Il compagno Dino Erba, sempre prodigo nell’inviarci del materiale politico su cui meriti lavorare (del che lo ringraziamo vivissimamente), ci fa avere delle note di varia provenienza – compresa la sua – sul fenomeno grillino. L’introduzione è fulminante: “Solo i coglioni si stupiscono per il successo del Movimento 5 Stelle. Come, in altri tempi, si stupirono per il successo della Lega. Lasciamoli al loro stupore. Chi ha un minimo di sensibilità politica o meglio di contatto con la realtà del Bel Paese non si stupisce. Cerca di capire.” Perfetto. E, compatibilmente, cerca di capire il da farsi, si presume, a meno di non essersi già fatto fagocitare dall’esercito elettoralmente trionfante al momento visto come inarrestabile e radioso Futuro.
Andrebbe caricata la dose: quanti di coloro che oggi, post festum, “non si stupiscono” hanno manifestato qualche segno di comprensione del fenomeno e meditato sul da farsi con l’anticipo che sarebbe stato necessario? Per quanto ci riguarda, a testimonianza del nostro non esser coglioni né ora né prima, ci limitiamo a riproporre in coda a quest’articolo un nostro testo dell’ottobre 2007 cui, a larga distanza di tempo, non reputiamo di dover aggiungere nulla quanto ad impostazione del tema (ovvii aggiornamenti a parte, ma ribaltoni interpretativi categoricamente esclusi). Crediamo non piacerà a molti di coloro che “scoprono” oggi il fenomeno e lo “comprendono” professoralmente a rovescio. (E’ curioso che Dino Erba ci faccia avere, ad esempio, dei testi che fanno a pugni l’uno con l’altro approvandoli, in varia misura – è vero –, contemporaneamente: forse troppo onnivoro ed ecumenico).
Per noi si tratta di capire il fenomeno secondo un metodo ed una prospettiva marxisti che esclude sorprese di sorta e conversioni sulla via damascena verso altre sponde.
Andiamo per punti.
IL CONTESTO OGGETTIVO. Nessun “commentatore” può mettere in dubbio che l’esplosione grillina sia collegata alla disastrosa situazione economico-sociale attuale; per parlarci chiaro, ad una crisi epocale del capitalismo che le “cattive politiche” possono solo acuire senza giammai esserne dichiarate responsabili. La “sinistra” ne dava la colpa a Berlusconi ed al suo staff (“hanno ignorato la crisi”, “non hanno apportato i correttivi necessari” al sistema in panne per “rimetterlo in sesto”; ci penseremo noi, “tesoretti” in dispensa all’uopo). Oggi tutti devono riconoscere che l’“anomalia italiana” è un’anomalia sistemica che non parte da Arcore e, quanto ai “correttivi”, temiamo che ci saranno lanciate scarse ciambelle di salvataggio, bucate per giunta. Più probabile vedere i topi abbandonare la nave che affonda per lasciarla in mano a tecnici e a rappresentanti dei poteri forti con garanzie decisioniste mezzo dittatoriali (per ora...) fuori dagli stessi giochi parlamentari.
D’accordo. Ma per niente d’accordo quando si dice: crisi del capitalismo = esplodere di un movimento rivoluzionario prodotto dalla crisi stessa. Ancor meno d’accordo quando si ipotizza che il sistema capitalista sta “implodendo” di suo, va ad “autopensionarsi” etc. etc. passando il testimone ai “nuovi soggetti” del caso. Ne abbiamo lette molte di “analisi” di questo tipo.
Il capitalismo non muore da sé né da sé si ritira in pensione. Concordiamo con l’idea che ci troviamo di fronte ad una crisi epocale (non la prima d’altronde: dopo la prima guerra mondiale la stessa Terza Internazionale eccedeva nel parlare di “agonia del capitalismo”; allo scoccare della seconda Trotzkij ipotizzava che non restasse all’umanità altra via che la barbarie di un capitalismo morente o il socialismo, le cui possibilità oggettive erano non solo mature, ma cominciavano di già a “marcire” ed alle quali mancava solo... la direzione; idem Bordiga sul 1975 focale). E’ vero, per altro, che alla crisi verticale delle metropoli tradizionali del capitalismo imperialista fa da contraltare il persistente sviluppo accelerato di determinati centri emergenti. Qualcuno ipotizza, in merito, che con ciò si darebbe comunque un trend di sviluppo globale del capitalismo. Giusta la risposta allo strabismo di chi fa i conti solo sulla base della crisi del “vecchio centro”; ma secondo un altro genere di strabismo: quello che porta ad ipotizzare un pacifico sviluppo capitalista solo che attorno ad altri centri compensativi. La rotondità del mondo globalizzato configura, all’opposto, una ben altra eventualità: l’impossibilità di un pacifico dislocamento delle forze in campo e la necessità di una ridefinizione degli “spazi vitali” che porta diritta ad uno scontro “muscolare”. Non ci piacciono le “analisi” di chi, ad esempio, ridicolizza lo sviluppo capitalista in Cina come una trascurabile inezia; ma ancor meno ci piacciono quelle che lo danno come un sostituto-erede delle centrali occidentali destinate “pacificamente” a prenderne il posto. E basti guardare alle attuali convulsioni – armate – nel mondo.
La crisi attuale morde amara nelle vecchie metropoli, ma il cerchio è destinato a stringersi, coinvolgendo gli stessi protagonisti dei miracoli alla periferia del vecchio impero.
Ma fermiamoci pure al nostro orticello. Ebbene: colpi di crisi catastrofici, è vero. Solo che questi non sono destinati all’“implosione” (locale o generale?) di cui sopra, ma ad un regolamento di conti cui il “nostro” capitalismo si sta attrezzando a ferro e fuoco, senza “automatismi rivoluzionari” che scendano dal cielo. Al contrario, come per il passato, restano tutte le possibilità da mettere in campo per un “ricompattamento” nazionale, o di area (l’Occidente, “un certo” Occidente), per coinvolgere lo stesso nostro proletariato in un progetto di riconquista (armato, non è una novità) dei “posti al sole” in via di smantellamento. Partita ad alto tasso di rischio, ma attuale.
Il “cancro” capitalista può curarsi in determinati organismi malati qualora il proletariato gli offra le necessarie staminali risanatrici. (Risanatrici non del “capitalismo in generale”, ma di determinati suoi organismi: il capitalismo è un motore “comune” ai vari soggetti mondiali, ma non dimentichiamo mai che la realtà è quella di varii motori in competizione, mors tua vita mea, tra loro). Siamo ancora agli antefatti, all’antipasto, ma attenti!
Le convulsioni presenti, di cui il grillismo qui in Italia è un esempio ci danno l’immagine di quel che si va fucinando. C’è una rivolta vera in atto in risposta agli effetti della crisi capitalista da cui è anche lecito pensare si possano ricavare elementi utili per una soluzione definitiva del problema. Ad un patto: quella di tener ferma la nostra prospettiva, proletaria e di partito, senza di che (poniamo la questione all’odg, senza alcun svincolamento dal “concreto” – anzi!– e men che mai storcendo la bocca dinanzi alla “voglia di partecipazione” – è vero il contrario!– in nome di “astratti principismi”) renderemmo a questa “voglia” mobilitata il peggior servizio: la consegneremmo gratuitamente al nemico di classe. Sbaglia di grosso chi stabilisce una immediata e concreta equiparazione o linea di continuità diretta (a addirittura coscientemente manovrata) tra grillismo e “fascismo delle origini”. La rivolta di cui sopra presenta, al contrario, molti temi e – ancor più – dati di fatto sociali cui c’interessa riferirci, sempre al patto di cui sopra. Ma è certamente vero che l’arsenale grillino, se non scardinato e rimesso in piedi sul nostro terreno, contiene tutti gli elementi indispensabili a disarmare preventivamente la nostra parte, come vedremo poi a proposito del suo “programma”. Tutta la fuffa antipartito, extra o sopraclassista, di “sorpasso” sulle “vecchie categorie ottocentesche” di classe etc. etc. costituiscono la premessa per un lavoro di utilizzo e svuotamento del “grillismo” nei suoi dati utili da destra per obiettivi e con metodi su cui sarà vano piangere sulle stalle vuote a buoi scappati per propria colpa.
In questo senso non è peregrina un’osservazione di Operai contro (n. 252, 26 febbraio) sgrezzata da una sua visione antidialettica di continuità diretta tra due situazioni non banalmente collocabili sullo stesso piano (e la contraddizione si sente nello stesso testo in oggetto):
“Senza dubbio, la matrice populista incarnata dal grillismo è il comune denominatore che lo accomuna e lo rende accostabile ad altre esperienze storiche precedenti. Si tratta di un populismo che si attesta a metà strada tra neoleghismo e girotondismo, che presenta contenuti e rivendicazioni politiche parzialmente giuste e condivisibili (?, i conti non tornano, n.n.), ma anche forti istanze giustizialiste e reazionarie, al limite dello squadrismo (!!,n.n.), tipiche dei movimenti di rabbia, protesta e rigetto antipartitocratico ed antidemocratico che si connotano in termini vagamente e confusamente «anti-sistema» (si pensi al fascismo delle origini) e che, guarda caso, scaturiscono ed esplodono proprio in periodi storici di transizione segnati da una profonda crisi economica, sociale, politica come quella che stiamo vivendo e per certi versi ricorda la crisi del 1929 (anzi: molto antecedente a questa data, n.n.) che fu una delle cause storiche da cui trasse origine e linfa vitale il nazionalsocialismo di Hitler”. Dai contenuti “parzialmente” condivisibili ad Hitler il passo è un po’ arrischiato: qualcosa non quadra.
Di giusto in questa osservazione è il richiamo al dato di fatto elementare (salvo che per neomaestri del pensiero in libertà) che da una crisi acuta del capitalismo scaturiscono “sulla stessa base oggettiva” opzioni antagoniste tra loro, quella comunista rivoluzionaria e quella di una destra estrema “riformatrice” del sistema in profondità (antidemocratiche entrambe, su opposti fronti, sia ben chiaro). Valga proprio l’esempio tedesco del primo dopoguerra. “Tutto il popolo” si poneva contro il capestro di Versailles e le sue conseguenze letali contro la vecchia politica dimissionaria della “casta” (democratica) al potere. Ma su questa “base comune” c’era la linea dei comunisti e quella dei nazisti, con, magari, in mezzo i “nazional-bolscevichi”. Niente di “giusto e condivisibile”, ma una lotta mortale sui contenuti di classe su cui e per cui muoversi.
Chi azzarda che il movimento grillino dall’attuale contestazione degli aspetti effettuali del capitalismo “dovrà arrivare a scontrarsi con l’aspetto causale, che sono le leggi del Sistema del Capitale” non sa quel che sta dicendo.
E, senza riandar troppo al passato, ci si guardi attorno oggi e qui: in varie parti d’Europa il movimento popolare di rabbia può benissimo essere capitalizzato dalla destra estrema, dalla Francia coi lepenisti all’Olanda o all’Ungheria (populismo di destra estrema al governo) etc., mordendo a fondo nella nostra stessa base sociale di riferimento. Non è un caso che una politica di razza come Marine Le Pen abbia lanciato un messaggio (“sentiamoci”) ai grillini. Questa gente sa su che terreno muoversi...
Vediamo allora i coefficienti evolutivi futuri.
GLI ELETTORI: Chi ha votato Grillo? Una buona fetta, soprattutto, di “nuova gioventù” (prevalentemente piccolo-borghese, detto senza offesa, e proletari pressoché assenti), coinvolta, direttamente o meno, nel sociale e già in partenza estranea alla “vecchia politica”, senza legami di sorta con la “sinistra” tradizionale, compresa la sua cosiddetta “estrema” (ne sa qualcosa persino il PCL!) ed una massa di spettatori con ciò simpatizzanti. L’idea del poter fare qualcosa collettivamente in proprio al di fuori dei soliti canali istituzionali riesce seducente: “imponiamo le nostre esigenze dal basso”, attraverso una rete tutta nostra e senza compromissioni ed inciuci di tipo parlamentare; nel parlamento ci saremo, ma per agitare la clava del movimento che ne sta fuori, ben deciso a presentare il conto alla “casta” (ciò nelle oneste e pie intenzioni). Per questa via la quota di un possibile astensionismo di massa si è andato riducendo sensibilmente, e ciò, potenzialmente, non è neppure un male: meglio scendere in campo che astenersi; dalla politica non ci si astiene. Questa la base organica del grillismo, vedremo poi quanto rocciosa o friabile.
Ma il travaso dei voti verso Grillo non viene solo da lì.
La stessa Lega ne ha pagato pesantemente lo scotto grazie alle pessime prove da essa offerte col suo connubio col berlusconismo. In questo caso si è trattato di una scelta ampiamente trasversale: hanno votato Grillo i proletari della Lega delle origini (allorché la Lega si configurava come il “primo partito proletario” al Nord – la famosa “costola della sinistra” in libera uscita!–), quelli che s’infiammavano quando un Bossi “rivoluzionario” sputava fuoco e fiamme sul Berluskaiser e scendevano inferociti in piazza contro l’intervento imperialista (dalemiano) in Jugoslavia (“NATO, fora d’e ball” recitava La Padania); hanno votato Grillo i padroncini in preda ad una crisi devastante cui la Lega non ha saputo opporre che chiacchiere “antiromane” nella forma, ma assai romane nella sostanza, col venir meno del progetto corporativo di unità “al di sopra delle classi” tra proletari ed imprenditori ipotizzato in tempi di pre-crisi. Un voto, comunque, condizionato e a termine: posto che dal cilindro di Grillo non uscirà alcun appetitoso coniglio l’“anima leghista” troverà altre vie per darsi voce dopo la scappatella extra-coniugale oggi consumatasi.
Ed ha votato Grillo anche un consistente settore del Popolo della Libertà, anch’esso fallimentare nel “rappresentare” le speranze di lavoratori ed imprenditori “assieme”. Quest’ultimo segmento, di non scarso peso elettorale, riveste una connotazione particolare. Molta gente del PDL, come abbiamo avuto modo di constatare “tastandone il polso”, aveva ben presente i dati fallimentari del berlusconismo cui s’era affidata, ma arrivando a Grillo solo come estrema ratio, come segnale di protesta contro lo sfacelo in atto, in attesa di qualche altra soluzione più adatta. Soprattutto da parte dei settori borghesi più penalizzati dalla crisi (ai bassi e medi livelli in particolare) il punto di riferimento ideale era un altro. C’era chi, ad esempio, apriva una linea di credito per Giannino, prima che questi si autoridicolizzasse coram populo con l’esibizione di lauree inesistenti. Ma, molto di più, le loro attese si incentravano sul fenomeno-Renzi. Un personaggio “anticasta”, pragmatico ed efficiente (perlomeno nelle credenziali esibite), capace di coniugare le ragioni di un “liberalismo sano” con un ricompattamento nazionale dei “cittadini” aperto alle ragioni del centro-destra, senza soverchie aperture verso il radicalismo di classe proletario. Una sorta di marchionnismo “condiviso” – alle spalle dei lavoratori ai gradini bassi, va da sé – per “rilanciare” l’economia; neo-berlusconismo senza il “vecchio”, ma non senza o contro le sue truppe. In mille occasioni ci è stato dato di sentire: “Se avesse vinto Renzi io l’avrei votato”. Non ha vinto e la partita decisiva è rimandata e, in attesa, o si è votato di nuovo PDL “turandosi il naso” o si è scelto di lanciare un segnale d’avvertimento votando Grillo. Siamo ancora in mezzo al guado e quest’anomalia non stupisce. Poi si vedrà, ma, intanto, esiste un’ipoteca pesante come una spada di Damocle sulle spalle dei grillini. Quel che è escluso è che si tratti, nel caso della scheda pro-Grillo, di un voto organico e non a termine. Un’ipoteca che rischia, per la nostra parte sociale, di essere pagata assai cara ove ci si attendesse una “spontanea” messa a frutto dei voti oggi raccolti dai grillini, soprattutto se bestialmente intesa come “rivoluzione anticapitalista in atto”.
E chi voterà ancora Grillo? Qualche analista presuppone che saranno sempre in più a farlo. Noi nutriamo dei dubbi in proposito. Il bagaglio delle aspettative (discordi) che ha dato luogo all’attuale boom è inversamente proporzionale alle possibilità di soddisfarle e i nodi non tarderanno a venire al pettine. La base rocciosa del Movimento è molto ristretta rispetto alla provvisoria base elettorale espressasi a suo favore e quella base stessa è più friabile di quel che possa sembrare. La mediazione trasversalista ha sin qui pagato abbondantemente, ma concordiamo con Erba quando dice: “Non credo che tale ambiguo ruolo possa continuare”. Il collante rappresentato dalla rivolta “anticasta” e dall’attivismo dal basso per “risolvere i nostri problemi” è destinato a... scollarsi. Arrivati sin dentro le istituzioni occorre passare all’incasso capitalizzando certi risultati concreti. I voti e gli eletti sono tanti, ma devono mostrarsi utili. Se non si porta a casa qualcosa la protesta si trova di fronte ad un aut aut: o si spacca il giocattolo del sistema per via extraparlamentare (e così non sarà) o toccherà diventare “concreti”, mediare, trovare alleati. Questa seconda scelta si sta già facendo strada tra gli elettori di Grillo e sta investendo sin d’ora i suoi “piani alti”.
L’ORGANIZZAZIONE. In partenza c’era una miriade di “lotte partecipate”, principalmente su temi molto delimitati territorialmente o come tematica, ma via via allargatisi e in grado di proporre, ed imporre, una rete. Si lotta contro la discarica sotto casa “propria”, contro l’inquinamento di qualsiasi natura che avvelena la “propria” aria, contro le grandi opere che rovinano il paesaggio e l’habitat che “ci appartiene”, e poi per l’acqua bene pubblico, una scuola pubblica (leggi: di Stato) decente, per un lavoro o una compensazione in solido per il lavoro che non c’è (salario di “cittadinanza”!?), etc.etc. Tutte queste tematiche – viola, albine e girotondine – si scontrano con l’impossibilità di uscirne positivamente entro un ristretto orticello e si trovano di fronte come sbarramento... “la vecchia politica”, compresa quella di una supposta “estrema sinistra” eternamente al traino dei generali “progressisti”–regressisti. Di qui la possibilità e necessità, per l’appunto, di una rete in grado di pesare collettivamente. Il “miracolo” operato da Grillo-Casaleggio sta nell’essersi proposti “autocraticamente” (il che sarebbe anche un merito!) alla testa dei mille movimenti in atto per allacciarli intorno ad un organismo comune, ad un programma d’insieme. Vale ancora formalmente la legge delle “consultazioni democratiche”... in rete e del principio “una testa un voto”, ma in subordine – di fatto – ad una leadership “personale” (di nuovo: non è un rimprovero) accentratrice e concludente. Fino a che punto? Come sopra specificato la cosa si scontra con la tendenza dei singoli soggetti ad ottenere dei risultati tangibili all’immediato e/o localmente. L’attuale centralizzazione del movimento ha prodotto l’iper-voto ad esso, ma poi? Un efficacissimo Crocetta ha già mostrato come si possa far rientrare nei giochi di una (vecchia) rinnovata politica tradizionale gli eroici furori del movimento offrendo ad esso un qualche osso da rodere (tutt’altro che “antisistemico”). Altrove, vedi Parma, il movimento è “al potere” (cioè: è chiamato ad “amministrare” secondo le regole), ma non è che si cavino molti ragni dal buco: tutto molto in linea con le leggi, scritte o non scritte, del sistema, in nessun caso infrante. A questo punto l’omogeneità e compattezza del movimento (che Grillo si sforza al massimo di assicurare contro le spinte disgregatrici promananti dalla base, sino ad evocare –“leninisticamente”– una presa di distanza da esse qualora...) si ritrovano ostaggi dei mille “concreti” particolarismi di partenza, mai superati e superabili in assenza di un reale programma antagonista, di alternativa sistemica. E veniamo appunto al “programma” del movimento.
IL PROGRAMMA. Al punto primo, come risaputo, c’è la lotta alla “casta”, chiamata in causa come elemento-chiave per dar ragione dei nostri disastri. Non il sistema di cui la “casta” è al (mal)servizio, ma i suoi cattivi amministratori da sostituire dal basso (di per sé notoriamente buono) come espressione realmente democratica della volontà popolare. Che l’attuale arsenale politico vada spazzato via è scontato, ma in forza non della sua “inefficienza” borghese (che pure c’è, come sotto-prodotto dell’attuale fase critica del sistema) da “sostituire” partendo dalle “molecole” sane della “base”, che, una volta insediatesi al loro posto, dovrebbero comunque accentrarsi e concentrarsi a servizio delle leggi impersonali del capitale (e Grillo non rifugge dall’esaltare le regole della concorrenza internazionale su cui stiamo perdendo colpi), a meno di non fare... una rivoluzione (termine ottocentescamente desueto per i nostri). Opportunamente il Che fare (n° 77), già nostra testata oggi alquanto in affanno, nota che tutto questo arsenale “anticasta” deriva direttamente da una pubblicistica promossa da personaggi del Corriere della sera (confindustriale per eccellenza) in chiave “antipartito”. Non anti –questi partiti, ma contro l’idea esiziale di un possibile partito proletario. Diciamo pure: a favore di un potere borghese efficiente senza vincoli di sorta. Poco importa che chi ne riecheggia il programma pensi altrimenti. Lo stesso vale per la questione dei sindacati, che il grillismo vorrebbe azzerare in nome di una “democratica” rappresentanza della base aziendale a stretto contatto con la “realtà” particolare, “padroni e operai uniti nella lotta”. Non ci sembra che il capitolo inerente il lavoro salariato vada molto più in là di questa prospettiva neo-corporativa, anche se, come d’obbligo, non mancano belle parole sulla “dignità”, i “diritti”, il cristiano “giusto salario” e via dicendo, che sono riusciti a coagulare attorno a sé, per il momento, anche una bella fetta di proletariato senza più “cinghie di trasmissione” con la “sinistra”.
Altro punto-chiave: usciamo dall’euro, dannoso perché in mano...alla Germania ed altri poteri soprannazionali che ci impediscono di “competere” su un mercato internazionale “libero” da simili vincoli. E non ci prendiamo la briga di commentare.
C’è poi il tema-decrescita. No all’iper-produzione a vuoto. Bene se si volesse dire che la corsa al gigantismo produttivo di merci ci sta soffocando (e sta soffocando anche l’attuale sistema incapace di combinare “il vulcano della produzione e la palude del mercato”, per dirla con Bordiga). E proprio Bordiga ha magnificamente detto come la nostra parola d’ordine sia quella di un generale disinvestimento della produzione mercantile da orientare a favore dei beni di consumo sociali incompatibili con le attuali discariche di prodotti inutili e tossici. Solo che questo programma richiede, per l’appunto, un rovesciamento rivoluzionario del sistema attuale, come hanno inteso anche alcuni elementi pro-decrescita francesi di cui abbiamo in precedenza parlato. In caso contrario che faremmo? Produrremmo, come Italia borghese, prodotti DOP, slow-food, di piccolo onesto artigianato etc. etc. per proporci sul mercato internazionale come “stato riviera” sano, pulito, onesto, partecipato dal basso e via dicendo?
Quanto alla politica estera il grillismo è contro le “spese militari” che ci stanno sulle spalle e ci impedirebbero di drenarne le risorse per il “bene comune”. Nell’articolo Grilleide, che qui in calce ripresentiamo, abbiamo già detto tutto il necessario sulla questione. A tal proposito riportiamo qui un commento efficace, ed un tantino “più a sinistra” di certi neo-grilli “comunisti”, che ci viene da una sponda a noi opposta, Rinascita: “Ho cominciato a dubitare sul futuro dei grillini quando, ad esempio, un consigliere regionale siciliano ha parlato del Muos in termini esclusivamente ecologici, non una parola sul fatto che il Muos appartenga all’esercito Usa (nemmeno della Nato). (...) In nessun intervento si è parlato di politica estera, e a questo punto mi chiedo: come faranno a divincolarsi dall’usurocrazia mondiale senza un minimo di prese di posizione in politica estera?” (28 febbraio). E ancora: “Ma si crede davvero che ci siano «rivoluzionari» che ci porteranno fuori dall’euro sostenendo le ritorsioni e i ricatti di questa Europa dei mercanti e delle banche? Che ci faranno riappropriare della sovranità monetaria? Che butteranno a mare la Nato e le sue 113 maledette basi militari, che prenderanno posizione netta e decisa contro l’atlantismo, contro Israele, e ci porteranno fuori dalle infami guerre in cui ci hanno portato i servi della Nato?”.
Tralasciamo tutti gli altri aspetti del “programma” in quanto essi si riconnettono ad una stessa logica. Nessuno oserebbe dire il contrario di quanto affermato sui singoli punti: impegno ecologico, acqua pubblica sana ed abbondante senza ricarichi speculativi, scuola pubblica gratuita e d’eccellenza, abolizione dell’Imu e liquidazione di Equitalia, banche al servizio del cittadino (delle imprese soprattutto) e non della speculazione, burocrazia zero, eliminazione del parassitismo (marxisticamente: la stragrande maggioranza delle attività del sistema per il profitto) e via dicendo.
Una sola frase potrebbe bastare come sintesi: “Vogliamo vivere in pace e liberamente, nella maggiore e migliore prosperità, amministrati da un governo che ci dia i pubblici servizi necessari, ci faccia ritrovare la voglia di lavorare garantendoci la sicurezza della vita e dei beni, e non ci rompa i corbelli obbligandoci a pensare secondo questa o quella dottrina politica”. Giannini, per l’Uomo Qualunque, 1945.
IL NOSTRO “CHE FARE?”. I comunisti non si immaginano rivoluzioni che partano pure per arrivare purissime alla meta. E neppure intendono il proprio “monoclassismo” come uno steccato divisorio rispetto a settori della società non identificabili col proletariato. Ogni moto di ribellione vera contro il nemico vero, ancorché preso dalla coda (“gli effetti”) costituisce un punto di partenza su cui agire in senso rivoluzionario guardando al massimo di compartecipazione “popolare” – delle classi non sfruttatrici – attorno al programma socialista (“l’immensa maggioranza della popolazione” ne è coinvolgibile, come da antica insegna). E qui certamente ci troviamo di fronte a sentimenti e moti di ribellione veri da prendersi in carico. Come? Facendosi partecipi attivi di ogni reale occasione di scontro con l’ordine costituito, da chiunque e comunque promossa. Il tutto, però, portando un attacco frontale contro l’inconcludenza, e peggio!, politica del “movimento” e dei suoi “capi”, da centro d’orientamento alternativo su tutta la linea. Col massimo di sentimenti fraterni per coloro che vogliono muoversi ed il massimo della chiarezza teorico-programmatica possibili.
E’ il nostro indirizzo di sempre. Quello per cui il neonato PCd’I (perennemente bollato di “settarismo”) così si rivolgeva nel ’21 a chi non aveva aderito a Livorno:
“Noi sappiamo che tra voi vi sono autentici e generosi proletari, che accolsero il distacco di Livorno credendolo in buona fede una parentesi dovuta ad equivoci e malintesi. (...) I vostri compagni comunisti non vi faranno un torto, né vi crederanno a loro inferiori per non aver inteso a Livorno tutta la portata dell’inganno che vi si tese, purché voi compiate oggi il gesto decisivo e virile di dividere le vostre responsabilità da quelle dei manutengoli della borghesia”.
Situazione oggi diversa (e peggiore) rispetto al ’21 dato l’obnubilamento del soggetto proletario, ben presente, cui allora ci si poteva rivolgere, ma, proprio in ragione di ciò, da affrontare con un massimo di presenza attiva e di rigore per liberare delle energie rivoluzionarie da una morsa altrimenti destinata a farsi manutengola della borghesia. E’ lo stesso atteggiamento da noi, allora OCI, impiegato rispetto al movimento anti-war, sembrato a qualcuno troppo poco “interno” al movimento a causa di “pregiudizi dottrinari” che ci avrebbero separati da un movimento che doveva arrivare di suo al dunque, con noi alla coda. Ne tragga qualche conclusione chi, oggi, ripete, ingigantita, la stessa solfa rispetto al grillismo in marcia verso il “sol dell’avvenire”.
Se ne ricaverà qualcosa? Tutto dipende dalla rimessa in moto dell’epicentro proletario cui, nel nostro infinitesimale, lavoriamo. Senza di che addio leva e punto d’appoggio!
“Il proletariato, grazie alla sua funzione economica nella grande industria, è capace di essere alla testa di tutti i lavoratori e le masse sfruttate che la borghesia sfrutta, opprime, schiaccia, non meno e spesso anche più dei proletari, ma che non sono capaci di una lotta autonoma per la propria liberazione”. (Lenin, Stato e rivoluzione). Non servono altre aggiunte.
POSTILLA:
A PROPOSITO DELL’“UOMO QUALUNQUE”
Sia ben chiaro: noi non ipotizziamo alcuna sorta di identificazione tra grillismo e l’“Uomo Qualunque” di Giannini. Diverso è il materiale umano (al quale ci sentiamo in certi casi vicini valutandone i sentimenti ed il preciso contesto oggettivo in cui s’inscrive) messo in moto dalla crisi presente, ma non ci sfugge la compresenza di uno stesso humus nelle sue caratteristiche aclassiste (per non dir di peggio) di ripulsa degli effetti del sistema borghese totalmente interno ad esso.
Ci è stato notato che “la natura di classe” del grillismo si discosterebbe diametralmente da quella dell’UQ perché “i contesti sono completamente differenti” visto che “allora c’era la prospettiva della ricostruzione post-bellica, un rilancio dell’accumulazione capitalista e fiumi di dollari provenienti dagli Usa”. Un po’ arduo dirlo per la data 1945. Ed in ogni caso, come abbiamo scritto sopra, la “natura di classe” di un movimento non è mai “spontaneamente” dettata dal “contesto di crisi” (causa-effetto, programmi e... partito a parte). Il “malcontento generalizzato” va non dove ti porta il cuore, ma si dispone secondo certe linee, di regola antagoniste tra loro senza alcun automatismo provocato dal “contesto”.
Qui di seguito stralciamo alcuni passaggi da un documento del ’45 dell’UQ, Organizzazione del partito dei senza partito, che possono suggerire alcuni utili raffronti sull’humus in questione.
“Né io né nessuno dei redattori e collaboratori che mi onorano
desideriamo diventare ministri, sottosegretari, deputati, sindaci, consiglieri comunali e altro del
genere. Avessimo avuto queste ambizioni non ci sarebbe mancato modo di soddisfarle entrando in
uno qualsiasi dei partiti-cannoni, dai quali non saremmo certo stati respinti, così come non lo
furono e non lo sono persone che sotto nessun aspetto e da nessun punto di vista ci sono superiori.
Abbiamo obbedito ad un impulso di ribellione contro il professionismo
politico...
Non dobbiamo fare, almeno finché mi occuperò della faccenda, un partito
politico come gli altri...
(Segue una lunga nota sul travaso in massa dei fascisti in tutti i
“nuovi” partiti-cannoni, PCI compreso e sull’“organizzazione di funzionari” a cemento
armato di essi: “scopiazzatura piatta e pesante di sorpassate concezioni borghesi quali il
militarismo professionale, di inimitabili strutture spirituali come la Chiesa Cattolica”
etc.)
Né la cosiddetta paura di «scendere in piazza può e deve turbarci», innanzitutto
perché se vorremmo scendere in piazza vi scenderemo” e perché poi “le parate stradali (...) hanno
fatto il loro tempo. Oggi si possono fare formidabili dimostrazioni di potenza senza uscire di casa;
obbedire, disobbedire, boicottare, favorire senza bisogno di cortei, adunate oceaniche ed altre
buffonerie...
Come vogliamo chiamare il movimento? Partito? Unione? Associazione?
Lega? Società civile? ...
Sarà bene, adesso, chiarire la situazione personale di Guglielmo
Giannini. Moltissimi Amici vengono a visitarlo per chiedergli «cosa si deve fare»... Non si deve
continuare così, perché non si deve creare, con Giannini, un nuovo e pericoloso superuomo che
domani, a furia di sentirsi dar ragione, perderà la testa...
Per laprima volta nella storia della
politica si assiste al fenomeno di una massa che esprime realmente sé stessa: e sarebbe
delittuoso rinunziare a questo esperimento per seguire un uomo. Ciascuno di noi deve dire ciò che
pensa e scriverlo (sul web, n.n.attualizzata) ...
Nessuno degli attuali capi di partito è
legittimamente al suo posto... Nel movimento dell’UQ è avvenuto il contrario, perché centinaia di
migliaia di persone, da ogni paese d’Italia, hanno spontaneamente chiesto a un giornalista di
organizzarle: e dunque l’unione, la lega, il partito, il comitato, il (quello che vi pare) dell’UQ è
l’unico partito politico legittimo italiano, il più numeroso, il solo che abbia designato, con una
elezione, sia pure epistolare (idem, n.n.) un rappresentante provvisorio...
Siamo
tutti d’accordo nel non volere padroni, duci, padreterno terrestri: è necessario però organizzarci in
quella autodisciplina che è l’espressione della vera civiltà...
Questa necessità di
organizzarci nasce dalla necessità di far fronte alla pressione degli estremisti di destra e di sinistra,
e dalla indispensabilità di impedire che un nuovo totalitarismo si impadronisca del nostro
paese e di noi e ci faccia precipitare in un altro abisso. Indubbiamente l’organizzazione più ben
concepita e realizzata è quella della DC, alla quale segue quella del PCI. Entrambe queste
organizzazioni si basano su un sistema cellulare, che hanno imitato alle organizzazioni
commerciali, bancarie, assicurative, tributarie, ecc., create dall’intelligenza borghese. Noi
dobbiamo basare la nostra organizzazione sul sistema nucleare, che si differenzia da quello
cellulare solo in quanto non è confessionale, segreto o clandestino...
Va da sé che
ai posti di responsabilità (...) gli Amici non debbono eleggere persone che, comunque,
abbiano avuto responsabilità politica sotto il cessato regime (oggi: “la casta”,
n.n.)”.
Molto democratico (financo col ripudio dei “duci” scenici) e persino “antifascista”, in nome di una motivata ribellione dei “cittadini” nei confronti di una “casta” politica post-fascista ereditaria del fascismo stesso. Non siamo al 2013, lo ripetiamo, ma il sottofondo permanente è lo stesso: non mettiamo in causa il sistema, ma vogliamo bene amministrarlo dando voce ai “cittadini”, al “popolo”. Si aggiornano le ricette proposte, come d’obbligo, ma sempre in funzione salvavita per il sistema vigente.
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Riproponiamo la lettura dell’articolo “GRILLEIDE,” del 15 ottobre 2007, che contiene già tutti i punti essenziali della nostra analisi sul fenomeno grillino.
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10 aprile 2013