nucleo comunista internazionalista
note




verso il congresso Cgil, la seconda mozione di “alternativa”...

AVANTI (COME IL GAMBERO)
DENTRO I TORNANTI DELLA CRISI

Le tesi contenute nella seconda mozione del congresso della Cgil dal titolo “La Cgil che vogliamo” segnano un generale arretramento rispetto alle premesse da cui è partita la Rete 28 Aprile e un approdo deludente per quanti (senza rilasciare cambiali in bianco a nessuno, per quanto ci riguarda) nella Rete 28 Aprile avevano ritenuto di poter vedere almeno un ambito di discussione in Cgil non piegato alla linea fallimentare della sua direzione.

Non attribuiamo questo arretramento alle alleanze “strategiche” democraticamente decise dall’80% del cosiddetto gruppo di continuità della Rete 28 Aprile, perché la lettura del testo non lascia dubbi rispetto a una logica di ragionamento assunta con convinzione anche dai “sinistri doc”. A nostro avviso l’ “incontro” con gli ultramoderati è stato soltanto l’occasione per rendere esplicito l’implicito, per far cadere i richiami formali a contenuti “di classe” presenti come orpello esteriore, lasciando nuda e cruda l’unica sostanza del ragionamento, difficilmente distinguibile a queste condizioni e per l’essenziale dalla linea Epifani.

La seconda mozione rimarca innanzitutto come preteso punto caratterizzante il giudizio sulla natura della crisi.

Si tratta –si legge nel documento– di “una devastante crisi globale e non di un passaggio congiunturale negativo”, di “una dimensione della crisi che non ha precedenti” e del “rischio di un’intera fase storica segnata da un’instabilità generale con cicli sempre più brevi di crescita e crisi”. Sennonché, leggendo il seguito, la crisi sarebbe “l’epilogo di un lungo periodo dominato dal pensiero unico neo–liberista, un periodo di sviluppo fondato sulla crescita delle disuguaglianze sociali, sulla compressione dei diritti e su un modello di consumi fondato sull’indebitamento delle famiglie”. Il tutto viene in sostanza connotato semplicemente come la “crisi di un modello di sviluppo”, il che significa che l’enfasi sulla “gravità della crisi” non arriva mai a mettere in causa il capitalismo in quanto tale.

Epilogo di un lungo periodo di neo–liberismo? E quando inizia questo lungo periodo? Si può immaginare sul finire dei settanta primi ottanta con Reagan e la Tatcher (da cui avrebbero appreso i Berlusconi etc.). Il neo–liberismo alla Reagan–Tatcher, però, non è la causa della crisi, perché esso stesso era già una risposta del capitalismo alla sua crisi. Crisi manifestatasi del tutto all’interno e al culmine del “modello di sviluppo” non neo–liberista degli anni 50 e 60, caratterizzato da una forte presenza dello Stato e dall’intervento pubblico nell’economia e con un reale miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici in Occidente.

Non si tratta, quindi, di crisi di questo o di quell’altro modello la cui vicenda sarebbe circoscritta al decorso degli ultiumi trenta anni, ma dell’esaurirsi del più ampio ciclo di sviluppo del secondo dopoguerra.

L’ultima volta che il ciclo storico di sviluppo potè effettivamente ripartire, peraltro, non fu perché i governi avevano infine capito e assunto “un altro modello sociale” propuganto dalle “sinistre”, ma perché una devastante guerra mondiale (tutto il contrario di altri modelli di sviluppo/uguaglianza/pace) aveva nuovamente spianato la strada alla ripresa della corsa generale all’accumulazione e al profitto.

Nel documento mai si dice che questa è la crisi del capitalismo (vocabolo del tutto assente nel testo, e meglio così perché a queste condizioni se ne leggerebbe coerentemente non la denuncia ma la lode). Mai si dice che questa crisi una volta di più mette a nudo le contraddizioni e la sostanza di classe del capitalismo in quanto sistema e non semplicemente –e falsamente– in quanto presunti modelli intercambiabili a scelta.

No: a leggere questo documento il capitalismo può restarsene tranquillo sul trono che gli hanno costruito i suoi tutori, quello del “migliore ed unico mondo possibile”, perché finanche questa crisi –“gravissima”!– non diviene ragione per combatterlo in quanto sistema antisociale fondato sullo sfruttamento e sulla sopraffazione sociale, ma per imbellettarlo con la petizione di “un altro modello di sviluppo” che sarebbe possibile.

A queste condizioni, responsabile della crisi e dei posti di lavoro falcidiati a decine di migliaia, responsabile della forbice sociale che la crisi accentua a scala interna e soprattutto internazionale, non è il capitalismo in quanto tale, ma soltanto il “modello neo–liberista” di capitalismo (e il solo governo di centro–destra che alla scala italica ne sarebbe l’esclusiva espressione), mentre con un altro modello di capitalismo verrebbero garantite prosperità, sviluppo, uguaglianza e pace.

No, la crisi che è tornata a manifestari lo scorso autunno non è la crisi di trent’anni di neo–liberismo, risolvibile abbandonando il neo–liberismo e tornando a “un altro modello sociale di sviluppo”. E’ la crisi del capitalismo, dovuta alla fine di un lungo ciclo di espansione economica durato oltre 60 anni, che va a esaurirsi problematicamente in uno scenario mondiale profondamente mutato rispetto ai dati di partenza.

Una siffatta analisi è palesemente funzionale alla decisione politica –qui il “cuore” del documento–di accreditare la possibilità (in realtà inesistente) di una sua virtuosa e risolutiva riforma del capitalismo.

E qui subentra lo sconcerto nel leggere di cosa dovrebbe sostanziarsi questa riforma, indicata ai lavoratori come prospettiva cui aggrappare le aspettative di soluzione dei propri problemi.

Nel documento leggiamo di un “mondo produttivo” che sarebbe “incapace di fare cultura d’impresa”!

Dunque la “cultura d’impresa” sarebbe qualcosa di positivo e auspicabile per i lavoratori, i quali avrebbero da guadagnare da un padronato “capace di fare cultura d’impresa”?!

Ma questa, con buona pace di ogni dibattito congressuale, è semplicemente una critica al padronato con più che banali argomenti... da padroni; e il sindacato, invece di attrezzarsi a organizzare la propria battaglia di classe, rimprovera ai padroni di non saper fare il proprio mestiere, perché se fossero capaci di “una vera cultura d’impresa” tutto si risolverebbe!

Noi, che non dobbiamo imbastire una presunta “battaglia di opposizione” che neanche lontanamente si sogni di dover mettere in discussione il capitalismo in quanto sistema, diciamo che o si invoca un padronato “capace di fare cultura d’impresa” (che sino a prova contraria significa saper sfruttare il lavoro e incassare profitti), oppure ci si batte per “cambiare gli equilibri sociali a favore del mondo del lavoro”, come è pur scritto nelle punte di audacia massima del documento.

Altrove nel testo leggiamo che al “modello neo–liberista” si intende opporre “un altro punto di vista, quello del lavoro subordinato e dei pensionati”: genericità a parte, quale sarebbe quest’ “altro punto di vista”, quello della “cultura d’impresa” brandita dai lavoratori contro i padroni che ne sarebbero incapaci? Giammai il più progressista dei padronati sfodererà una cultura –“d’impresa”– che sia volta a “cambiare equilibri” a favore dei lavoratori. Queste amenità è possibile leggerle solo nelle tesi ultrabancarottiere di improbabili “oppositori”, dove esse hanno il senso reale di cancellare qualsiasi più remota idea –invece sempre più necessaria– di una uscita dalla crisi attraverso una politica e un ri–orientamento di classe.

Ciò che velenosamente si veicola tra i lavoratori con questi ragionamenti è che l’unica risposta alla crisi è quella di un “proprio” capitalismo –aziendale e nazionale– che sappia essere vincente nella competizione globale.

Risposta illusoria e suicida.

Perché ammettiamo anche che i lavoratori vedono messi a rischio i posti di lavoro innanzitutto –ma non solo– di aziende che non riescono a stare competitivamente sul mercato secondo le leggi di questo sistema. Ed è’ fin troppo facile dire che se quel padrone avesse azzeccato tutte le mosse della “competizione” adesso a piangere i propri dolori sarebbero i lavoratori di altre aziende e di altri paesi e non “noi”.

Ma possiamo costruire su questa logica un discorso non diciamo di classe, ma anche solo di mera difesa del mondo del lavoro, che non sia ovviamente concepito in termini puramente aziendal–corporativi e nazionali?

Come si può rimproverare al “nostro” “mondo produttivo” di non saper essere “competitivo” e poi appiccicarci appresso più che evanescenti richiami alla “solidarietà” (tra chi?)?

E quand’anche i nostri padroni facessero la migliore “cultura d’impresa” e fossero “bravissimi”, cosa farebbero gli altri, starebbero a guardare o non si industrierebbero a “opporci” una “cultura d’impresa” ancora “migliore”?

La sostanza micidiale di questo ragionamento è il concetto implicito di unione (“coesione”...) di padroni e operai di una data impresa –e di una data nazione– contro padroni e operai delle altre imprese –e nazioni– concorrenti.

E infatti leggiamo ancora che “la macchina economica mondiale” farebbe cilecca perché “fondata sulla competitività al ribasso”, che le scuole e università dove studiano “i nostri giovani” sono “poco competitive sul piano internazionale”, mentre –ecco un’indicazione da portatori di una “vera cultura d’impresa”!– “costruire una rete a banda larga accessibile a tutti è fondamentale per il rilancio della produttività complessiva del sistema”.

Una volta fugato il dubbio di non aver preso in mano la mozione del congresso Cgil ma chissà cos’altro, resta il fatto che qui si desiderano le stesse cose e si annunciano obbiettivi sottoscrivibilissimi dagli stessi padroni: la competitività delle aziende (purchè “al rialzo”), la competitività della scuola, il rilancio della produttività complessiva del sistema e il miglioramento della sua competitività in generale. E si sbandiera ai quattro venti che questo “diverso modello di competitività e rilanciata produttività” sarebbe risolutivo della crisi e inoltre idoneo a garantire “equilibri sociali” più favorevoli ai lavoratori!!

Annotiamo ancora altre specificazioni del modello “ri–equilibrato” di capitalismo (l’innominato di questo documento).

A parte le trombonate sulla “coesione” (tra chi? nel documento si capisce tra padroni e operai, uniti appassionatamente dal “nuovo modello sociale” “ri–equilibrato” e che spazza via la crisi! Veramente l’ideale per chi voleva rilanciare la necessità del conflitto... e finisce per rilanciare “la complessiva produttività del sistema”!), il programma di “riforma dell’intero modello economico.. ” si connota nella richiesta della “redistribuzione della ricchezza”, nella “salvaguardia e qualificazione del sistema di welfare universale garantito dal lavoro pubblico”, nel “ridisegnare un ruolo attivo del pubblico nell’economia”, nel “rilancio del pubblico e nuovi strumenti di intervento”.

Insomma si assume come supposta trincea avanzata di un movimento dei lavoratori che voglia difendersi dalla crisi quella, già storicamente conosciuta e sperimentata e oggi –peraltro– fuori tempo storico, di un nuovo new deal promosso dallo Stato (altro innominato: esistono modelli e “lavoro pubblico”, giammai il capitalismo e il suo Stato), ovvero di un interventismo dello Stato che vari misure di sostegno all’occupazione ridistribuendo un po’ di reddito.

Ma, con tutte le mirabolanti meraviglie che si attribuiscono del tutto a sproposito all’ “epoca d’oro” del new deal, la sviolinata su “un altro capitalismo possibile” nasconde che quell’interventismo dello Stato non fu in grado di assicurare nessuna uscita dalla crisi, se non quella della sua precipitazione nella seconda guerra mondiale!

Perché gli adoratori del new deal non dicono che antesignano di tutte le politiche sociali di interventismo statalistico fu il fascismo, emulato da tutti i governi capitalisitci di allora –e di dopo–, e che il contenuto di quelle politiche sociali dello Stato sta innanzitutto nella rinuncia della classe lavoratrice a qualsiasi istanza in proprio e nell’accarrozzamento corporativo alla propria borghesia prima nei tornanti della crisi economica con magrissime “redistribuzioni” a proprio favore e poi nell’inferno della guerra?

Tutto al contrario, i lavoratori sono chiamati, a maggior ragione nella crisi del capitalismo, a imparare a riconoscersi e difendersi in quanto classe, non già ad annullarsi politicamente in quanto schiavi salariati di bravi padroni che sappiano fare “una vera cultura d’impresa”. E nostro comptio è quello di denunciare non i modelli ma il capitalismo stesso e di opporre al ricatto reale della concorrenza e della competizione tra lavoratori la visione e la prospettiva di un mondo non dominato dal mercato e dal profitto, senza aver tema di pronunciare la parola e invece rivendicando il socialismo.

E’ tutto da dimostrare (e per noi è vero il contrario) che “difendersi” in nome di competitività, produttività e cultura d’impresa valga a preservare meglio gli interessi concreti dei lavoratori, piuttosto che non farlo tenendo la schiena dritta nella denuncia e nella lotta contro un sistema che, nel nome del profitto, è votato in ogni sua variante a lasciare insoddisfatti i veri bisogni sociali della “popolazione” lavoratrice, in Occidente e molto ancora di più nei paesi dominati dall’imperialismo.

Senza dilungarsi oltre su questo, non si va lontani dal vero se si dice che finanche un Tremonti sottoscriverebbe questo sbrodolamento su intervernti pubblici e redistribuzioni, sulla necessità di regolare il mercato e quant’altro, mentre non è chiaro in cosa la seconda mozione si differenzi dalle posizioni della maggioranza su questo asse centrale di ragionamento sulla crisi e sulle sue “soluzioni”.

L’aspetto più brutto sta in questa idea di coesione e unione tra lavoratori, bravi imprenditori e Stato “interventista e sociale” (questo si capisce e c’è scritto!).

Sta nel fatto che si lamenta l’assenza di “una risposta comune dell’Europa”. Cosa potrebbe e dovrebbe fare “l’Europa” “in comune” per risolvere la crisi, se non attrezzarsi a scaricarla nei modi più brutali possibili –oltre che sui lavoratori interni– fuori dai propri confini, con tutto quello che ciò significa e comporta?!

Noi in questo linguaggio, mischiato con qualche raro richiamo alla “solidarietà” e all’ “uguaglianza” (?), leggiamo finanche la consapevolezza che se politiche sociali e redistribuzioni (parzialissime e insufficienti) sono possibili nella crisi, lo sono alla sola condizione di rilanciare la competitività del “proprio” capitalismo nel mondo; quando è un dato –storico e di fatto– che rilanci di produttività/competitività con ritorno di redistribuzioni diventerebbero possibili all’esclusiva condizione che il “nostro” capitalismo imperialista accompagni la messa in riga sul fronte interno –la “coesione” appunto– con un’aggressiva proiezione esterna che riesca a scaricare quante più conseguenze negative sui paesi più poveri. Tirate voi la somma!

Molti altri “dettagli”, più che significativi, confermano l’asse –irricevibile– di cui sopra.

Cos’è questa magnificazione del “lavoro pubblico” che sia “presidio di legalità”, “sostegno per le imprese” e “dispensatore di diritti e di welfare universale per tutti”?

In quale pianeta esiste una cosa del genere? Qui, invero, esiste lo Stato e l’unico aspetto reale presente –capovolto di senso– nella seconda mozione è che esso è al completo servizio del sistema delle imprese e della rete di interessi affaristici del capitalismo, e non crediamo proprio che ai lavoratori spetti di rivendicare questa sua funzione, riverniciandola di virtù che non ha mai avuto. Perché ai lavoratori spetta invece di denunciare l’arrogante autoritarismo degli apparati statali sia nella “legalità” repressiva verso malcapitati di vario tipo (immigrati e non solo), sia nell’ “ordinaria amministrazione” dove i “diritti” teoricamente scritti sono negati ai semplici lavoratori o ultrasudati piuttosto che amabilmente elargiti, sia nel fiume di sprechi al servizio del sistema affaristico e clientelare del capitalismo da denunciare.

Idem per la scuola pubblica. Va bene rivendicare il cosiddetto “diritto allo studio”, ma la “scuola pubblica”, cioè la scuola dello Stato, non coincide affatto, anzi!, con l’istanza di sviluppo umano e sociale delle persone. Un tempo anche molti estensori della seconda mozione denunciavano nella scuola statale la scuola di classe, la scuola dei padroni. Noi non abbiamo assistito ad alcuna rivoluzione che nel frattempo l’abbia mutata. Né i sostenitori del documento in esame possono argomentare una cosa del genere a fronte della crescente messa a pagamento di pezzi sempre più allargati della scuola di Stato. Anche perché insieme alla “difesa della scuola pubblica” compare nel secondo documento la rivendicazione dell’ “autonomia scolastica”, che, al di là di tutti i sofismi, è stata introdotta e viene applicata per funzionalizzare sempre di più la “scuola statale” alle richieste del mercato.

Inoltre, dal momento che si brandisce il welfare universale pubblico contro quello finanziario e settoriale sbandierando discontinuità con la politica della Cgil, perché poi non si ha niente di concreto da dire sui protocolli che la Cgil ha firmato, sugli accordi e i consensi che essa ha dato ai piani dei vari governi per smantellare pogressivamentge la previdenza dell’INPS? Veramente la Cgil non ha mai contribuito a questo? Un richiamo generico a difesa del “welfare pubblico” può essere firmato da tutti, mentre una critica più precisa metterebbe in difficoltà molti co–autori diretti del misfatto presenti anche nella seconda mozione.

Questo significa esattamente fare affermazioni pompose sulla “gravità della crisi”, senza trarne alcuna reale conclusione dal punto di vista della difesa degli interessi dei lavoratori. E’ semplicemente vergognoso che, in una passaggio di crisi del genere, nulla di sostanziale e di serio venga detto sul fatto che nei fondi pensione complementari i contributi dei lavoratori sono messi a rischio nella roulette delle borse mondiali.

Veramente è possibile cavarsela dicendo che “gli effetti della crisi finanziaria globale sui fondi pensione implicano un’esigenza di riflessione sulle prospettive del sistema previdenziale, le cautele e i corrrettivi necessari”!? E’ una vergogna che si lanci una “battaglia di opposizione e di discontinuità” in Cgil senza porre la questione del TFR dei lavoratori che, talvolta anche involontariamente, finisce nei fondi pensione e nel gioco di borsa.

E’ su questi temi e con questi argomenti che si sarebbe dovuta dare battaglia alla linea della maggioranza della Cgil e alla sua campagna a favore del conferimento del TFR nei fondi pensione. Oggi, dopo che al di là dell’Atlantico la crisi finanziaria e di borsa ha fatto sparire le pensioni dei lavoratori, occorrerebbe impegnarsi per consentire anche ai lavoratori che –disorientati anche dalle inqualificabili campagne della Cgil– lo abbiano fatto volontariamente, di ripensare se continuare a giocare il proprio TFR in borsa; e invece il documento “di opposizione” cosa fa su questo? Silenzio! E quando mai se ne potrà parlare, se finanche i fanfaroni della discontinuità tacciono la questione? Un silenzio che, detto francamente, suona complicità con le decisioni e gli interessi dei grandi poteri finanziari con i quali il sindacato è ben venuto a patti, sposandone e assumendone le “riforme” distruttive del “welfare universale e pubblico”, e che neanche i cosiddetti “oppositori” intendono disturbare!

Altrettali anguillesche genericità vengono scritte “contro” la precarizzazione del lavoro. Pur con tutti gli sproloqui aggiuntivi a favore dei giovani..., in nessun punto si legge la denuncia forte dell’abbinata micidiale a carico delle nuove generazioni del sistema contributivo di calcolo e dell’ultra–riduzione dei contributi, con uno scarto che tuttora è del 10% e in molti casi anche di più, rispetto al 32,7% a ripartizione. Chi è chiamato a denunciare e a organizzare la lotta su questa palese discriminazione? La discriminazione del lavoro precario nel vostro documento viene denunciata soltanto in astratto come male generale (una disgrazia inevitabile a tale stregua), ma viene taciuta nel concreto di decisioni politiche alle quali fin troppi “oppositori” hanno detto, anche convintamente, SI. Ed è questo il motivo per cui una chiara denuncia viene accuratamente evitata.

Si può leggere, però, nel documento che “bisogna ridefinire un sistema di controllo, trasparenza e legalità dell’incontro domanda offerta che è diventato in molti casi oggetto di clientelismo e discriminazione nel rapporto tra agenzie e imprese, da cui non sono sempre esenti le stesse organizzazioni sindacali”. Un aspetto certo da denunciare e in particolare nel riferimento alle complicità e connivenze delle organizzazioni sindacali. Ma non già in nome di una supposta “legalità” del sistema di intermediazione delle agenzie del lavoro precario da rivendicare, sì invece contro un sistema che, clientelismi aggiuntivi a parte, è costitutivamente preordinato alla discriminazione e al super– sfruttamento.

Saltiamo parecchi altri punti (ogni riga scritta esplicita il contrario di un corretto punto di vista di classe e merita di essere rinviata al mittente) e stringiamo su un altro nodo decisivo.

Il documento spara –a salve– sulla necessità di “una riflessione profonda sui nostri limiti”, annuncia “radicali discontinità”, “forti cambiamenti”, “ampie e aperte innovazioni”. Ma dove va a parare questa “riflessione profonda” sui “limiti”?

Si esordisce con il richiamo agli “anni che ci separano dal congreso precedente”. E bene si fa, perché un congresso questo dovrebbe fare, il bilancio della linea uscita dall’ultimo congresso sulla base della sua concreta applicazione e relativi risultati nel periodo tra un congresso e l’altro.

E invece cosa si legge? Che “gli anni che ci separano dal congresso precedente ci hanno visto pericolosamente oscillanti lungo un asse segnato da continui aggiustamenti tattici che progressivamente hanno oscurato la coerenza e la linearità dei comportamenti...”; che questa “assenza di una strategia” ha comportato il rischio di “non riuscire a dettare l’agenda delle priorità al governo... con l’esito di non contrastare il disegno che governo, controparti, interlocutori sindacali hanno ritagliato per noi, disegno di progressivo isolamento...”.

Insomma, prima si fa riferimento agli “anni che ci separano dal precedente congresso” e si dice che “la riflessione sui limti deve essere profonda”, ma poi, in questo imbroglio di parole, l’unico governo di cui si parla è quello di centro–destra in carica e si cancella una buona metà di quegli “anni che si separano”, escludendo dalle “profonde riflessioni” ogni e qualsiasi riferimento al fallimentare e vergognoso sostegno assicurato dalla Cgil al governo Prodi. Il testo si riferisce esclusivamente al governo Berlusconi. Questo è indiscutibile. Ma è altrettanto indiscutibile che il congresso sarebbe chiamato a discutere anche del sostegno che la Cgil ha garantito al governo Prodi e alle sue politiche che hanno penalizzato i lavoratori. Anche perché questo è un punto decisivo se si vuole definire quale possa e debba essere oggi una credibile prospettiva di opposizione alle politiche del capitalismo e del governo di centro–destra!

Forse che il congresso non deve giudicare anche i primi anni del mandato in corso del segretario Epifani e della sua amplissima maggioranza? Forse che non deve giudicare le scelte del precedente congresso tutte centrate sullo scenario di un governo di centro–sinistra in ingresso, con Prodi omaggiato dalla standing ovation dei delegati Cgil? E non deve farlo in relazione alla applicazione e ai risultati di quei primi anni di mandato? Forse che questa discussione non esiste? E, se esiste, chi è che deve porla? O con il governo Prodi è andato tutto bene? Come si è arrivati, allora, a fare il congresso attuale con un nuovo governo di centro–destra in sella? Cosa è successo? Non è forse successo nulla su cui i lavoratori non debbano aprire una discussione, se, anche a seguito di quei due disastrosi anni di sostegno delle “sinistre” politiche e sindacali al governo Prodi–Padoa Schioppa, si è registrata una precipitazione clamorosa del disorientamento politico dei lavoratori, poi manifestatosi anche nella –meritata– cacciata dei “comunisti” dal parlamento, nella Lega primo partito operaio al Nord, in una valanga di consensi anche di operai e lavoratori al centro–destra, nel rilancio di tutte le possibili derive di frammentazione dell’unità della nostra classe, etc. etc.? Veramente tutto questo non esiste e non conta più parlarne?

A legger bene, è ancora peggio: perché, nel documento si dice che le “oscillazioni” e gli “aggiustamenti “ hanno “progressivamente” oscurato “la coerenza e la linearità dei comportamenti”. Cioè: all’inizio c’erano coerenza e linearità, che poi, progressivamente, sono state oscutare da oscillazioni etc.. Ma veramente si può essere così ipocriti da lanciare sfide di “profonda riflessione sui limiti”, intanto autoassolvendosi tutti, maggioranze e “opposizioni”, sul sostegno inverecondo al rigore anti–operaio di Prodi–Padoa Schioppa?

In realtà due sono i meriti decisivi sui quali la discussione dei lavoratori dovrebbe spendersi: un bilancio impietoso del fallimentare sostegno della Cgil al governo e alle politiche del centro–sinistra; come questo sostegno abbia spianato la strada al ritorno del centro–destra più forte di prima contro i lavoratori; come non ci sia possibilità alcuna, soprattutto in un contesto di crisi, di contrastare efficacemente il governo in carica saltando a piè pari ogni riflessione sulla nostra prospettiva generale che metta in causa anche le politiche di risanamento alla Prodi–Bersani–Padoa Schioppa, e illudendosi invece di poterlo fare in base a un vuoto antiberlusconismo a senso unico, dove la Cgil a quinquenni alternati “si oppone” alle politiche del centro–destra contro i lavoratori e invece asseconda quelle, sia pur diverse ma al fondo non dissimili, del centro–sinistra.

I firmatari della seconda mozione pensano di aggirare la questione ripetendo in più punti una canzoncina misurata al millimetro che suona così: “va riafferato il valore dell’autonomia e dell’indipendenza e respinta ogni forma di collateralismo, anche se, per i valori e i progetti sociali di cui è portatore, per gli interessi che rappresenta, il sindacato confederale non può prescindere dal rapporto esistente tra i programmi elettorali e le politiche degli schieramenti politici e gli interessi della sua area di rappresentanza. L’autonomia/indipendenza non significa in alcun modo indifferenza”.

Sennonché questa canzoncina potrà forse mettere tutti d’accordo a livello di burocrazie sindacali in vena di “discontinuità” e “profonde riflessioni”, ma tra i lavoratori non c’è spazio di credibilità per discorsi del genere. Oggi l’opposizione della Cgil al governo Berlusconi è zoppa innanzitutto perché si tratta di quella stessa Cgil che appena l’altroieri ha dato invece il via libera alla finanziaria di Prodi, quella che ha “risanato” i conti dello Stato con il plauso dell’Europa e caricandone i costi sui lavoratori (e chi dice di “non potere prescindere dal rapporto tra i programmi e la propria area di rappresentanza” cosa ha da dire e cosa ha detto in proposito?). Una finanziaria, si diceva, “con luci e ombre”, ma che intanto poteva ben passare senza nessuna benchè minima idea di contestarla da parte della Cgil, figuriamoci poi con la mobilitazione.

Una “opposizione” all’attacco padronale e governativo che sia fatta a quinquenni alternati e a senso unico antiberlusconiano non è credibile. I lavoratori prenderebbero in considerazione la chiamata alla lotta contro l’attacco del governo di centro–destra, ma è molto difficile che possano alternare la pace sociale, regalata al centro–sinistra che li bastona, con le (finte) barricate, da ergersi invece se le mazzate arrivano dal centro–destra.

E infatti non questo avviene. Avviene che l’unità della nostra classe è a pezzi e alla “sinistra” che sostiene Prodi e “si oppone” a Berlusconi essi hanno preferito e preferiscono rivolgersi e organizzarsi nella lega Nord e comunque guardare e votare il centro–destra.

Quando mai la seconda mozione si candidasse a rappresentare la necessità di una opposizione al governo Berlusconi “più decisa” di quella della maggioranza, come si fa a pensare che questo nodo possa essere saltato? E’ vero che i “no” della Cgil di Epifani alla controriforma contrattuale sono formali e spuntati, ma, tralasciando altre cose... , come si fa ad eludere questo punto decisivo: in nome di quale prospettiva la Cgil della prima o della seconda mozione chiamerebbe i lavoratori ad “opporsi” alle politiche del centro–destra? Per fare cosa? Per rimettere in sella chi? Per quali politiche? Per consentire a una nuova squadra alla Prodi–Padoa Schioppa o consimili di tornare a risanare sulle spalle dei lavoratori i conti mai sufficientemente risanati?

Poichè il ragionamento o le reticenze su questo punto decisivo concludono, nella prima e nella seconda mozione, in questa mortifera direzione, i lavoratori hanno già risposto voltando le spalle e guardando altrove! (Il che, beninteso, corrisponde a un disastro ulteriore al quale i fans delle politiche di risanamento capitalistico del centro–sinistra hanno concorso, ben compresi tra essi quelli che muovono critiche formali e parzialissime a un governo di centro–sinistra che intanto hanno sostenuto).

Francamente è ridicolo che tutta la sparata sull’indipendenza e l’autonomia neanche si sogni di sollevare la questione bruciante del rapporto tra Cgil e governo Prodi (che significa prospettiva della battaglia di opposizione al governo di centro–destra e non opposizione all’ “anomalia” Berlusconi in quanto tale) per deviare invece sulla penosa questione delle incompatibilità dei dirigenti sindacali con ruoli dirigenti nel partito democratico.

A queste condizioni anche la tirata sulla democrazia sindacale è sviluppata –coerentemente– verso una china inaccettabile. Il secondo documento la riferisce esclusivamente a Cgil–Cisl–Uil.

Secondo la visione e soprattutto secondo la prassi concretamente assunta anche dalla Cgil, infatti, la cosiddetta “unità sindacale” si estende a comprendere ogni organizzazione, grande o piccola che sia, purché collocata su posizioni moderate o comunque a destra, politicamente o socialmente –per intenderci–. L’ “unità” sindacale va bene con l’Ugl, con i sindacati dei dirigenti d’azienda (per sottoscrivere insieme protocolli dove si risana il deficit del loro fondo pensionistico con il bilancio INPS), con sindacati di storica derivazione padronale (sindacati gialli). Vanno tutti bene, con tutti si può andare e si può stare e si sprecano in questa direzione grossi paroloni sull’ “unità”. Invece la seconda mozione, che pur si straccia le vesti sulla democrazia, non nomina neanche l’esistenza dei sindacati di base, quelli che soprattutto hanno concorso a portare molti lavoratori in piazza, quando la Cgil tutta balbettava sulla “finanziaria luci e ombre” del governo Prodi.

Questo è inaccettabile a fronte del fatto che le iniziative di lotta e gli scioperi dei sindacati di base hanno assunto un certo peso e una cospicua partecipazione di lavoratori proprio quando “il sindacato” al quale in via esclusiva si riferisce la seconda mozione opera per la passività e la sottomissione dei lavoratori alle necessità e alle politiche del capitalismo promosse dai governi “amici”. Un dato reale, quello del seguito e della partecipazione –sia pur parziali e anche discontinui– di non pochi lavoratori alle iniziative di lotta dei sindacati di base, che non può essere omesso da chi voglia avanzare una credibile istanza di organizzazione e di vera unità dei lavoratori sul piano sindacale e della lotta contro le politiche del capitalismo.

Al di là dei limiti degli stessi sindacati di base, il senso di questa cancellazione sta nel fatto, per capirsi, che mentre si accetta che è saltata ogni parvenza di delimitazione “a destra” e si può andare e si va con tutti (finanche direttamente con i padroni capaci di fare cultura di impresa), invece a sinistra c’è una delimitazione netta contro qualsiasi istanza più coerente di lotta (fosse anche soltanto sull’aspetto di assumere la difesa degli interessi dei lavoratori senza fare sconti –e che sconti!– se al governo c’è il centro–sinistra).

Si voleva porre la questione dell’ “indipendneza” e dell’ “autonomia”? E perché non lo si fa nel concreto! Avete ferite brucianti e aperte alle quali riferirvi e invece girate intorno con incompatibilità e primarie!

Infine. Risultano finanche ridicole le ostentazioni di taluni sulla richiesta “di ritiro senza condizioni delle truppe italiane dall’Afghanistan” che nobiliterebbe la seconda mozione. Il documento recita sul punto che “è giunto il momento di una riflessione approfondita sulla situazione in Afghanistan. La Cgil... ritiene necessario definire una strategia di uscita del contingente italiano da quella che non si configura più certamente come una missione di pace”. I ritocchi introdotti in versioni successive non modificano di una virgola il senso. Che è quello di una “missione” che va “ripensata” oggi, perché prima era “di pace” e oggi non lo è più.

E allora? Si vuole forse ostentare “da sinistra” finanche la vergogna di una “missione” che sarebbe “di pace” se a mandare le truppe e a votare il finanziamento è il governo “amico”, mentre non lo è più e “va ripensata” se a farlo è il centro–destra? Per noi va da sè che, Onu o non Onu, centro–destra o centro–sinistra, non esistono guerre di occupazione e invasioni militari dei paesi imperialisti, e dell’Italia tra essi, che possano essere accreditate come “missioni di pace”, così scansando i doveri di denuncia e di schieramento contro le guerre dell’Occidente e a favore delle popolazioni aggredite.

Chiudiamo ribadendo che su queste basi non si va da nessuna parte e si preparano soltanto sconfitte ancora più brucianti per i lavoratori attaccati dal capitalismo in crisi.

Nessuna pretesa ragione di supposta “strategia congressuale”, di innaturale “separazione” tra piani sindacali e politici, di paventata necessità di “coagulare forze” contro l’ “attuale maggioranza” può mutare di un millimetro questa verità.

Se in altre occcasioni è stato il “congresso unitario” della Cgil a blindare gli assi di una discussione che non debordasse a considerare i problemi dei lavoratori dal proprio distinto punto di vista di classe, qui, pur con mozioni “contrapposte”, il punto di vista di classe è omesso e negato in tutti e due i documenti, doppiamente blindato e depistato verso opposti ragionamenti nella prima e nella seconda mozione.

1 gennaio 2010