nucleo comunista internazionalista
note




Un libro da leggere

UNA VOCE DAL DI DENTRO
CONTRO LE IPOCRISIE SULLA GUERRA

Merita consigliato ad un’attenta lettura un libricino uscito di recente a firma Fabio Mini, Perché siamo così ipocriti sulla guerra? (Milano, Chiare Lettere, 2012), in cui l’autore si propone di dire alcune cosucce non ipocrite sul tema della guerra, di ieri oggi e domani, e ci riesce largamente anche.

Tanto per togliere di mezzo subito l’ipocrisia un cappello introduttivo ci avverte che l’autore, generale di corpo d’armata, ha un bel curriculum alle spalle: “E’ stato capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa che, a partire dal gennaio 2001, ha guidato il Comando interforze delle operazioni nei Balcani. Dall’ottobre 20002 all’ottobre 2003 è stato comandante della forza internazionale di pace (poi, nel testo, qualificata per quello che fu: forza di sporca guerra, n.n.) a guida Nato nel Kosovo” etc.etc., per arrivare allo status attuale di “commentatore di questioni geopolitiche e di strategia militare” da sinistra. E, cancellata l’ipocrisia e posta una pudica pietra tombale sul proprio passato “in prima linea” – anche se non dubitiamo che nello svolgimento di certi compiti ingrati si sia attenuto alla regola dell’“italiano brava gente”– , l’autore le spara dritte.

Si comincia dal lontano passato, dalla guerra di Troia persino, omerico capolavoro di antica ipocrisia sul tema. Ma si arriva subito a tempi più recenti, alle imprese militari dei supposti “nostri liberatori democratici” USA nel corso della seconda guerra mondiale e dopo. Così ci fa sapere, ad esempio, che le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki “non servirono a far «finire» la Seconda guerra mondiale, ma a «preparare» la Terza”, quella della “guerra fredda” anti-URSS (in attesa, questo lo diciamo noi, di quella calda in gestazione contro vecchi e nuovi “centri del Male”). Gli USA “si affidarono alle operazioni atomiche sul Giappone per evitare che l’Unione Sovietica ripetesse a Tokyo il blitz europeo che le aveva fatto vincere la battaglia di Berlino”. E ciò poteva esser concepito “soltanto con il monopolio di un’arma di distruzione di massa, come aveva cercato di fare la Germania nazista”, né più né meno e per scopi non imperialisticamente diversi. In questa chiave vanno letti episodi come quello dei “bombardamenti di «saturazione» che non risparmiarono nulla e nessuno fino a quello inutilmente (!, n.n.) crudele del 1945 di Dresda”. O, per restare vicino a noi, quelli su tante città italiane, a prevalente insediamento proletario; ad esempio quello “su Roma, che nel quartiere San Lorenzo causò oltre tremila morti in una sola notte”, e non certo per “indurre i gerarchi fascisti ad abbandonare Mussolini e lasciare che la Corona si accordasse segretamente con il nemico”. L’avvertimento era ad “altri”, e passò bene col concorso del CLN pronto a dire: se le potenze “democratiche liberatrici” vi bombardano la colpa è del fascismo; mettetevi in riga agli ordini dei nuovi padroni o sarà peggio per voi.

Qualcuno dovrebbe chiedersi perché mai si commemorino puntualmente e si esecrino (giustamente) le Fosse Ardeatine e ci si dimentichi di simili stragi “italiche” dieci volte tanto!

Parentesi formidabile: il Mini ci parla anche della “nostra” ipocrisia in materia e 1943 è il simbolo di una delle Tragedie più gravi della storia nazionale. E’ il giorno dell’ipocrisia per antonomasia quando fu annunciato un armistizio che in realtà non cessava le ostilità, una pace separata che in realtà era un’altra dichiarazione di guerra, un atto che avrebbe dovuto far uscire l’Italia con onore da una guerra non voluta (..) e invece la faceva entrare nel novero dei traditori”, “una guerra finta che tutti ripetono di non poter combattere ad armi pari che tutti però combatterono, pensando non a vincere, ma a non perdere potere”. “Così il tradimento italiano nei confronti dei tedeschi è diventata lotta all’invasore, quello del Fascismo è diventato il suo contrario, il tradimento dei fascisti nei riguardi del loro capo e del loro stesso partito è diventato un atto di coraggio, i molteplici tradimenti del governo e del re nei riguardi dei loro doveri istituzionali sono diventati «Atti dovuti». Siamo perfino arrivati a ipotizzare che, tutto sommato, l’8 settembre abbia salvato il salvabile, tacendo il fatto che si salva veramente poco se si perdono l’onore, la dignità, il rispetto e la stima degli altri. (..) Ed è stata proprio questa rimozione acritica a perpetuare e rinnovare l’atteggiamento dell’8 settembre in tutte le classi dirigenti durante le crisi istituzionali e di democrazia che si sono succedute da allora nei giorni e nelle notti della nostra Repubblica”. Col che è detto tutto il necessario quanto al corollario della “lotta di liberazione popolare” oggettivamente (e non solo per quanto riguarda le dirigenze) al servizio dei vincitori-strangolatori USA, senza alcun Baffone alternativo alle porte.

Finita la seconda guerra calda ci sono stati gli episodi della guerra in Corea (1950) e del Vietnam, la prima avallata dall’ONU in nome della pace e dell’umanita rismo, la seconda “motivata” con l’incidente del Tonchino, un “falso pretesto” “come è stato accertato dalla consultazione dei Pentagon Papers del 1964”: “l’attacco alla nave americana Maddox fu una simulazione degli stessi americani”. Il che non ha impedito alle nostre classi dirigenti “co-vincitrici” con gli USA nella seconda guerra mondiale di stare dalla parte dei “liberatori” yankee, mentre i nostri “comunisti”, ancor lontani dal sentirsi protetti dall’ombrello Nato, si schieravano platonicamente dalla parte del “mondo socialista” in attesa di un loro rinnovato 8 settembre.

E arriviamo alle guerricciole attuali, rispetto alle quali abbiamo intanto recuperato l’“unità nazionale” a servizio dell’imperialismo “amico”.

Nel 1991 “il nostro Parlamento (e poi si parla male di Grillo che lo definisce, anche se per suoi non nobilissimi motivi, una fogna!, n.) ha deciso di partecipare alla coalizione americana contro l’Iraq” in ragione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein rivelatesi poi (poi?, n.) una bufala. “Da allora i nostri soldati sono stati impiegati in decine di operazioni di guerra spacciate per non guerre: due volte in Libano, poi in Somalia, due volte in Iraq e in Albania, poi in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e ancora in Libano e in Libia. Nel 1992 siamo andati in Somalia dicendo di voler portare aiuti alla popolazione e rispondendo alla chiamata degli Stati Uniti, sollecitati dalle multinazionali del petrolio e della frutta”; “Nel 1999 abbiamo partecipato alla guerra umanitaria in Kosovo (..) schierandoci dalla parte di bande armate irregolari addestrate da mercenari americani”. Anche in questo caso con un buon pretesto: le stragi di Račak volute da Milošević. Solo che si trattava anche in questo caso di un falso alla tonchinese: “fu accertato che corpi di civili trovati morti in un fosso non erano il risultato di un eccidio serbo perpetrato in una notte di tregenda, ma l’esito della raccolta di corpi di ribelli ammazzati nel corso di un mese di combattimenti in un’area molto vasta. Le bande Uck, con la consulenza di agenti segreti stranieri, realizzarono la messinscena raccogliendo i corpi sparsi, cambiando loro i vestiti e togliendo le armi”. E D’Alema e Diliberto non lo potevano sapere, evidentemente! L’ipocrisia criminale è sempre “ignara”, e il caso-Siria alle porte non cambierà il quadro. Già la Bonino giura sulle armi chimiche usate da Assad in base alle “prove” USA!

Il quadro, qui, è molto dettagliato e val la pena davvero leggerselo senza costringerci a ricopiarlo in lungo e in largo. L’ultimo capitolo è opportunamente riservato al caso-Libia, ma chi ha orecchi ed occhi per intendere può ben proiettarlo sull’attuale caso-Siria. (Ce ne dispiace per gli innamorati della “primavera siriana” in corso, da Ferrando al Cuneo... dalemizzati).

Un capitolo importante del libro, prima di entrare nel merito degli interessi materiali diretti dell’imperialismo, è dedicato all’ipocrisia “pacifista”. Non parliamo delle masse che furono, mobilitate in piazza in ragione di un autentico (ed altrettanto impotente) pacifismo privo di un reale programma anticapitalista (la guerra come “errore”, “tragedia” etc. etc. da scongiurare a suon di petizioni sentimentali!), ma della miriade di organizzazioni non governative (sulla carta) interessate (sempre sulla carta) alle sorti delle popolazioni civili coinvolte nella guerra sempre immancabilmente voluta dai cattivi locali di turno da “sterilizzare”. Costoro “spacciano per non violenza il rifiuto delle armi «convenzionali», delle bombe e dei mitragliatori, mentre fanno costante ricorso ad altre armi, che oggi gli stessi militari usano e chiamano «speciali»: le armi della guerra psicologica, della guerra dell’informazione, della destabilizzazione, della propaganda, del boicottaggio e del blocco economico, che fanno più vittime innocenti di qualsiasi guerra convenzionale. (..) Se si seguono attentamente i movimenti dei Corpi di pace e di molte organizzazioni non governative pseudo-umanitarie e si mettono in sistema con le transumananze dei mercenari, dei presunti consiglieri militari e degli improbabili predicatori si riesce a disegnare la mappa globale dei conflitti, dei colpi di Stato, delle rivoluzioni, delle mattanze e di ogni altra manifestazione delle guerre passate, presenti e future”.

Si arriva al dunque: non sarà per caso che l’ipocrisia con cui si ammantano le guerre serva a nascondere la meschina realtà che “qualcuno” ci lucra sopra? Il capitoletto che si apre a pag. 35 e che s’intitola Gli affari rappresenta, in realtà, la chiave di tutto il resto. L’autore, in pochissime pagine, riassume il business militare in tutta la sua portata e noi, per non inutilmente ricopiare e per invitare ad una lettura diretta del libricino, ci limitiamo a riprodurne in appendice un breve stralcio indicativo. Ciò su cui invitiamo a riflettere è l’equivoco che in alcune anime semplici potrebbe sorgere dall’affermazione d’apertura del Mini: “La guerra è un grosso affare (..) Non è più un affare di Stato (..) è una questione di profitto, spesso (?,n.) sporco, e gli Stati sono al servizio dei grandi affari mettendo a disposizione le risorse pubbliche e dando la copertura di legittimità all’uso della forza”. Potrebbe sembrare a qualche Candide che vi sia una discrasia tra grandi affari privati ed il “pubblico” di uno Stato dimissionario rispetto ad esso. In realtà – qui sta il nodo – quegli affari privati sono gli affari pubblici del sistema capitalista di cui lo Stato è il “servitore”. O altrimenti finiamo per credere che un “buon” capitalismo potrebbe convertire i missili in aratri (per dirla con Pertini e pretume vario, compreso quello laico di certa “estrema sinistra”). “Molti paesi, tra cui il nostro, contano di ridurre le spese militari salvando però i profitti industriali. Negli ambienti legati all’apparato militare industriale americano non si accettano i programmi di riduzione delle spese militari e si parla già della (inesistente, n.) «minaccia della pace»”. Fosse anche vero che “molti paesi” si vorrebbero concentrare sui soli profitti industriali “pacifici”, avrebbero ragione gli USA: gli investimenti militari non possono essere ridotti in quanto macchina garante del profitto sistemico globale. La “pace” ed il benessere interno dei paesi imperialisti hanno strutturalmente bisogno del volano militare. E tutti i dati del pamphlet di Mini stanno a dimostrarlo.

Ciò che “al massimo” si può dire è quanto scrive nel numero di gennaio la Rivista Italiana Difesa: “ Non possiamo che essere favorevoli ad un uso più ragionato e strategico delle Forze Armate, sempre avendo in mente che le missioni militari sono uno degli strumenti essenziali per condurre una politica estera a tutela dell’interesse nazionale e condiviso”.

La guerra è brutta; come fare per fermarla.

Una folla sterminata di imbecilli ci ripete che, almeno per quanto riguarda l’Italia, la nostra bellissima Costituzione, di cui da nessuna parte ce n’è una eguale, “ripudia la guerra”. Sì, la ripudia, limitandosi a farla, come ben ci ha ricordato Mini, nonostante tutti i nostri Rodotà a suprema garanzia del sacro testo. Lasciamo da parte argomenti del genere e... bella, ciao!

Il deterrente dei tribunali internazionali contro i crimini di guerra? Li conosciamo bene questi covi a delinquere e Mini ci viene in appoggio: “I regolamenti dell’Aja, così come le norme di Grozio o gli statuti del processo di Norimberga, non hanno nulla di umanitario: sono soltanto dei paletti alla responsabilità internazionale degli Stati e ovviamente riguardano gli interessi degli Stati potenti e vincitori”. Così, ad esempio, si mettono in carcere – e magari vi si fanno morire – i rappresentanti dei paesi aggrediti (vedi Jugoslavia) e gli aggressori se ne fanno trofeo, magari con tanto di Nobel per la pace (tipo Obama, Kissinger, Peres...; avessero vinto la seconda guerra mondiale Mussolini ed Hitler non gli sarebbe mancato l’invito a Stoccolma!).

L’ONU? Altra splendida stoccata da parte di Mini: “Il massimo organismo e la maggior fonte del diritto internazionale, l’ONU, è dedicato alla pace, ma chi lo dirige è il Consiglio di sicurezza, che è guidato dai vincitori della Seconda guerra mondiale e che da allora decide da solo sui conflitti, dando largo spazio agli interventi militari per «ingerenza umanitaria», altro termine politicamente corretto (opportunamente scomunicato da papa Francesco, n.) che ha sostituito quelli più chiari e consoni di «aggressione» e «guerra coloniale»”. Ne tengano finalmente conto certi capi di talune forze (dis)armate “comuniste” che continuano imperterriti a battere su questo chiodo.

Naturalmente noi non crediamo che il buon Mini, sin qui da noi largamente saccheggiato e sottoscritto, pencoli dalla nostra parte (guerra comunista contro la guerra del capitale). Da accorto geopolitico nazionale è pensabile piuttosto che alle guerre ipocrite di un dato settore imperialista, quello USA sin qui egemone, intenda contrapporre una contropolitica (con tanto di controguerra, se del caso) corrispondente, senza ipocrisie, ai nostri interessi italiani e/o europei. Vale anche qui la regola suprema del nostro posto al sole, conquistabile solo a prezzo di uno svincolamento dal gregarismo dietro il carro dell’imperialismo big. Ed a tal fine un efficiente esercito nazionale, corroborato da un’efficiente politica estera nazionale, non rappresenta una “spesa superflua”, come vorrebbero gli illusi o gli ipocriti del pacifismo (virgolettato o meno), ma un sano investimento produttivo. (Una sola raccomandazione: non ci si venga poi a dire che il nostro militarismo avrebbe connotati pacifici, umanitari o che altro in contrasto con quello della concorrenza, altrimenti il naso si allunga a causa dell’ennesima ipocrita bugia). Finché si rimane fedeli al sistema capitalista ciò è perfettamente vero. Ed allora: proponiamo di scrivere noi un piccolo testo a “chiare lettere”: Perché siamo così ipocriti sulla rivoluzione comunista? Forse perché ci abbiamo rinunciato persino nominalmente?
25 giugno 2013

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Il fenomeno dei profittatori di guerra era noto da tempo ed è probabilmente nato con la guerra stessa, ma meno nota era la realtà di agenzie e imprese che traevano profitto dalle sventure umane facendo credere di porvi rimedio.

Era una realtà emersa dagli scandali della Mon­santo, il più importante produttore di pesticidi e sementi transgeniche, che in teoria dovrebbero rendere più indipendenti le comunità agricole sottosviluppate e invece le rendono schiave dei loro prodotti. Una forma di schiavitù che molti sociologi, e non solo, ritengono più grave della servitù della gleba.

Era la realtà della Pfizer, simbolo della rapacità e della mancanza di scrupoli di alcuni colossi far­maceutici che, con la scusa delle sperimentazioni, corrompono funzionari di Stato – è accaduto in Nigeria – per ottenere i permessi a usare intere popolazioni come cavie. O che depauperano le risorse dei sistemi sanitari nazionali corrompendo medici e convincendoli a prescrivere farmaci costosi che non costerebbero nulla o che non servirebbero a nulla o che farebbero addirittura male: è il caso del Bextra della Pfizer, i cui danni sono costati alla compagnia 2,3 miliardi di dollari di multa a fronte di decine di miliardi guadagnati in cinque anni di vendita intensiva anche al servizio sanitario statale americano.

Era la realtà del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, emersa in tutte le crisi economiche europee e asiatiche e così brillante­mente descritta da Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia e già vicedirettore della Banca. Con la scusa di aiutare i governi a uscire dalle crisi, i garbati funzionari di tali organismi, senza alcuna responsabilità, e quindi senza scrupoli, fanno eser­cizio di potere politico a premessa di speculazioni finanziarie ed economiche, imponendo veri e pro­pri cambi di governo e di assetti democratici, che portano gli Stati da «salvare» sulla china pericolosa dell’instabilità e della perdita di sovranità.

Era la realtà della Lockheed Martin, anch’essa simbolo del mondo industriale legato alla produ­zione di armamenti, che della guerra e dei profitti di guerra vive, e anche bene. Nel decennio appena trascorso le maggiori industrie belliche statunitensi, «grazie» all’11 settembre e alla guerra al terrorismo internazionale, hanno fatto affari d’oro. I bilanci della Difesa sono passati dai 316 miliardi annui del 2001 ai 708 miliardi del 2011. Per la caccia a Osama bin Laden e alla sua flotta fantasma, gli Usa hanno speso nel decennio passato 1,3 trilioni di dollari (oltre mille miliardi) in aggiunta alla somma dei bilanci ordinari, che ha raggiunto i quattro trilioni di dollari. Un salasso enorme di risorse finanziarie e umane, con le migliaia di mor­ti, feriti e traumatizzati dalle guerre, ma una vera pacchia per le industrie militari, che guarda caso avevano mal digerito i piani di riduzione già pia­nificati nel 2000 e che si sono dette subito pronte a sostenere patriotticamente lo sforzo bellico della nazione. Le cinque principali compagnie del settore (Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics e Raytheon) nel 2001 avevano un fatturato di 217 miliardi e un profitto netto di 6,7 miliardi. Nel 2010 il fatturato è stato di 386 miliardi e il profitto di ben 24,8 miliardi di dollari.

(Perché siamo così ipocriti sulla guerra?, pp.37-40)