nucleo comunista internazionalista
note




Ilva di Taranto:
SOLO IL PROTAGONISMO DI LOTTA DEL PROLETARIATO POTRA’ GARANTIRE LA DIFESA
DEL LAVORO, DELLA SALUTE E DELL’AMBIENTE


A carico dei Riva, proprietari dell’acciaieria di Taranto, la procura di Milano ha riscontrato irregolarità commesse nel riportare in Italia un miliardo e duecento milioni di euro. I Riva li avevano messi al sicuro nel paradiso fiscale di Jersey (isoletta nel canale della Manica) affidandoli a una costellazione di “trusts” con nomi (tipo Orion, Venus, Sirius etc.) atti a marcare la distanza siderale del bottino da chiunque avesse preteso conoscerne o rivendicarne per qualsiasi motivo la sostanza. Quando però il governo Berlusconi-Tremonti, con il provvedimento sul cosiddetto “scudo fiscale”, ha garantito a questi patrimoni una tassazione del 5% (modico obolo per grandi ricchezze sconosciute al fisco), allora i Riva hanno pensato che a queste condizioni il malloppo poteva tornare in Italia. Sennonché avrebbero architettato uno scambio di nomi tra fratelli per riferire i “trusts” al Riva giusto, quello con cittadinanza italiana e quindi con i requistiti per accedere allo scudo.

I giudici milanesi hanno disposto il sequestro preventivo del miliardo e duecento.

Anche i giudici di Taranto incalzano i padroni dell’Ilva.

Del giorno dopo è la notizia del sequestro disposto dai giudici di Taranto. Qui si tratta del noto procedimento per disastro ambientale. I giudici, quantificando i danni causati dai Riva e i corrispondenti “illeciti profitti” da essi realizzati, hanno disposto il sequestro di ben 8 miliardi e cento milioni di euro a carico della società capogruppo Riva Fire che controlla Ilva.

A differenza dell’importo scudato, gli 8 miliardi messi in conto dai giudici tarantini nessuno saprebbe dove andarli a cercare. Il sequestro ne ha intercettata una minima parte, la liquidità corrente del gruppo. Per tutta risposta si è dimesso l’intero consiglio di amministrazione di Ilva, denunciando che in tal modo verrebbero sottratte a Ilva le risorse per mandare avanti la produzione. Ci ha pensato il governo Letta a “rimettere a posto” le cose, “commissariando” l’Ilva e nominando commissario Enrico Bondi, lo stesso amministratore delegato dimissionario.

I sequestri hanno indubbiamente fatto notizia, ma quanto a concrete possibilità di mettere in conto ai Riva il risanamento ambientale dell’Ilva e di Taranto dovrebbe esser chiaro che un risultato del genere nessun sequestro della magistratura sarà mai in grado di garantirlo.

Non sbaglia in questo Gianmaria Leone che sul manifesto del 24/05/13 scrive chiaro chiaro che “l’iniziativa dei giudici di Milano rischia di generare inutili speranze nei cittadini di Taranto” (riferito al miliardo e due scudati, figuriamoci per gli 8 miliardi quasi tutti da scovare!). Si tratta infatti di un sequestro preventivo, che diverrebbe definitivo solo al termine di un lungo processo, che i Riva certo non starebbero lì fermi a subire. In ogni caso i soldi che fossero confiscati ai Riva – per reati fiscali o per reati ambientali – andrebbero allo Stato, e poiché sarebbe lo Stato a decidere che uso farne la confisca non sarebbe affatto automatica garanzia di una congrua dotazione del fondo di risanamento dell’Ilva, datosi che lo scempio dell’Ilva e di Taranto (sono in troppi, anche a sinistra, ad averlo dimenticato) sono firmati molto prima IRI e Stato italiano e, solo dopo di essi, Riva.

L’inchiesta di Milano, peraltro, getta uno squarcio interessante sul sistema mondiale di protezione dei capitali e dei profitti (“leciti” e illeciti, non fa alcuna differenza), a petto del quale qualche sporadica iniziativa della magistratura nulla può né intende veramente fare (che, nel caso, si tratterebbe di sbaraccare da cima a fondo “o sistema”, e non crediamo sia esattamente questa la visione anche della più zelante delle toghe).

Le sacre leggi del capitalismo, ovvero un “sistema” di legalissimi imbrogli a tutela di capitali e profitti

I magistrati mandano avanti le canoniche “attività dovute”, talvolta con solerzia non comune per questo genere di inchieste ed inquisiti e dunque con conseguenze non del tutto indolori per i lorsignori di turno. Ma è altrettanto certo che “la giustizia” (borghese, come gli indagati che in qualche caso rincorre) rimarrà con un pugno di mosche in mano o tutt’al più con qualche spicciolo il cui “riscatto” (allo Stato...) varrebbe ai “paperoni” un lasciapassare per andarsi a nascondere meglio il grosso del tesoro. Sono, infatti, le sacre leggi del capitalismo a prescrivere che i capitali scorrano “liberi” da vincoli di alcun genere nelle sue vene.

Vi ricordate Monti e Fornero a dire che che per “salvare l’Italia” dalla bancarotta non si poteva far altro che tassare la prima casa, massacrare pensionati presenti e futuri, lasciare a secco un esercito di esodati, mandare a casa tutti i precari possibili e precarizzare sempre di più il lavoro, etc. etc.?

A chi paventi patrimoniali che vadano a tassare le grandi ricchezze, i professoroni rispondono “sconsolati” che “non si può fare”, che non esiste una anagrafe dei grandi patrimoni, che lo Stato per poter incamerare soldi deve andare a colpo sicuro sui redditi conosciuti, sulle case e sui consumi di tutti. Basta accennare, ad esempio, al parco delle imbarcazioni di lusso per rendersi conto che già qui si comincia a entrare in un’altra giurisdizione, dove, con tutta la tecnologia informatica a supporto (che consente bensì di censire milioni e milioni di automobili), scattano nondimeno i “diritti capitalistici speciali” alla discrezione e alla rarefazione delle informazioni, delle intestazioni, delle registrazioni... . Figuriamoci poi se il malloppo viene comodamente girato su conti accesi nei paradisi fiscali e intestato a entità (i “trusts” e altri mille trucchi del genere) che non consentono di sapere chi ci sia dietro (tasse zero per tesori nascosti).

Francamente detto: non è ordine di questione che possa esssere risolto da alcuna magistratura (come in molti a sinistra, anche estrema, si affettano invece a credere), trattandosi a tutti gli effetti di questione totalmente – e totalitariamente– politica.

Come a suo tempo sono stati spazzati via gli odiosi “diritti feudali” della nobiltà civile ed ecclesiastica, così si tratta ora di fare a pezzi gli specialissimi “diritti” della borghesia, degna sostituta degli aguzzini di un tempo, contro i quali anch’essa, allora rivoluzionaria, prese le armi usandole per tagliare teste non disposte a rinunciare alla esclusiva supremazia politica e sociale della propria classe. Una borghesia che si pretende proprietaria dell’intera ricchezza sociale, che compra e schiaccia il lavoro umano che incessantemente la produce, che rivendica crediti infiniti verso il resto dell’umanità e un continuo flusso di incassi dai suoi rivendicati titoli, che domina ogni aspetto della vita sociale e il mondo intero grazie a meccanismi impersonali e anonimi continuando ad arricchire il suo ristretto club sovranazionale e precipitando nel disastro fasce sempre più ampie di popolazione (si parli di Taranto o di Dacca dove a deciderne, potendo peraltro spergiurare di non entrarci nulla, sono un pugno di “united colours of Benetton”).

Quale meraviglia dunque se all’Ilva i Riva pensano a fare profitti fregandosene di tutto il resto?

A queste condizioni, quelle del capitalismo – aggravate dalle peculiarità italiche di un capitalismo di non piccolo calibro ma ugualmente “straccione”–, la produzione all’Ilva (senza dimenticare le altre industrie pesanti allocate in quel di Taranto) si è tradotta in un disastro ambientale, che da ultimo ha attivato le inchieste della magistratura e l’iniziativa di quanti chiedono la chiusura della fabbrica che inquina.

L’eterna illusione della scorciatoia democratica

Su questo centrale merito della questione non concordiamo minimanente con Gianmnaria Leone che, sul manifesto del 16/04/13 ci da la sua lettura dell’esito del referendum promosso a Taranto dagli ambientalisti che hanno chiesto alla popolazione di Taranto di votare per la chiusura del polo siderurgico.

Una prima considerazione sul metodo ci porta a registrare ancora una volta l’illusione di poter risolvere i problemi a botte di referendum, in assenza – in genere – di una reale mobilitazione che li prenda in carico e dispieghi la forza necessaria per imporne le soluzioni dal punto di vista degli interessi del proletariato (valga per Taranto, per la scuola, per la permanenza nell’Euro, etc.).

Ma qui occorre registrare la pervicace resistenza dell’illusione stessa. Non basta infatti l’ondata di astensionismo che fa sì che deserte restino non solo le piazze, ma anche le urne. Non basta neanche la sonora bocciatura da parte di un elettorato (ultra-minoritario nel voto e massiccio nell’astensione) sui meriti di volta in volta proposti. Non basta tutto questo.

Immancabilmente da “sinistra” (e qui dal nostro Gianmaria) riparte l’illusione che a tutti i costi ripropone e accredita i meccanismi democratici e le vie istituzionali. Valga per le elezioni, dove le più sonore sconfitte e relative cancellazioni della “sinistra radicale” non varranno mai – ora è chiaro – a distoglierla dal riproporre il giorno dopo lo stessissimo “gioco dell’oca” che riparta dai nuovi giri di amministrative sempre in programma, ripresentando le medesime incolori modalità e sostanza (niente affatto “radicali”, per nulla “di sinistra”, e lasciamo perdere il comunismo!), sperando che per le future politiche spiri un qualche vento diverso e più favorevole.

Valga per i referendum, dove i nostri Gianmaria riescono a colorare come “segnale” promettente finanche le sonore boccciature, così evitandosi la fatica di riflettere sulla bocciatura effettiva da parte dei tarantini della chiusura per via referendaria dell’Ilva.

Cosa è strategico per la classe operaia

Con Gianmaria (e con gli ambientalisti referendari) non dissentiamo solo sul metodo. Molto più dissentiamo sul merito.

Beninteso, noi non condividiamo certa fraseologia in uso anche tra cosiddetti “rivoluzionari” secondo la quale la siderurgia va preservata in quanto “produzione nazionale strategica”. Si è mai fatta mente locale per chi e per cosa sarebbe “strategica” la produzione rivendicata con questi toni? La risposta è che lo sarebbe per il capitalismo italiano e per la sua competitività sui mercati (cioè perché “l’Italia” possa fottere sui mercati altri concorrenti, con il che si accettano implicitamente gli antagonismi insiti nel capitalismo e il capitalismo stesso, con il suo corollario dell’eterna contrapposizione tra lavoratori). Ora, se esistono in circolazione – ed esistono – pretesi “rivoluzionari” che difendono le “produzioni nazionali” con questo genere di argomentazioni, magari ancorandovi consapevolmente il (subordinato) interesse dei lavoratori a difendersi posto di lavoro e scampoli di “benessere” propri, noi diciamo che in tal modo si contribuisce – al contrario di quel che ai comunisti competerebbe – alla identificazione (ultra-fasulla!) degli interessi dei lavoratori con quelli del proprio capitalismo: roba da nazional –“rivoluzionari” e da destra controrivoluzionaria effettiva!

Detto ciò, va ugualmente chiarito che il fervore improvviso della magistratura e di altri al suo seguito desta più di un sospetto.

Non perché la questione non esista, ma per l’esatto contrario! L’Ilva marcia con tutti i suoi guasti da un bel po’ di tempo e per lunghissimo tempo, durante il quale la classe operaia ha subito, nessuno si è mosso, né la magistratura né rappresentanti dell’ambientalismo o della “cittadinanza”. Quando ormai il disastro è consumato e la questione si prospetta senza possibilità di mediazioni, solo a questo punto la magistratura si sveglia per intervenire in modo drastico. E solo adesso in molti si buttano sulla “magistratura giustiziera”.

Quindi, se ci guardiamo bene dall’agitare la “difesa delle produzioni strategiche per la nazione”, al tempo stesso non siamo così sprovveduti da non pensare che la difesa della salute presa in carico da questo genere di “giustizieri” possa corrispondere all’input di un attacco concorrenziale di industrie e di Stati sostanzialmente interessati a mettere in ginocchio un concorrente di peso.

L’interesse strategico della classe operaia sta invece nel posto di lavoro e nelle condizioni del suo svolgersi. La produzione siderurgica è necessaria per la soddisfazione di reali, importanti e diversificati bisogni sociali e non la associamo minimamente alla categoria delle produzioni inutili (ma profittevoli – e quindi salutarissime quand’anche nocive – per il capitalismo) che non avremmo remore a dismettere. Il capitalismo concepisce esclusivamente la produzione che crei profitto (come è dimostrato dal gonfiarsi degli “investimenti finanziari” in tempi di crisi); il comunismo orienterà la produzione alla esclusiva soddisfazione dei bisogni sociali e la umanizzerà eliminando la finalizzazione impostale dal capitale.

E’ da questo punto di vista che la classe operaia è interessata alla non dismissione delle attività produttive portanti e lo è alla sola condizione di assumere la rivendicazione piena di strumenti e condizioni di lavoro accettabili per sé e per la città circostante.

Cosa significa la bocciatura referendaria della proposta di chiusura dell’Ilva

Per quanto detto non accettiamo che la soluzione del problema possa stare nella dismissione della produzione, attraverso la chiusura tout court, oppure la cessione/svendita o, associata all’una o all’altra, attraverso la palla delle “attività sostitutive” più o meno “green” (i servizi, il mare, il turismo...). Ma il nostro no alla dismissione è tutt’uno con il no a subordinarsi alle leggi del profitto a scapito del salario, della salute, dell’ambiente.

Anche i tarantini hanno bocciato la chiusura. In meno del 20% sono andati a votare, con uno scarso 16% degli aventi diritto che hanno detto sì alla chiusura totale (81,29% di 19, 55% votanti). Francamente risibile il commento del nostro Gianmaria, per il quale 27.506 SI alla chiusura totale su 173.061 votanti sarebbero comunque, “dove l’astensionismo è la regola” (ma alle politiche c’è andato il 64% e ce lo dice lo stesso Leone), “un segnale da cui partire”... per arrivare a chiudere l’Ilva.

Noi salutiamo la bocciatura referendaria non per dire che “va bene così”. Il risultato referendario significa che gli operai e una larga fetta della popolazione sentono la priorità del lavoro. Non è questa una posizione di attacco (e neanche di difesa minimamente sufficiente) da parte della classe operaia, ma è comprensibile e va raccolta nella prospettiva e per contribuire concretamente alla rimessa in campo di un vero protagonismo operaio a difesa intransigente dei propri interessi (mai come in questo caso coincidenti, se veramente presi in carico a 360 gradi, con quelli dell’intera parte non sfruttatrice della popolazione).

Sappiamo che il problema ambientale di Taranto è drammatico. Solo il cinismo criminale delle leadership capitalistiche le porta a dichiarare che “si fa tutto questo casino per qualche insignificante aumento delle percentuali di malati di cancro, roba da matti”. Questo pensano i capitalisti, che, a differenza degli operai – che a Taranto ci lavorano e ci vivono –, si arricchiscono bensì sulla produzione che si fa a Taranto ma vivono dove vogliono, ben lontani dai luoghi che inquinano e di volta in volta in quelli più ameni e ospitali per essi. Peraltro solo sporadicamente è trapelata qualche incauta dichiarazione del genere sopra riportato rappresentativa del reale pensiero dell’establishment capitalista. Oggi costoro condiscono molto più accortamente le proprie petizioni con formali dichiarazioni sulla salute da tutelare, visto che si tratta di aggirare una serie di ostacoli per poter preservare la produzione “strategica” e gli ancor più strategici profitti, continuando a far digerire a un’intera popolazione il rospo di un inquinamento assassino.

Quale difesa di ambiente e salute

Noi prendiamo in carico la questione ambientale al suo massimo livello di importanza, come questione di sistema e cioè nella sua effettiva realtà e dimensione. Abbiamo scritto sistema e non “modello di sviluppo”, nel senso che la questione ambientale non mette in causa i “modelli” ma il capitalismo stesso. Capitalismo e profitto sono inconciliabili con la tutela dell’ambiente e della salute, per un capitalismo che si nutre dell’antagonismo irresolubile tra esigenze contrapposte e le gestisce con il ricatto contro le classi dominate. Quello che imputiamo agli ambientalisti è l’idea di poter preservare l’ambiente e la salute non già mettendo in causa il capitalismo e dichiarandogli guerra, ma favoleggiando di un suo diverso “modello”, di una produzione comunque regolata dal profitto e che però non inquinerebbe e non farebbe ammalare. L’idea di un “capitalismo pulito” in realtà impossibile, perché il profitto inquina la vita sociale e l’ambiente, e può farlo doppiamente in assenza di un programma di lotta che lo combatta in quanto sistema marcio da rottamare, e ancor meglio se altri programmi in campo lo accreditano della capacità di rigenerarsi secondo i canoni della “sostenibilità ambientale”.

A cosa si riduce l’istanza della chiusura dell’Ilva nel contesto di un’idea di “capitalismo pulito e sostenibile”, dunque da preservarsi purché con queste supposte caratteristiche? Si traduce nel fatto che i Riva, lo Stato “nazionalizzatore” o altri per essi possono e devono andare a lucrare i loro profitti, suppostamente “puliti”, in un altro luogo. Si traduce, secondo una certa logica, nel fatto che magari di luoghi “altri” ce ne è a bizzeffe se non nella civile Europa, sì invece in tante aree periferiche del mondo dove non si andrebbe troppo per il sottile pur di garantirsi una “opportunità di sviluppo”. Chiudere il Petrolchimico di Marghera, l’Italsider di Bagnoli, ora l’Ilva di Taranto, separando e non unificando la questione ambientale con la questione di classe e di sistema, significa dire che i profitti sulla siderurgia, cioè la continuazione del ciclo dell’inquinamento, vanno spostati altrove, “altrove da me”, “altrove da noi”.

Beninteso, quella posta dalla popolazione di Taranto (“qui si muore e non si può andare avanti così”) è un’istanza drammatica che trova fondamento in una inaccettabile realtà. Un’istanza giusta, che non banalizziamo affatto, e che però si indebolisce e si annulla se non va oltre di ciò, se si limita a registrare che “qui non si può andare avanti”, senza porsi il problema di mettere in discussione insieme all’inquinamento locale (magari da spostare “altrove, perché qui...”) la stessa produzione per il profitto, cioè la ragione dell’inquinamento e del male. Su queste premesse il contropiede dei padroni è scontato e micidiale: “dunque volete che l’ottavo gruppo siderurgico al mondo, che oggi è italiano, ceda la sua quota di mercato ai concorrenti stranieri, che ne sarebbero felicissimi e non aspettano altro?”.

La produzione siderurgica è necessaria ed è anche comprensibile che sia organizzata in prossimità dei porti. Ma da qui si innesta la logica criminale e l’altrettanto criminale anarchia del capitalismo per cui abbiamo un polo siderurgico che è tutt’uno con la città di Taranto, e che inoltre, secondo il calcolo e la morale capitalistica, ha omesso da sempre qualsivoglia misura di sicurezza del lavoro e di preservazione della salute degli operai e dell’ambiente circostante, cioè della città di Taranto.

Non si tratta di considerare in questa sede (quand’anche oggi in astratto) quali potranno essere le soluzioni per rimediare ai disastri creati dal capitalismo ristabilendo la necessaria distanza di sicurezza tra polo produttivo e abitato cittadino. Quel che invece è certo, oltre che storicamente provato – a conferma dell’inscindibilità tra questione ambientale e questione di classe –, è che l’unico risanamento ambientale reale della fabbrica e del territorio è quello che è stato preso in carico e conquistato dal protagonismo di lotta della classe operaia e del proletariato contro i padroni e contro lo Stato che ne tutela gli interessi (che così è, quand’anche si attivino certe inchieste della magistratura). Viceversa è noto che la chiusura di Bagnoli ha lasciato a Napoli un cumulo di non meno inquinanti macerie e rifiuti industriali.

Contro il ricatto, imponiamo insieme continuità del lavoro e vere opere di radicale bonifica

Ovviamente la non dismissione dell’Ilva, per noi inscindibile dalle condizioni dette, non è questione che possa essere caricata sulle spalle dei soli operai siderurgici di Taranto. La classe operaia del siderurgico e tarantina in generale, i lavoratori e il proletariato tutto, non solo quelli di Taranto, devono/dobbiamo pretendere l’immediata realizzazione di tutte le necessarie opere di bonifica della fabbrica, devono/dobbiamo imporre con una lotta determinata che si realizzino i sistemi di sicurezza del lavoro e di tutela della salute, quelli più avanzati ed efficaci che esistono, quale ne sia il costo e anche ai costi più elevati. E’ questa la vera e unica presa in carico della questione ambientale: umanizzare l’attività produttiva, tutelando i produttori e l’ambiente di fabbrica e generale senza doversi sottomettere ai calcoli del tornaconto padronale a scapito di ambiente e salute.

Per fare questo è necessario che il proletariato riprenda con determinazione la via della lotta. Occorre rigettare il ricatto: “o accetti un lavoro e la tua città inquinati o perdi il lavoro”. Dobbiamo pretendere e imporre con la lotta sia il lavoro e sia – immediatamente – la tutela della salute e dell’ambiente. E’ una lotta che non si subordina alle compatibilità capitalistiche, e respinge il ricatto padronal-governativo perché si accettino le condizioni date “a maggior ragione in una fase di crisi, con scarsissime risorse e con deficit/debiti dello Stato da risanare”.

E’ una lotta che impone lo scontro con le attuali leadership sindacali, di cui Cisl e Uil accodate ai padroni nella difesa della “produzione strategica” e del “posto di lavoro” ed esclusivamente preoccupate di azzerare gli effetti delle inchieste, e la Fiom-Cgil maggiormente contrapposta ai padroni Riva ma realmente accodata alle iniziative della magistratura. Desolante spettacolo di uno “stato maggiore” sindacale in parte schierato con i Riva e il governo per “salvare la produzione” senza null’altro pretendere, e in parte schierato con la magistratura confidando che sia essa a garantire quel risanamento che la debolezza del “movimento sindacale” – e del proletariato (cui contribuiscono le politiche rinunciatarie delle leadership)– non consente di prendere in carico come dovrebbe. Un sindacato che una base operaia che fosse infine determinata a difendersi veramente il posto di lavoro e la salute propria e di tutti dovrebbe scuotere dalle fondamenta, cominciando a denunciare le situazioni tipo quella della “Fondazione Vivere Solidale Circolo Vaccarella, che si occupa delle attività del dopolavoro degli operai Ilva e che ha beneficiato dal 1996 ad oggi di un contributo economico esorbitante dall’Ilva” (vedi sul manifesto del 28/05/13). Quindi i Riva non hanno speso un soldo per mettere in sicurezza la produzione, ma hanno ben pensato di assicurarsi la compiacenza dei sindacati con elargizioni inusuali e straordinarie.

Il padronato può scaricare i Riva ma non “i principi della proprietà privata e del capitalismo europeo”

Chi metterà, dunque, i soldi per il risanamento dell’Ilva, ammesso che realmente si proceda in questa direzione (cosa di cui noi dubitiamo, a meno che un forte movimento di lotta non lo imponga e strizzi bene bene le palle a chi di dovere per far uscire tutti i soldi che occorrono, preferibilmente dai Riva piegati a tanto da una vera lotta di classe, ma anche a carico del bilancio statale il che non richiederebbe minore impegno di lotta)?

Il quotidiano confindustriale (si legga Paolo Bricco su “il sole 24 ore” del 31/05/13) mette le mani avanti contro ogni ipotesi di “nazionalizzazione” e contro “i magistrati azionisti de facto”. Rivendica che nella soluzione del problema va garantita “la proprietà privata, il criterio imprenditoriale e una governance basata sui principi del capitalismo europeo”. Nei giorni succcessivi lo stesso Bricco si è messo a strillare dalle stesse colonne e con gli stessi argomenti contro il “commissariamento”. In nessun caso ha rivendicato con pari determinazione la competenza dei “proprietari privati” a mettere sul piatto i denari che servono per gestire “imprenditorialmente” senza inquinare, lasciando la porta aperta sia alla marginalizzazione delle richieste dei “movimenti ultra-ecologisti”, sia alla preminenza delle sacre regole della “cultura dell’impresa privata” quella che non esclude e anzi al momento giusto pretende il sostanzioso supporto dello Stato perché profitto possa essere.

Chiaro il gioco dei padroni, che, ben al di là della famiglia Riva (che se necessario potrà essere sacrificata), fanno quadrato sulla linea del Piave della difesa della proprietà privata delle industrie, mentre i problemi ambientali si possono gestire da un lato calmierando “ecologismi eccessivi” e dall’altro chiamando lo Stato a farsi carico degli oneri del risanamento (ancora non viene detto fino in fondo, ma vedremo se non sarà questa la solfa).

Per noi non si tratta di plaudire ai sequestri della magistratura che vorrebbe mettere il conto del risanamento a carico dei Riva, perché, ben oltre di questo, ai padroni è necessario espropriare non il solo “equivalente” dei danni causati ma l’intera ricchezza sociale di cui si sono appropriati, in quanto prodotta e appartenente alla comunità lavoratrice, che, dopo averne assunto il controllo totalitario, possa riorganizzarne in futuro la gestione sulla base di diversi e contrapposti principi.

E’ il programma della nostra rivoluzione, non propriamente dietro l’angolo ma nondimeno da dichiararsi apertamente.

Nell’immediato viene chiesta da sinistra la “nazionalizzazione” dell’Ilva, che corrisponde peraltro all’aspettativa degli operai che così vedrebbero messo al sicuro almeno lo stipendio (non la fine dei problemi). Chi la invoca paventa che non è giusto che lo Stato metta i soldi del risanamento, lasciando ai Riva la proprietà della fabbrica risanata. Soprattutto – si dice – non sarebbe giusto di questi tempi, quando i lavoratori sono vessati dalle politiche di austerità volte a ripagare un gigantesco debito statale.

Anche con l’Ilva nazionalizzata il proletariato dovrebbe lottare per poter difendere i propri interessi

Ovvio che respingiamo anche noi ogni ulteriore regalo ai Riva e al padronato tutto, ma al tempo stesso è necessario dire che la nazionalizzazione non sarebbe la panacea dei mali. Men che meno facciamo nostra la campagna per la “nazionalizzazione di una produzione strategica”. E’ francamente ridicolo pensare che “Stato” e “fabbrica nazionalizzata” equivalgano a preservazione della produzione strategica con tanto di garanzie per i lavoratori, risanamento e “capitalismo pulito”.

Lo Stato, infatti, è compartecipe e corresponsabile non solo dei “reati” dei Riva, ma anche di quelli riferibili alla propria diretta gestione. L’abbraccio mortale tra l’Ilva e la città di Taranto si è prodotto quando l’Ilva era una fabbrica dello Stato. Lo Stato e l’Ilva ante-privatizzazione sono i primissimi responsabili del disastro che abbiamo sotto gli occhi e delle morti nel tempo dei lavoratori e degli abitanti di Taranto.

Quand’anche nazionalizzata, l’Ilva resterebbe pur sempre e sia pur in diverso modo l’appannaggio esclusivo della medesima classe capitalistica, che domina lo Stato e gestisce come “cosa propria” ogni spazio pubblico (non a caso è Confindustria di Taranto a farsi avanti con le dichiarazioni più spinte contro i Riva rivendicando un proprio ruolo per la gestione futura).

Come si fa a credere che nazionalizzazione significherebbe risanamento? Come si fa a pensare che sull’Ilva nazionalizzata pioverebbe la manna dei denari pubblici necessari? Non sarà piuttosto che come vengono finanziate le banche e lasciati a secco gli esodati, così occorrerebbe lottare contro lo Stato e l’intero fronte padronale (così come è necessario farlo oggi contro i Riva e tutto il resto detto) per poterci conquistare solo e unicamente con la lotta la difesa del lavoro, della salute e dell’ambiente? E non sarebbe una conquista di portata generale se lo Stato, proprio di questi tempi, fosse costretto con la lotta a destinare i soldi non per sostenere il Monte dei Paschi ma per risanare l’Ilva e Taranto?

Anche qui noi riteniamo che, a fronte di una situazione drammatica, non esistono scorciatoie. Tali sono, sui diversi fronti di un problema assunto per separati e contrapposti corni e non invece nella sua unitaria dimensione e possibile soluzione, i referendum ecologisti, gli accodamenti alle inchieste della magistratura o alla proprietà aziendale e relative protezioni governative, e finanche le ipotesi di nazionalizzazione (sia detto senza fare di ogni erba un fascio, ma individuando un limite comune alle diverse reazioni comunque riscontrabili o con un qualche ascolto nel nostro campo).

Scorciatoie “realistiche”, si potrà dire, che scontano l’attuale debolezzza del movimento di classe, scartando per questo l’unica possibilità reale che prima o poi invece dovremo ri-prendere in carico con decisione: la lotta e soltanto la lotta per la difesa intransigente dei nostri interessi di classe.

La drammatica situazione dell’Ilva e di Taranto sono lì a segnalarci come non c’è un secondo di più da perdere per prendere in carico questa necessaria determinazione!

13 giugno 2013