nucleo comunista internazionalista
note




Per cogliere il senso non contingente dello scontro in atto e della posta che ne viene rimessa in gioco occorre collocare le vicende che scuotono l’economia globalizzata in un’ampia visione – retrospettiva e di prospettiva – del corso storico del capitalismo e della sua crisi. E’ a questo livello (di impostazione dei problemi e delle risposte) che può e deve essere superato l’attuale disorientamento del proletariato e delle forze che ad esso si richiamano.


MONTI COLPISCE I LAVORATORI IN NOME DEGLI INTERESSI
DEL CAPITALISMO NAZIONALE ITALIANO

DESTRA “SOCIALE” E “SINISTRA RADICALE”
DENUNCIANO LA SOTTRAZIONE DI SOVRANITA’ NAZIONALE
SECONDO UN ASSE NAZIONAL-POPOLARE UNICO

RILANCIAMO IL PROGRAMMA DI CLASSE
UNIFICHIAMO LA LOTTA DEI LAVORATORI DI TUTTE LE NAZIONI
CONTRO LE PROPRIE BORGHESIE E I PROPRI STATI


Le note che seguono sono dedicate alla questione del governo Monti, alla condizione del proletariato di fronte ad esso, alle risposte della “sinistra” sindacal-politica contro le sue misure antiproletarie nello scenario europeo segnato da dinamiche impulsate dalla spinta unitaria della crisi con risposte della nostra classe tuttora separate e chiuse nei recinti delle singole nazioni.

Per l’Italia il nostro riferimento va allo sciopero dei sindacati di base del 27 gennaio, a quello metalmeccanico del 9 marzo, ai rappresentanti sindacali, sia “extra-confederali” (Unione Sindacale di Base e altri) e sia della Fiom e di altre categorie della Cgil, che si sono autoconvocati – da ultimo il 26 maggio a Roma – per organizzare la mobilitazione contro il governo Monti, agli attivi e alle assemblee indetti dalla Fiom per ribadire la propria opposizione ai provvedimenti Monti-Fornero nonostante e contro la posizione della segreteria confederale.

L’esecutivo in carica è sostenuto in parlamento dai voti del Partito Democratico e nei posti di lavoro e nelle relazioni sociali più ampie dal sindacalismo “concertativo e complice”, quello di Cisl-Uil e Ugl, che già tale è stato nei confronti del governo Berlusconi, e ora nuovamente di Cgil-Cisl-Uil e Ugl in ricomposta unità. Con la staffetta da Berlusconi a Monti, e l’appoggio del PD al nuovo esecutivo, il vertice di Corso Italia ha azzerato ogni precedente chiamata allo sciopero, di fatto avallando la nuova stangata sulle pensioni, la controriforma dell’articolo 18, la gragnuola di tasse in arrivo, per non dire della generalizzazione dell’attacco al CCNL promosso dalla Fiat ben oltre gli accordi sulla riforma della contrattazione infine sottoscritti dalla stessa Cgil.

La questione di come organizzare la lotta contro il governo Monti non è affatto semplice. I tornanti della crisi capitalistica non danno tregua. Ciò non significa che si corra verso un crollo finale da attendersi a breve. Significa però che gli equilibri economico-sociali-politici (e relativi complessivi “stili di vita”) radicatisi nei paesi occidentali in un lungo ciclo di stabilità che abbiamo alle spalle, vengono sempre più scossi dalle fondamenta e cadono ora come castelli di carte, mettendo a nudo – all’immediato – l’incapacità del proletariato non solo di reagire, ma finanche di orientarsi nel cambio di scenario, di riconoscere (e prima ancora di concepire in quanto crudamente riproposti) i termini effettivi dell’attacco che invece è obbligato a prendere in carico (necessaria premessa di uno spinoso percorso di riconquista della propria coscienza di classe che lo risollevi dall’attuale annichilimento politico, ché di questo propriamente si tratta).

All’assemblea del 26 maggio più sopra citata lo sporadico intervento di un lavoratore chiedeva perché mai ci si fosse inventati il termine di “sindacalismo conflittuale” per scansare e omettere il concetto di sindacalismo di classe, di cui invece c’è urgente bisogno. Concordiamo fino in fondo con l’istanza polemica posta all’intera assemblea da questo operaio, nel mentre mettiamo le mani avanti sulle scorciatoie. Perché ci sia un vero sindacato di classe, occorre una politica di classe, che tra l’altro giammai ometta la necessità del partito. Secondariamente non è un’operazione puramente terminologica, non si tratta di rispolverare in superficie un linguaggio classista (scaricando meritatamente al cesso tutti quei neologismi ambigui e “inclusivi” che anche a noi generano sincero disgusto...), ponendo il tutto però al servizio di ogni sorta di forzatura, supposta come immediatamente risolutiva della difficoltà in cui ci troviamo. La questione è di sostanza (alla quale devono corrispondere i termini) e nella sostanza deve essere presa in carico. Solo in tal senso non ci dispiace che gli spezzoni di sindacato confluiti in assemblea il 26 maggio, dei quali peraltro ci sentiamo e siamo parte in quanto lavoratori, non si rivendichino come il “sindacato di classe” bell’e pronto, così associando al nome un impegno senz’altro meritorio nel prendere in carico l’organizzzazione dell’opposizione sociale al governo Monti, ma tuttora segnato da decisive reticenze nell’orientarsi senza incertezze (meramente tattiche?) verso la per noi obbligata prospettiva di classe da costruire e rimettere al centro.

Il governo Monti merita una considerazione particolare. Non è un esecutivo come gli altri che lo hanno preceduto e il passaggio che demarca va analizzato. In genere ce la si cava con consolidate semplificazioni, che colgono – parzialmente – singoli aspetti, ma il tutto avviene nel difetto di una ricognizione che vada oltre la superficie delle cose. Si lamenta che il governo Monti non sia stato votato dal parlamento e quindi dagli “elettori sovrani”, che la sua nomina sia avvenuta nel dispregio della “nostra Costituzione democratica”, che esso sia stato imposto “dall’Europa” oppure da altri ancor più lontani e sovradeterminanti poteri esterni. L’appello finale dell’assemblea del 26 maggio lo denunciava ancora una volta come governo imposto dalla troika BCE, Unione Europea e FMI. Un compagno è salito sul palco a dire che occorreva aggiungere “le banche e il padronato”, nel senso di banche italiane e italiana Confindustria. A tutta l’assemblea è subito sembrata madornale la dimenticanza e ovvia l’integrazione, dunque istantaneamente accolta. Ma a noi non sfugge la sensazione di genericità e confusione che si rivela anche in questo piccolo episodio. Insomma non crediamo tempo perso proporre ai nostri lettori l’impegno alla collettiva riflessione, irrinunciabile e non separabile dai passaggi di mobilitazione.

Chi commissaria chi

Abbiamo richiamato in precedenti note la schiera di quanti, a sinistra e a destra, vedono nel governo Monti un governo “impostoci” da governi e istanze stranieri. Nell’articolo “Ei fu”: famelici eredi in arrivo, abbiamo dato conto di come le denunce di un Marcello Veneziani e di un Giulietto Chiesa (di un “governo commissariato dall’economia che nasce per volontà della borsa...”, di “una terza repubblica che annuncia di voler cancellare la sovranità nazionale italiana”, di “assoggettamento del nostro paese a un governo straniero e ostile...”, etc. etc.) sostanzino lo stesso discorso svolto contemporaneamente da destra e da “sinistra” lungo un asse nazional-popolare unico.

Torniamo sul punto perché vi scorgiamo tuttora il primissimo pericoloso punto di caduta.

Noi riteniamo superficiale e impreciso, oltre che pericoloso, agitare a vuoto la denuncia del governo Monti in quanto governo imposto all’Italia dal diktat di poteri “esterni” e “stranieri”. In tal modo si alimenta il terreno a cui lavora con metodo la destra “sociale” con pose “rivoluzionarie” (del piffero...1), quella che prende in carico con una certa determinazione le sofferenze “del popolo” per annichilire la risposta di lotta dei lavoratori nella revanche dell’indistinta nazione contro lo straniero che “ci minaccia”. Una destra che getta continui ponti alle “estreme sinistre” (del pifferissimo quelle che li calcano), perché, annullandosi, confluiscano infine su questo terreno (di rinuncia alla consegna della lotta di classe e di irreggimentazione dietro le insegne della patria oltraggiata).

Noi non neghiamo che la situazione data possa offrire appigli a una considerazione di questo tipo. Non ignoriamo il cosiddetto commissariamento (che proviene però da istanze cui la commissariata Italia ben partecipa). Ne vediamo gli effetti non solo sul proletariato, ma sull’insieme del popolo, borghesi compressi compresi. Quello che riteniamo imperdonabile è che si pensi di aggirare l’indubbia difficoltà di mettere in campo la nostra risposta di classe, raccogliendo dalla superficie degli eventi quanto appare di più facile e immediata ricettività, senza curarsi di misurare dove vadano a parare le tirate che si presentano più in linea con il senso comune immediato di una platea nostra disorientata e deprivata di ogni suo punto di riferimento.

Non ci riferiamo, sia chiaro, agli esponenti organici del filone – a noi e al proletariato nemicissimo – del nazional-comunismo (inaugurato alla scala italica da Togliatti, una volta ribaltate a livello di casa madre moscovita le premesse del comunismo internazionalista) cui dare frontale battaglia, ma ai molti altri che senza avvedersene e magari partendo da premesse opposte rischiano comunque di finire in quel brodo.

Una demagogia, quella nazional-popolare, che addita con slancio il “nemico ostile” nella finanza, nella Borsa, nell’oligarchia, nei poteri capitalistici e padronali 2, andando incontro alla percezione immediata e alla rabbia del “popolo” (e dei lavoratori), salvo riferire il tutto a centri di potere extra-nazionali, così servendo la ricetta della coesione della nazione contro la piovra straniera che “ci” commissaria e opprime.

Marco Revelli scrive (sul Manifesto del 17/11/11) che nell’operazione Monti “il sovrano in Italia è stato Giorgio Napolitano”. Ma a livello europeo “sovrana è la BCE.... E se dalla dimensione continentale passiamo a quella globale la risposta alla domanda ’chi è il sovrano?’ non può essere che una: i Mercati”. In poche parole: i Mercati sovrani, il capitalismo, costituiscono il vero baricentro globale cui sottostanno gli assetti “sovrani” europei, e il “sovrano” Napolitano con delega a Monti.

Di questo occorre prendere atto: il nemico che ci attacca è il capitalismo. Non l’azione particolare di questo o quell’altro Stato o potere “straniero” presentato come nemico della “nostra democrazia”, della “nostra civiltà”, ma la realtà nuda e cruda di un sistema che a questo punto della sua crisi non può procedere se non nella direzione data.

“Lotta di popolo” o lotta di classe?

Gli Stati imperialisti non sono uguali – questo lo sappiamo – e non è di ugual peso la rispettiva azione, sicché il sodalizio tra l’Italia e i briganti più grossi non esclude affatto la possibilità di una reale compressione dei secondi sulla prima. Tutti essi concorrono ad attaccare il proletariato (di casa propria e del mondo intero), nel mentre i rispettivi capitalismi sono impegnati a competere in modo sempre più spinto.

Cosa dovrebbero fare i proletari, lasciar cadere le ragioni della propria risposta di classe contro l’attacco che gli proviene dalla propria borghersia, per assumere le istanze, apparentemente più a portata, del proprio capitalismo nazionale, della propria azienda, della propria nazione contro i capitalismi concorrenti che “ci” tolgono l’ossigeno? Dove sta la salvezza e la via d’uscita dei lavoratori, nella capacità del proprio capitalismo di vincere la concorrenza delle altre nazioni, oppure nel far valere gli interessi della propria classe contro quelli del capitale? Come ci salviamo, insieme e dietro ai “nostri” capitalisti, assecondandoli nella revanche contro il nemico straniero di turno che ci schiaccia nelle istanze internazionali e sui mercati, oppure contro il nostro nemico interno, la nostra borghesia, in quanto partecipe (non di primissimo rango, e sia!) dell’intera impalcatura sovranazionale del capitalismo?

Chi ci sta presentando il conto di un enorme debito da pagare (oltre a tutto il resto) è la nostra italianissima borghesia e il suo Stato che quel debito hanno creato a vantaggio della privata (quand’anche pubblica e “di Stato”) capitalistica accumulazione, lasciandolo sulle nostre spalle.

I borghesi additano le responsabilità di un fin troppo generoso ed eccessivo sistema di welfare e invocano tagli drastici alla spesa sociale, alle pensioni, ai salari.

E’ questo l’attacco reale al quale dobbiamo rispondere.

Invece si preferisce scantonare, dicendo che il debito può non essere pagato, che basterebbe stampare moneta per mandare tutto a posto, che il debito potrebbe pur crescere all’infinito (magari perpetuando anche certe cointeressenze per determinati settori di lavoratori...) e anzi proprio questo sarebbe il momento in cui la spesa statale torni ad essere leva di una crescita risolutrice.

La nostra borghesia e il suo governo di “tecnici” certamente non sono soli a condurre l’attacco. Essi sono spalleggiati dalla borghesia imperialista del mondo intero e dal fronte internazionale dei loro stati e governi. Ciò rende “i nostri” più determinati e spietati nel perseguire i propri obiettivi. Ma il fatto che essi siano coadiuvati e spinti ad agire da tutte le troike sovranazionali che si vuole (nei cui consessi concertano le politiche da attuare) non significa che la classe operaia sia chiamata a mettere in secondo piano la denuncia del proprio capitalismo (che agirebbe sotto la dettatura/dittatura “di altri”), né tantomeno che questo servirebbe a unificare la lotta internazionale dei lavoratori dei diversi paesi (ché semmai ciò prelude all’incanalamento della protesta nell’opposta direzione).

Il governo Monti agisce sia per conto del capitalismo nazionale e sia per conto della impersonale esigenza di risanamento del debito (prima lasciato correre a livelli stratosferici) in funzione della salvaguardia del traballante sistema finanziario mondiale (di cui la finanza italiana è non infima parte). I mercati sovrani che pretendono il risanamento sono i centri di potere (le banche in primis) che detengono rilevanti quantitativi di titoli e non possono reggerne la svalutazione (in alcuni casi verso lo zero). Sono i grandi capitalisti che hanno sempre usufruito dei bilanci statali come serbatoi da cui prelevare e dove scaricare all’occorrenza le perdite, e che non possono ammettere che gli Stati divengano pagatori incerti nei loro confronti, cessando di assicurargli cedole di qui all’eternità.

E’ molto comodo per la borghesia imperialista di ogni latitudine deviare la rabbia dei proletari per la gragnuolata di colpi che arriva, attribuendo il tutto a “oscuri centri di potere stranieri”, alla “speculazione internazionale”, a governi di altri paesi, responsabili essi di introdurre limiti e ricette generali contrari al “nostro” interesse nazionale, o, più semplicemente, dicendo che il tutto “è imposto dai mercati” (vero) come se lorsignori nulla c’entrassero (falsissimo). Nostro compito dovrebbe essere quello di diradare le nebbie di queste genericità immancabilmente “esterne” e “altre”, per mettere a fuoco nella denuncia i soggetti e i contenuti concreti dell’attacco che ci colpisce: ovvero il sistema capitalista e il nemico interno in casa nostra come primissima espressione di esso (in assenza di lotta contro di essi, e alzando il volume soltanto contro le troike “straniere”, non contrasteremo proprio niente dal punto di vista degli interessi della nostra classe).

L’Italia non è l’Irlanda, non è la Grecia, non è l’Argentina

L’Italia, fino a prova contraria, fa parte (non a capotavola e sia!, ma neanche come il domestico che si vorrebbe far credere) di tutte le troike chiamate in causa. A presiedere la BCE c’è un certo Draghi e quando si dice BCE, UE, FMI (e si potrebbe proseguire con ONU, NATO, etc.) si dice anche Italia. Forse l’Italia in questi consessi va a sottomettersi come faceva il vassallo con il suo signore, o non è piuttosto che vi partecipa (nelle seconde linee gerarchiche, va bene! e si dica pure da “sottoposta”, ma pur sempre) per dare forza alla sua proiezione imperialista sulla scena internazionale, come non possono scordare le popolazioni dei paesi concretamente minacciati e aggrediti anche dai “nostri” eserciti, accorsi in loco per sgombrare il campo da intralci avvertiti come intollerabili per le scorribande dei “nostri” capitali (Albania, ex-Jugoslavia, Iraq, etc.)?

L’Italia non è l’Irlanda, né è la Grecia. Abbiamo sentito dire “da sinistra”: “vogliamo fare come l’Argentina”, che ha potuto riprendersi dalla crisi disancorando la sua moneta dal dollaro e ora ri-nazionalizzando le industrie prima “liberalizzate” a vantaggio dei capitalisti europei. Ma i margini che la borghesia argentina può, nella contingenza data, puntare a ricontrattare nei confronti degli imperialisti che hanno alle spalle secoli di dominazione del continente latino-americano sono altra cosa rispetto ai margini che l’Italia potrebbe conquistare rosicchiandoli ai concorrenti imperialisti (concordiamo peraltro che negli ultimi tempi ne ha persi e anche parecchi, ma non può essere questo un cruccio nostro). L’unico senso in cui l’Italia potrebbe fare una cosa del genere non sarebbe quello di “fare come l’Argentina”, perché sarebbe invece “fare come fece l’Italia di Mussolini”, cioè andarsi a prendere il proprio “posto al sole” irrobustendo le proprie spalle imperialiste contro i paesi dominati e ricontrattando su queste basi di forza con i concorrenti-sodali termini e condizioni della gerarchia imperialista. E’ bene che i “comunisti” si soffermino su questo.

D’altra parte i proletari e i comunisti in Argentina o altrove non sono affatto chiamati ad annullarsi politicamente dietro i vessilli nazionali delle proprie borghesie alle prese – esse (anche esse...) sì – con i tentacoli della dominazione imperialista. Valga per tutti il caso jugoslavo. La Jugoslavia e la Serbia si sono trovate a fronteggiare una spaventosa aggressione imperialista, che i proletari per primi erano chiamati a contrastare. L’averlo fatto fin troppo debolmente dietro le insegne del micro-nazionalismo serbo dei Milosevic, e non con ben altra forza sulle distinte e contrapposte trincee di classe, ha precluso ad essi (per responsabilità non esclusiva né prevalente del proletariato della ex-Jugoslavia) di mettere in campo l’unico argine che avrebbe potuto fermare l’imperialismo, quello della unitaria resistenza all’aggressione da parte dei proletari delle pseudo-micro-nazioni che si puntava e si è riusciti a dividere.

Contro USA ed Europa del capitale

Peraltro le tirate nazional-popolari “da sinistra” si portano dietro il segno di un’analisi fin troppo pasticciata e superficiale delle contraddizioni inter-imperialistiche in corso alle quali si riferiscono (ché di questo si tratta, altro che Italia come Irlanda e Argentina!).

Giulietto Chiesa, perlomeno, nell’articolo già da noi citato si riferisce correttamente all’aggressione USA. Alla sua “sinistra” ci sono personaggi che evocano, invece, il solito e ricorrente “pericolo tedesco” (il teutonismo quale sinonimo intrinseco di nazismo strisciante: lo disse anche Benedetto Croce, e allora siamo a posto!). Secondo Marco Rizzo, segretario dei fantomatici Comunisti-Sinistra popolare, “Il governo Monti è la diretta emanazione del capitale finanziario, della BCE e del potere carolingio franco-tedesco che c’è oggi in Europa” e ”L’Italia ahimé sarà ridotta a una sorta di colonia” (sul Giornale del 7/12/11). La consegna risulta, quindi: liberiamoci dai vincoli “carolingi” europei del Sacro Teutonico Impero, cominciando col gettare a mare “il pareggio di bilancio” con cui ci si vuol soffocare, che suona da “inique sanzioni”, come qualche altro avrebbe detto, ma, correttamente dal suo punto di vista, da competitore imperialista.

Sul Manifesto del 9/12/11 Mario Pianta la mette in modo diverso: siamo “europeisti convinti” e perciò facciamo un discorso pro-europeo e non isolazionista, ma “questa Europa va riformata”. E come? Prendendo sempre le distanze dai... carolingi che minacciano di soffocarla. Quale ricetta allora: “Berlino o Washington?” (leggere per credere!): “Il potere economico tedesco sta trascinando l’Europa in una grande depressione, quella che la politica americana vuole evitare a tutti i costi”; “Oggi lo scontro è tra politiche di austerità e ripresa”. La ricetta buona sarebbe quella di imitare le misure “per la ripresa” degli USA con un’ ”enorme emissione di liquidità”.

Quindi i teutonici impongono misure da “stretta”, mentre gli USA caldeggerebbero contro-misure “rilanciste”. Ci limitiamo a considerare come, semmai, la depressione europea costituisca largamente materia d’importazione dagli USA nel quadro di un assetto imperialista entro cui i margini “rilancisti” USA trovano nella propria struttura da superbig industriale-finanziario (e militare) ben altri coefficienti di quelli a “nostra” disposizione, e come i pretesi “aiuti” USA a tamponare i “nostri” default rappresentino piuttosto una rapace mano predatrice, con la Germania e le sue proiezioni verso l’Est Europa e l’Asia che costituiscono un ghiotto boccone cui mirare. A questa stregua l’insegna Washington contro Berlino suona molto sinistra (in senso tutt’altro che politico). E’ un discorso da affittanza che probabilmente potranno far proprio campioni alla Asor Rosa: già altre volte i magnanimi USA ci hanno liberati dall’incubo tedesco e quindi: bentornati paisà! E lasciamo pure da parte tutte le chiacchiere “rilanciste” basate sull’irrilevanza del debito pubblico, che si tratterebbe semplicemente di ignorare...

Molto più a sinistra di certa “estrema sinistra” si colloca Libero, che, offrendo una lettura più “marxista” del problema, quanto alla “causa prima” della “nostra” crisi va dritto all’epicentro del fenomeno, cioè agli USA, il malato rapace che ci soffoca e contro cui bisognerebbe come italiani ed europei reagire (vedi gli articoli sul numero del 4/12/11). Inutile dire in che ci distanziamo le mille miglia da un discorso simile: non siamo quelli della “sveglia europea”, ma del risveglio proletario contro USA ed Europa del capitale, due iene competitrici dello stesso sistema “combinato e diseguale”! Volendo, però, abbracciare le sorti dell’Europa, di questa Europa, suggeriamo a Pianta di considerare che, sul terreno da lui prescelto e da noi combattuto, la ricetta solutrice non può essere che quella di una concentrazione di poteri nelle mani di chi oggettivamente ne tira le fila, senza troppi complimenti per le “autonomie” nazionali e “sforamenti” rispettivi. Un’Europa ferreamente concentrata e centralizzata nella sua direzione industrial-finanziaria e politico-militare. Contro Wahington e contro le “autonomie nazionali” che vi scodazzano dietro.

Governi “tecnici”: una novità non circoscritta all’Italia

La repentina staffetta da Berlusconi a Monti segna indubbiamente una stretta centralizzatrice non circoscritta all’Italia e comune a più di un paese europeo. E’ inoltre un ulteriore passo in avanti del capitalismo italiano nel tentativo (sempre più obbligato) di porre rimedio ai propri ritardi storici, quelli che lo connotano come imperialismo a scartamento ridotto rispetto ai più solidi e strutturati capitalismi maggiori con i quali è chiamato a competere. Ritardi che si identificano con una maccchina statale ipetrofica, inefficiente, con scarsa concentrazione del potere di decisione politica.

Volendo circoscrivere il richiamo retrospettivo al passato più recente, ricorderemo che il forte sviluppo economico dell’Italia nel dopoguerra e nei decenni della ricostruzione ha prodotto, man mano che si esaurivano le premesse contingenti del boom di un dato periodo, effetti distorsivi della struttura capitalistica, dove, per tenere sotto controllo una classe operaia ben organizzata e disposta a battersi per il miglioramento della propria condizione, il capitalismo italiano è stato piegato a numerose concessioni e soprattutto ha dato luogo alla creazione di pletoriche strutture preferibilmente allocate nella pancia statale (ma poi anche in quelle parastatali, territoriali, locali e quant’altro), sul presupposto che si potesse andare avanti su questo trend continuo. Va da sé che non si è trattato semplicementre di largheggiare nel tacitare le istanze sociali di occupazione e reddito, perché l’illusione di uno Stato Pantalone capace di pagare all’infinito ogni genere di conto è stata assunta innanzitutto dalla borghesia per saziare la sommatoria inestricabile dei propri appetiti e quindi poi per mettere in conto allo Stato la pletora infinita dei propri servitori e clientes, veri e propri burocrati del capitale (distorto...) mantenuti dal lavoro della classe operaia.

Da tempo non è più possibile procedere in questa direzione e oggi il capitalismo italiano paga il sostanziale consociativismo (consociativismo sociale) dei decenni trascorsi, ponendosi, a boom economici sfumati da quel dì, la necessità di un suo complessivo ri-attrezzaggio e di una forte ristrutturazione.

Ciò avviene in un contesto in cui da più parti, non solo in Italia, proliferano di punto in bianco i governi “tecnici” come veicolo di un accentramento direttamente politico che possa operare per l’adeguamento e l’accentramento della struttura economica, con la novità, non solo italiana, di partiti già in lotta feroce tra loro che di punto in bianco si ritrovano assieme, finanche al governo, per le esigenze impersonali, assolute, indeclinabili del capitalismo.

Il governo Monti è nato in parlamento con gli auspici di una “maggioranza bulgara”. Ma, se i “bulgari” classici erano quelli che schiacciavano le opposizioni in nome del totalitarismo “comunista”, qui, le stesse maggioranze parlamentari elette si schiacciano sulle opposizioni, e viceversa, ad onta degli “abissi” – sulla carta – tra loro. Resta, evidentemente, il fatto totalitario, dove il “bulgaro” che impersonalmente comanda e unifica le parti politiche sotto il suo comune disegno altro non è che il “superiore interesse della nazione”, la dittatura del capitale che ingloba tutti i partiti borghesi (non sfuggono né destre né “sinistre”), allineandoli alla necessità di accentramento. La visione del governo tecnico significa, quindi, che la finzione delle distinzioni politiche (nell’unico campo borghese) deve sparire, devono sparire gli impedimenti reciproci, il pestarsi i piedi l’uno con l’altro promettendo mari e monti, che poi significa pestare i piedi al capitalismo.

Se in Italia incredibilmente PD e PDL sostengono Monti, altrove in Europa si sono visti passaggi del tutto analoghi. In Spagna Zapatero, già osannato dalla “sinistra” nostrana come nuovo astro nascente, dopo aver preso sonore misure anti-proletarie, ha realizzato anch’egli una sorta di “passaggio tecnico” a favore del centro-destra. Un passaggio alla destra (vittoriosa al voto, nonostante le piazze indignate di Spagna) avvenuto con larga condivisione sulle cose da farsi, dove il partito socialista non oppone niente al nuovo governo dal punto di vista del rovesciamento dei rapporti di forza e della prospettiva.

Stesso verificheremo (si accettano scommesse) del nuovo campione Hollande, che tutto realizzerà tranne quel cambio sostanziale preconizzato dal Manifesto. Come se il partito socialista francese fosse sganciato dai poteri forti che ora si appresterebbe a contrastare, mentre invece noi riteniamo che ci sarà un largo compattamento con gli sconfitti su alcuni punti essenziali. Anche in Grecia il Pasok aveva vinto le elezioni e si è visto di cosa è stato capace, fino a rendersi disponibile alla formazione di un governo tecnico. Tanto per dire del fondamento di certe illusioni riposte sulle vittorie elettorali di turno delle coalizioni centro-sinistre europee (Zapatero, Papandreou, ora Hollande e anche la greca Syriza, che propriamente non saprebbe che pesci pigliare), fino al ribaltamento completo delle aspettative suscitate e raccolte nel voto, e quindi ai governi – o passaggi di staffetta – “tecnici”. In Germania poi la Grande Coalizione data da qualche anno, ma, quand’anche la SPD dovesse alle future tornate soppiantare la Merkel, è chiaro per noi che non cambierebbero di una virgola gli orientamenti generali della Germania.

Tornando all’Italia giova peraltro ricordare il precedente, con le differenze del caso, del governo di unità nazionale datosi nel ’45 alla fine della resistenza partigiana e già in nuce nella stessa struttura del CLN, anticipazione di quanto vediamo oggi a un livello molto più avanzato in senso controrivoluzionario. Allora peraltro non l’attuale PD, ma un partito con vere radici nella classe operaia si dispose a governare insieme ai democristiani e quant’altro “per ricostruire l’Italia” (c’è sempre una “ricostruzione dell’Italia” resa necessaria da un precedente fascismo-berlusconismo...).

Il bipolarismo dell’alternanza ha fallito

Con il governo Monti, peraltro, viene al pettine la dimostrata insufficienza del cosiddetto passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Nei primi anni ’90, all’esito degli sconvolgimenti indotti da tangentepoli, la scesa in campo di Berlusconi fu il contrassegno della crisi del vecchio sistema, e le promesse del cavaliere (meno tasse, meno Stato, più spazio all’iniziativa privata) erano un segnale e una spinta in tale direzione (anche in tal senso è corretto rilevare la continuità-discontinuità tra Monti e chi l’ha preceduto cedendogli il testimone).

Appena a margine possiamo notare che già allora si sospettò lo zampino degli amici americani per far saltare per aria gli Andreotti e i Craxi, mentre oggi il professor Monti, “l’uomo di Goldman Sachs”, il tecnico che tra i vari provvedimenti ha pensato bene di onorare a favore di Morgan Stanley contratti in derivati per svariati miliardi di euro i cui costi siamo chiamati a pagare con le tasse che aumentano, sta segnando un altro passaggio che va sostanzialmente nella stessa obbligata direzione. Laddove gli zampini dei primi anni ’90 e quelli di oggi si applicano in ogni caso a una sovradeterminante (essa sì) base materiale non apparecchiabile a tavolino da nessuno, che imponeva e impone all’Italia di adeguare bruscamente la sua macchina politica alle esigenze di efficienza e – per capirci – di unidirezionata guerra di classe contro il mondo del lavoro al servizio del capitale.

Le soluzioni messe in campo dal cavaliere si sono dimostrate, però, di un’estrema fragilità dal punto di vista borghese, lasciando del tutto irrisolti i problemi (soprattutto per quanto riguarda l’opera, mai intrapresa, di disboscamento delle infinite camarille clientelari che gonfiano lo Stato e inceppano la macchina produttiva). Mentre il ventennio bipolarista alle nostre spalle ha visto succedersi governi di centro-destra e di centro-sinistra in perenne difetto, per magagne diverse, rispetto alle esigenze di competitività dell’azienda Italia e ai desiderata di Confindustria (pur servita e riverita da entrambe le compagini).

Il governo Monti, nel mentre certifica la necessità del passaggio ulteriore (si è sentito parlare di terza repubblica), al tempo stesso, con il PDL e il PD che governano insieme, sancisce il superamento, ora compiutamente realizzato, della cosiddetta “anomalia italiana”, che (tralasciando il folclore anti-berlusconiano di certa pseudo –“sinistra”) è stata propriamente quella rappresentata da un forte partito “terzinternazionalista” di massa in un paese occidentale avanzato e prossimo alle posizioni di vertice della gerarchia imperialista.

Ci riferiamo al PCI, già disponibile al governo di unità nazionale nel ’45, e di lì a breve estromesso dai palazzi del potere, perché da un lato pesava la questione di una reale lotta di classe insopportabile per i padroni (anche per quelli che durante la “guerra di liberazione” si erano messi al collo il fazzoletto rosso) e dall’altro perché nel quadro internazionale poi andato a catafascio il PCI si presentava alla coda di Mosca (in effetti il primo disallineamento avvenne solo con il ’68 cecoslovacco, mente ancora con Berlinguer si parlava di una spinta propulsiva dell’Ottobre – segno della continuazione di un filo rosso, quello del mito del socialismo russo, presente nella stessa classe – che poi infine egli disse esaurita). Questi i motivi che impedirono per i decenni della cosiddetta prima repubblica una soluzione di pieno consociativismo politico in Italia con il PCI integrato a tutti gli effetti nel gioco istituzionale.

La bolognina intervenne ad anticipare lo tsunami, internazionale e interno, al quale la burocrazia del partitone intendeva sottrarsi. Ma l’anomalia italiana non era digeribile dal giorno alla notte. Sia perché lo scioglimento del PCI conobbe la reazione della costituzione di Rifondazione Comunista come prosecuzione di quella storia e di quella anomalia e sia perché ci sono volute le successive diluizioni di PDS, DS e poi PD per arrivare ai giorni nostri. Giorni in cui lo scioglimento della anomalia italiana può dirsi compiuto. Ora D’Alema può dire di vivere in un paese “normale”, dove il centro-destra viene rappresentato da rispettabilissimi professori, e dove non ci sono più “estremismi di sinistra” a condizionare la politica che conta, sicché addirittura il PD sostiene il governo Monti. Dalla conventio ad excludendum, alla successiva insufficienza delle compagini di centro-sinistra infine ammesse a governare ma costrette a mediare con Rifondazione Comunista, fino allo scenario attuale in cui RC è stata ridotta a forza extra-parlamentare senza coefficienti a tale stregua, e il PD – altro che esclusioni! – non solo è ammesso ma finanche costretto e pressato ad appoggiare il governo Monti e a digerire quanto ancora pensava (o alcuni di loro pensavano) di non dover mandare giù lungo questa china.

Dalla conventio ad excludendum alla Groβe Koalition italiana

Un governo superallineato ai diktat del capitale, che inoltre è convintamente appoggiato dal PD, concretizza al presente e rende credibile per il futuro non già la riedizione dello scenario (foto di Vasto) di un PD logorato al governo da un’eterna inconcludente contrattazione con i “radicali di sinistra”, ma il dato di un PD svincolato da questa catena, un PD che sta al governo senza la “sinistra radicale”, non da solo, come sognava Veltroni (perché invece ci sta insieme con UDC – e questo poteva stare nel progetto veltroniano – e PDL), ma comunque senza l’alleanza con la sinistra, proprio come Veltroni voleva.

Dunque il governo Monti realizza anche in Italia la Grande Coalizione nazionale già in vigore da anni in Germania (e ora sperimentata anche altrove in Europa) ovvero il convergere al centro delle forze politiche di centro-destra e centro-sinistra per governare insieme il paese. E’ un passaggio da considerare. Meno di 25 anni orsono ancora vigeva la conventio ad excludendum (sembra passato un secolo ma era l’altroieri). Oggi siamo alla promozione dei residui finalmente capitalisticamente maturati (in realtà definitivamente marciti) dei fu-comunisti (poi nazional –“comunisti” ora nazional-capitalisti e imperialisti democratici) ai primissimi ruoli istituzionali (D’Alema a dirigere il governo che bombardò la Jugoslavia, Napolitano a demarcare un settennato anch’esso innovativo e pienamente compartecipe del passaggio in atto; ma vogliamo ricordare anche Bertinotti a presiedere il parlamento così predisponendone la successiva cacciata dei rifondaroli). Siamo al PD che coabita con il partito di Berlusconi-Gasparri (è tutto dire) nel governo di responsabilità nazionale, un governo che non deve semplicemente dare generico esempio di moralità di amministrazione della cosa pubblica, perché invece deve colpire a fondo i lavoratori e servire i cosiddetti mercati perché si sazino di dividendi e non facciano saltare il banco nella ricerca spasmodica e distruttiva di più elevate percentuali di guadagno (ora messe in forse, e quindi da recuperare – e possibilmente innalzare secondo la regola – costi quel che costi).

Peraltro in Germania la Grande Coalizione è stata più semplice e naturale, posto che si è trattato di unire i partiti di centro-destra con la socialdemocrazia tedesca, che già nel primo conflitto mondiale (cento anni orsono) spiattellò in campo le sue credenziali e si accreditò definitivamente come responsabile e riconosciuta forza di punta del capitalismo nazionale, sua ancora di salvezza nel momento cruciale della rivoluzione, unico baluardo contro di essa nella contingenza data. Qui, al 2012, convola a nozze di governo con Gasparri e sodali un partito ex-terzinternazionalista (per quanto lontana debba dirsi quella origine). Lo fa nell’ambito di una manovra che ha già stritolato quanti provenienti da quella stessa storia pensavano di poter ritardare questo decorso o di poterlo determinare in altro modo (stritolamento portato a termine dapprima con un’alleanza di centro-sinistra disastrosa per il proletariato e per le ali “radicali” che vi hanno partecipato reggendo il gioco, e quindi poi con le strategie elettorali alla Veltroni determinate a togliersene l’intralcio).

Il governo Monti: una passo avanti,
non la soluzione per il capitalismo italiano

L’esecutivo Monti, capace di aggredire freddamente e senza sconti il proletariato, all’occorrenza si è mostrato pronto a redarguire lo stesso padronato (il che, sia chiaro, non rappresenta per noi un titolo di merito, né ce lo rende minimamente simpatico – precisazione superflua per chi ci conosce, ma necessaria per il più largo pubblico, visto il proliferare di baciatori di rospi a “sinistra”...–).

Anche in tal senso può esser letta la querelle tra Marcecaglia e Monti, con la prima incapace di assaporare la vittoria sull’articolo 18 in un’ottica particolaristica e grettamente corporativa dal punto di vista padronale, e l’altro pronto a rimarcare come l’equilibrio raggiunto è allo stato necessario per poter garantire quella che è una vittoria solo qualche mese fa insperata per il padronato, insieme alla necessità di preservare la pace sociale scongiurando la prosecuzione degli scioperi inizialmente promossi dalla base operaia (con il vertice Cgil-piddino pronto sin dalle prime mosse a chiudere la messa in scena di una mobilitazione da essi mai pensata e mai intrapresa). Monti è sembrato dire agli industriali che poi domani si farebbe il resto quanto ad aggiustamenti da essi reclamati, sempre però con l’occhio rivolto alla necessità di procedere coesi nella direzione obbligata per il capitalismo (che l’esecutivo tecnico riesce effettivamente non solo a indicare ma anche a percorrere), potendolo fare con l’accordo di PD/Cgil che si sono acconciati a celebrare come vittoria – in realtà a digerire – la cosiddetta “riforma” dell’articolo 18 (fasulla celebrazione, premessa e promessa di più che realistica paralisi – allo stato dell’arte – di ogni seria reazione dei lavoratori).

Quindi il governo Monti mostra la capacità di procedere con misure molto decise e concentrate (contro il proletariato), con una visione ampia e meno contingente di quella espressa dallo stesso padronato, senza subire l’intralcio dei veti incrociati dei partiti (derivanti da compagini ingovernabili e/o da camarille da preservare), figuriamoci poi quello di finte “opposizioni” sindacali. Un governo che non si identifica direttamente con le insufficienze-debolezze dei partiti che pur lo sostengono, e, dall’alto dei circoli del potere capitalistico mondiale di cui l’Italia è parte e che ne impegnano gli effettivi – italianissimi – per governare il bel paese, almeno nella prima fase ha dettato l’agenda capitalistica alla stessa Confindustria (non solo sul piano “tecnico” – se esiste –, ma propriamente su quello politico), non facendosela dettare.

Detto ciò aggiungiamo che, se il governo Monti è la rinnovata espressione e un passo avanti quanto a necessità del capitalismo italiano di ammodernare lo Stato e l’economia, al tempo stesso questa necessità è lungi dal concludersi e non si risolve con Monti.

Monti è un governo politico, ma manca qualcosa di essenziale perché possa esserlo fino in fondo. Il governo tecnico resterebbe piuttosto fragile e la sua formula non andrebbe oltre il transitorio e non ripetibile escamotage per le urgenze dell’oggi, destinate invece a riproporsi, laddove la compagine che prende in carico il rigore e che detta l’agenda capitalistica non riuscisse ad assumere un’egemonia anche conquistata politicamente sul terreno sociale e del concreto consenso di una sua massa di riferimento. Non si dimentichi che in Grecia il governo tecnico è caduto perché non aveva una base sociale, una base di partito, né una forza statale cui appoggiarsi.

Nella contingenza data c’è stata all’inizio una larga condivisione e tutti i partiti della Grande Coalizione hanno sottoscritto le misure “antipopolari”. Ma il rigore del governo Monti ha colpito in una univoca direzione, contro la parte proletaria. Non ha suonato la stessa musica a 360 gradi, come pur al capitalismo italiano necessita. Di fronte alle proteste, esplose a inizio anno (e sopite), di diverse categorie di piccola-media imprenditoria e lavoro autonomo (categorie comprensive di settori in via di accelerata disperata proletarizzazione), il governo tecnico ha mostrato il tratto che più lo assomiglia ai precedenti governi, nella misura in cui il gioco congiunto di PDL-PD lo ha indotto alla retromarcia e a mollare sottobanco l’osso. Come ha fatto ad esempio con le banche – sulle commissioni di massimo scoperto, misura liberalizzatrice annunciata e ritirata – e poi ancora, su un diverso piano, con tassisti, pescatori e autotrasportatori vari, tirando invece dritto solo contro i lavoratori.

Se questo è il segno dell’attuale disarmo della nostra classe, resta il fatto che la maggiore concentrazione e forza del potere politico dell’esecutivo contro i lavoratori non significa ancora concentrazione del potere politico in generale per le misure che necessita promuovere in tutte le direzione imposte.

Per far questo occorre una forza politica che sia in grado di misurarsi e tagliare tutte le incongruenze (dal punto di vista capitalistico) e/o veri e propri parassitismi, non propriamente proletari, che appesantiscono il “sistema Italia”. E ciò è possibile solo esercitando una forza di accentramento reale che sia stata conquistata sul campo, che abbia il consenso e l’armamento sociale necessari. Non ci riferiamo banalmente al fatto che un eventuale “partito Monti” si presenti e vinca le elezioni; Berlusconi (o Prodi) le ha vinte e rivinte, ma poco o nulla è stato fatto in questa direzione. Necessita un armamento della borghesia con una sua base di massa che faccia pagare pesantemente chiunque di dovere mettendo le redini sul collo (i proletari sono già iscritti nel registro al primo rigo, ma non basta...) e al tempo stesso cercando di ritagliarsi un proprio spazio borghese.

E’ questo che si prepara e su cui la borghesia oggi misura i suoi ritardi. Vie intermedie non ne esistono. O c’è un fronte di classe antagonista che si definisce e combatte per sé, oppure ciò che avanza è un fronte borghese a vasta ramificazione (non escluse proiezioni anche in settori proletari) duramente centralizzato alle necessità del capitalismo e bastonante chiunque si metta di traverso, secondo una linea di accentramento dittatoriale e condivisa. Il Pd si rende disponibile a questa necessità, sottoscrivendo i primi passi di questa tendenza e partecipando ai primi provvedimenti di massacro sociale. Ma purtroppo anche l’“estrema sinistra” concorre a questo esito, non lavorando a costruire l’unica alternativa possibile e invece rilanciando tutte le inani illusioni di inesistenti soluzioni intermedie.

Occorre uno schieramento sociale (e un partito)
a supporto delle politche di rigore

Le attuali forze politiche dello schieramento borghese, soprattutto se ci volgiamo al centro-destra, si mostrano largamente impreparate a questo. Con Monti si fa un passo avanti, ma molti altri spinosi capitoli restano a caro compare, e ne viene risospinta in alto mare la necessità di un proprio vero partito della borghesia. Su questo versante, siamo alla scomposizione (e questo ci poteva anche stare alla luce della novità Monti), ma – più realisticamente – alla decomposizione del precedente assetto.

Berlusconi all’inizio dei suoi mandati aveva lanciato qualche la significativo e qualche intuizione utile, quanto meno quanto a petizione della necessità per la borghesia di dotarsi della propria organizzazione politica agente in ogni ambito sociale, proletariato compreso. Ma il risultato finale è finanche deprimente. A conti fatti sono magri anche i risultati della Lega Nord, che pure aveva capitalizzato non poco sul piano di un’organizzazione militante ed estesa.

I venti anni di alternanza bipolare non garantiscono al fronte borghese uno straccio di strutturato partito di massa minimamente sostitutivo delle compagini ramazzate da tangentopoli. La scena politica italiana si presenta come un deserto. Non solo per la sinistra (e ci arriviamo). E’ un deserto che stenta a fertilizzarsi anche dal punto di vista della direzione borghese.

Se ne era avuto il sentore con le campagne del quotidiano Libero che nell’ultima fase aveva iniziato a prendere le distanze dal cavaliere, a criticarlo serratamente senza peli sulla lingua, interpretando l’istanza di un partito dell’ordine e del decisionismo borghesi in aperto contrasto con i comportamenti incompatibili di Berlusconi e compagnia, raccogliendo inoltre la battaglia e i contenuti leghisti oltre le contraddizioni e sostanziali retromarce ingranate dalla Lega Nord.

Non a caso Libero al primo manifestarsi delle proteste delle classi medie contro le misure del governo Monti ne ha raccolto prontamente le rivendicazioni. Va da sé, infatti, che le attuali misure governative non colpiscono solo i lavoratori salariati. Strati diffusi di piccola borghesia ne risentono parimenti i colpi, e nei mesi trascorsi hanno iniziato a scendere sul piede di guerra, in attesa che “qualcuno” ne raccolga le istanze. Il che apre una questione per noi serissima. Il mugugno, sordo e minaccioso, di questi strati, solo transitoriamente sopito, fa da preannunzio, come già in passato, ad una bruciante alternativa: o il proletariato, ridisceso decisamente in campo, riuscirà a porsi da protagonista in una battaglia anticapitalista capace di “neutralizzare” i ceti medi immiseriti portandoli dietro le proprie bandiere, oppure, ancora una volta, il loro malcontento si rovescerà contro il proletariato a servizio del duce di turno. Le campagne – molto intelligenti – di Libero (ma si legga in proposito anche la “social-nazionalista” Rinascita...) sono indicative in proposito.

Per quanto riguarda la visione della collocazione degli interessi nazionali nello scenario internazionale, regna la confusione di sempre con i badogliani sempre sull’attenti. Monti ha l’appoggio convinto dei filo-atlantisti, da Napolitano-PD a Fini-Casini. Sul versante opposto, le voci che rivendicano una maggiore autonomia (e “ripresa di sovranità”) dell’Italia avevano fino a ieri come bersaglio la tutela degli Stati Uniti dalla quale smarcarsi in vista dell’esclusivo perseguimento degli interessi della nazione (con la guerra alla Libia come massima pietra dello scandalo). Ora il campo si è fatto più stretto e nelle fila borghesi (non solo in quelle della disastrata sinistra) si intendono voci di chi reclama la stessa autonomia e sovranità nazionali contro le politiche oppressive della Germania. Nel mazzo di queste ultime occorre distinguere quelle che gridano contro la Germania per mera vocazione all’allineamento con le invettive antitedesche che giungono dagli States, da quelle che lo fanno per “sincera vocazione” a difendere gli interessi nazionali senza saper bene dove doverli collocare nel gioco (a più soluzioni, tutte suicide per il proletariato) della competizione inter-imperialistica.

Sta di fatto che il governo Monti, che non ha mai goduto del consenso delle masse (potendo semmai capitalizzare a proprio vantaggio il disarmo della massa proletaria), oggi vede a rischio di sfaldamento anche l’iniziale sostegno “bulgaro” ricevuto dai partiti. L’ipotesi di riforma elettorale sulla quale si erano accordati ABC (ieri c’era il CAF...) sembrava non escludere la rinnovata “virtuosa” disponibilità a reiterare una Groβe Koalition di tipo montiano. Oggi i maggiori partiti appaiono disperatamente impegnati a scongiurare prima di tutto il proprio tracollo elettorale, avendo dismesso i comportamenti “virtuosi” “per salvare l’Italia”, posto che mal si conciliano con il calcolo per essi del tutto prioritario di garantire la sopravvivenza dei propri carrozzoni di clientele.

I guai della Lega non archiviano
né le istanze nordiste né il problema del Sud

In questo contesto la Lega Nord paga l’alleanza e la vera e propria ragnatela con la quale il cavaliere, dopo lo scotto del ’94, ha potuto imbrigliare il vertice del movimento. Il marcio venuto a galla ne rappresenta il frutto. Il “rilancio” maroniano appare stentato, non in grado di recuperare la partecipazione della base popolare e popolana allontanata e allontanatasi da tempo, ancor prima che gli scandali conquistassero gli onori delle prime pagine. In secondo luogo l’orizzonte appare ridimensionato e ripiegato al livello locale, con “buoni amministratori” da proporre ma con una visione programmatica più generale oggi ritirata e del tutto assente.

Ciò non vuol dire che il cahier de doléances nordista sia archiviato. Esso può sempre attecchire in un paese in cui l’irrisolto problema del Sud fa da catalizzatore – nelle condizioni di assenza di un proletariato razionalmente agente in proprio – di umori “comuni” a settori di borghesia produttiva, mezze classi impoverite e proletari senza una bussola di classe (lo si è visto anche nelle agitazioni di autotrasportatori, agricoltori etc., che hanno assunto la valenza di istanze territoriali).

Il “solidarismo nazionale” tante volte e da tante parti proclamato contro l’“egoismo” leghista urta sempre di più con la realtà di un paese strutturalmente spezzato in due che può essere ricompattato solo da una ricentralizzazione da parte di un Nord con le mani più libere dai pesi morti di esso, o rischia davvero, come che sia, di frantumarsi definitivamente. Ciò che può benissimo andare di pari passo con un autentico risveglio di classe del Sud contro il sistema assistenzial-clientelare che ivi soffoca – trasversalmente – ogni energia economico-sociale, favorendo la nostra ricentralizzazione: quella dei proletari del Nord e del Sud contro capitalisti “che si fanno il mazzo” e/o “onesti”, togliendo spazio ai motivi di divisione interna su cui gioca la borghesia.

In controtendenza con questa storica opportunità, negli ultimi tempi si va facendo sempre più strada un leghismo sudista straccione (trasversale, da PDL a SEL), intento, magari, ad evocare scenari di “colonizzazione” espropriatrice del Sud da parte dei... franco-carolingi del Nord.

Pur presenti i rinculi subiti dalla Lega Nord il “problema Sud”, a scanso di equivoci, è tutt’altro che archiviato. Esso è ben presente e considerato da questo punto di vista borghese da organi di stampa (collocati sul versante alla “sinistra” della Lega) come l’Espresso e vari altri fogli confindustriali o comunque legati alla borghesia imprenditoriale. L’ideale sarebbe quello di una “Lega Nord per l’Italia”, quella che anche un Bocca si sarebbe augurato (vanamente) a suo tempo da Bossi. A che passo deve marciare un’Italia capace di uscire dal tunnel della crisi? Al passo dell’oca di un capitalismo efficiente, concentrato e centralizzato al massimo. Lo stesso vale, sull’opposto versante, per noi, per la nostra classe.

Cresce la massa degli scontenti, allo stato senza prospettiva...
ma come sorda petizione di una alternativa

Corollario di tutto ciò è la crescita esponenziale degli scontenti (allo stato, purtroppo, senza prospettiva) e i tentativi delle forze politiche di intercettarne gli umori. Tipico l’atteggiamento dell’Italia dei Valori, che ha assunto i connotati di un movimento demagogico populista tipo “Uomo qualunque”, “popolaresco” negli atteggiamenti esteriori ma antiproletario al fondo. Da quel pulpito non mancano rimbrotti contro questo o quel provvedimento “antipopolare” e sull’insieme governativo, né l’adesione alle “proteste” dentro il recinto di determinati soggetti (primo fra tutti il sindacato) insoddisfatti, ma all’allisciata del pelo “popolare” interclassista (in quanti ci possono stare!) non segue e non seguirà mai alcuna mobilitazione di piazza per un riconoscibile programma alternativo.

Stesso dicasi delle campagne “anticasta” del Fatto quotidiano o dei grillini. Il movimento di Grillo interpreta al meglio i sentimenti di rivalsa della massa. Siamo non alla contestazione di questa marcia politica, ma ad una sorta di antipolitica tout court, che serve solo, coscientemente o meno (Libero almeno sa perfettamente dove vuole andare a parare!) a predisporre il terreno migliore a soluzioni (politicissime!) di tipo “tecnico” (autoritario, si sarebbe detto in altri tempi). Ciò a prescindere dalle buone intenzioni che si possono riconoscere a questo o quell’altro esponente o giovane neo-eletto. Il punto cui tende – coscientemente o meno – questa contestazione è che, dove “la politica” non ce la fa a reggere il timone, devono intervenire gli “esperti” extra-casta, dittatorialmente se necessario, perché questa barca continui ad andare. Per tagliare i costi impropri del capitalismo? Tutt’altro: per razionalizzarne l’ulteriore rapina ai nostri danni!

Che sia questa la lunghezza d’onda consapevolmente assunta dai nuovi soggetti extra-casta pronti a scendere in campo con programmi definiti e idee chiare su dove andare a parare, lo dimostra ad esempio l’Italia Futura di Montezemolo, che, con i suoi 50.000 aderenti (sulla rete), scalda i motori di Italo (prezzi convenienti, niente disservizi, il tutto garantito da contratti di lavoro alla Marchione!) e del proprio movimento.

Oggi c’è una corsa verso l’attenzione ai sentimenti della massa, per portarla fuori strada, consapevolmente (come i partiti che si mimetizzano dietro le liste civiche per non essere travolti) o meno. Questo è un segno del deserto politico e disastro attuale, dove chiunque può tentare di giocare le sue carte (vedi ancora la cosiddetta lista Saviano; ma ci mettiamo dentro anche l’idea di un “terzo polo di sinistra” lanciata dalle pagine del Manifesto con Alba e misurata sulla prospettiva di un PD che invece reiteri la Grande Coalizione al centro).

Nel deserto-disastro, però – e questo è quanto ci riguarda –, vive anche la richiesta di un’alternativa vera, oggi confusa ed informe, priva di un proprio programma e di una propria organizzazione, ma che assume un peso rilevante come orizzonte cui guardare. Proprio per questo noi affrontiamo la questione di una sua direzione di partito, necessariamente in conflitto con le prospettive agitate dalle scombinate pattugliette o pattuglione antimontiane, quelle dei “compagni” non escluse.

Altro che rospi da baciare!
Non solo discontinuità, c’è anche continuità tra Berlusconi e Monti

Se, infatti, il fronte borghese centro-destro sta letteralmente a mal partito, la “sinistra” non è da meno e il disorientamento è palpabile in ogni occasione data.

Il PD, compagine da ascriversi al fronte borghese (un tempo si diceva del PCI partito borghese –“operaio”, ma altra acqua è passata sotto i ponti a diluire, marginalizzare e poi disperdere quella base, ora politicamente collocata ovunque...), è saltato dall’anti-berlusconismo all’appoggio all’esecutivo che mazzola senza tregua i lavoratori. Qui non vediamo “disorientamenti”, ma coerente posizionamento secondo lo zenith del capitalismo nazionale.

Meno scontato è che dovessimo registrare fans di Monti nella cosiddetta “sinistra radicale”, nella specie in alcuni settori del Manifesto e del suo “pubblico” (in contrasto, peraltro, con un’altra “linea” interna al giornale più attenta alla sostanza di questo governo e ai mal di pancia della “base” sin dalle prime fasi).

Sul numero del 17/11/12 è apparso un editoriale a firma Marco Revelli, già più sopra richiamato, dal titolo Baciare il rospo, ancora una volta? Vi abbiamo letto: “Confesso innanzitutto che se fossi stato a Roma, sabato scorso, avrei probabilmente preso una bandiera (tricolore) e sarei sceso in strada a festeggiare” visto che “è davvero finito ’ufficialmente’ il berlusconismo”. “Confesso anche – e la cosa mi costa un po’ di più – che ho fatto il tifo per Mario Monti. Forse per una questione di pelle. Più estetica (ed etica) che politica”, perché “la sua normalità sembra un miracolo. La sua sobrietà di abito e di parola una rivoluzione. Ma anche perché, politicamente, mi rendo conto che al suo governo non ci sono alternative”.

Sobriamente e in tutta normalità Monti ci sta propinando una sovraddose di sacrifici di massa (e per le solite masse), ma a Revelli poco importa: l’importante è averla finita “ufficialmente” col berlusconismo e per i campioni della “sinistra radicale” è a priori assodato che non ci sono alternative. Le famose masse (cui invariabilmente gli pseudo-intellettuali “di sinistra” si richiamano per condire le proprie liriche) stanno e stiano zitte, pronte anch’esse al bacio. Di rospi al Manifesto ne hanno già baciati tanti: Dini, Clinton, Obama etc., una volta esauriti ed obliterati i rospi “rossi” d’Oriente o del Terzo Mondo. Nessuno di essi si è trasformato nella bella principessa. Più che bacio ai rospi, signor Revelli, noi la chiameremmo una leccata di...

Al di là della pena/disgusto (fate voi) per la sviolinata, occorre misurare la gravità politica di un discorso del genere, che, ove non contrastato a dovere, lascia nudo il proletariato di ogni sua potenziale capacità di difesa. Da un lato, se guardiamo ai contenuti e alla sostanziale continuità dell’attacco contro i lavoratori (si pensi alla staffetta Sacconi-Fornero), non è affatto vero che su questo versante sia “finito ufficialmente il berlusconismo”. Il programma antiproletario del governo di centro-destra è lo stesso dell’esecutivo tecnico, che invero può e deve renderlo più efficace in virtù della raggiunta “concordia nazionale”, ieri impossibile in ragione dell’ostracismo al “dittatore”. Sicché occorre capire in che senso saremmo “oltre Berlusconi”, e noi diciamo che “oltre” lo siamo sì, ma non certo nella direzione che possa essere rivendicata da un “quotidiano comunista”. Dall’altro lato, il governo tecnico si demarca dai precedenti esecutivi per la micidiale e diretta efficacia della sua azione anti-proletaria sulla quale si misura la “rivoluzionaria” sobrietà di stile dei suoi membri.

Mario Tronti sul Manifesto del 24/01/12 ci illumina che l’esecutivo tecnico sarebbe il viatico per “il compimento finale della transizione dalla prima alla seconda repubblica” (dunque non la terza repubblica che si presenta, ma la seconda da completare). Egli preconizza che sull’asse Monti possa darsi la “manovra di ricomposizione centrista del fronte moderato”, alla quale si deve rispondere con “una contromanovra di ricostruzione di un bipolarismo virtuoso” che porti a “un grande centro e una grande sinistra, depurati delle tradizionali espressioni ideologiche... interlocutori ideali di un confronto politico alto... (n. “alto” in quanto depurato delle tradizionali espressioni ideologiche! alla faccia del “filosofo” “di sinistra”!)”. Il tutto, nella testa dell’inclito, lascerebbe “a destra, emarginate, le pulsioni populiste antipolitiche”. E questa sarebbe “la svolta” per la quale “abbiamo un anno per seminare e poi una legislatura costituente per raccogliere” (!?!?).

Questi inetti preparano la disfatta del proletariato, perché in assenza di una risposta di classe sono proprio le pulsioni nazional-popolari e localiste di destra a prender piede, in Italia e altrove. Questi inetti non vedono Forza Nuova che si accredita nelle proteste sociali dei forconi siciliani e delle altre categorie del ceto medio (mentre la social-nazionalista Rinascita attacca – a ragione – la Camusso che invoca la polizia contro i camionisti), non danno peso alla destra di Storace che sfila a Roma contro il governo Monti quasi nel deserto totale (e comunque nel ritardo) di corrispondenti iniziative da “sinistra”. Non si accorgono che la destra al governo in Ungheria organizza la risposta nazional-populista contro la crisi che attanaglia il paese, mentre in Grecia insieme ai “successi” delle “sinistre” ci sono forze di estrema destra che raccolgono consensi significativi, per non parlare del Fronte Nazionale in Francia e quant’altro. Che i filosofi del Manifesto trovino spunti per scrivere di emarginazione della destra, dà solo il senso della sconfinata fiducia di questi “comunisti” nello Stato e nel “fronte moderato ricomposto da Monti” che certo spezzeranno le reni a camionisti e agricoltori vari, emarginando la demagogia populista della destra e restituendo il proscenio a una sana competizione elettorale tra grande centro e grande sinistra!!

Il PD ha iniziato a condividere il programma di accentramento antiproletario del capitalismo italiano; gli intellettuali di “sinistra” che trovano spazio sul Manifesto (ma anche negli attivi della Fiom) concorrono allo stesso risultato nella misura in cui distolgono i lavoratori dall’impegno per costruire l’unica reale alternativa data, quella di un altrettanto determinato contro-accentramento di classe.

L’attacco del governo Monti coglie il proletariato impreparato

Tutto possono fare i lavoratori tranne che andarsene contenti che “il berlusconismo è finito” e baciare il rospo che è venuto al suo posto! I lavoratori, beninteso, non hanno seguito il consiglio degli “intellettuali” del Manifesto.

Resta il fatto che gli attacchi sferrati dal nuovo esecutivo hanno messo a nudo il disarmo del nostro fronte, abituato a misurarsi con lo schieramento nemico secondo i canoni propri di una fase – ormai trascorsa – di affluenza e poi di precaria stabilità del capitalismo (il che non significa negare che la lotta su basi riformiste, interne al sistema, sia stata anche a tratti cruenta). Un proletariato che è poi regredito anche da quella data capacità di mobilitazione, conservandone peraltro le sedimentate illusioni. All’esito di questo decorso la classe operaia si ritrova priva di difese davanti al nemico di classe che attacca per colpire a fondo senza concessioni né sconti. Il peso delle abitudini acquisite (e relativo complessivo habitus “proletario”) spiazza il nostro fronte nel repentino cambio di scenario.

Se non manca chi “da sinistra” saluta il governo Monti come “miracolo rivoluzionario”, chi più saggiamente si acconcia a opporvisi incoccia con la debolissima capacità di lotta del proletariato che, allo stato dell’arte attuale, va a infrangersi contro il muro rappresentato da questo esecutivo. Un esecutivo che non lascia spazio a nessun compromesso che consenta almeno di attutire i colpi, perché i colpi nella direzione nostra li assesta senza tergiversare, imponendo uno scontro che il proletariato oggi non è in grado di reggere, privo com’è delle sue armi di difesa, figuriamoci poi di quelle di offesa ovvero di programma e prospettiva (o anche solo di istintivo orientamento) propri.

Pesa, certamente, il tipo di mobilitazione promossa durante i quattro anni di governo Berlusconi. Una mobilitazione che ha lasciato la direzione del gioco in mano a PD/Cgil (così accreditandone le direzioni e le corrispondenti illusioni di fronte alla massa dei lavoratori), non demarcando gli argini – o facendolo debolissimamente da posizioni ultra-minoritarie – di una prospettiva diversa e opposta a quella dei comitati di salvezza nazionale anti-berlusconiani, già proiettati e destinati in larghissima parte all’abbraccio con i “tecnici” che poi lo hanno rimpiazzato.

Ma, oltre i trastulli antiberlusconiani, gli effetti paralizzanti sono quelli di rimando dall’intero trend pluridecennale che precede, di un capitalismo non certo “amico” (neanche nella versione centro-sinistra, come ci volevano far credere i Prodi-boys della sinistra “radicale”) ma nei cui confronti i lavoratori potevano mettere in campo anche la lotta fino a un certo punto, sempre in vista, però, di un possibile – magari parziale, ma non inconsistente – aggiustamento, insomma di un terreno conflittuale e “solidale” al tempo stesso, in cui la lotta operaia poteva portare a casa dei risultati.

Oggi la musica è cambiata: non c’è spazio per nessuna “solidarietà” “consociativa” in vista della tacitazione delle lotte a pro dell’accumulazione, mentre si iniziano a vedere le premesse oggettive di una polarizzazione e potenziale contrapposizione massime tra i due contrapposti fronti.

Il disarmo attuale non ci spaventa, non ci porta a dire (come ci è capitato di sentire) che il proletariato sia stato sconfitto dal governo Monti. Il proletariato non ha ingaggiato la battaglia e il punto non è quello di misurare semplicisticamente sconfitte o pseudo-vittorie contingenti (senza che lotta ci sia stata, e vai poi a vedere su quali terreni si darebbe la sconfitta... e, gira gira, sempre di elezioni si parla). Si tratta di contribuire acché il proletariato, sotto la spinta oggettiva ma non senza l’intervento dei comunisti, riconquisti la fiducia, l’organizzazione, la prospettiva del proprio programma per poter raccogliere la sfida e ingaggiare la lotta.

Per una cinquantina d’anni la classe operaia in Italia ha sperimentato la possibilità del compromesso con il capitalismo e l’illusione di una integrazione in esso a condizioni accettabili, senza dismettere l’organizzazione e la lotta (irrinuciabili, poiché si trattava di condizionare dalla piazza i governi dei padroni). Il suo indebolimento negli ultimi venti anni ha a che fare (anche) con l’aspettativa, totalmente illusoria, di potersi continuare a garantire quel compromesso e preservare quelle condizioni mandando finalmente al governo del paese i propri rappresentanti (oggi non si tratta più soltanto del PCI e neanche dei suoi tronconi divisi, perché, dopo le mille bolognine in successione, le aspettative dei lavoratori si sono dirette in tutte le più diverse direzioni; il che non cambia la sostanza di quanto diciamo).

Lo stato dell’arte è che se prima i lavoratori mettevano in piazza una lotta riformista vera, ora invece la sviliscono a livelli più che sotto-riformisti, misurandola, se e quando contemplata, con l’illusione elettoral-governista che eternamente si rinnova e li imbriglia: si lotta, per modo di dire, se e quando il proprio partito è all’opposizione, ma, quando è il proprio partito a governare, ci si paralizza. Di questo passo siamo arrivati al paradosso dell’assenza di lotta contro il governo Monti (sostenuto dal PD), anche se costui bastona senza sconti il mondo del lavoro come nessun altro ha fatto prima. Oggi la lotta ha piuttosto e più spesso di mira lo spostamemto opinionistico degli umori sociali in vista dell’unica prova che interessa, quella del voto, dalle cui urne ci si attende (quanto vanamente!!) che esca vincente lo schieramento che possa rimettere le cose a posto per il possibile.

Si sente dire da pressoché tutti gli oppositori di “sinistra” che oggi verrebbe cancellata la democrazia... Ma, a pensarci bene, era il veto contro il PCI al governo a truccare non poco le regole democratiche. Oggi il gioco democratico almeno di quel trucco ha potuto fare a meno. I lavoratori hanno potuto vedere al governo i partiti da essi votati. Questa è propriamente la democrazia, non quella di prima. Ebbene: quale è il bilancio della democrazia per il proletariato? Quali sono i risultati? Occorre iniziare a fare un bilancio. Che poi è il bilancio vero che compete alle sezioni del proletariato in tutti i paesi capitalistici avanzati e soprattutto a quelle, pensiamo alla Germania, che hanno alle spalle molto più di venti anni di democrazia piena, con i partiti già borghesi –“operai” ammessi alle stanze di governo nell’ambito di una “normale” alternanza senza esclusioni.

Non basta la denuncia delle misure del governo Monti.
Occorre anche supportarla con il rilancio della prospettiva di classe...

Beninteso, non diciamo che a “sinistra” ci siano solo “baciatori di rospi” e pseudo –“filosofi” che scrutano le nuvole. Accanto ad essi, in pluralistica confusione, leggiamo sullo stesso Manifesto (ma la rilevazione vale per molti altri fogli e foglietti di “estrema sinistra”) elementi di reale denunzia del significato ultraborghese, “liberista” come si suol dire, del governo Monti (che non ci fa peso riconoscere come circostanziati e veri, e che, a questo livello, in generale sottoscriviamo), e del disastro sociale provocato dai suoi provvedimenti, con conseguenti appelli a contrastarli.

Manca, però, qualcosa, e cioè la nostra prospettiva.

Persino un Vendola può avere sul tema “qualcosa da sinistra” da dire. Ma le sue lamentele valgono solo a richiamare i futuri alleati di centro-sinistra a diverse dichiarazioni d’intenti per il futuro. Stesso dicasi per un Diliberto (con i suoi “cento milioni di comunisti iscritti nel mondo”, di cui ottanta in Cina) e Ferrero. Tutti costoro preconizzano un “nuovo governo progressista” che, una volta sancito dalle urne, miracolosamente ribalterebbe di per sé l’impianto montiano già liberamente sottoscritto dai propri partner di riferimento.

Purtroppo la stessa Fiom, e anche la sua base organizzata in Fiat e Fincantieri, nerbo della categoria e del proletariato nel suo insieme, mentre continua a puntare i piedi e promettere fuoco e fiamme, si appella invariabilmente alle “regole democratiche garantite dalla Costituzione” e dalla magistratura del lavoro, alla “solidarietà” della “sinistra”, a un cambio di passo sancito dalle prossime elezioni: tutto fuorché alla battaglia per il rovesciamento dei rapporti di forza, a cominciare dall’interno del sindacato “generalista” CGIL.

Sono sconcertanti le ripetute lamentazioni dei suoi vertici sulla crisi e sulle soluzioni che essi ne prospettano. Secondo Rinaldini (vedi la dichiarazione come coordinatore della seconda mozione sul Manifesto del 11/01/12, titolata Il nodo della crisi in Cgil) a causare la crisi sono state “le disuguaglianze sociali, la precarizzazione, il sistema finanziario”, “la folle rincorsa alla riduzione della condizione lavorativa a pura merce”, l’aver messo al centro “mercato, spread, speculazione finanziaria, paradisi fiscali”. Ora, lamenta il leader metalmeccanico, “si vorrebbe porre rimedio alla crisi con lo stesso modello sociale che ha portato al disastro, cioè quello che vede egemone il liberismo e il capitalismo finanziario” (pseudo-denuncia che puzza di niente e che invece è immancabilmente presente in ogni appello “ultra-sinistro”). Neanche ci si avvede che in questo modo ci si candida a supporters di un capitalismo virtuoso (che esiste solo nella testa di Rinaldini... e di moltissimi altri a “sinistra”) che sarebbe capace di creare uguaglianza (proprio come sta scritto nella costituzione), che non metterebbe al centro lo spread ma la produzione, che ridurrebbe il lavoro a merce ma non ancora a “merce-pura”. Sono banali castronerie. Che proseguono nella maleodorante lamentazione contro il cosiddetto “pensiero unico”. Pensiero unico sarebbe l’ideologia “liberista”. Il pensiero, invece, potrebbe essere bino e “la democrazia del pensiero” sarebbe ristabilita, se nel dibattito, a contrastare il liberismo, si ammettesse la presa in carico con pari dignità del modello non liberista (di che? del capitalismo, n. n.). In questo modo, tremebondi leader “operai”, siete voi a serrare il “pensiero” proletario nell’unico orizzonte del capitalismo, sia esso liberista o “sociale” secondo le vostre fantasie. Dopodiché capita ai lavoratori di riuscire a vedere solo la superficie del problema e di dare la colpa al capitalismo finanziario (mentre il capitalismo cosiddetto produttivo, se solo avesse la capacità di valorizzarsi a dovere nella produzione, non avrebbe necessità di cedere spazio alla “speculazione”), e ai vari Rinaldini di non aver un grammo di coraggio nell’articolare la propria denuncia e, sopraffatti da sconfinata fiducia verso il capitalismo e da superstizione nei confronti del suo infallibile regolatore, lo Stato, di riuscire solo a blaterare banalità che non lo mettono sotto accusa in quanto sistema ma addebitano le colpe alle “politiche liberiste”.

Gli operai di Fiat e Fincantieri e delle altre aziende metalmeccaniche hanno tutt’altra sfida da raccogliere. Niente più permessi sindacali pagati dall’azienda, niente più deleghe sulle trattenute sindacali, costretti a stare fuori dai vecchi profittevoli giochi “democratico-istituzionali”? E’ questa la sfida che deve essere accettata fino in fondo: perché tutto ciò non equivale necessariamente a stare fuori dalla classe, al contrario! Solo che la tessitura del filo con la classe in queste “nuove” condizioni comporta un riorientamento totale di prospettive che noi, francamente, non vediamo pacificamente possibile neanche con questa FIOM “ribelle”.

Alla quale non basta che il PD abbia votato tutti i provvedimenti del governo Monti. Landini e compagni negli ultimi tempi hanno demarcato ancor più nettamente la propria prospettiva: che è quella di poter ribaltare nelle urne i risultati sfavorevoli sanciti sul terreno dei rapporti di forza reali. Così la Fiom ha iniziato una campagna che chiede ai partiti di “sinistra” di dichiarare i propri intenti sui vari capitoli dell’attacco montiano ai lavoratori. Anche Bersani è stato ufficialmente convocato per chiedergli, davanti alla platea dei delegati metalmeccanici, cosa farebbe una volta al governo con il voto dei lavoratori. Quale risposta si aspettano: che cancellerà tutte le leggi che con Monti ha già votato?

... una prospettiva allo stato assente
anche nelle iniziative della “sinistra estrema”

Da questo quadro, sia detto in chiaro, non si discostano per l’essenziale e più di tanto quanti, più a sinistra, condividerebbero molte delle nostre critiche al Manifesto e alla Fiom (figuriamoci poi a Vendola/Diliberto/Ferrero). Ci riferiamo all’assemblea del 26 maggio all’inizio citata, alle organizzazioni che supportano il sindacalismo di base, alla minoranza di Cremaschi in Fiom, agli stessi sindacati extra-confederali, insomma alla “estrema sinistra”.

Queste forze si demarcano, in polemica con i primi, dichiarando di non subordinare l’iniziativa contro il governo Monti a calcoli elettoralistici e a eventuali ipotizzabili cartelli su questo piano. Secondariamente escludono ogni ipotesi di patto elettorale con il PD, considerando perdente affidare il rilancio della “sinistra” a un eterno inconcludente tentativo di “tirare per la giacca” il PD.

Per noi tutto ciò è scontato da quel dì, ma non è sufficiente. Non basta negarsi al “patto elettorale” con il PD, se, nell’iniziativa “indipendente”, se ne replica la sostanza della stessa prospettiva.

Ciò è stato evidentissimo nell’opposizione al governo Berlusconi. Hai voglia a dire che non tiri la giacca al PD. Tu gli stai stendendo un tappeto di rose sotto i piedi se, come “opposizione intransigente” e con i tuoi simboli “rivoluzionari”, agiti gli stessi contenuti sui quali le direzioni Cgil-piddine si collocano a dovere con il loro peso, dando poi il loro coerente seguito al programma e smobilitando al giro successivo il “movimento unitario” (le inesistenti “maggioranze del paese già conquistate alla necessità del cambiamento”, secondo le illusioni degli strateghi della “sinistra estrema”). Quali sono questi contenuti? Quelli della difesa della democrazia e della carta costituzionale contro il dittatore di turno, della repubblica fondata dalla resistenza che ora verrebbe stravolta nei suoi fondamenti, della tirannia del “pensiero unico liberista” e di un modello sociale di welfare da difendere, contro “la speculazione finanziaria” e per un “capitalismo produttivo virtuoso e rispettoso dei diritti, sostenibile, eco-compatibile”, etc. etc. E’ su questa piattaforma sotto-riformista (declinabile in molti modi secondo le diverse contingenze) che è oggettivamene dato l’eterno “patto” e ponte lanciato non solo al PD, ma a chiunque possa starci su un terreno che non si demarca in nulla dal punto di vista del programma e della prospettiva di classe.

Landini chiede ai partiti “di sinistra” se cancelleranno le controriforme montiane. Ma anche il focus dell’assemblea del 26 maggio era concentrato sulle elezioni. Laddove un conto è prendere atto della attuale debolezza del proletariato, altro è misurarla sulla prospettiva di rapporti sfavorevoli da ribaltare con l’urna (così scansando i compiti necessari per poter veramente risalire la nostra china). Anche dall’Ambra Jovinelli si è lanciato il messaggio di votare solo i partiti che si impegnano a cancellare le controriforme. In un intervento riassuntivo dei generali umori si è detto che “la Grecia dimostra che la lotta paga... perché laddove si è lottato veramente i partiti della sinistra hanno vinto le elezioni” (il che ha un senso molto pratico detto da Sinistra Critica, ma è insignificante per la generale prospettiva di classe, a meno che i trotzkisti non pensino di conquistare il potere vincendo le elezioni), mentre in Italia (“dove i lavoratori sono stati sconfitti dal governo Monti”) abbiamo zero lotte e conseguenti deludenti risultati elettorali (e la protesta che prende semmai la strada del grillismo, ma non quella della “sinistra radicale” e meno ancora del consenso all’“estrema sinistra”).

Un’analisi del genere la dice lunga sulle illusioni sulla democrazia e sulla sfiducia nella forza di classe ben radicate anche in questi ambiti. Dunque anche per certi “rivoluzionari” le lotte vere sarebbero quelle utili a far vincere le elezioni, giammai a ribaltare i rapporti di forza sull’effettivo terreno sociale di scontro. Ora è indubbio che il voto greco rifletta anche gli scioperi dei lavoratori, ma la cruda realtà non è quella che possa garantire né ai lavoratori greci né ad altri la prosecuzione e proiezione vincente della lotta sul piano del gioco elettorale e democratico. La realtà è che le lotte dei lavoratori greci (senza peraltro dimenticare analoghi veri sussulti in Romania) restano a tutt’oggi isolate e chiuse entro il confine – e l’orizzonte – nazionale, impossibilitate allo stato a proiettarsi verso quell’unificazione con la lotta negli altri paesi che sola potrebbe scuotere i poteri capitalistici in Europa e costringerli a fare i conti con la forza di un movimento che si imponga sul piano reale. In assenza di ciò resta il fatto che nessuna vittoria elettorale dei partiti di sinistra (indubbiamente non indifferente in quanto tale al fronte nemico) sarà in grado di opporre ostacoli insuperabili al capitalismo, né potrà garantire al proletariato vittorie sul piano della concreta difesa delle proprie condizioni sotto attacco. Lo si vedrà a maggior ragione con Hollande (posto peraltro che il PSF non è paragonabile a Syriza e al KKE) quanto a illusioni, ancora una volta profuse a piene colonne dal Manifesto, su ipotetici rilanci di “politiche sociali” in Europa che suppostamente si mettano di traverso alle necessità imposte dal capitale e dai suoi centri di potere (ma vi siete accorti che, non solo Rossanda, anche Berlusconi si è congratulato e fa il tifo per Hollande?).

Peraltro, mentre condividiamo l’impegno del Comitato No Debito a promuovere e organizzare reali passaggi di mobilitazione e soprattutto la partecipazione alle concrete lotte dei lavoratori, diciamo al tempo stesso che ciò non ha nulla a che fare con il cosiddetto No Debito. Mettere al centro dell’iniziativa la questione del No Debito assume il significato e la sostanza di un tentativo di pressione e invito al governo e allo Stato italiani per una supposta politica riformatrice più avanzata sul versante interno e più profittevole “per l’Italia”, una politica che, nello scenario internazionale (e con la testa di chi la propone rivolta ai poteri carolingi che si sovradeterminano alla “nostra” legittima sovranità), potrebbe ritagliare e “garantirci” qualcosa di meglio per e in quanto nazione (e in subordine per i cittadini – termine non desueto in quegli ambiti – e i lavoratori, altrimenti chiamati a pagare). Il senso del No Debito si sposa con l’invito a “fare come l’Argentina” (essendo l’Italia). Coerente a ciò è la petizione di referendum in particolare sulla modifica che ha inserito il fiscal compact in costituzione. Grande enfasi è stata messa in particolare sul referendum in Irlanda. Ora che ha vinto il Sì, con la scarsa affluenza che si vuole ma nondimeno a completa dimostrazione di quanto sia illusorio e perdente l’orizzonte che assume di voler contrastare la macina capitalistica con il voto, cosa direte? A “sovranità e democrazia restituite”, i sacrifici diventano digeribili? “Almeno lo hanno scelto e votato i cittadini” e la democrazia è salva?

La nostra prospettiva e i nostri compiti

Cosa resta, nel quadro sopra descritto, da fare a comunisti che siano realmente tali (per pochi che siano attualmente: ed, anzi, a maggior ragione in forza di ciò)?

Primo ovvio aspetto “pratico”: sappiamo di non poter più di tanto chiamare masse tumultuose a lotte immediate dirompenti e decisive, quand’anche fossimo alla testa di (rispettabili) sindacatini di classe (i quali, come stiamo constatando, ne devono oggi prendere atto dopo tanto strombazzamento su “maggioranze della popolazione” già acquisite... a suon di referendum). La nostra classe è sì rabbiosa (e ne ha tutte le ragioni), ma paga con lo sconcerto e la sfiducia i frutti di una pluridecennale politica che l’ha monopolizzata (all’ombra, ormai definitivamente trascorsa, di qualche briciola, persino sostanziosa in molti casi, con cui narcotizzarla): non c’è alcun automatismo immediato per capovolgimenti di fronte prima che quella micidiale politica venga rimessa in causa. Si tratta allora di seguire e incoraggiare, partecipando in prima persona ed alla testa di esse ove possibile, soprattutto in termini di linee d’indirizzo, tutte le manifestazioni di risposta proletaria all’attacco borghese, non rifiutando di esserci, anche – e soprattutto (considerando i dati materiali attuali) – laddove queste lotte siano formalmente indette dai sindacati venduti al sistema: non sono venduti i lavoratori che rispondono al loro appello, che si tratta di capitalizzare e portare oltre e contro i fasulli obiettivi delle centrali in oggetto.

Secondo punto, ma essenziale: in quest’azione i comunisti autentici devono svolgere un’azione di propaganda, chiarificazione teorico-programmatica e con un chiaro orizzonte organizzativo in controtendenza rispetto al quadro attuale dominante nel milieu. Si smetta una buona volta, e per sempre, di mistificare la realtà della presente crisi strutturale del sistema a scala mondiale con chiacchiere sul carattere “artificiale” di essa dovuta a torbidi disegni dei “padroni” e con ricettari al massimo (illusoriamente) riformisti, tipo: da questa crisi si può uscire “ristabilendo” (!) la “giustizia sociale”, “facendo pagare e piangere i ricchi”, rifiutando il pagamento del debito pubblico, ma lasciando che il pubblico resti capitalista, un “nuovo new deal”, la “decrescita” e la produzione “ecosostenibile”, i “valori costituzionali” infranti, magari “nuove elezioni democratiche” che “ridiano voce alla sinistra”, una “miglior” (!) “politica europea” etc.etc.

Accogliendo la raccomandazione di Revelli sulla necessità di una “nuova cultura” che ci indichi come uscire dalla crisi noi risfoderiamo la nostra “vecchia cultura” marxista: è mai possibile che in un mondo tecnologicamente capace, grazie proprio alla socializzazione del lavoro realizzata dal capitalismo, di produrre più che a sufficienza per i bisogni di tutti e con minor sforzo collettivo da parte dei lavoratori si assista a penuria e sovrasfruttamento del lavoro? “Vulcano della produzione, palude del mercato”, dicevamo “ieri”, e qui sta il punto. In causa è non una presunta “stagnazione” delle forze produttive, ma il loro urto con le leggi del mercato, le leggi del capitalismo. Lavorare “tutti e di meno”? Perfettamente possibile tagliando con l’ascia di classe l’infinita foresta dei “lavori” socialmente improduttivi e dannosi. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, come istintivamente sa l’ultimo dei proletari costretto a vedere accanto a sé una pletora di succhiasangue di tutte le risme che ingrassano sul suo lavoro. Il programma comunista non prevede “rilanci degli investimenti e della produzione” borghese di merci, ma una produzione di beni sociali; e questo comporta (previa una semplice... rivoluzione) drastici “disinvestimenti” e tagli frontali all’attuale produzione tossica del capitale. Questo l’ABC, sin qui sepolto da decenni di corso controrivoluzionario, cui riferirsi in un’attività politica da partito.

Solo partendo da questo orizzonte si può concepire la ripresa di un filo cui tutte le minuscole formazioni che si richiamano al comunismo siano in grado di confrontarsi tra loro, di unirsi tra loro, superando lo stato attuale di frammentazione e debolezze (teorico-programmatiche ed organizzative) “in proprio”. Il che fare, prima ed alla base del “da farsi”.

Diciamo “tutte” non perché le allineiamo indifferentemente assieme. C’è poco da barare: la gran parte delle formazioni attuali è destinata alla spazzatura (se non saprà fare un salto da un informe posizionamento di retroguardia “dalla parte degli sfruttati” senza uno straccio di teoria e di programma in grado di capitalizzare le lezioni del passato per riposizionarsi sulle classiche trincee del marxismo), se non, addirittura, schiacciata su prospettive “anticolonialiste” di una “nuova e diversa” Europa (capitalisticamente) forte .

Ma noi, al di là del milieu com’è oggi caratterizzato, guardiamo ad una ripresa di lotte a scala internazionale destinate sempre più a radicalizzarsi, intrecciarsi tra loro e sprizzare dal proprio seno “scintille di coscienza” di partito.

L’attacco al mondo del lavoro per la vastità delle masse che coinvolge alla scala planetaria non potrà essere indolore neanche per il capitale. L’antidoto del quale potranno beneficiare padroni e governi per volgere, temporaneamente, lo scontro a loro favore, è la divisione del fronte avversario per linee di difesa nazionali e sciovinistiche. Oggi i governi procedono all’unisono contro la classe lavoratrice e quest’ultima, finora e in generale, non si è mostrata in grado né di respingere gli attacchi né di lanciare un ponte oltre il proprio confine.

Una decina di anni fa il movimento nato a Seattle e poi contro la guerra, forte di qualche suo vagito anticapitalista, riuscì in una prima fase ad andare oltre una dimensione puramente nazionale, a darsi come abbozzo e premessa di movimento internazionale, salvo poi andare in tilt quando si trattava di lanciare il necessario ponte di solidarietà e collegamento verso la resistenza delle masse arabe aggredite dall’imperialismo. Oggi un elemento di sicura debolezza del nostro fronte è dato dalla barriera della frontiera nazionale, vissuta non come un ostacolo da superare ma come un argine di difesa e anche la radicalità di una lotta (vedi la Grecia) può essere inficiata da questo “vizio” di origine.

Dunque lotte parzialissime e tuttora gracili – è vero – e, soprattutto, disgiunte (o persino in competizione tra loro) al momento, ma che intanto coinvolgono (e talvolta sconvolgono) contemporaneamente il centro e le periferie del sistema, costituendo (per chi non limiti il proprio orizzonte alle ricette utili “per la propria nazione”) segni visibili di una ripresa del global-antagonismo proletario. Uno sciame sismico che preannunzia il big bang decisivo. Questa la nostra certezza, ed in questa prospettiva noi lavoriamo da internazionalisti.

Su questa base si tesserà una vera “rete dei comunisti” capace di tornare a porre il dilemma: socialismo o barbarie.

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1 Nel pezzullo di Veneziani citato in “Ei fu”: famelici eredi in arrivo l’autore si divertiva a sbeffeggiare la “sinistra del piffero” sempre pronta a inveire contro Berlusconi e poi invece silente di fronte al governo Monti, espressione moltiplicata di un esecutivo pronto a bastonare “il popolo”

2 Si rilegga l’articolo di Veneziani



Trascriviamo di seguito una nota apparsa sul Manifesto del 7/06/12 a firma Fr. Pi. e a commento della ricerca del Censis dal titolo eloquente Dove sta oggi la sovranità.

L’Italia vulnerabile sul piano finanziario: Quel debito pubblico che “pagava la pace”

Ma l’arrendevolezza della “politica” italiana di fronte ai diktat europei e dei mercati, dipende solo dalla pochezza dei suoi leader? La lettura del Censis è naturalmente molto più articolata. Si parte dalle dimensioni del debito pubblico, cresciuto dal 35 (nel 1970) al 120% del PIL. Si era allora in un mondo diviso in due e sull’orlo del conflitto nucleare aperto. Qui c’era il partito comunista più forte dell’Occidente, radicatissimo nel mondo del lavoro, e un conflitto sociale di cui ancora si conserva l’odore (il ’68-’69). La scelta tacita fu quella di “pagare a debito la pace sociale”. Fu favorito un “processo di popolo, dal basso, di tanti soggetti”, con grandi partiti di massa e “soggetti intermedi”. E la spesa pubblica provvide a creare le condizioni di un “ceto medio diffuso”, il cui benessere cresceva con gli anni (grazie anche all’evasione fiscale), politicamente moderato. Finita l’Urss e arrivata questa crisi sistemica, quel modello non ha più ragione di esistere. Né possibilità.

12 giugno 2012