nucleo comunista internazionalista
note




ELEZIONI 2013
NEI TEMPI
SUPPLEMENTARI


Ad urne chiuse un nuovo capitolo politico si è aperto.

Bersani, arrivato primo al fotofinish (e grazie ad un’abbondante dose di doping offertagli in anticipo dai “poteri che contano”), si è presentato al Colle per ricevere l’incarico di governo. Saggiamente Napolitano lo ha avvertito: ti mancano i numeri per mettere assieme una squadra capace di stare assieme e competere per le gare in arrivo (tutt’altro che chiuse entro i confini italiani); vedi perciò di darti da fare per allestire una vera Nazionale entro la quale svolgere il tuo ruolo di giocatore, non precisamente da bomber, assieme agli altri “italiani” arrivati secondi per un soffio e solo perché il via alla competizione elettorale è stato dato con un certo anticipo rispetto ai tempi della loro preparazione atletica. Una bella Nazionale cui possiamo offrirti un buon allenatore esterno al campo di gioco scelto da chi di dovere super partes (ovvero: da parte del sistema che ti ha ingaggiato).

Bersani non si è dato per vinto: la squadra sono io, allenatore centrattacco e difensore in un colpo solo; aspettiamo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica e poi si vedrà.

In attesa, il nostro ha cercato in tutti i modi di farsi aprire una carta di credito in bianco da parte dei grillini (ondivagamente qualificati come “fascisti” in pectore e compagni di strada, ennesima “costola della sinistra” in libera uscita). Ma, giustamente, Grillo non ha accettato di far la parte del semplice tifoso sugli spalti, pretendendo il suo posto in campo. Anche lui, per reazione, attribuendo al proprio movimento il ruolo di squadra in attesa di designazione al podio. Come dirà successivamente: non è che noi abbiamo pregiudizialmente rifiutato di essere della partita; è stato Bersani a metterci nella condizione di rifiutare attribuendoci il solo ruolo di sostenitori passivi esterni. Vero, e già questo la dice lunga sulla funzione di tritasassi antisistema (o, addirittura, di “movimento anticapitalista” in marcia sul Palazzo d’Inverno) del M5S.

Primo esperimento Marini, un moderato del PD cui affidare il compito di convincere i secondi e terzi arrivati ad offrire una delega in bianco a Bersani per la costituzione di un governo “di innovazione”. Il trucco non approda a nulla (e ove fosse riuscito,è dubbio che Marini si sarebbe smarcato dalle indicazioni cui Napolitano, ascoltando una voce superiore, si era tenuto ligio). Era mai pensabile che l’arcinemico Berlusconi si accucciasse in silenzio in cambio di nulla, anzi a prezzo della propria umiliazione? O che Grillo accettasse di fare la stessa cosa in omaggio ad un “vecchio rudere continuista” come presidente della repubblica?

Secondo asso nella manica: mettiamoci Prodi, che sta anche nella classifica dei “quirinati” del M5S, nostro garante per fottere Berlusconi. E qui lo stesso PD si è spaccato tra i sostenitori del ghe pensi mi bersaniano e le forze più attente alle indicazioni di squadra nazionale imposta dalla situazione non solo italiana, ma di tutta una serie di paesi (dalla Spagna alla Slovenia) cui è necessaria una Grosse Koalition nazionale unitaria. Cerchiamo di non radicalizzare lo scontro sinistra-destra virando al centro. Prodi, già in viaggio di ritorno dall’Africa per ascendere al Colle, resta a bocca asciutta e con lui l’incauto Bersani che, come dice D’Alema, l’ha messo in pista senza averne precedentemente curato l’allenamento (cioè: senza essersi preventivamente assicurato il ritiro degli altri concorrenti od averli prima azzoppati).

A ridosso del voto su Prodi Grillo si è inventato le sue “quirinarie” tra 50.000 web-elettori della propria parte con 28.000 votanti effettivi (l’astensione colpisce anche il web!) e ne è venuta fuori una proposta “alternativa” quale espressione della “volontà democratica del popolo” en petit comité. Prima la Gabanelli, pescata, non a caso, dal serbatoio mass-mediatico televisivo. Una voce “fuori dal coro” (anche se sarebbe tutto da vedere, come ha notato un lettore del Manifesto: «Milena Gabanelli, grande giornalista d’inchiesta, implacabile contro i poteri piccoli e medi... per conto dei poteri forti! In ciò perfettamente in linea con il “Corriere della Sera” e “Repubblica” (...) mentre i vari Monti, Marchionne, Grandi Fondazioni Bancarie ecc. sono sempre fuori da ogni orizzonte d’inchiesta»). La Gabanelli saggiamente si ritira dopo averci fatto sopraun breve e ridicolo “pensierino”. Secondo arrivato: Gino Strada, e siamo già meglio. Ma anche Gino Strada non ci sta: non ci sto a fare il candidato di facciata ed, in ogni caso – espressione che ci è piaciuta – “io non sarei il Presidente di tutto il popolo”. Resta il terzo campione in corsa: Stefano Rodotà. 4.677 grillini lo hanno votato “in nome del popolo sovrano”! L’uomo giusto: un onest’uomo “di sinistra”, garante della privacy ed assertore convinto dei “beni pubblici” (dall’acqua al parlamento), già ex-radicale e poi pidiessino. Candidato eccellente dei 5S, ma tutt’altro che indigeribile in potenza per i bersaniani in funzione anti psiconano (siamo alle solite!). SEL ci sta subito: finalmente si può ricucire con Grillo dopo il tiro mancino giocatogli improvvisamente all’inizio. Un gioco troppo al rialzo per il PD, in chiaro controsenso con le indicazioni venute da Napolitano e... da un po’ più in alto: il paese non può farsi prendere in ostaggio dalle grilleidi che tendono a dividerlo. Prodi, allora, contro Rodotà (incazzatissimo). Perdenti entrambi.

Ma su questa scacchiera già assistiamo a sviluppi curiosi. SEL insiste su Rodotà col duplice scopo di gettare un ponte a Grillo e rimescolare i giochi “all’interno della sinistra” (da ricompattare e trasformare... più a sinistra). Certi personaggi influenti del PD sarebbero d’accordo: ad esempio il sindaco di Bari Emiliano e il neofita Barca, ministro montiano (quindi artefice in prima persona di tutte le belle misure antioperaie del “governo dei tecnici”) che un giorno prima della sua personale scesa in campo si prende la tessera del PD e lancia immediatamente dopo un suo personale programma socialdemocratico – legge Fornero a parte, o nel dimenticatoio – per un nuovo PD, una fetta del vecchio PD, “ripulito” dal “moderatismo centrista”). Ed a proposito di Barca: è sintomatico della situazione attuale in seno a certa “sinistra doc” che, in assenza di un proprio programma e di una presenza “radicata sul territorio”, come si usa dire, ci si affidi di volta in volta ad un mago che estrae dal cilindro un personaggio creato in vitro per propiziarsi al rilancio. In un paese serio simili trucchetti troverebbero l’accoglienza che si meritano, ma per tanti dei nostri Mandrake (o il mago Oronzo?) va bene. Leggere Il Manifesto coi cuoi soliti Burgio per convincersene.

Per non essere da meno anche il suddetto Manifesto ha svolto in redazione le sue quirinarie incoronando Rodotà, ma affacciando anche il nome, di “alternativa” di conserva, della Bonino (come ha fatto lo stesso Barca, d’altronde), anch’essa in corsa con Grillo.

Così si ritorna a Napolitano ed alla sua saggia agenda di partenza. Diciamolo chiaramente: chi vuol bene a questa Italia borghese non può smarcarsi da essa Staremo a vedere come andrà a finire, anche se, al di là degli esiti immediati, la strada è già segnata: governo nazionale forte, non ingabbiato dai giochetti parlamentari (il capitalismo sa bene muoversi sul terreno extraparlamentare all’occorrenza, infinitamente più di certi contestatori di “certe” sue magagne!). L’esperimento Monti è stato semplicemente il battistrada su questa via.

Siamo, ora, a Letta, in conformità agli “interessi superiori e comuni alla patria”. Con molti mal di pancia nel PD, prossimo a spaccarsi tra “responsabili” e cadaveri eccellenti in cerca di una ricollocazione “progressista” comunque priva di programmi “alternativi”, od anche solo di un programma qualsiasi. Ed anche ammesso che il Barca va, o qualcosa del genere, cosa resterebbe a costoro al di fuori di un “compromesso storico”? Il ritorno alle bandiere rosse ed alla scesa in piazza per il “cambiamento”? Non fateci ridere!

FRIULI-VG: UN TEST IN CONTROSENSO?

Nel frattempo si è votato per la Regione, ed altre frattaglie, in Friuli-Venezia Giulia. Qui ha vinto di un soffiettino la candidata PD & Co. Serracchiani. L’esito è stato favorito sul piano strettamente numerico da due fattori: l’intromissione di una lista di destra in concorrenza col blocco-Tondo, composta da alcuni non commendevoli figuri, e la provvidenziale estromissione dalla corsa della lista Ingroia per un banale “vizio di forma” nella presentazione della lista, col conseguente allineamento degli estromessi al “meno peggio” serracchianiano, e, in più, il “scilipotismo” di certi elementi di centro-destra schieratisi all’ultimo minuto a favore della Serracchiani a causa di una loro non soddisfacente collocazione nel centro-destra. (Va notato, tra parentesi, ma non tanto, che la Serracchiani ha raccolto soprattutto il voto dei settori più “culturalmente” e socialmente – ancor relativamente – favoriti, il che dà alquanto da pensare sugli sviluppi futuri dentro la crisi)

Vittoria del PD in controtendenza? Non ci pare proprio. A favore della Serracchiani, a parte una sua campagna molto attiva ed accorta, con un sacco di ripuliture delle proprie stalle e la proposizione di candidati più (umanamente) presentabili di quelli dell’avversario, ha giocato anche la decisa presa di distanza della vincitrice dal PD nazionale in chiave precedenza, che può piacere anche a certa destra sino al “compagno”... La Russa; specie in presenza di lotte intestine micidiali e stomachevoli per le poltrone in seno al centro-destra locale) e uno spinto autonomismo regionale. Dichiarazione a caldo: ho vinto “nonostante il mio (?) partito”; “non meritavamo di rimanere sotto le macerie di Roma, noi siamo un’altra cosa. Autonomi, indipendenti e speciali”; “l’elettorato sa distinguere le persone”. E questo è vero soprattutto in questa fase di continua ricerca di personaggi nuovi e giusti dietro cui convogliare programmi. Da notare che la Serracchiani ha totalizzato qualcosa come 55.000 voti extra-coalizione dei partiti in suo appoggio.

Un altro passo verso l’esperimento in laboratorio di nuove formule “innovative” del e per il sistema. Siamo solo ai primi passi. Le conclusioni già scritte si vedranno in seguito.

Ma, a parte ciò, due dati queste elezioni vanno prepotentemente rimarcati: a) l’astensione record dal voto (quasi un 50% dei potenziali elettori è rimasta a casa), b) il crollo del M5S. Le due cose stanno assieme. Tanti degli “incazzati” che, nella tornata elettorale precedente, avevano decretato il trionfo di Grillo hanno capito, anche dalle vicende nazionali per l’elezione del Presidente della Repubblica, che la “delega” ai 5S per “trasformare il mondo della politica”, era del tutto improduttiva. Né la tribuna parlamentare né quella (cloroformizzata) di piazza hanno prodotto il miracolo. Rispetto alle recenti elezioni politiche una buona metà dei voti a Grillo si è volatilizzata.

Resta così la disaffezione, un sordo astensionismo in attesa di un uomo od un santo della di cambiare le cose, ed è un pessimo segnale per il futuro, a meno che la rabbia che sale non venga raccolta ed indirizzata dalla forza di classe del proletariato (prospettiva tutt’altro che dietro l’angolo).

Rimane la rabbia “popolare”, con tutte le sue sacrosante ragioni, alla base della quale sta la realtà di un capitalismo impietoso, ma essa non si traduce in un movimento anticapitalista in atto o in prospettiva certa per il futuro. C’è, anzi, oggi ancor più rabbia che qualche mese fa quando si votava in massa il M5S (che, a suo modo, cercava persino di organizzarla collettivamente). Un astensionismo di queste dimensioni, cui deve aggiungersi una valanga di bianche e nulle (piene di insulti per “la politica”), sta a significare in qualche modo l’impasse in cui il sentimento popolare si trova, ed è un segno di regresso (sempre “a meno che”...) persino rispetto al precedente voto di massa per il M5S, dietro il quale si agitava qualcosa di più tangibile sul piano di una primordiale coscienza – e tentativo di organizzazione collettiva – da parte della base. Ed è dubbio persino che lo “zoccolo duro” possa restare indenne rispetto alle sirene delle soluzioni emergenziali proposte dai “partiti di regime”, purché “con gli uomini – e le donne – giusti al poso giusto”. Sarebbe interessante sapere quanti grillini hanno votato per la Serracchiani pur di “non astrarsi dal concreto fattibile”. Tanto più che lei, come prima misura preannunciata, ha invocato un immediato taglio dei costi della politica, tipico cavallo di battaglia degli anti-casta grillini (e Grillo stesso ha detto: se Bersani l’avesse promesso avremmo potuto avviare un percorso d’intesa). Sarebbe questo l’avvio dell’antisistema? Non ci pare proprio. La monocorde insistenza di Grillo sul tema “anticasta” a scapito di una presa di posizione reale sui temi, anche locali, del lavoro che sparisce o fa comunque schifo etc. etc. produce i suoi ovvii effetti, che si pagano, eccome.

Piccola nota a margine. E’ di questi giorni l’annuncio che gli USA ci stanno regalando una settantina, pare, di atomiche da dislocare sul territorio italiano, di cui una cinquantina ad Aviano, in Friuli, che già sapevamo di ciò provviste. Chi ne ha parlato in queste elezioni regionali? O l’importante è che queste bombe non deturpino il paesaggio e non ci inquinino la salute come fa l’ILVA di Taranto? (Ma andatevi intanto a vedere la statistica sui tumori in zona). E dove è andata a finire la mobilitazione contro la base-USA di Vicenza? Altro che i soldi sperperati dalla “casta”! Vero è che Grillo è contro le spese militari “improduttive” da convertire a favore della PMI, ma a credere che per un capitalismo che nessuno mette in causa le spese militari siano solo uno spreco e non una necessità e che, sempre rimanendo entro il sistema, si possano convertire le spade in aratri (come diceva il buon Pertini) può essere solo un fesso.

Si curi l’acne e si lasci stare il tumore capitalista. Questo potrebbe essere il motto dei neo-ippocratici in campo. La marcia per invertire la rotta sarà lunga e difficile, ma sarebbe bene, intanto, comprendere qual è il compito che ci compete in quanto comunisti.

POST SCRIPTUM

La nota qui sopra era stata scritta da tempo. Per un incidente tecnico la possiamo pubblicare solo ora. Recuperiamo il ritardo aggiungendovi un breve commento sul “dopo” in attesa di intervenire più in dettaglio sulle convulsioni in seno alla “sinistra”, quella maggioritaria della parte “più progressista” del PD e quella spostata all’“estrema”... del centrocampo. Possiamo per il momento solo registrare che quest’ultima, galvanizzata dal dissenso apertosi nel PD e dal “seguito di massa” delle sue rodotate, si sta attrezzando per le ennesime corse elettorali in vista come “grande e decisiva” occasione per il “rilancio di una nuova sinistra” da ammucchiata tra “soggetti plurali” da far confluire in un contenitore “unitario”, ma, tutti, sino al singolo individuo, indipendenti e sovrani (“una testa un voto”). “Come nel resto d’Europa”, si afferma, portando in appoggio l’esperienza della Gauche plurielle francese o spagnola o la Syriza greca. Tutte esperienze non solo minoritarie elettoralmente (non vorrebbe dir niente!), ma sprovviste – come si può constatare sul campo – di ogni e qualsiasi capacità di rappresentare un’alternativa antagonista. Quel poco che attualmente si muove in senso classista non potrà che tendere ad uscire da questa strettoia, e ne abbiamo già alcuni esempi sotto gli occhi. Questo il percorso che a noi interesserà seguire e su cui intervenire, sia pure da “quattro gatti” quali ci ritroviamo ad essere, ma non castrati. Ed a questa scala si vedrà davvero se “il passato” del comunismo autentico rappresenti un “residuale settario” privo di concretezza (come leggiamo sul solito “Manifesto”) o la premessa del futuro proletario.



E così siamo arrivati alle larghe intese, anzi: alla loro seconda edizione dopo l’esperienza di bigamia montiana. Passaggio obbligato, come abbiamo in precedenza scritto, non in quanto stabile esperimento di coalizione permanente tra “diversi”, ma come avvio di una forte politica di coesione nazionale diretta col pugno di ferro. Obiettivo cui, al presente, manca la precondizione essenziale: un partito borghese centralizzato, dotato di una sua inflessibile politica, e con basi di massa d’appoggio. Per il momento: mettiamo in salvo la baracca sulla base di un accordo di governo bipartisan perché non è proprio il momento del mors tua vita mea. Qui, “o si salva l’Italia o si muore”, tutti assieme (come profetizza Grillo fingendo di non essere della partita per la salvezza del Titanic-Italia). Il solito Burgio scriveva sul Manifesto: “le presenti elezioni sono una questione di vita o di morte”. Già, dipende di chi o che cosa. Avvertiamo che Burgio per il momento è vivo, ma ancor più vivo e pimpante è il sistema che lui avrebbe voluto “emendare” (altro che mettere al muro!); e quindi?

Da questo gioco governativo obbligato è senz’altro uscito da campione Berlusconi, subito passato all’incasso, ma che dovrà ben guardarsi dall’alzar troppo il tiro per non ritrovarsi a terra perché il PDL rimane tuttora un partito sui generis estremamente fragile, incapace di reggere la sfida di cui sopra alla distanza.

Sconfitti ne risultano i PD bersaniani e “giovani turchi”, fautori avventati di un “governo di innovazione” invano ricercato gettando ponti d’oro al M5S per non si sa bene qual genere di “innovazione” praticabile, ma assolutamente privi di un credibile programma “alternativo”. Tant’è che, attualmente, ci si rassegna al pateracchio in corso piantando paletti “ideali” sull’acqua. Siamo arrivati alla resa dei conti in seno ad un partito divaricato quanto alle prospettive future su un “che fare?” di cui mettersi alla testa, ma con progressivo sfondamento delle proprie risorse “alla base”. Ed avanza, allora, lo stellone di Renzi che, invece, ha ben chiare le sue linee di marcia su cui sta raccogliendo sempre più vasti consensi (extra ed anti-proletari, va da sé) trasversali. Il suo punto di forza? L’assenza dell’antagonismo di classe, tuttora ridotto ad una sorta di “riserva indiana” disarmata e smarrita cui si sa bene non ricorreranno i suoi competitors interni.

Qualche frattaglia elettorale la potrebbe raccogliere il SEL, già sposo felice di Bersani ed oggi “legalmente separato” dal coniuge infedele (momentaneamente si spera), tentato dall’ipotesi di raccogliere i frantumi del PD “rossochiaro” per la “ricostruzione di una nuova sinistra” (sempre in linea di discesa rispetto al “vecchio”). E’ il PD ad aver messo le corna a Vendola o non è piuttosto quest’ultimo ad averle scientemente messe al “popolo della sinistra” per portarlo al macello?

Della faccenda in corso può godere il M5S per tentare un rilancio della propria linea intransigente, non uscita benissimo dagli ultimi avvenimenti. Un ottimo regalo, ma – diciamo noi – per un progetto di sopravvivenza, magari confortata all’immediato dal consenso “popolare”, non per dirimere realmente i nodi sul tappeto.

Piccolo dettaglio: nella squadra di governo di “larghe intese” accanto alla caramella della congolese promessa all’“integrazione” (!), secondo una regola già sperimentata in Francia dallo stesso Sarkozy c’è la polpetta avvelenata della Bonino (sulla quale rimandiamo ad un ottimo intervento di Manlio Dinucci che riportiamo in calce). Pronto OK da parte di Washington e Tel Aviv per l’inserimento ad un posto-chiave della loro rappresentante diretta (oltre che di una minoranza di manifestini e grillini). La cosa la dice lunga sul grado servitalia pro-imperialista di questo governo, programmaticamente incapace di presentarsi anche solo come euroindipendentista. Sintomatico che quasi nessuno ne tragga delle conclusioni (salvo qualche compagno “fuori riga” e... Rinascita, su tutt’altro versante).

Annotiamo, a margine, l’importante segnale lanciato da Bonanni per un “patto tra i produttori”, capitalisti ed operai in panne “sulla stessa barca”. Un bel programma “corporativo”, fascio-democratico, cui non mancano i presupposti per andare avanti (sempre in assenza del famoso convitato di pietra di cui sopra). Primo esperimento apripista: a Treviso il Primo Maggio si è fatto con la partecipazione unitaria imprenditori-lavoratori fianco a fianco. Tristissimo sentire degli operai parlare di “fronte comune” e comuni “interessi nazionali”, magari insorgendo contro le delocalizzazioni in quanto gli stranieri “ci rubano il lavoro in Italia”!

Il sindacato si assumerebbe, in ciò, il ruolo di protagonista e garante. Noi la vediamo diversamente: questa carta, per essere opportunamente giocata, deve passare di mano ad altri, al partito della borghesia offensiva in incubazione.

Merita un accenno la questione del “tragico fatto di sangue” svoltosi di fronte al palazzo del potere. Ovvio che per noi Preiti non rappresenta in nulla e per nulla la rabbia che sale dal basso della nostra classe, non solo perché –sociologicamente– piccolo imprenditore andato in rovina senza essersi potuto rifare al gioco (!) e, poi, disoccupato “al pari” di tanti lavoratori, ed imprenditori veri. Ciò non toglie al suo gesto il valore di un sintomo di un disagio generalizzato cui manca un catalizzatore ad hoc (e ne parliamo per quel che ci riguarda come classe). Ma è “stupefacente” (per chi è già narcotizzato) che quest’episodio abbia prodotto una singolare unità d’ordine.

Al Giornale non è parso vero di poter intitolare il proprio commento in materia Il grilletto. Ossia: l’“antipolitica” grillina eccita di fatto simili azioni inconsulte o, più in generale, un pericoloso “spirito di protesta” che non si sa dove potrebbe andare a finire. Ovvio che il pericolo non sta in qualche altro Preiti pronto a far fuoco, ma nella fiamma di classe. Attenti a non accenderla!

Reagisce Grillo. Ma come? Limitandosi a dire che “la democrazia esclude la violenza”. Solo quella dei Preiti o non anche, e soprattutto, la nostra?

Commovente, a questo punto, la pronta conversione degli “irriducibili” del PD pronti a non votare la fiducia a Letta rimangiatasi in un botto. Non si può dire che l’avvertimento del Giornale non abbia fatto scuola.

Si può anche piangere sullo stato di miseria nera cui sono ridotti oggi i proletari, si può anche “simpatizzare” con essi quando salgono per protesta (castrata) sui tetti delle fabbriche, si può anche versare qualche lacrima coccodrillesca sui proletari che si suicidano..., ma qui sono in gioco le istituzioni, la democrazia, ed allora dobbiamo essere “responsabili”.

Già: RESPONSABILI!

2 maggio 2013



La fiducia arriva dagli USA

Enrico Letta ha ricevuto la fiducia: quella del segretario di stato Usa John Kerry che, ancor prima che la votasse il parlamento italiano, si è congratulato per la nascita del nuovo governo. Fiducia ben meritata. Enrico Letta, garantisce John Kerry, è «un amico buono e fidato degli Stati uniti, che ha dimostrato in tutta la sua carriera un fermo impegno nella nostra partnership transatlantica». Il governo Letta, sottolinea Kerry, assicurerà il proseguimento della «nostra stretta cooperazione su molte pressanti questioni in tutto il mondo». È quindi il segretario di stato Usa a trattare un tema fondamentale che i partiti italiani hanno cancellato dal dibattito e dai programmi con cui si sono presentati agli elettori: la politica estera e militare dell’Italia. Il perché è chiaro: Pd, Pdl e Scelta Civica hanno su ciò la stessa posizione. Possiamo dunque essere sicuri che l’Italia continuerà ad essere base avanzata delle operazioni militari Usa/Nato in Medio Oriente e Africa: dopo la guerra alla Libia, si sta conducendo quella in Siria, mentre si prepara l’attacco all’Iran. E, in barba al Trattato di non-proliferazione, resteranno sul nostro territorio le bombe nucleari che gli Usa hanno deciso di potenziare. Allo stesso tempo l’Italia continuerà a inviare forze militari all’estero, anche in Afghanistan dove la Nato manterrà propri contingenti dopo il «ritiro» nel 2014. Aumenterà di conseguenza la spesa militare, in cui l’Italia si colloca al decimo posto mondiale con 70 milioni di euro al giorno spesi con denaro pubblico in forze armate, armi e missioni militari all’estero. A rafforzare la fiducia di John Kerry che l’Italia resterà alleato fidato sotto comando Usa è la nomina di Emma Bonino a ministro degli esteri. La Bonino, sottolineano a Washington, è una ex allieva del Dipartimento di stato, presso cui ha frequentato un corso di formazione (International Visitor Leadership Program). Brillante allieva. Ha sostenuto i bombardamenti della Nato sull’ex Jugoslavia; ha sostenuto la guerra in Afghanistan, dichiarando che «non si può parlare di occupazione: qui c’è una forza multinazionale» e che «un’occasione militare può condurre alla democrazia»; ha accusato Gino Strada di «atteggiamento ambiguo, tra l’umanitario e il politico». Ha sostenuto la guerra in Iraq, affermando che «non c’era alternativa per sconvolgere la rete terroristica» dopo l’11 settembre e ha definito «irresponsabili» i manifestanti contro la guarra. E, in veste di vice-presidente del Senato, è stata tra i più accesi sostenitori della guerra alla Libia, chiedendo nel febbraio 2011 la sospensione del trattato bilaterale perché «lega le mani all’Italia nel prestare soccorso alla popolazione civile», «soccorso» arrivato subito dopo con i cacciabombardieri. La Bonino potrà contare sui corsi di «peacekeeping» della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (già diretta da Maria Chiara Carrozza ora ministro dell’istruzione), che vengono tenuti anche in Africa. A quando, dopo quella in Libia, la prossima operazione di «peacekeeping»?
(“il manifesto” 30.4.2013)