nucleo comunista internazionalista
note





QUALE “DIFESA DELLA VITA”?

Eluana Englaro si è spenta dopo 17 anni di mantenimento artificiale di una non–vita vegetativa divenuta pura afflizione. Due giorni prima il capo del Governo facendosi paladino “della difesa della vita ad oltranza” ed aprendo quel che si dice “un grave conflitto istituzionale” pronunciava frasi come: “in teoria potrebbe ancora avere un figlio”; frasi che dovrebbero, indipendentemente dal personaggio che le ha pronunciate, suscitare il ribrezzo persino fra chi, dalla parte del “movimento per la vita”, non sia preda del puro isterismo ma voglia vedere in tutta onestà e giudicare le cose per come si danno anche senza con ciò pretendere una preventiva abiura della propria fede, dei propri principi sull’uomo, sulla vita e sulla morte.

Lo diciamo perché avvertiamo come anche in quelle fila si trovi una parte non irrilevante di giovani e di gente sana spinta a reagire al disfacimento e all’alienazione della presente società trovando rifugio nell’alienazione religiosa che è in realtà complementare alla laica venerazione dello Stato, delle sue sacre tavole e costituzioni. (“Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto” dice Marx) Si vorrebbe giustamente “uscire da questo mondo”, si finisce invece sotto le ali protettive di una colonna portante proprio di questo mondo: tale è l’istituzione cattolica, tale è l’istituzione religiosa in generale.

Questi “difensori della vita” che arrivano ad attribuire al padre della sfortunata il ruolo di “pubblico ministero, giudice e boia” (Avvenire, 10/2) promanano da quell’istituzione che ha coperto, solo per restare ai fatti più evidenti dell’altro ieri, la caccia al sovversivo e gli assassinii di massa in paesi come il Cile o l’Argentina, che ha legittimato e sostenuto gli “interventi umanitari” dell’imperialismo dalla Somalia (con marines e “nostri” parà impegnati in prima fila a ...”portare la vita” a quelle popolazioni) ai Balcani. Di quale “difesa della vita” parlate signori?

Quando è il caso, fra l’altro, “difensori della vita” di tal specie marciano benissimo in piena comunione d’intenti con gli “spiriti laici” persino più estremi, pensiamo all’esempio dei radicali vera quintessenza “liberale–libertaria” dello spirito borghese (quello che pretende per l’”IO” individuo borghese la più piena “libertà”: “libertà” di drogarmi, “libertà” di prostituirmi, “libertà” di vendere i miei organi, insomma “libertà” totale e assoluta di stare e competere sul mercato). Ebbene i due estremi–complementari possono benissimo combinarsi, e di regola si combinano quando è in gioco l’interesse del Dio–Capitale: ve lo ricordate il santone dei radicali italiani in Jugoslavia vestito nella tuta mimetica del cattolicissimo esercito croato a difesa della civiltà contro la “barbarie serbo–comunista”?

Un cane sciolto del giornalismo italiano (Massimo Fini) dopo aver denunciato l’osceno balletto intrecciato sulla vicenda scrive: “il diritto a una morte naturale significa che la vita non può e non deve essere allungata artificialmente” e che “lo Stato moderno che tutto vuole controllare, che tutto vuole regolamentare, in una sorta di ossessione codificatoria di derivazione borghese, ci ha tolto molti diritti. Ci lasci almeno quello di morire in santa pace”.

Anche noi stiamo per la difesa di questo triste diritto, affinché non vi sia alcun “accanimento terapeutico” e mantenimento artificiale di uno stato di “vita” puramente vegetativo contro ogni pretesa dell’”assolutismo” cattolico di dettar legge in materia.

gazzettinoCiò non significa eludere, fuori dall’oscena bagarre montata sul caso Eluana, questioni ben serie e profonde messe innanzi dallo stesso campo “dei credenti”. Ad esempio abbiamo letto: “Si comincia con Eluana e si finisce coi nonni mezzi cotti che morendo ti lasciano l’appartamento”, per dire di come una fascia sempre più numerosa –qui dentro la nostra alta civiltà occidentale– di esseri umani “inutili” (che si sentono o sono stati resi tali, “inutili” dentro e per questa società del Capitale! pensiamo ai nostri vecchi ma non solo), di esseri umani tagliati fuori da una vera vita sociale possano pensare o addirittura essi stessi chiedere “di farla finita”, e ricevere da parte dello Stato una “risposta razionale” a questo loro “bisogno” (e lo Stato ed il Mercato trovando “razionale” e funzionale questa “libera soluzione”: non è forse razionale e funzionale per il capitalismo la distruzione e la guerra? Non deve esso distruggere in ogni modo la sovrapproduzione e gli esseri umani stessi in sovranumero?).

Il “diritto alla vita” per noi si conquista sulle ceneri di questo mondo del capitale, è nella società finalmente umana libera dalla merce, dal lavoro salariato, dal denaro. Libera dall’alienazione statale e religiosa.

I nostri principi, i principi dei comunisti sulla vicenda della vita e della morte sono riassunti in questo breve ma potente scritto che qui vogliamo ripresentare.

11 febbraio 2009



A Janitzio la morte non fa paura

«In Messico, nel lago Patzcuaro, si trova la piccola isola di Janitzio. A 2.350 metri d'altezza, un paesaggio stupendo si spalanca davanti ai visitatori: acque tranquille, montagne dai fianchi tormentati, un cielo così vicino che sembra di poterlo toccare col dito. Discendenti da una razza fiera, gli indiani Tarascani combatterono contro gli Spagnoli «conquistadores». Furono vinti e adottarono la religione cristiana degli invasori; ma i santi che essi venerano hanno conservato i caratteri delle antiche divanità. Il Sole, l'Acqua, il Fuoco e la Luna. I Tarascani sono abili nel lavorare il cuoio, nello scolpire il legno, nel lavorare l'argilla e nel tessere la lana. Sono anche abilissimi pescatori. Quando ritirano le loro reti dalla strana foggia, somiglianti a grosse farfalle, sono sempre ricche di pesce. Ma anche se industriosi, i Tarascani sono ancora molto primitivi. Essi considerano infatti la vita come uno stato transitorio, un breve momento che bisogna passare per giungere alla beatitudine della morte. La morte non rappresenta più un'inesorabile fatalità; al contrario essa è considerata un bene, l'unico veramente inestimabile. Ecco perché «il giorno dei morti» non è, per gli abitanti di Janitzio, un giorno di dolore. La festa inizia di buon mattino. Le case vengono decorate a festa e tutte le immagini dei santi si arricchiscono di pizzi e fiori di carta. I ritratti dei defunti vengono esposti e illuminati da decine di ceri. Le donne preparano i piatti favoriti dai parenti defunti poiché essi, tornando a visitare i vivi, vi traggano consolazione.

Nel cimitero, dietro la chiesa, si decorano anche le tombe che molto spesso non hanno nome. Non vi sono iscrizioni funebri a Janitzio! Ma non per questo si dimenticano i morti. La via che conduce dal cimitero al villaggio viene cosparsa di petali di fiori, affinché i defunti possano agevolmente trovare la strada di casa.

Nel «giorno dei morti» le donne di Janitzio si fanno belle. Pettinano le lunghe trecce scure e si adornano di gioielli d'argento. Il costume si compone di una lunga sottana rossa bordata di nero a larghe pieghe. La camicetta ricamata scompare sotto il «rebozo» che ricopre la testa e le spalle e dal quale, spesso, spunta la testina dell'ultimo nato. A mezzanotte le donne vanno tutte insieme nel camposanto e si inginocchiano a pregare per i loro cari defunti. Accendono i ceri, i più grandi dedicati agli adulti e i più piccoli per coloro che se ne sono andati troppo presto da «questa valle di lacrime». Poi si abbandonano alla meditazione che, a poco a poco, si traduce in parole. Inizia così uno litania che non è di dolore, ma che esprime la comunione esistente tra i vivi e i morti.

Intanto gli uomini rimasti al villaggio si riuniscono a bere vicino alla chiesa dove è stato elevato un catafalco nero dedicato ai morti che non hanno più nessuno che preghi per loro. Ritorneranno a casa verso l'alba, mentre le loro donne, che hanno vegliato tutta la notte al cimitero, vanno a sentire la messa seminascoste nel «rebozo». Trascorre così a Janitzio «la giornata dei morti». Sui volti degli abitanti del villaggio non si legge dolore, ma la festosa aspettativa di chi attende la visita delle persone più care».

Abbiamo ripresa tal quale e col suo titolo questa notiziola da un giornale italiano per i ragazzi. È una delle tante rifritture di materiale americano di «cultura» che passano di giornale in giornale e di rivista in rivista senza che pennaioli di servizio si accorgano di altro che del grado di effetto del pezzo che circola. Il ricopiatore ennesimo non si è nemmeno sognato il significato profondo che la sua diffusione nasconde, sia pur nella forma convenzionalmente conformista.

Le nobilissime popolazioni messicane, diventate cattoliche sotto il terrore spietato degli invasori spagnoli, mostrerebbero, col non avere terrore ed orrore della morte, di essere rimaste «primitive».

Erano, invece, quei popoli, eredi di una civiltà incompresa ai cristiani di allora e di oggi, e trasmessa dal comunismo antichissimo. L'insulso individualismo moderno non può che stupire beota se, pur nel testo scolorito, si legge di tombe senza iscrizione e di cibi che si apprestano ai morti che nessuno commemora. Veri «morti ignoti», non per retorica bolsa e demagogica, ma per possente semplicità di una vita che è della specie e per la specie, eterna come natura e non come sciocco sciame di anime vaganti negli extra-mondi, per la quale, e per il suo sviluppo, valgono le esperienze dei morti, dei vivi e dei non nati, in una serie storica il cui avvicendarsi non è lutto, ma gioia di tutti i momenti del ciclo materiale.

Anche nel simbolo, quei costumi sono più alti di quelli nostrani, ad esempio in quelle donne che si fanno belle per i morti e non per il più danaroso dei vivi, come nella società mercantile, fogna in cui noi siamo immersi.

Se sotto le spoglie degli squallidi santi cattolici vive ancora la forma antichissima delle divinità non inumane, come il Sole, ciò ricorda le notizie - quanto giunte a noi travisate! - della civiltà Incas, che Marx ammirava. Non erano primitivi e feroci tanto da immolare i più begli esemplari della specie giovane al Sole che chiedeva sangue umano, ma splendide di un intuito possente, quelle comunità che riconoscevano il fluire della vita nella energia, che è la stessa quando il Sole la irradia sul pianeta e quando fluisce nelle arterie dell'uomo vivo e diventa unità ed amore nella specie una, che fino a quando non cade nella superstizione dell'anima personale col suo bilancio bigotto di dare ed avere, soprastruttura della venalità monetaria, non teme la morte e non ignora che la morte della persona può essere inno di gioia, e contributo fecondo alla vita dell'umanità.

Nel comunismo naturale e primigenio, anche se l'umanità è sentita nel limite dell'orda, il singolo non ha scopi che consistano nel sottrarre bene al fratello ma è pronto ad immolarsi per il sopravvivere della grande fratria senza alcuna paura. Sciocca leggenda vede in questa forma il terrore del dio che si plachi col sangue.

Nella forma dello scambio, della moneta, e delle classi, il senso della perennità della specie sparisce, e sorge quello ignobile della perennità del peculio, tradotta nella immortalità dell'anima che contratta la sua felicità fuori natura con un dio strozzino che tiene questa banca esosa. In queste società che pretendono di essere salite da barbarie a civiltà si teme la morte personale e ci si prostra alle mummie, fino ai mausolei di Mosca, dalla storia infame.

Nel comunismo, che non si è avuto ancora, ma che resta certezza di scienza, si riconquista la identità del singolo e della sua sorte con quella della specie, distrutta entro essa tutti i limiti di famiglia, razza e nazione. Con questa vittoria finisce ogni timore della morte personale, ed allora soltanto ogni culto del vivo e del morto, essendo per la prima volta la società organizzata sul benessere e la gioia e sulla riduzione al minimo razionale del dolore della sofferenza e del sacrificio, togliendo ogni carattere misterioso e sinistro alla vicenda armoniosa del succedersi delle generazioni, condizione naturale del prosperare della specie.


(da "Programma Comunista" n. 23/1961)