nucleo comunista internazionalista
note



GAZA:

GazaUN INTERO POPOLO
– DONNE, BAMBINI,
VECCHI COMPRESI – 
SI STRINGE ATTORNO
AI SUOI COMBATTENTI.
OGNI GIORNO, OGNI ORA DI RESISTENZA STRAPPATA SUL CAMPO E’ UN COLPO INFLITTO ALL’IMPERIALISMO.

Gaza non si piega, Gaza resiste. Martellata senza requiem dalle artiglierie israeliane per una settimana, ora, mentre battiamo queste note, contrasta metro a metro gli attacchi da terra del soverchiante esercito aggressore, dopo che due anni di “normale–pacifico–democratico” blocco e assedio non sono valsi a far piegare la testa alla massa di un popolo stretto attorno ai suoi combattenti.

Lo scopo dichiarato di questa guerra – prosecuzione del “pacifico” assedio – è sintetizzato nelle parole di un ufficiale israeliano: “Hamas deve essere costretta a chiedere in ginocchio all’Egitto di negoziare una tregua completamente differente da quella che era in vigore fino a pochi giorni fa” (dal giornale Maariv, citato in La Repubblica del 29/12/08). Israele intende piegare, con il ferro e con il fuoco, quella massa di popolo palestinese che non accetta la svendita della propria storica causa di riscatto nazionale e sociale. Questo è “il terrorismo” a cui Israele intende spezzare la schiena nella roccaforte di Gaza attraverso la sconfitta e, se possibile, l’umiliazione di Hamas e del popolo combattente tutto. Per poter trattare poi “la pace” dalla posizione di forza acquisita sul campo con interlocutori “affidabili” e “rispettabili”, cioè con uno strato di borghesi “nazionali” palestinesi prostituiti all’imperialismo, a cui affidare il compito di polizia del proprio popolo oltreché la gestione di una massa di traffici e danari alle spalle dei diseredati.

E’ del resto quello che avviene in Cisgiordania dove gli uomini della cosiddetta ANP, Autorità nazionale palestinese, cioè gli Abu Mazen e soci, non hanno cessato di perseguitare con ogni mezzo le ali radicali del movimento nazionale palestinese, tanto il Fronte Popolare (FPLP) che le organizzazioni radicali islamiche, dall’arresto dei militanti fino all’impedimento della rete di assistenza sociale islamica, facendo ad esempio mancare il cibo agli orfanotrofi da essa gestiti! Questi autentici scherani dell’imperialismo fanno pandant con “fratelli arabi” sul tipo del regime egiziano che in questi giorni riempie le carceri, nel silenzio pressoché totale della “libera informazione”, di centinaia e centinaia di oppositori i quali vivissimamente reclamano sia data man forte ai resistenti di Gaza.

Ma, nonostante i combattenti della Striscia siano lasciati soli a contrastare l’orda dei “pacificatori”–normalizzatori israeliani, punta avanzata della democrazia in Medio Oriente, la massa popolare e combattente non ha ceduto di schianto né, al momento, è venuta meno la sua compattezza politica, come non cedette la resistenza libanese nel giugno del 2006, quando seppe spaccare più di qualche dente sul grugno degli aggressori, vincendo politicamente quella battaglia. Sicché ogni giorno, ogni ora che passa è un dazio più pesante fatto pagare all’aggressore, è un colpo piazzato a parare se non a respingere del tutto il suo criminale disegno politico.

Ogni giorno, ogni ora che i resistenti di Gaza riescono a strappare sul campo – con la determinazione ed il sacrificio di tutti, donne, bambini, vecchi compresi – è una spina in più, è un colpo inflitto, una sconfitta politica (certo, non misurabile sul piano immediato) per il famelico lupo israeliano, al cui interno non è vero, come vogliono i tamburini della propaganda, che vi sia un fronte sociale totalmente compatto a sostegno della guerra (un’opposizione interna oggi numericamente e politicamente debole, chiamata dai combattenti di Gaza a prendere coraggio per ribellarsi, a comprendere che anche la salvezza della parte sfruttata di Israele dal destino da incubo preparatogli da quanti ne hanno voluto fare la prima linea dell’aggressione infinita dell’Occidente al mondo arabo–islamico sta unicamente nella decisa denuncia e scesa in lotta, dall’interno di Israele e del mondo ebraico, contro questo criminale disegno).

E’ una spina in più, è un colpo inflitto all’imperialismo che spalleggia attivamente questa guerra, ossia il tandem Bush–Obama. Perché di questo si deve parlare, cioè della piena partecipazione al massacro, volente o nolente, del neoeletto presidente, che, come a lavarsi le mani, non proferisce parola sulla guerra in corso, guerra da mesi programmata e a cui egli stesso nel passato mese di luglio ha dato di fatto il suo benestare. Sia ricordato in faccia a chi persino dall’ ”estrema sinistra” sbrodola innanzi a questo “campione del cambiamento”.

E’ una spina in più per gli “agnellini” dell’imperialismo europeo che ad Israele contestano (quelli – s’intende – che arrivano a “criticare” Israele, vedi i Sarkozy, i D’Alema...) il mezzo “sproporzionato” usato per raggiungere un fine sul quale tutti gli imperialisti – lupi ed “agnelli”– convergono. Una spina per la stampa e i mass–media occidentali tutti che, come vediamo in Italia, nascondono la realtà e la vista degli eccidi di Israele e li coprono, insieme all’intera classe politica di governo e di opposizione, con fiumi di ipocrisia, concorrendo attivamente in questo modo all’attacco che punta a isolare e piegare i combattenti di Gaza.

E’ una spina in più, un bruciante schiaffo politico per quei regimi arabi e islamici che, camminando su una fune tesa, devono contorcersi una volta di più davanti ai propri popoli, dove tuonano in un diluvio di vuota retorica contro Israele per coprire le loro vergogne e il loro servilismo. Non si tratta solo del regime egiziano o della Giordania, la cui regina “ha commosso le masse” andando a donare il sangue “per i fratelli palestinesi”, ripresa da nugoli di telecamere assiepate all’ospedale di Amman. Pensiamo al regime turco – in ottimi affari fra l’altro con Israele stesso – il cui primo ministro davanti alle masse maledice Israele “per i bambini e le donne innocenti morti sotto le bombe”, mentre lo condanna “per aver provocato una tragedia utilizzando una forza eccessiva”. “Una forza eccessiva”! Cioè gratta, gratta, dietro il fiume di retorica appunto, la critica non oltrepassa il limite segnato dalle “riserve” degli imperialisti europei. Fino a quando potrà andare avanti questa commedia inscenata da queste svergognate borghesie arabo–islamiche? E davvero questi borghesi, compresi gli scherani interni di Palestina, potranno gioire e godere dei frutti per una eventuale sconfitta o drastico indebolimento di Hamas? O non è vero piuttosto che ogni giorno, ogni ora che i combattenti di Gaza strappano sul campo è un calice di cicuta che le borghesie svendute e colluse devono buttare giù, è un colpo che fa tremare gli equilibri interni di questi regimi e ne prepara la caduta, è un colpo in profondità all’ordine imperialista, è un gradino poggiato sulla salita che porta verso la rivoluzione alla scala di tutto il Medio Oriente?

La resistenza di Gaza è, infine, una spina in più, uno schiaffo in faccia a quello straccio di “opposizione democratica e pacifista” che in Occidente “si oppone alla guerra” sulla base pressoché esclusiva della lamentazione umanitaria e di una sostanziale ancorché mascherata (più o meno abilmente mascherata) equidistanza dalla “violenza reciproca”, degli oppressi e degli oppressori. “Opposizione” intrisa e imbevuta del più profondo spirito di conservazione dell’ordine costituito. E’ per converso una spinta, una esortazione materialmente lanciata a quella massa, non certo oceanica ma non è questo che importa, che in Occidente scende in piazza con autentica partecipazione umana e con rabbia per l’orrore che si perpetra sul corpo degli oppressi di Palestina. Una esortazione a che essa apra gli occhi, si spinga più in là, metta sul serio in discussione fino in fondo e superi le attuali direzioni di una sinistra più o meno “radicale” che nei fatti svolge la funzione di copertura “progressista–pacifista” delle manovre dell’imperialismo europeo. Oppure dovremo aspettarci una nuova copertura, un nuovo plauso ad eventuali possibili interventi “di intermediazione”, di una ennesima “nostra forza di pace” in Palestina, come è stato per la copertura ed il plauso dato al “nostro intervento di pace” in Libano? (E staremo a vedere che ne sarà “dei nostri ragazzi” e della loro funzione di “intermediazione e pace” in Libano qualora gli eventi della guerra in corso dovessero trascendere Gaza e trascinare nella battaglia l’Hezbollah e la resistenza libanese...)

Si leggano al riguardo le esortazioni al combattimento che l’Hezbollah lancia ai fratelli di Gaza: una resa senza un accanito contrasto sarebbe cadere in ginocchio innanzi all’aggressore e lasciare campo libero ai disegni di controllo e asservimento su tutta l’area, che è l’obiettivo strategico degli imperialisti, i quali colpendo la roccaforte di Gaza intendono anche mandare un preciso monito – un preciso avvertimento terroristico – all’insieme delle masse arabo–islamiche sulla sorte che prima o poi spetta a chi si mette sulla strada dell’ ”estremismo”, del “fanatismo”, ovvero – secondo la neolingua da Orwell 1984 usata da lor signori – del “terrorismo”, come Hamas appunto. Una resa senza condizioni, una capitolazione non sarebbe “meglio”, sarebbe peggio sotto ogni punto di vista, e solo chi è impregnato di spirito servile o è al servizio diretto del padrone può ritenere il contrario. Questo va detto e ripetuto con forza soprattutto qui in Occidente e soprattutto nell’ambito della nostra sinistra–sinistrata dove il motivo umanitario e compassionevole di fronte all’ennesima tappa del calvario cui è sottoposto il popolo palestinese serve da paravento, serve da schermo dietro il quale celare non solo e non tanto l’equidistanza dalla “spirale di violenza e fanatismo”, quanto a celare il dato essenziale e cioè che si devono prendere e tenere per bene le distanze da ogni e qualsiasi istanza delle masse oppresse foriera di perturbazioni per l’ordine, da ogni e qualsiasi istanza di lotta e sfida reale all’imperialismo, da ogni e qualsiasi movimento che possa muovere le cose verso la rivoluzione. La brutalità e la guerra d’Israele sono condannate certo, ma perché esse non possono che provocare e istigare in profondità il rancore, l’odio e il “fanatismo” degli oppressi, i quali invece andrebbero sedati con altri mezzi e con altri mezzi “ricondotti alla ragione” e costretti dentro le maglie del presente ordine.

Non sarà inutile ricordare quanto cento anni fa, nel 1908, Lenin scriveva a proposito dell’opera dei colonialisti inglesi in India e della copertura ad essi data dai liberals–progressisti, ove rimarcava come qui si svelasse “quali belve diventino gli ‘uomini’ politici europei più ‘civili’, passati per la scuola superiore del costituzionalismo, quando la situazione determini un risveglio della lotta delle masse contro il capitale, contro il sistema coloniale capitalistico, cioè contro il sistema dell’asservimento, del saccheggio e della violenza”. Ed aggiungeva: “ma solo i pedanti incurabili e le mummie rimbambite possono lamentare che i popoli siano entrati in questa scuola di sofferenze. Questa scuola educa le classi oppresse a fare la guerra civile, le educa alla rivoluzione vittoriosa, concentra nelle masse degli schiavi moderni l’odio che eternamente si nasconde negli schiavi oppressi, ottusi, ignoranti e che spinge ai più grandi eroismi storici gli schiavi coscienti della vergogna della propria schiavitù”. Parole taglienti e sferzanti, per noi più che mai attuali.

A pesare terribilmente in Palestina e in tutta l’area non è la mancanza di spirito e volontà di combattimento, né tantomeno di armi. E’ la mancanza di un chiaro e organizzato indirizzo di classe che apertamente operi o si predisponga ad operare per la sollevazione delle masse, per il rovesciamento dei regimi borghesi svenduti all’imperialismo, in una parola si predisponga apertamente per la rivoluzione in tutta l’area. E non stiamo qui a ripetere come ciò si debba in primo luogo alla mancanza qui nelle metropoli di un indirizzo e di una organizzazione di classe e comunista.

In campo palestinese, tanto Hamas che l’FPLP che la Jihad islamica denunciano, con toni e accenti diversi, “il tradimento” e la corresponsabilità nella attuale guerra dei regimi arabi compromessi con gli Usa e con Israele, senza però arrivare mai ad esplicitare nero su bianco la necessità di rovesciarli. Tanto il FPLP che la Jihad chiamano all’unità nazionale del popolo palestinese, il che è sacrosanto se inteso come appello a tutti i miliziani, alla base popolare ed in armi della stessa Al Fatah, a far fronte comune in questo tragico e difficilissimo svolto, ma diventa contradditorio, segnale di confusione e di debolezza politica, laddove mai si esplicita, nero su bianco, la necessità di denunciare fino in fondo e rompere del tutto con gli scherani dell’imperialismo, di combattere apertamente questo strato di borghesia che è una autentica quinta colonna del nemico con cui nessuna “unità nazionale” che non comporti castrazione e depotenziamento della lotta può essere siglata.

Ma è nell’Hezbollah libanese, cioè nel movimento nazional–borghese di resistenza all’imperialismo forse più avanzato nella regione, certo quello che a più riprese ha saputo tener testa e sconfiggere Israele, che si tocca il limite estremo fino a cui l’attuale resistenza arriva senza tuttavia poter “rompere il ghiaccio”, cioè a dire senza chiamare apertamente le masse dell’intera area alla sollevazione oltre e contro le micro–segmentazioni “nazionali” imposte dall’imperialismo e seppur al livello di una sollevazione popolare nazional–borghese di area contro di esso.

Nasrallah, la vigorosa guida spirituale del movimento, dice: “per gli americani, per l’imperialismo non c’è difficoltà ad accettare un governo di una qualsiasi tendenza, di una qualsiasi religione, purché esso accetti di mettersi a disposizione, di svendere la propria dignità nazionale”, perciò il vero problema non è con l’Islam in sé, ma è con noi, è con Hamas, in quanto “il nostro programma politico rifiuta di abbandonare al proprio destino i prigionieri ed i profughi, rifiuta di svendere la nostra terra e la nostra sovranità”. Questa guerra è “guerra americana e israeliana con la complicità dei regimi arabi collusi”. E dunque – annotiamo – non c’è una parola né una menzione per il ruolo dell’Europa, con cui – è del tutto evidente – si immagina possibile dialogare fruttuosamente e in cui si cerca una sponda in funzione anti–americana. L’imperialismo europeo semplicemente non c’è, almeno per ora, nonostante le sue truppe scorazzino per il paese a vegliare “sulla pace”.

Hezbollah chiama bensì tutto il popolo a stringersi attorno alla resistenza di Gaza, ma – anche qui – senza mai affondare il coltello verso la dirigenza palestinese collusa. Chiama alla mobilitazione le masse dell’area ed in particolare quelle di taluni regimi asserviti. Ma in che modo lo fa? Rivolgendosi alle masse egiziane, le esorta “ad aprire con le proprie mani il valico di Rafah”, ma precisa che questo non deve assolutamente significare che Hezbollah intenda intromettersi negli affari interni di alcun paese, che intenda violare la sovranità di alcun governo, bensì testuale: “quello che stiamo facendo è chiedere pacificamente agli egiziani di cambiare la loro politica”.

Insomma si lancia il sasso e si ritrae la mano. Si arriva fino all’estremo punto di rottura, ma ci si lascia la porta aperta per una eventuale sempre possibile contrattazione fra Stati e fra governi, anche quelli palesemente più svenduti che nel ginepraio degli incroci di interessi borghesi nel Medio Oriente possono sempre addivenire a “svolte” e l’acerrimo nemico di ieri diventare il prezioso alleato di oggi. Come si può, infatti, parlare di “tradimento” o di “complotto” di questi regimi e delle borghesie colluse con l’imperialismo, come se la loro opera infame e controrivoluzionaria cadesse, giunta l’ora della battaglia, come un fulmine a ciel sereno? Proprio questo è uno dei punti critici e dolenti ma decisivi su cui si ferma un’Hezbollah, tanto per dire la forza che più si sta spendendo nel sostegno reale alla resistenza di Palestina, la forza che nel 2006 ruppe l’isolamento di Gaza, allora e sempre sotto attacco, aprendo da nord le ostilità con Israele.

Queste parziali ed anche rozze annotazioni critiche sono fatte con tutto il rispetto dovuto a chi vive e lotta sotto il fuoco e a diretto contatto con la ferocia dell’imperialismo, ben sapendo che l’assenza di un chiaro indirizzo di classe lì si deve alla mancanza qui, nelle metropoli, di un indirizzo e di una organizzazione di classe e comunista per la quale anche con queste note ci battiamo. Esse vogliono essere il nostro piccolo tributo che rendiamo ai combattenti di Gaza ed alla insorgenza degli oppressi in tutto il Medio Oriente, il terreno di comune mobilitazione e iniziativa al quale chiamiamo quanti – italiani, arabo–palestinesi e immigrati di ogni altra provenienza – in questi giorni stanno scendendo in piazza per contrastare con la lotta e per sconfiggere l’ennesimo crimine di Israele, di cui portano intera la responsabilità gli imperialisti americani ed europei, Italia ben compresa.

Viva la Comune di Gaza!





PER UN BREVE RIASSUNTO DELLE NOSTRE POSIZIONI

  1. Alla fine della seconda guerra mondiale il sionismo poté mettere in atto, col consenso ratificato poi dall’ONU (URSS stalinista compresa), la creazione di un proprio stato nazionale (esclusivista, su base razziale) in Palestina a spese della popolazione locale araba. L’operazione si “giustificava” con la presenza preesistente di nuclei ebraici in zona (noi diremmo: compresenti accanto ed assieme alla popolazione araba) e si avvaleva di un flusso, via via più consistente, di elementi ebraici venutisi lì ad insediare per preparare il terreno ad essa, con l’acquisizione di vasti territori in proprietà “adeguatamente pagati in contanti” ai proprietari feudali arabi senza sensibili reazioni a ciò –e questo va onestamente detto– da parte delle famose “masse arabe”, all’epoca quantomeno in arretrato rispetto ai propri compiti nazionali e sociali, che prenderanno corpo –e non senza ambiguità, esitazioni etc. etc.– successivamente, “grazie” anche all’intrusione del più avanzato elemento ebraico in zona). La creazione dello stato di Israele poté trovare una complice simpatia anche a sinistra grazie ad alcuni fattori pesanti: la questione del “necessario risarcimento” ai lutti provocati al popolo ebraico dal nazismo (dimenticando, però, le complicità in ciò delle “democrazie” e del “socialismo” di marca staliniana) e l’illusoria caratterizzazione “socialista” dei primi insediamenti ebraici, in particolare coi suoi kibbutzim, presunti post–capitalismi “collettivi ed egualitari” (ma, ahinoi!, su base razziale ed a rapido esaurirsi delle iniziali spinte “socialiste” nazionali a pro’ di una pura e semplice accumulazione nazional–capitalista). A ciò ci aggiungeva la considerazione relativa ai fattori di indubitabile progresso che l’elemento ebraico avrebbe introdotto in quest’area arretrata (sorvolando sulla sua caratterizzazione colonial–razzista). Così passava tranquillamente l’opera del sionismo, in chiave dichiaratamente anti–marxista, da decenni impegnata nel suo disegno reazionario proprio contro l’integrazione dell’elemento ebraico nella lotta proletaria d’Occidente, cui aveva dato il fior fiore dei propri figli; operazione facilitata dall’”epurazione” del nerbo proletario stesso del “popolo ebraico” grazie a nazismo, democrazie e “socialismo” staliniano.
  2. Noi non dimentichiamo che contro questa deriva ci furono anche degli encomiabili sforzi da parte di settori ebraici, non dimentichi del proprio retroterra marxista occidentale, per promuovere una diversa soluzione della questione che vedesse assieme proletari arabi ed ebrei, su un terreno di parità ed unità, in lotta sia contro il sionismo trionfante che contro le bandierine nazionalistiche manovrate dai potentati reazionari arabi. Un’eco di ciò, per la sua stessa natura, travalicava i confini dell’area e, ad esempio, se ne ha traccia anche in Italia attorno al gruppo arabo–israeliano dei Quaderni del Medio Oriente (1968–1972) usciti sotto la responsabilità di Arturo Schwarz (lodevole intellettuale “trotzkista”), ma (e ci mettiamo un altro ahinoi!) all’insegna di “per una pace democratica nel Medio Oriente”, porta aperta per ben altre paci e... guerre. Questa corrente, inizialmente anche di una certa consistenza, non poteva approdare, purtroppo, che al deflusso successivo delle istanze “socialiste” (inconseguenti) di partenza ed al logico venir meno delle soluzioni di compromesso su cui si basavano. L’estremo testimone di esse, oggi, si riduce ad una pattuglia di “pacifisti” ebrei indissolubilmente legati alla “realtà intangibile” dello Stato di Israele seppur disposti a “lasciar vivere” gli arabi nei loro ghetti separati.
  3. L’irruzione di un modello capitalisticamente avanzato in zona ha fatto, però, necessariamente da volano ad una nuova coscienza araba in cui le istanze nazional–risorgimentali si combinano con l’esigenza di una autentica rivoluzione sociale nell’area, sia pure entro limiti che, inizialmente, sono ben lungi dal posizionarsi sul nostro terreno internazionalista di classe. Noi siamo interamente solidali con questo movimento attraverso cui passa necessariamente la prospettiva socialista nostra (e non “araba”, tanto per intenderci) ed alla quale chiamiamo a congiungersi i pochi, attuali, elementi proletari di punta dello stesso Israele.
  4. A chi ci obietta che così ci porremmo sul terreno dell’”eliminazione” degli ebrei dall’area noi rispondiamo: è proprio vero il contrario. Se in Italia, putacaso, noi ci battiamo per il “diritto” degli extra–comunitari di farsi “cittadini italiani” a pari titolo con gli... indigeni che già lì si trovano da “sempre”, lo facciamo da un punto di vista internazionalista di classe, rivoluzionario, che nulla ha a che spartire con la demagogia del “cittadino”. Lo stesso deve valere per i “cittadini” ebrei in Israele, liberati –in questo caso– dal proprio ruolo colonialista a servizio di uno stato oppressore (piccola differenza con quanto sopra). Gli “ebrei” dovranno avere tutti i “diritti” di vivere accanto e con la popolazione araba una volta distrutto lo Stato di Israele come stato colonial–razzista; nel che si riassume il senso della nostra insegna: “per una soluzione socialista nel Medio Oriente” e nel mondo.
  5. Siamo antisemiti? Anche qui è vero il contrario. Noi temiamo (e lo ripetiamo: temiamo, non ci auguriamo, sia ben chiaro!) che l’attuale blocco ebraico internazionale attorno al “diritto di Israele ad esistere” (in quanto stato del tipo già sopra definito), in nome di uno stato imperialista di area e strettamente legato alla superpotenza imperialista USA, cui la lobby ebraica dedica il “meglio” di sé, possa portare a nuove forme di antisemitismo sino al “socialismo degli imbecilli” di cui parlano i nostri classici. E questa sarebbe la peggior via d’uscita per tutti: per l’elemento ebraico ed anche ed in primis per quello arabo, per non parlare di “noi” qui. Perciò ci battiamo a favore della nostra soluzione socialista, che non discrimina tra ebrei ed arabi, ma tra proletari e borghesi. Ovunque, nel mondo, c’è posto e modo per vivere assieme entro una comunità umana senza razze preminenti, senza frontiere, una comunità di uomini sociali.

RESISTENZA PALESTINESE, PROLETARI D’ISRAELE, SOLUZIONE SOCIALISTA IN TUTTO IL MEDIO ORIENTE: TORNIAMO ANCORA SU QUALCHE NECESSARIO PUNTO FERMO.

Quanto abbiamo scritto, in particolare nei brevi cinque punti di riassunto delle nostre posizioni, attiene alla nostra linea d’indirizzo che sappiamo in tutti i sensi lontanissima da una immediata messa in atto come “attualità”. Essa non esprime perciò i “fatti” come “sono” o potrebbero darsi domani mattina, che sono poi quelli da cui necessariamente partire in concreto onde evitare che la prospettiva comunista si riduca a pura predica ideale. E, tuttavia, essa indica il cardine su cui misurare i (necessari) “passaggi”, per evitare di ricadere nel puro “concretismo” di chi si limita ad inseguire i fatti (e, di regola, piantonarli nei loro aspetti controrivoluzionari). Qualcuno potrà definire la nostra posizione come “parolaia”, a misura che essa non si adatta allo stato delle cose, ai “dati dello scontro reale” –ce la siamo spessa sentita suonare!–, ma, in ogni caso, meglio la Parola che la Forca. Nel passato si era “parolai” a denunciare la direzione Al Fatah del movimento palestinese, oggi lo saremmo tanto nel non mettere il silenziatore alla critica rispetto alla natura nazional–borghese delle attuali direzioni “radicali” della resistenza quanto nell’insistere a considerare essenziale il coinvolgimento del proletariato israeliano per la nostra prospettiva ossia per la soluzione socialista in tutto il Medio Oriente.

Qualche esempio in merito.

Nel corso della seconda guerra mondiale il movimento operaio ufficiale, al di qua ed al di là “del Muro”, trovò naturale, smaltita la sbornia del patto Hitler–Stalin e delle false rivendicazioni “leniniste” ricamateci su all’epoca, dare addosso ai “tedeschi” come categoria dello... Spirito, pescando dal filosofo di Pescasseroli con le sue imbecillità quanto all’eterno spirito (per l’appunto!) teutonico e ripescando da tutti i vomitevoli luoghi comuni antigermanici degli interventisti –poi fascisti– della prima guerra mondiale. Ovvio che i proletari dei paesi “deliziati” dall’esercito nazista dovessero darsi una risposta contro di esso. Ma altrettanto ovvio per noi che questa risposta dovesse anche coniugarsi con uno sforzo di fraternizzazione di classe con l’elemento proletario tedesco; quello, non dimentichiamolo!, che più a lungo e con maggior energia in Occidente aveva saputo brandire le insegne della rivoluzione proletaria contro il nemico imperialista incominciando dalla propria casa. O, altrimenti, avremmo indebolito i coefficienti della stessa, autentica, battaglia antifascista (di fatto andata persa attraverso le varie, tardive, “resistenze” affittate agli interessi dell’imperialismo “democratico” che oggi ci domina, e vediamo con quali risultati!). Battaglia ingaggiata da pochi gruppi marxisti, ma battaglia fondamentale in prospettiva.

Allo stesso modo, noi diciamo che oggi, in Medio Oriente e nel mondo, non accettiamo la consegna “antiebraica” od “antiamericana”, quali che ne siano le giustificazioni neoresistenzialiste. Per quanto –e questo è un “fatto”– la maggioranza o, in certi casi (come in Israele) la quasi totalità della popolazione nostra, proletaria sia attualmente adagiata su posizioni di compattamento sciovinista, pro–imperialista, i termini della questione restano questi. Non ci immaginiamo un futuro mondo libero a condizione della previa eliminazione degli “ebrei” e degli “americani”, ma a condizione che si ritrovi il cemento unitario anticapitalista che veda uniti nella lotta anticapitalista, internazionalista, anche e in prima linea i nostri fratelli proletari ebrei ed americani.

Ciò non significa affatto che condanniamo in astratto l’odio sacrosanto delle masse oppresse del Medio Oriente verso tutto ciò che reca i contrassegni “nazionali” dell’oppressione che su di esse si esercita e quindi verso tutto ciò che “sa” di ebraico o statunitense “in generale”, a misura che dall’altra parte del fronte non arriva un sussulto di fraternizzazione con la loro lotta. Non siamo forse lontani dall’esplodere di una rabbia di tal genere anche nelle nostre metropoli. Può non farci piacere, ma l’unica via per uscirne è che i proletari ebrei e statunitensi si dissocino e si contrappongano in concreto dalla “politica” dei propri stati di appartenenza e proclamino apertamente che il nemico principale è in casa nostra. (Allo stesso modo con cui dicevamo ai proletari in divisa perfino delle SS: disertate, ribellatevi ai vostri capi, unitevi al nostro fronte di classe).

Questa prospettiva, lo ripetiamo, è molto lontana dal poter darsi all’immediato, ma resta incrollabilmente la nostra. Lontana, molto lontana anche, ma niente affatto petizione ideale “semplicemente irrealizzabile” come segnali anche minimi che oggi possiamo cogliere per noi dimostrano. E pensiamo alle voci di dissociazione aperta dall’opera criminale del proprio Stato che giungono dall’interno di Israele; pensiamo “alla finestra aperta” sui movimenti di opposizione dentro Israele tenuta per esempio dallo stesso Hezbollah (consultando il suo sito si vedrà come in maniera molto “laica” ed aperta sia data informazione e sia valorizzata, in termini non solo strumentali ci sembra, ogni manifestazione di opposizione interna alla società israeliana).

Al di fuori di essa, anche nell’ipotetica eventualità di un mondo senza ebrei e statunitensi (il che è quanto meno irrealistico, a parte tutto il resto...), non approderemmo ad alcuna soluzione liberatrice nell’area e nel mondo. I pochi, pochissimi, israeliani che stanno su questa sponda (abbiamo sentito un meraviglioso regista israeliano dire: faccio parte di quell’1% che “la pensa” così) devono sapere che solo attraverso una lotta implacabile e incondizionata contro il proprio potere potranno, a loro volta,... condizionare il carattere stesso della lotta araba liberandola dalle sue stesse impasse strutturali, storiche, quando intesa come un “in sé”, svincolato dalla generale prospettiva anticapitalistica ed internazionalistica. Per questo guardiamo ad essi con la massima fraterna attenzione militante. Un granello di senape, oggi, ma da esso ci aspettiamo il crescere di una pianta vigorosa!


8 gennaio 2009