nel 2006 i pacifinti istituzional-assisini hanno dismesso ogni idea di mobilitazione (già in riflusso di suo) trincerandosi dietro l’ombrello Onu, la cui egida su ogni guerra ulteriore veniva spacciata per copertura sufficiente e marchio indiscutibile di “missione umanitaria” doc. Né solo di questo si è trattato, perché l’intera “sinistra radicale” e anche pezzi di “estrema” sono andati a genuflettersi al nuovo esecutivo di centro-sinistra finendo in molti per accreditare ex post l’aggressione in Afghanistan, con partecipazione italiana ma timbrata Onu, come “missione di pace”!!

Con l’esplodere delle cosiddette “rivoluzioni” in Libia e poi in Siria si è toccato il fondo. Non solo la cosiddetta “sinistra democratica e radicale”, ma anche un elenco lunghissimo di forze del “campo rivoluzionario” (dobbiamo mettere le virgolette perché la magagna non è di piccolo conto) hanno accreditato quelle ribellioni per genuine rivoluzioni, salvo ritrovarsi in imbarazzante compagnia dei bombardieri occidentali accorsi in aiuto dei rivoltosi. E quale mobilitazione no war poteva mai mettersi in piazza se Rossanda voleva mandare le brigate internazionali contro Gheddafi e il manifesto titolava “Benedetta Nato”? Se contro il tiranno e a favore dei ribelli cirenaici non c’erano più soltanto la solita Arci ma l’intera galassia del “trotzkismo” e finanche, ahinoi!, scampoli della nostra precedente compagine a conferma di una china deviata dalla quale avevamo dovuto separarci a tempo debito (si legga in proposito “I comunisti e le rivolte nei paesi arabi: il nostro commento alla rivista ’il cuneo rosso’” di ottobre 2012)?

Portata devastante del supporto dato “da sinistra” alle ribellioni libica e siriana

Quel che va in scena oggi porta tutti i segni dei passaggi che precedono e che per questo abbiamo ricordato. Ancora non viene messa a fuoco la portata devastante del supporto dato da forze ascrivibili al campo rivoluzionario alle ribellioni libica e siriana fagocitate e condotte dall’imperialismo occidentale non per casuale disgrazia ma per i connotati effettivi delle rivolte stesse pacchianamente travisati in certe pseudo-analisi “rivoluzionarie” (chi ha letto i nostri articoli sulle rivolte in Libia e Siria sa che nel dir questo non ci anima alcun “campismo” pro-Gheddafi o pro-Assad). Se poi si continua a inciampare e, invece di fermarsi a ristabilire l’equilibrio, si persevera nella corsa... all’ingiù, si finisce per rotolare rovinosamente dalle scale.

Anche perché la crisi avanza e le difficoltà si sommano a rendere sempre più dura la risalita. Da un lato in Occidente è rifluita la mobilitazione contro la guerra imperialista e la capacità di lotta delle classi sfruttate è a livelli prossimi a zero. Dall’altro molti di quanti nel 2003-2004 animavano la piazza contro l’aggressione all’Iraq, nel 2011 hanno invece plaudito alla ribellione libica e siriana, continuando a blaterare ostinatamente di genuine rivoluzioni pur quando hanno visto i bombardieri della Nato o gli “eserciti liberi siriani” con stati maggiori in Occidente distruggere quei paesi.

Sennonché, nella crisi anche il fronte avverso muove le sue pedine in relazione allo scenario dato. Accade che componenti più o meno dichiaratamente di destra, nazionaliste o nazionalitarie, rosso-brune e comunitariste si sono tuffate a capofitto sui campi lasciati penosamente vuoti da fin troppi di quelli che avrebbero dovuto presidiarli con le iniziative e i contenuti della battaglia internazionalista di classe. La congrega di cui sopra non poteva sperare niente di meglio di una “sinistra” che, in tutte le sue varianti (non solo democratica, come è da tempo assodato, ma anche “radicale” e “rivoluzionaria”), abbandona o mette in secundis la denuncia delle aggressioni atlantiche per sostenere ribellioni che agiscono come autentici “cavalli di Troia” dell’imperialismo. La destra che tinge di sociale il suo programma “interno” legandolo all’istanza di una diversa collocazione dell’Italia affrancata e contro la tutela americana, ne ha tratto più di un auspicio per guadagnare ascolto e posizioni.

Solo che questa destra non è uno scherzo della natura che si presenta a un certo punto ad aumentare una situazione di difficoltà e confusione. La destra cosiddetta sociale, nazional –“rivoluzionaria”, o “sinistra nazionale”, secondo le molteplici auto-definizioni preferite da costoro, è una storica opzione della borghesia imperialista e comunque delle forze che sostengono il capitalismo nazionale e il capitalismo tout court. Sia il fascismo che il nazismo coltivarono al proprio interno la dialettica reale tra una tendenza di estrema destra tradizionale e correnti di cosiddetta “sinistra” non propriamente marginali e secondarie come potrebbe pensarsi (ammesso che se ne abbia una qualche cognizione e, nel caso, siasi mai ponderata la questione).

Ventaglio di opzioni della controrivoluzione borghese

La borghesia nazionale nelle fasi di stabilità si ancora a una politica di tradizionale preservazione dell’ordine esistente e definisce la propria collocazione nella gerarchia e nelle alleanze tra stati. Ma nelle convulsioni della crisi le alleanze possono essere repentinamente ribaltate secondo calcoli di convenienza in scenari di rapida evoluzione. Si legga cosa scrive Pietro Ostellino sul Corriere della Sera del 6/09/14, dove irride le dichiarazioni della “signora Mogherini” contro Putin e spiega che “l’Europa sta commettendo un errore sull’Ucraina” (e si tratta di cautissime avvisaglie di una dialettica già avviata e di veri scontri futuri tra fazioni borghesi...).

Inoltre la borghesia ha imparato a proprie spese che in determinati frangenti potrebbero occorrere carte tutt’altro che “tradizionali” per raccogliere il consenso delle masse attorno alla difesa di quanto più ha a cuore, il capitalismo nazionale, sottraendo forze all’opposta soluzione di classe e predisponendosi per tal via a sbarrare il passo alla rivoluzione proletaria. Per noi non è un caso che all’approssimarsi della crisi si renda più visibile la politica che ostenta la bandiera della nazione da difendere, dell’Italia da svincolare dal giogo statunitense, di una diversa “politica estera” (pur sempre imperialista! ma questo non viene detto) non limitata dal padrinaggio altrui, cui collegare rivendicazioni sociali anche molto radicali e istanze che si ammantano finanche di fraseologie anti-borghesi, anti-capitalistiche, anti-imperialiste. La borghesia ha imparato che lo scatenamento delle contraddizioni insite nel capitalismo potrebbe costringerla ad attraversare sentieri molto stretti dove essa resterebbe in sella solo assecondando, reprimendo e incanalando contro obiettivi deviati le aspettative di svolta e la sollevazione temibile di masse esasperate. In dati frangenti la borghesia ha dimostrato di saper fare proprie fumose “svolte” di “socializzazione”, spacciandole finanche per “socialismo”, purché la concessione di limitati avanzamenti al proletariato faccia tutt’uno con l’imperativo della riappacificazione e coesione sociali e della “difesa della patria”.

Tornando al penoso quadro dell’oggi, vediamo che l’assenza della mobilitazione contro le guerre imperialiste è aggravata dal moltiplicarsi di voci che da “sinistra” sponsorizzano rivolte supportate dall’imperialismo atlantico, e che tutto questo spalanca le porte di una certa audience a giornali tipo Rinascita, destrissima testata di “sinistra nazionale”, che afferma invece che la Siria è “vittima delle manovre terroristiche e stragiste confezionate dalla Cia per trasformare la Siria in una nuova colonia dell’Occidente e delle monarchie feudali arabe del Golfo“: verità oggettiva sputata in faccia (beninteso in una cornice di spropositi, tipo la Siria “ultimo baluardo repubblicano, laico e socialista in Oriente”: per dire del “socialismo” che i destri sono pronti a iscrivere sulle proprie bandiere...) ai “pacifisti” che “plaudono alle rivoluzioni manovrate dalla Cia e dagli Stati più reazionari del mondo...” (altra oggettiva verità!).

Abbiamo intere organizzazioni e individualità varie del nostro campo “rivoluzionario” fulminati sulla via di Bengasi e Damasco, presi da furioso odio per alcuni tiranni invisi all’Occidente, che vanno accreditando discutibili “rivoluzioni” assunte e supportate dai bombardieri della Nato (benedetta da Uri Avnery sul manifesto!). Il contromovimento da destra (si dichiari fascista o meno, ma in ogni caso con il programma che mette al primo posto “la nazione” portato bene in mostra sugli scudi) organizza invece il “fronte antimperialista pro-Siria”. Ci capiamo?

A queste miserande condizioni si stabilisce una certa oggettiva (e non solo) consonanza con alcuni settori tardo-stalinisti, che sotto l’ “opposto” mantello dell’antifascismo, hanno sempre detto cose del tutto simili, sia quanto a denuncia delle aggressioni Nato (sul che possiamo concordare e anzi aggiungere che nel contesto dato non è poco), e sia anche quanto a cornice di spropositi sull’ “Italia provincia americana”, sul “socialismo siriano” e quant’altro. Verità e spropositi: cioè un organico programma di “liberazione dell’Italia” che si sciolga dalla sudditanza atlantica e si collochi in un fronte di alleanze internazionali suppostamente progressista ben più confacente ai propri interessi. Sono questi i contenuti di un’unica piattaforma nazional-popolare in chiave antiamericana agitati in modo convergente da destra e da sinistra.

Ucraina: contro ogni indifferenza ed equidistanza!

Il collettivo Militant prende di petto quanti a sinistra affermano che “dietro e dentro la resistenza del Donbass ci sono Putin e settori della destra nazionalista russa oltre che infiltrazioni sospette e rosso-brune” traendone motivo per la propria equidistanza e indifferenza.

I compagni di Militant non negano questi fatti, ma oppongono che “in Ucraina esiste una resistenza antifascista, popolare, operaia e noi stiamo con loro, con quella parte che innalza il vessillo della lotta all’aggressione imperialista”; aggiungono che “nelle repubbliche del Donbass, così come in Palestina e in tutte le lotte di indipendenza del mondo, è presente una lotta di classe interna tra sfruttati e sfruttatori, e sta a noi appoggiare gli sfruttati del Donbass contro gli sfruttatori sempre del Donbass” (nostri tutti i corsivi).

Assodato che condividiamo il disappunto di Militant per l’indifferenza con la quale si assiste alla mattanza ucraina, così come riteniamo essenzialisssimo dovere dei proletari ucraini (e dei proletari e comunisti del mondo intero) prendere in carico la difesa di classe contro l’aggressione imperialista in quel paese, vediamo come si risponde ai compiti conseguenti.

Militant scrive che “l’internazionale nera di tutta Europa sta combattendo in Ucraina dalla parte dei golpisti”. Ciò corrisponde alla realtà, tanto quanto il fatto che altre componenti di fascismo rosso-bruno, di “sinistra” nazionale, del cosiddetto comunitarismo danno invece il loro convinto appoggio a Novorossjia e alla Russia stessa (facendo talvolta un non indecente lavoro di denuncia contro media occidentali che passano sotto silenzio gli effetti devastanti dell’aggressione). Militant se la cava dicendo che occorre “tenere alta l’attenzione” e “scoprire e denunciare” queste “infiltrazioni”.

In un lungo appello “Giù le mani dalla Siria” con molte sigle al seguito si leggono cose simili. Le infiltrazioni di gruppi della vecchia e nuova destra dipenderebbero dall’ “abbassamento delle difese immunitarie sul piano dell’antifascismo”, mentre anche la “logica eurocentrista” e la “subalternità all’atlantismo” avrebbero “indebolito l’identità della sinistra”. Ciò faciliterebbe i gruppi di destra a veicolare il proprio “antiamericanismo” e la propria “chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla ha a che vedere con un’identità coerentemente anticapitalista e internazionalista”.

Ai compagni di Militant diciamo che non si tratta di “scoprire infiltrati”, che guarda caso ripetono alla lettera e per l’essenziale il programma che è anche di Militant (il che però sarebbe solo uno studiato camuffamento, dal che la necessità di “scoprirli”), ma di demarcare limiti invalicabili sul piano di un ben diverso e contrapposto programma e della corrispondente prospettiva. Perché “l’identità coerentemente anticapitalista e internazionalista” non è data da richiami formali (men che meno a un comunismo sempre più omesso e in effetti cancellato, in omaggio al ben più generico ed ecumenico “anticapitalismo”), né tanto meno dalla bandiera antifascista, che tutto al contrario segna una prospettiva coerentemente interclassista e nazionale. Parimenti “la chiave reazionaria e sciovinista” non consiste in derivazioni fascistoidi da smascherare, ma in corrispondenti contenuti che balzerebbero all’evidenza se a contendergli il campo ci fossero non collimanti sciovinismi di “sinistra” ma la battaglia di classe dei comunisti e la corrispondente organizzazione.

Ucraina: resistenza antifascista o resistenza di classe?

Se forze che si richiamano al fascismo o comunque alla trincea della nazione, che mettono al primo punto del programma l’indipendenza e sovranità nazionale da difendersi contro gli aggressori, che alludono e rivendicano una collocazione dell’Italia sulla questione Ucraina che sia coerente con questi ideali e non si accodi all’aggressione voluta dagli Stati Uniti ma si schieri piuttosto al fianco della Russia, etc., non si tratta di smascherare i sospetti, ma di demarcare, nel nostro sostegno alla resistenza proletaria del Donbass e dell’intera Ucraina, il programma comunista e la prospettiva dell’internazionalismo di classe che non consentano infiltrazioni e mischiamenti. Se la trincea è invece quella della resistenza popolare e antifascista, come si fa a cacciare quanti sono disposti a battersi contro i fascisti di Majdan affittati all’Occidente? A maggior ragione costoro troveranno spazio nella “resistenza antifascista”, se il programma è quello dell’indipendenza dell’Ucraina. Messa così sarebbe sostanzialmente anche la loro battaglia, e non è affatto detto che vi restino “marginali”.

Si dia allora coerente seguito alla “lotta di classe interna tra sfruttatori e sfruttati nel Donbass”! Si appoggino veramente “gli sfruttati del Donbass contro gli sfruttatori del Donbass”! Questo significa che a fondamento dell’imprescindibile resistenza all’aggressione Nato si chiama in campo l’unità e il protagonismo dei proletari dell’intera Ucraina in nome degli interessi della propria classe non subordinati al programma dell’indipendenza e della resistenza “popolare e antifascista”! Questo significa che nel fronte di lotta all’imperialismo si dà battaglia contro tutti i programmi che postulano invece la preventiva rinuncia alla lotta di classe, senza omettere che niente più della resistenza antifascista in nome dell’indipendenza della nazione (o sottonazione) comporta questa rinuncia preventiva (almeno questo la storia dovrebbe averlo insegnato). Laddove si riuscisse a dirigere la resistenza in questa direzione si vedrebbe che le presenze sospette declinerebbero gli inviti a una partecipazione su questi assi ed esse andrebbero a spargere altrove il proprio veleno nazionalista.

I compagni di Militant scrivono che la Russia “non rappresenta più quell’alternativa politica al capitale che è stata, nonostante la sua progressiva degenerazione, fino al 1989” (loro sono orfani da 25 anni, noi da una novantina: si vede che non siamo orfani degli stessi genitori...). Tralasciando di commentare l’anguillesca perifrasi che afferma e nega al tempo stesso non lasciando in piedi nulla di sensato, si vorrà o no iniziare a prendere atto che da quel dì l’originaria identità del movimento comunista ufficiale è stata stravolta in un programma di difesa della democrazia borghese e innanzitutto della nazione che nei suoi cardini essenziali combacia con il nazionalismo di una destra che solo si tinga di un leggero rosso-bruno? Si vorrà prendere atto che il frontismo politico antifascista della seconda guerra ha segnato il finale passaggio di svolta e non ritorno in questa direzione? Lo diciamo per quanti possano sinceramente avvedersene e tornare sui propri passi, anche se temiamo che in molti se ne avvedranno quando avranno spianato la strada ad altri protagonisti, oppure e peggio andandoseli ad abbracciare come “nuovi compagni (!?) di strada” di una rivendicata “battaglia nazionale”!

Nella corsa verso il precipizio i sassolini diventano valanghe.

Per noi è chiaro che non si darà ripresa della mobilitazione contro la guerra imperialista che non prenda di petto questi nodi per scioglierli e superarli riaffermando la prospettiva di classe.

Come già nel 2001, sempre più è necessaria la battaglia politica e la presenza organizzata dei comunisti.

16 settembre 2014