L’ondata di manifestazioni anti–Ahmadinejad in Iran sta dando la stura ad una rinnovata campagna qui in Occidente a favore della “democrazia violata” in quel paese e che noi saremmo ben felici di esportarvi, visto anche che ce n’è una forte domanda sul mercato. Poi, visto che in queste manifestazioni è massiccia la presenza di giovani e, in particolare, di studenti, persino l’estrema sinistra (si fa per dire...) di qui sente aria di casa, “onde” progressiste da ascoltare e promuovere amorevolmente.
Nessuno di questi signori si era accorto, prima del voto, degli impedimenti frapposti alla propaganda dell’opposizione, tranquillamente svoltasi in casa e... soprattutto fuori e, quindi, a nessuno di essi era saltato in testa di parlare di bocche cucite dal regime (e tantomeno del tipo di scandali alla berlusconiana –propri semmai della democrazia opulenta!– da poter imputare all’integerrimo Ahmadinejad). Ma, dopo lo scrutinio dei voti liberamente espressi, tutti pronti a saltare sul carro di Moussavi, il “riformatore”, il “moderato”, cioè quello che sta dalla nostra parte. Voto “truffa”, ribaltamento dei dati (non 2 a 1,ma 1 a 2, come “comprovato” dalla moviola omologata –dall’Occidente– dei contestatori).
Non è la prima volta che assistiamo a tentativi di “rivoluzioni arancione”, dall’Ucraina alla Georgia, dal Tibet alla Jugoslavia, e sempre i borghesi confessi si sono schierati al loro fianco, cuore e quattrini. Non deve più far stupore che persino gli “ultrasinistri” locali (compresi certuni fuori dal giro istituzionale; ma non si sa mai...), a parte i doverosi distinguo rispetto a certi figuri “democratici” in campo, si siano sentiti in dovere di stigmatizzare la mancanza di democrazia vigente da quelle parti e stare, “criticamente” se del caso, dalla parte delle “masse” ribelli.
Poiché ci risulta alquanto difficile trovare delle analisi di classe, scientificamente fondate, sulla realtà delle cose nel campo delle “sinistre” di ogni specie, prendiamone una abbastanza chiara, per chi non si è improsciuttato gli occhi, da... Il Giornale (14 giugno, a firma Livio Caputo):
“E’ difficile credere che, nel clima infuocato creato dalla campagna elettorale, il governo sia riuscito a “fabbricare” nella notte i 10 milioni di voti che hanno diviso i due contendenti. (..) Sembra più verosimile che il messaggio di Moussavi (per il quale il Caputo parteggia, analisi “marxista” a parte, n.), che ha fatto breccia tra i giovani e le donne (di che parte sociale?, n.), contribuendo a una partecipazione al voto dell’85%, non sia arrivato nelle periferie e nelle campagne. Il risultato è che il proletariato (o diciamo pure le classi sfruttate ed oppresse, con espressione più larga, n.), beneficiato da Ahmadinejad con una generosa distribuzione della rendita petrolifera e sedotto dalla sua retorica ultranazionalista (leggi: la difesa di uno straccio di indipendenza reale del paese rispetto ai corvi dell’Occidente, n.), ha sconfitto le classi medie che anelano ad una maggiore libertà, sono stufe delle interferenze nella loro vita privata e vogliono rapporti più distesi con l’Occidente (cioè: sono disposte a barattare l‘indipendenza del paese in nome dei propri affari compradores, n.)”. Ed aggiunge: visto che nuove sanzioni sono in arrivo, con conseguente aggravamento della situazione interna, conviene aspettare: “I riformisti, che stanno mostrando una vitalità, potranno puntare su questi fattori per ritornare alla carica, ma ora è troppo presto”. Anche perché Obama, con grande intelligenza imperialista, mira non più, come il suo predecessore Bush jr. e gli impazienti guerrafondai israeliani, all’attacco diretto dall’esterno,ma alla destabilizzazione “interna”, ad essa offrendo dall’esterno il suo “disinteressato” appoggio. Calma e sangue freddo, perciò.
Già parecchi anni fa abbiamo contrastato lo schema presentato da destra e sinistra sulla realtà iraniana in quanto “stato teocratico” anomalo, che di per sé rappresenterebbe una sorta di “regressione” imprevista, fuori dalla storia corrente (meno che mai interpretabile, quindi, in base a criteri di classe) contro cui ci si dovrebbe (concordemente) mobilitare, borghesi e proletari, ma “moderni”, “civili” in nome della... laicità.
La “rivoluzione islamica”, con tutti i suoi lati sgradevoli imposti dall’isolamento dell’Iran rispetto ad un fronte antagonista proletario occidentale assente, ha rappresentato e rappresenta comunque un tentativo di affrancamento del paese dalla sua arretratezza interna e dalla sua dipendenza post–coloniale (ma non meno pesante rispetto a quella “classica” del passato). Il rivestimento religioso islamico era, con ciò, naturalmente destinato a passare in secondo piano rispetto alle dinamiche tra classi antagoniste prepotentemente rimesse in moto e se, oggi, prevale ancora l’aspetto formale del “comando dei religiosi” sulla società vediamo che il contenuto reale di esso si configura in termini di interessi antagonisti di classe ben precisi che ne attraversano e spezzano l’apparente unità “religiosa” tra rappresentanza diretta di interessi (piccolo e grani) borghesi e tendenze “vicine al popolo”. Insomma: “il clero” stesso diventato molto profano e scomposto per linee di classe. (Ovvio che da nessuno di questi settori ci aspettiamo che si sollevino le nostre bandiere!).
Con una doppia difficoltà per il “regime”: quella di non potere (ancora) far leva su una classe borghese nazionale indipendente sufficientemente forte ed affidabile e dover fronteggiare l’incombente pericolo di un’insorgenza proletaria e “popolare” i cui coefficienti di autonomia sono stati in un primo tempo spezzati con le buone e le cattive (quest’ultime soprattutto, specie in una prima fase particolarmente ostile ad ogni presenza di classe non irreggimentata: non dimentichiamoci mai delle non trascurabili tradizioni proletarie nel paese). Gli sforzi in direzione del primo fattore risultano tuttora insufficienti, ed è anche comprensibile. Rispetto al secondo fattore si è imboccata la via del “populismo” sopra indicata dal Caputo per passare da una fase anche direttamente repressiva ad una di coinvolgimento diretto delle “classi popolari” nel regime con una parziale e molto soft apertura a certe forme di rappresentanza diretta dei loro specifici interessi immediati. Ma qui siamo ad un vicolo cieco, perché l’“immobilizzazione” del proletariato e degli strati che ruotano attorno ad esso avrebbe bisogno di venir superata: per spazzar via l’insidia dei “moderati” spetta ad essi di entrare in scena antagonisticamente in prima persona, svincolandosi dal ruolo di clientes delle generose elargizioni offerte transitoriamente da Ahmadinejad.
Contro questa linea, di per sé irta di contraddizioni e transitoria, si muovono gli interessi delle micragnose classi “produttive” (cioè basso–borghesi) interne, degli strati delle mezze classi aspiranti ad un posto al sole da... improduttivi classici, certi settori della stessa borghesia che conta che si sentono con le mai legate dalle misure populiste del “regime” e (non è escluso) da determinati settori della “società civile” cui vanno ormai stretti i vincoli “clericali” (proprio a misura che la società iraniana sta rapidamente evolvendo, con ciò rendendoli superati) e persino settori operai insofferenti dell’inquadramento “corporativo” in cui li si vorrebbe ulteriormente costringere. (Ma dubitiamo fortemente che questi ultimi possano abboccare all’amo dei Moussavi, i cui intenti “riformatori” sono dichiaratamente rivolti contro di essi).
Questo il quadro attorno al quale si gioca il futuro del paese.
Noi qui, “da lontano”, non possiamo far altro che tifare per i nostri fratelli di classe iraniani e cercare di sollecitarne l’armamento (a tutti i livelli) sul nostro comune terreno di battaglia internazionalista facendo, nel contempo, l’impossibile per combattere le sirene “democratiche” appestanti il proletariato di qui che o si schierano direttamente a favore dell’offensiva imperialista o si acquartierano dietro un comodo “né con gli uni né con gli altri” (lo ricordate il vergognoso “né con Bush né con Saddam” fatto proprio “persino” da Falcemartello?). Facile non essere con Saddam o con Ahmadinejad; altra cosa non vedere, oltre questa cortina illusoria, la nostra classe che c’è e lotta anche là, doverosamente partendo dalla coscienza (quand’anche “islamica”, se non direttamente leninista, ma... tempo al tempo) della distinzione tra paesi oppressi e paesi oppressori. Pare che qui ce ne siamo “dimenticati”, con rigurgiti di sentimenti neocoloniali che in nome della “democrazia” (lusso imperialista: parole di Trotzkij) ci portano a manifestare di fatto contro i popoli oppressi (come nel caso delle recenti gazzarre anti–Gheddafi, ripetizione riveduta e –non troppo–corretta dei proclami “antifeudali ed antischiavisti” mussoliniani per promuovere l’AOI). L’“esportazione” della “democrazia” in questi paesi può significare solo l’esportazione di nuove e sanguinose catene. La risposta ad essa sarà il grido di battaglia della dittatura proletaria internazionale, o saremo tutti insieme fottuti, loro e noi qui, ai quali le sinistre raccomandano di “tenersi nei limiti” per non compromettere le sorti della “nostra” nazione imperialista in difficoltà e, a tal fine, solidarizzare con il “nostro” (“democratico”) interventismo in criminose...“operazioni di pace” (vedi l’operazione Afghanistan ratificata da tutte le forze politiche sedute –comprese quelle oggi sfrattate– in parlamento, PRC–PdCI compresi).
Un imperativo, allora, per il “soggetto comunista”: far sentire anche in piazza la nostra solidarietà con la causa dei popoli oppressi, che è poi la nostra “stessa” causa (usiamo le virgolette per non confondere con eccessiva faciloneria le condizioni materiali specifiche dello scontro di classe: parliamo sempre, con Lenin, di pulcini spaiati di una stessa chioccia cui vanno restituiti unità e becchi adunchi, da aquilotti e non... polli d’allevamento). Difficile scendere in piazza? Ma quantomeno predisponiamone le condizioni cominciando a discuterne da compagni veri.
Rassicuratevi: non stiamo dalla parte di Ahmadinejad, ma sì col suo serbatoio proletario e popolare in movimento e in cerca di una sua strada ed al quale rivolgiamo fraternamente la nostra inequivoca parola comunista, perché solo a questa stregua sarà possibile uscire dal vicolo cieco di un “populismo” senza futuro. (Vale, per altri versi, anche per il Venezuela di Chavez indecorosamente scambiato da taluni come “socialismo del XXI secolo”).
Si può cominciare a discuterne seriamente?
25 giugno 2009