12 marzo: un nuovo presidio in piazza dei Consoli a Roma con comizio e corteo per le vie di Cinecittà, il quartiere dove si trova l’ex aeroporto di Centocelle, sede del Comando Operativo delle operazioni militari in Libia, dove il 15 marzo – si è letto sulla stampa – il ministro Gentiloni “ha ricevuto i militari di oltre trenta paesi per discutere della Libia”.
Il 2 giugno a Roma un primo corteo cittadino dalla stessa piazza dei Consoli, il 24 ottobre manifestazione a Napoli contro le esercitazioni militari “Trident Juncture”, il 16 gennaio corteo nazionale a Roma nel 25° anniversario della prima Guerra del Golfo, il 12 marzo iniziative in varie città d’Italia. Queste le tappe più significative della ripresa dell’iniziativa contro la guerra, che stenta a raggiungere l’attenzione di una “sinistra” – anche quella a tinte più “estreme” – fin troppo distratta su una guerra imminente e già in corso, figuriamoci un ascolto e una partecipazione più ampi nella fase attuale di penosissima paralisi di ogni iniziativa di massa e di piazza.
Numeri modesti anche il 12 marzo, quindi, ma nondimeno in prospettiva potenzialmente interessanti, per una ripresa che ha il compito di cancellare la vergogna di una certa “sinistra” – “antagonista”, “di classe” e, ci tocca aggiungere, “internazionalista” – che nel 2011-2012 non ha saputo prendere le misure alle presunte “primavere arabe” libica e siriana, accreditando di inesistenti valenze democratico-rivoluzionarie le vandee locali che hanno offerto quei paesi alle cure criminali degli assassini euro-atlantici chiamati in soccorso dagli “insorti”. Gli effetti sono sotto i nostri occhi: entrambi i paesi sono stati sventrati dalle devastazioni; in Siria, su una popolazione di 18 milioni, più della metà sono gli esuli e comunque gli sfollati. E non è finita: né in Siria, né in Libia.
Nel 2011-2012 le sollevazioni tunisina ed egiziana erano riuscite a defenestrare i locali poteri politici, manutengoli tra l’altro dell’ordine imperialista, aprendo così una strada alla prospettiva di una resa dei conti non solo con i potentati locali, ma con gli stessi vertici “esterni” di comando. Le potenze occidentali e le monarchie del Golfo si disposero a lanciare il contropiede non appena gliene fosse data l’occasione. L’occasione gli fu data in Libia, dove fu possibile accendere la protesta anti-Gheddafi e tradurla a passi veloci in nuova devastante aggressione a quel paese. L’aggressione alla Libia e la replica del copione in Siria valsero a contrapporre alle masse che in Tunisia ed Egitto avevano osato ribellarsi in prima persona contro i propri aguzzini un altro genere di mobilitazione: quella contro i “tiranni” locali invisi all’Occidente giocando su motivi anche reali di scontento da parte della popolazione, ma per riaffermare contro di essi, in quanto ostacolo relativo allo strapotere imperialista, la propria assoluta posizione di comando, e ciò offrendo ai “rivoltosi” a libro paga un sostanzioso sostegno nell’addestramento, nel finanziamento e nel supporto militare indiretto e diretto. A un Occidente costretto ad allentare transitoriamente la presa su Tunisa ed Egitto, fu data l’occasione per riaffermare prepotentemente la sua legge nell’intera fascia nordafricana e mediorientale. I bombardieri lanciati sui cieli della Libia e le super-equipaggiate “brigate internazionali” promosse dagli occidentali a sostegno dei rivoltosi anti-Assad servivano a sbarrare la strada a un’eventuale escalation di mobilitazioni a crescenti contenuti anti-imperialisti dopo quelle che avevano cacciato a furor di popolo Ben Ali e Mubarak. A tal fine in Libia e in Siria poteva esser messa in campo una mobilitazione di segno diverso con altri protagonisti, ribelle contro i propri governi in nome della democrazia ma non ostile all’imperialismo, del quale anzi ricercava l’alleanza. La differenza tra una piazza che inveisce contro i propri governanti e gli imperialisti che li sostengono, e una piazza che invece invoca le armi e i bombardieri imperialisti per cacciare il “tiranno”, non dovrebbe sfuggire non diremmo ai “comunisti rivoluzionari” ma anche soltanto a chi osservi la realtà con un minimo senso di classe. Così come l’istinto di classe dovrebbe trattenere i “comunisti” dall’invocare il crollo fosse anche della più impresentabile “tirannia” di un paese dominato dall’imperialismo, se nella contingenza data a regolare il conto ad essa non sono le masse proletarie e contadine povere di quei paesi, ma l’imperialismo stesso che, centomila volte più tirannico e dittatoriale del proprio bersaglio, si avvale di tutt’altra piazza locale, frammista e supportata da mercenari di cui l’imperialismo stesso organizza il flusso e il generale armamento (la stampa borghese mena grande scandalo per i foreign fighters islamici che dall’Europa si sono recati in Siria a combattere, ma fa finta di dimenticare che in tutta una prima fase la partenza di “combattenti della libertà” per le nuove crociate benedette dall’Occidente in Siria – e in Ucraina – si è svolta alla luce del sole sotto l’occhio benevolo e plaudente dei “nostri” governi, della “nostra” stampa, delle “nostre” agenzie di reclutamento).
Il Partito Comunista dei Lavoratori, per mettere una pezza postuma su questa vergogna, cui non è estraneo (insieme a molti altri raggruppamenti, “trotzkisti” e non), si atteggia adesso in ogni occasione a vestale dell’ “anticampismo”. Trotzky, sia chiarissimo, non c’entra niente con questi epigoni scimmiottatori, avendo tracciato da par suo tutt’altre e ben nette linee di orientamento in situazioni del genere, cui rimandiamo (le si leggano nelle nostre precedenti “Annotazioni sulla manifestazione del 16 gennaio...”).
A commento del 12 marzo leggiamo sul suo sito che “il PCL ha lavorato sull’appello, chiedendo e ottenendo la rimozione di ogni passaggio che potesse sottintendere, fosse pure implicitamente, una posizione di tipo “campista” (di sostegno alla Russia di Putin, all’Iran e ad Assad)”, e che “l’impostazione ottenuta ha favorito l’allargamento del fronte promotore a soggetti che non avevano partecipato alle manifestazioni del 16 gennaio (come Sinistra Anticapitalista)”, etc. etc.. Ritenendo ridicole e stucchevoli queste polemiche, non mette conto di replicare in dettaglio. Mille volte lo abbiamo già fatto e chi vuol capire capisca.
Concordiamo piuttosto, con le dovute precisazioni del caso (si legga sul nostro sito la noticina “Segnalazioni” del 18/03/16), con la denuncia che leggiamo nei passaggi finali dell’interessante lavoro di documentazione “Siria – Formazioni e schieramenti in campo” del “Comitato del martire Ghassan Kanafani” di novembre 2015, quella di un “campismo rovesciato” e diciamo pure di un “campismo pro imperialismo occidentale”, che l’autore riferisce in genere alla “sinistra” in Occidente. Un “campismo rovesciato” del quale riconosciamo e denunciamo la sostanza finanche in posizioni di opposizione alla guerra a pretesa “internazionalista e di classe”.
Noi non diciamo che non esistano le posizioni “campiste”. Sono quelle posizioni, di matrice stalinista, che, contro l’aggressione imperialista occidentale, nord-atlantica e statunitense in primis, scelgono sempre e comunque di stare dall’altra parte, delineando però quest’ “altra parte” (e qui casca l’asino) come un fronte di Stati, governi, potenze politico-militari che, avendone l’interesse, mettano il proprio peso per contrastare la Nato e l’Occidente.
Una lettura questa che gli amici del PCL possono riferire solo con qualche evidente forzatura alla vicenda libica e a tutta la prima lunghissima fase della replica siriana. Ciò in quanto al 2011 il “campo socialista” era “crollato” da un pezzo, mentre la scesa in campo della Russia di Putin è questione degli ultimi mesi. Invece i nostri è sin dall’inizio che denunciano l’“anticampismo” ovvero il “sostegno ad Assad e all’Iran” anche senza Putin.
“Campista” è la posizione che di fronte all’aggressione occidentale si schiera a difesa dei governi libico e siriano o perché rivendicati come governi legittimi che nessuno Stato straniero avrebbe il diritto di disarcionare, o perché governi ascritti a un campo antimperialista e socialisteggiante secondo determinate interpretazione di certi trascorsi, o perché semplicemente attaccati dall’imperialismo occidentale e innanzitutto da quello a stelle e strisce. “Campista” sarebbe chi denuncia l’aggressione occidentale con argomenti vari ma non su basi internazionaliste di classe. Crollata l’URSS, il “campista” occhieggia e vagheggia pur sempre contro le guerre dell’Occidente e della Nato il contrappeso di un diverso fronte alleato di Stati borghesi (che gli “anticampisti” immancabilmente qualificano come “egualmente imperialista” con un improbabile e malinteressato “a pari merito”), dimostrando di non avere fiducia alcuna e di impiparsi di delineare la ben diversa prospettiva di classe, che certo non ammette di accreditare governi, Stati e potenze borghesi di cui sopra (figuriamoci fronti imperialisti contrari, nei quali magari vada a collocarsi anche “il proprio paese” finalmente svincolato dalle sue storiche sudditanze...).
La battaglia contro questo genere di posizioni, fatta con i congrui argomenti e la necessaria inequivoca coerenza, è la nostra battaglia. Ma ne viene azzerata ogni positiva valenza e l’effetto è contrario se i “comunisti rivoluzionari”, in vena di alzare argini contro i “campismi tardo stalinisti”, scavalcano ridicolamente “gli stalinisti” a destra, come senz’altro è accaduto per tutti quanti hanno accreditato “la Comune di Bengasi” o i “Soviet rivoluzionari in Siria”! E non si tratta di sofismi di chi è abituato a spaccare i capelli in quattro. Perché, se nei giorni in cui si compiva la devastazione libica e iniziava quella siriana i “comunisti rivoluzionari” avevano la preoccupazione di sostenere con le loro analisi sgangherate le “rivoluzioni democratiche” in quei paesi (facendo esattamente il contrario di quanto diceva Trotzky), costoro, volenti o nolenti, hanno lavorato in quei giorni in direzione opposta a quella di una necessaria mobilitazione di piazza contro le aggressioni in corso. Nel campo nostro, quello che avrebbe dovuto mobilitarsi contro la guerra, essi spendevano argomentazioni che, volenti o meno, andavano a fagiolo e non contraddicevano – id est: accreditavano – la propaganda di guerra dell’Occidente: perché da entrambi i lati e sia pure con ragionamenti opposti si metteva al primo punto la demonizzazione del “tiranno” da abbattere, perché da entrambi i lati si accreditava una genuina protesta in loco “contro il tiranno” cui portare aiuto, perché da entrambi i lati si è poi plaudito alla finale “vittoria della rivoluzione”(quest’ultima la circoscriviamo doverosamente al manifesto – e al suo titolo “Benedetta Nato” o alla Rossanda che si rammaricava di non aver inviato contro Gheddafi le “Brigate Internazionali” – , e a quel Partito d’Alternativa Comunista che festeggiò pur esso l’ingresso vittorioso dei ribelli a Tripoli dopo giorni e mesi di bombardamenti occidentali e relativa caccia alla volpe con volpe Gheddafi). Queste non sono chiacchiere è la realtà! In quel tetro periodo nella nostra società occidentale si è respirato un effettivo corale accanimento, condiviso da tutto l’ “arco costituzionale” comprese le “estreme” extra-parlamentari dei due lati, da Libero al manifesto e molto oltre a “sinistra”, contro la bestia Gheddafi braccata dagli imperialisti e dai suoi sgherri in loco. Mai nessuna guerra dell’Occidente è stata meno contrastata a e da “sinistra”. Queste non sono disquisizioni, è la verità! Un vero gigantesco e vergognoso “campismo rovesciato”!
Lo scheletro maleodorante di questo “campismo rovesciato” ingombra e pesa nell’armadio della “sinistra”. Non ci riferiamo soltanto al PCL che continua a cucire toppe peggiori del buco. Ci riferiamo in generale alla scarsissima attenzione e partecipazione di tutta una serie di forze alla piazza del 12 e al tema della guerra.
Prima della manifestazione del 16 gennaio abbiamo assistito a un interessante dibattito presieduto da Tommaso Di Francesco che, nella sua introduzione, si meravigliava di come fosse oggi scomparsa ogni mobilitazione e protesta contro le guerre che pur l’Occidente ha continuato in questi anni a scatenare senza soste. Tagliando corto su tante altre cose che si potrebbero dire e che abbiamo già scritto in proposito..., come fa il nostro Di Francesco a stupirsi tanto se proprio il manifesto non ha dedicato alcuna attenzione effettiva alle iniziative del 12 marzo contro la guerra alla Libia?
Il manifesto del 12 marzo ci informa bensì del “convegno organizzato ieri a due passi da Palazzo Chigi da Sinistra italiana sui venti di guerra e la crisi dei migranti”, che con la ripresa della mobilitazione contro la guerra non ha propriamente nulla a che fare (e infatti la notizia vera è quella delle bordate di D’Alema contro il governo Renzi), ma non dedica nessun articolo alla manifestazione in programma a Roma e in altre città, e, se non fosse per la lettera della Rete No War Roma pubblicata nella rubrica “le lettere”, nulla se ne leggerebbe. E infatti il giorno dopo, se non ci è sfuggito qualcosa, il corteo di Cinecittà non ha trovato alcuno spazio nel “quotidiano comunista”, dove campeggiano i faccioni di Giachetti e Bassolino e paginoni interi sono dedicati alle vicine elezioni amministrative. Invece sul manifesto del 12 marzo già si parla della manifestazione romana del 19 marzo, la manifestazione anti-Tronca indetta dai “movimenti” “contro privatizzazioni e sgomberi”, che assume lo slogan “Roma non si vende” e “su queste basi chiederà un confronto con i candidati al Campidoglio”.
Nelle settimane che hanno preceduto il 12 marzo le attenzioni della cosiddetta “sinistra antagonista” della capitale sono state tutte concentrate sull’appuntamento del 19 marzo (appuntamento pre-elettorale, non sbaglia il manifesto). Il solo aver fissato la data del 19 marzo a una settimana dall’iniziativa contro la guerra la dice lunga. Solo per il secondo appuntamento si è avuta una effettiva mobilitazione, solo in vista del 19 i muri della città sono stati coperti di manifesti. E soprattutto la più gran parte dei “movimenti antagonisti”, “centri sociali”, “coordinamenti per l’abitare”, “studenti universitari” etc. che hanno animato la partecipata manifestazione del 19, hanno completamente snobbato il 12 e la guerra alla Libia. Ci è capitato di partecipare al comizio in piazza Vittorio del 1 marzo, giornata del cosiddetto sciopero dei lavoratori immigrati. Ha animato l’iniziativa una folta rappresentanza dei “movimenti” e degli “studenti” di cui sopra. Non solo negli interventi l’unico riferimento era il 19 marzo e del 12 marzo contro la Libia nessuno ha parlato, ma pur quando il tema era quello dell’immigrazione, inscindibilmente legato al nodo della guerra, nondimeno gli oratori hanno fatto esclusivi riferimenti alla guerra in generale, semmai accenni alle guerre passate e nessun benché minimo accenno alla minaccia attuale e all’inizio effettivo di una nuova guerra alla Libia. Crediamo di aver reso l’idea e questa purtroppo è la situazione.
Nonostante ciò, anche il 12 marzo – posto il punto di ripartenza dato – lo registriamo come un piccolo passo avanti. Ripartenza che potrà darsi effettivamente però, solo se si avrà la forza di non nascondere gli scheletri di cui sopra e mettere a nudo per superarli in avanti tutte le insufficienze e i limiti presenti.
Tra questi annotiamo i contenuti, che vediamo centrali nell’appello per il 12 marzo e anche nei discorsi e negli slogan di Cinecittà, di una guerra alla Libia che sarebbe da contrastare per il costo economico, per la militarizzazione della società, per le installazioni militari che sono nocive per la nostra salute, perché “la guerra ci espone a tutti i rischi terribili che abbiamo visto realizzarsi in altri paesi”, etc. Insomma la guerra è rifiutata perché “ci” costa, “ci” peggiora la vita, “ci” espone alle ritorsioni degli attentati come quelli di Parigi. Non una parola viene detta sulle popolazioni che subiscono le aggressioni dei nostri eserciti e bombardieri, nessun accenno è fatto a quella che dovrebbe essere l’unitaria prospettiva di lotta e di riscatto qui (nei paesi aggressori) e lì (nei paesi aggrediti) contro la morsa del “nostro” imperialismo e contro un sistema globale di sfruttamento per il profitto che detta queste danze di morte. Oltre a generica solidarietà “a tutti i popoli oppressi in lotta, da quello curdo a quello palestinese”, formula buona per ogni occasione, l’appello non riesce ad andare.
Peggio fa, sotto questo aspetto, l’appello della Rete No War Roma pubblicato sul manifesto del 12/03/16 dove si legge che “lo Stato cosiddetto islamico va affamato e invece c’è chi continua a fornire armi, veicoli, combattenti, chi compra petrolio...”. Ora è vero che le forze da cui è nato lo Stato islamico sono state inizialmente foraggiate ed aiutate dai governi occidentali e dai governi reazionari dell’area, Israeliani compresi, in funzione anti-Assad. Ma non sfugge che, a differenza delle vandee di ascari che hanno aperto le danze contro i “tiranni” libico e siriano, lo Stato islamico raccoglie le aspettative di non irrisori settori sociali che sotto le sue bandiere confidano di potersi sottrarre alla via crucis che da troppi anni gli è stata imposta dalle devastanti aggressioni degli eserciti occidentali, restituendo l’area medio-orientale dominata e saccheggiata dall’Occidente al suo naturale destinatario arabo promettendo alle popolazioni locali un Eden che sappiamo bene non potrà esser mantenuto, ma di cui va raccolta – su tutt’altro versante – l’invocazione sociale.
Come già
abbiamo scritto si tratta di un antimperialismo reazionario, oscurantista, medievale in tempi di
capitalismo stramaturo, ma un vero movimento contro la guerra in Occidente non può agitare il
pericolo degli attentati ritorsivi dell’Isis “nelle nostre città” (dopo aver quasi taciuto quando
imperversavano i “nostri” bombardieri su Iraq, Libia, Siria, Afghanistan... e ora riprenderebbero
soprattutto in Libia in grande stile), né opporsi alla guerra perché il fine che essa si
propone –
Pur nella difficilissima congiuntura del presente la nostra prospettiva non può essere che quella di una ripresa di classe qui in Occidente, e in essa di una ripresa della lotta contro la guerra imperialista che dichiari il suo schieramento dalla parte delle masse sfruttate del Medioriente e del Nordafrica aggredite dal “nostro” imperialismo e dilaniate dalle “nostre” guerre. Una ripresa che sappia riconquistare al proletariato internazionale le sue forze e il suo programma e che su queste basi lanci un ponte verso la nostra prospettiva in Libia, in Siria, in Iraq. Non siamo in campo per l’ “affamamento” dell’Isis e delle relative popolazioni con altri mezzi come suggerito dai manifestanti contro la guerra e da realizzarsi a cura dei governi, bensì per l’emergere qui e lì della prospettiva di classe e delle sue corrispondenti forze, contro il difesismo nazional-borghese dei governi aggrediti dall’imperialismo – pur legittimo a quella stregua –, mai più accreditando l’illusione che le legittime istanze nazionali dei curdi possano trovare ascolto e supporto dagli imperialisti, contro l’antimperialismo oscurantista dell’Isis e per mettere in campo contro l’aggressione imperialista l’unica carta vincente che è quella dell’unità di lotta di tutti gli sfruttati di ogni più diversa religione ed etnia, puntando a sottrarre il mondo arabo-islamico sia alle devastazioni occidentali e sia alle guerre combattute per procura di leadership borghesi arabo-islamiche che volgono per i propri interessi lo scontro nel fratricidio tra sunniti e sciiti.
Siamo lontani dal vedere anche solo i primi passi in questa direzione? Si. La nostra
necessità è di mettere in campo qui in Occidente il protagonismo proletario contro la guerra
imperialista, che è la condizione prima ed imprescindibile affinché anche in Medioriente e
Nordafrica le dinamiche sociali inizino ad uscire dal tunnel delle distruzioni e degli scontri imposti
e coltivati dall’imperialismo e dai governi reazionari del Medioriente, iniziando a collegare e
riunificare tutte le forze di classe (oggi divise in mille campi contrapposti, se non in fuga) sotto le
insegne della propria indipendente prospettiva e del proprio programma.
22 marzo 2016