nucleo comunista internazionalista
note




DALLA PARTE
DELLA MASSE ARABE
CHE INSORGONO
CONTRO I POTERI
INTERNI ED ESTERNI
DEL CAPITALISMO MONDIALE

Ci danno una grande soddisfazione i recenti eventi di Tunisia ed Egitto: la mobilitazione prolungata di masse ogni giorno sempre più estese, le battaglie di strada e la corrispondente organizzazione per poter respingere apparati statual-polizieschi agguerriti, gli scioperi dei lavoratori su rivendicazioni politiche (quelle che sono: sostanzialmente, di peso politico rivendicato alla massa, e non è affatto poco) e salariali...

Ci danno una grande soddisfazione tanto più in quanto la cosa sembra potersi e doversi trasmettere oltre i confini di questi paesi, oltre che porsi come potenziale premessa di ulteriori passaggi di protagonismo delle masse in quegli stessi Stati dove il potere borghese è stato scosso con il defenestramento di fantocci dell’imperialismo del calibro di un Mubarak.

Tutto questo sviluppa la nostra più attiva partecipazione a esplosioni di lotta che dal Nord-Africa già lanciano propaggini di incendio verso l’intero Medioriente.

Anche se, purtroppo e data la situazione di forte ritardo politico del nostro campo proletario occidentale, attiva la nostra partecipazione può esserlo (essendo peraltro scontata la nostra presenza alle iniziative di solidarietà che qui in Italia sono state organizzate) solo in quanto partecipazione ideologica, teorica, se vogliamo anche alquanto astratta rispetto a una partecipazione in rebus: di questo si tratta e noi lo diciamo chiaramente, trattandosi dell’attuale limite di un proletariato occidentale – e relative “avanguardie”... – tuttora sufficientemente lontani l’uno e le altre dal prendere in carico le lotte del Nord-Africa come qualcosa che direttamente li/ci riguardi e chiami in causa (e ciò benché non difetterebbero nella situazione data le precondizioni oggettive per l’avvio di un percorso di potenziale – necessaria – saldatura di un comune fronte internazionale di lotta).

Beninteso, chi ci conosce sa che non siamo di quelli che si entusiasmano per qualsiasi rivolta di per sé. Fatto è che noi leggiamo in una determinata chiave le rivolte nel Maghreb di fine 2010 inizi 2011. Chiave che certamente non è quella che viene attribuita e sviluppata generalmente da tante correnti, dai giornali democratici fino ai giornali cosiddetti di sinistra, “comunisti”, anche alcuni “rivoluzionari”.

La più gran parte di costoro, infatti, hanno scritto sciattamente che si tratta una lotta “per la democrazia” e genericamente per il pane.

Noi abbiamo chiaro, innanzitutto, che il proletariato di questi paesi, del tutto in linea con la prospettiva del socialismo internazionale (quand’anche oggi non organizzata e non agente politicamente né lì e né altrove), è fortemente interessato a rivendicare per sé le libertà politiche che gli necessitano per potersi organizzare e lottare contro governi che sono feroci cani da guardia dell’imperialismo.

Ne consegue che escludiamo ogni (im –)possibile associazione di sostanza e di prospettiva tra le istanze politiche rivendicate dalle masse insorte in Tunisia ed Egitto (e vedremo il seguito) e i belati pro-democrazia e pro-costituzione (questi sì contrapposti alla prospettiva internazionalista di classe) con cui tutti i giorni ci ammorbano i “sinistri” di casa nostra infognati nel meschino “scontro politico” italiano.

Inoltre stabiliamo ben nette e, ancor qui, sostanziali differenze tra le rivendicazioni, si dica pure “di democrazia”, agitate da piazze che sfidano governi infeudati e affittati all’Occidente imperialista, con ciò dichiarando coraggiosa battaglia all’intera impalcatura del potere borghese e capitalistico interno e internazionale, e quelle di altre piazze che invece si mobilitano “contro la dittatura” di governi invisi e sotto il tiro di un Occidente che viene da esse invocato in proprio aiuto e di cui ci si propone a moderni “cavalli di Troia”.

Noi pensiamo che gli eventi del Maghreb siano qualcosa di diverso dalla petizione di una supposta universale “democrazia” e dalla rivendicazione di generico “pane”; che questi eventi siano qualcosa di altro e di più, almeno potenzialmente e però già in atto dal punto di vista delle forze che si muovono.

E’ paradossale che l’unico giornale, tra i non pochissimi capitatici tra le mani, che abbia posto la questione in una maniera un po’ più consona ai dati di fatto sia stato il giornale “fascista rosso” Rinascita il quale ha detto: “è una rivolta per il potere delle masse e contro l’imperialismo americano”. Lasciando stare (che significa: non lasciando stare affatto...) tutto quello che è il sottofondo mussoliniano e nazional-proletario sul quale costoro collocano la propria analisi, resta il fatto che in qualche modo proprio di questo si tratta, letto dal nostro punto di vista contrapposto a quel “sottofondo” e alla sua corrispondente prospettiva.

Il che però ci fa pensare. Mentre alcuni “destri sociali” “rivoluzionari” la vedono in un certo modo abbastanza esatto, anche se deformato e portato dal loro punto di vista, contrario e antitetico al nostro, invece alcuni dei “nostri” stentano a chiamare le cose con il loro nome e intonano le solite sbiadite lagne, in questo caso particolarmente stonate a fronte della sostanza incendiaria che si è resa protagonista nelle piazze arabe del Maghreb.

Di che cosa si tratta allora? E’ una lotta innanzitutto contro il potere e contro i poteri, cioè contro il potere interno, ma anche, contemporaneamente, con una sensazione vivissima da parte delle masse contro i poteri decisivi che vengono dall’esterno, cioè fondamentalmente dall’imperialismo americano. L’Europa, che ha le mani più che in pasta, rimane tuttora molto in second’ordine su questi eventi. Non si vuole con questo negare che tutti e ciascuno facciano il proprio gioco, avendo i propri interessi in loco da preservare (anche i cinesi lo fanno, se vogliamo, in ultima istanza), ma resta il dato che fondamentalmente chi oggi tira la questione sono gli Stati Uniti d’America.

Ci si batte contro il potere interno, dunque, in quanto essenzialmente – se non proprio un quisling, sì però – una longa manus del capitalismo internazionale.

Ovviamente c’è poi la questione cosiddetta “del pane”, ma – attenzione – in quanto questione della organizzazione della società in modo che si possano soddisfare i bisogni delle grandi masse della popolazione. Questione “del pane” che si collega a tutto questo: chi ha in mano le redini? a che scopo le destina? Quindi non “il pane” in generale ma proprio la questione, ad essa collegata, anche del potere.

Il che ci fa dire che attraverso quelle sollevazioni siamo veramente a una sorta di secondo tempo del film delle liberazioni nazionali dei paesi già colonizzati dall’Europa e quindi poi dominati in prima istanza dall’imperialismo a stelle e strisce che ha sostitutito nelle prime linee i precedenti colonizzatori e suoi sodali di ieri e di oggi.

E’ in questo film in svolgimento che occorre leggere gli eventi, disvelandone la prospettiva nella cui direzione dare battaglia.

Le lotte di liberazione nazionale degli anni ’50 e ’60 in Africa, in Asia e così via erano potenzialmente tali da poter suscitare un rilancio della lotta generale di classe alla duplice condizione che da una parte ci fosse una spinta molto forte alla periferia e dall’altra parte ci fosse una spinta rivoluzionaria molto forte dal centro. Tutto questo chiaramente non c’è stato. Tutte le lotte meravigliose, secondo le definizioni e gli studi della nostra corrente di sinistra comunista, negli anni ’50 e ’60 in Africa e in Asia si sono urtate contro dei limiti interni ed esterrni, imposti e insiti nel quadro internazionale che si era sviluppato.

In questa situazione è ovvio che anche le lotte di liberazione vittoriose, in Tunisia, Egitto, e anche nell’Algeria dove la lotta fu lunga e cruenta, etc., non potevano mettere capo che a delle situazioni molto transitorie, molto deboli dal punto di vista del rivoluzionamento anche interno dei propri paesi cosiddetti liberati.

Ricordiamo al riguardo alcuni dati.

La Tunisia era stato un protettorato francese dal 1881 al 1956. Dunque un paese, dapprima “francese” nell’arco di quasi 80 anni, che si rese infine indipendente sotto la guida di Bourghiba, leader del partito Destour (poi partito socialista desturiano). Nel 1957, dunque, la Tunisia “ricevette” l’indipendenza e diciamo pure che non si trattò di una cosa contrassegnata da grandissimi stravolgimenti, sicchè si poteva e doveva dire che la Tunisia si era liberata e al tempo stesso era stata in larga parte liberata, nel senso che si ebbe un mix, non un vero e proprio scontro tra lotta di liberazione interna e capitalismo interno e esterno, ma quasi una specie di concessione con la quale i poteri capitalistici (interni ed esterni) poterono preservare e tenere in piedi i vecchi rapporti sociali dal punto di vista sostanziale.

La critica che allora noi abbiamo fatto a Bourghiba si appuntava proprio sulla questione di una trasformazione sociale molto debole, ovvero di una fiacca presa in carico del compito di trasformare i rapporti sociali già esistenti e dati, con un corrispondente movimento delle masse anch’esso debole e fiacco, non decisamente attivo e protagonista nel pretendere la trasformazione e la cui pressione non costrinse più di tanto a procedere in questa direzione (in particolare sulla questione centrale della divisione delle terre, del “riscatto” delle terre colonizzate, le migliori già in gran parte distribuite a francesi e ora riscattate dietro pagamento ai coloni indennizzati, il che non è precisamente misura rivoluzionaria).

La questione dell’Egitto è più complessa. L’Egitto era stato occupato militarmente dalla Gran Bretagna nel 1882. Nel 1914 era stato ridotto anch’esso a protettorato. Nel 1922 era stata riconosciuta la sua sovranità, ma – guarda caso – il ritiro delle truppe inglesi dall’Egitto si è realizzato solo nel 1952.

Nel mezzo c’è la questione della seconda guerra mondiale, durante la quale – ed è una cosa da un lato molto caratteristica in tutti i paesi coloniali e dall’altro purtroppo decisiva in negativo quanto a reale svergognamento del nome stesso del comunismo nell’intero mondo arabo – il potere colonialista inglese e il movimento stalinista che dirigeva il partito comunista egiziano (un partito con effettivi e influenza allora di ben cospicua rilevanza) cooperarono affinché l’intero Egitto, senza defezioni di alcun genere (men che meno di classe), si attenesse alle consegne della lotta antifascista e della remora nei confronti della lotta di liberazione nazionale.

Solo nel 1953 si stabilisce la repubblica dopo l’invio a casa del re Farouk (abituale frequentarore di via Veneto e protagonista dei nostri giornali di glamour per le sue avventure e i suoi sfarzi). Il nuovo regime che si stabilisce nel 1953 è guidato da generali, e segna quindi un cambio che è impulsato molto all’alto, con una partecipazione anche, però e sia pure molto in subordine, della massa: subordine nel senso che la massa non è assente, ma al tempo stesso non riesce ad assumere un ruolo che sia protagonista.

Tra i generali acquista subito peso il famoso Nasser . Ma neanche Nasser si rende protagonista della trasformazione, né cerca di trasformare radicalmente gli assetti del paese dal punto di vista economico-sociale. Egli però accenna certamente a una questione che per noi è fondamentale, la questione della unificazione dei paesi arabi e della loro contrapposizione all’imperialismo, e (in particolare – data la situazione – alla sua coda ultima, epperò molto vicina alle masse del Nord-Africa e arabe in generale, e cioè) a Israele. Famosa la frase pronunciata da Nasser: “non potrà esserci liberazione finché non sarà distrutto lo stato di Israele”. Cosa che oggi suona come una bestiemma agli occhi di tutti (anche a molti “rivoluzionari” che ieri lo gridavano e oggi ne inorridiscono o elegantemente scantonano).

Nasser va avanti su questa strada fino al 1961 quando in pratica finisce il suo giro, e in mezzo ci sono gli eventi del ’56 ovvero il fatto che, di fronte alla nazionalizzazione del canale di Suez e cioè al tentativo di riprendere in mano gli averi e quindi il destino del proprio paese, intervengono contro l’Egitto una serie di forze che sono l’Inghilterra, la Francia e Israele, mentre paradossalmente gli Stati Uniti in qualche modo si schierano contro questa preminenza degli anglo-francesi, per uno scopo ben definito che è quello di installarsi essi stessi al loro posto ovvero di sostituirli nella leadership del dominio ormai di carattere semi-coloniale.

Dunque Nasser lancia la parola d’ordine e la prospettiva della repubblica araba unita, la possibilità – per noi fondamentale – che i paesi arabi, da sempre gravati dalla divisione interna, divisione dipendente da fattori economico-sociali e quindi politici interni, arrivassero ad una ipotesi almeno di unificazione, che è l’unica possibilità reale per uscire dallo stato di dipendenza. Questa ipotesi Nasser in qualche modo la lancia effettivamente e su questo riceve l’appoggio entusiastico delle masse, per quanto sempre alla coda del leader (e non alla testa di una mobilitazione che imponga il tracciato da seguire e il programma da realizzare).

Quale il ruolo del partito comunista egiziano in questo decorso? Esso – lo si è detto – si era realmente sputtanato di fronte alle masse per il fatto che nel corso della seconda guerra mondiale aveva cauzionato tutto il gioco dell’imperialismo democratrico, dalle cui concessioni sarebbe dovuto dipendere lo sviluppo ulteriore (mentre un Nasser addirittura pubblica i testi di Hitler e dice in pratica: “gli imperialisti democratici ci hanno fregato”). Quindi il movimento comunista in Egitto attraverso lo stalinismo si è dato la zappa sui piedi e non è stato nemmeno capace di partecipare autonomamente e antagonisticamente (che sarebbe ed è il nostro punto di vista realmente comunista) nel corso della cosiddetta rivoluzione di Nasser.

Ora, vista la debolezza generale, ovvero la doppia debolezza, sia quella dei movimenti interni nei paesi ex-coloniali e negli ex-protettorati (una debolezza qui anche più giustificata), e sia quella dei movimenti proletari del centro (e qui, più che di debolezza, si deve parlare – con riferimento al complessivo ciclo del secondo dopoguerra – di ignavia e nullità politica), è chiaro che le cosiddette rivoluzioni nazional-coloniali non potevano mettere capo che a un ripiegamento, e questo ripiegamento significava l’assoggettamento in forme nuove, diverse, all’imperialismo. Significava cioè colonialismo dell’era termonucleare, secondo la nostra definizione di allora e di oggi.

Sia chiaro, noi non dimentichiamo il risveglio del ’68 nella metropoli occidentale e anzi lo valorizziamo in quanto tale e come effettivo contraccolpo trasmesso al centro dalle periferie. Noi non dimentichiamo le manifestazioni e finanche gli scioperi pro-Vietnam, ma al tempo stesso non ci nascondiamo la sostanza della solidarietà allora data a lotte di liberazione nazionale viste come lontane da sé e separate dalla propria lotta per il miglioramento delle proprie condizioni; sostanza corrispondente alle condizioni oggettive di un ciclo di sviluppo che ancora non vedeva invertita la sua china verso l’inizio di una nuova discesa.

Questa effettiva separatezza non poteva che preludere, allora, al ripiegamento delle lotte nazional-coloniali, sostanzialmente isolate dall’assenza del proletariato occidentale in quanto protagonista agente del proprio programma storico.

E’ questa infatti una regola che vale per tutti, vale anche per la più avanzata delle rivoluzioni. Valse anche per la rivoluzione russsa, che era il top dell’assalto proletario, ma che in mancanza di determinate condizioni non poteva che mettere capo al suo accartocciamento, alla sua involuzione, alla controrivoluzione. Questo è stato anche per paesi come la Tunisia, l’Egitto, e anche per gli altri come l’Algeria, il Marocco etc., che oggi vediamo nuovamente (ma in un complessivo scenario molto diverso da quallo datosi allora...) sull’orlo di essere investiti da una mobilitazione delle masse che auspichiamo possa smuovere la stessa Arabia.

Ne traiamo la nostra conclusione, opposta a quella del filisteo che può sempre dire: avete sempre perso, la vostra ipotesi è andata sempre a pallino, sia rispetto alla Russia e sia rispetto alle rivoluzioni nazional-coloniali. Noi pensiamo a una cosa del tutto contraria, perché vediamo che i dati oggettivi di fatto e di scontro portano al rimergere di una lotta necessaria, indispensabile, vitale contro il tipo dell’oppressione, contro il significato stesso dell’oppressione di cui questi paesi stanno soffrendo.

In questo senso noi diciamo che siamo alla seconda parte del famoso film. La prima parte è stata la lotta di liberazione nazionale più o meno coraggiosa, eroica, rivoluzioanria, anche in armi, molto spesso magari in trattati, e la seconda parte del film, ovvero il fatto che le masse cominciano a rimettere in gioco le questioni proprio della struttura che le opprime e che è una struttura interna, cioè i Mubarak e i Ben Ali e i vari altri altrove, ed esterna, cioè l’imperialismo, soprattutto americano oggi, ed essendo sempre nel conto che nel prosieguo degli eventi anche gli altri imperialismi intervengano più direttamente nella complessa partita.

Un secondo tempo che noi abbiamo visto annunciato sin dal 1979 con la insurrezione popolare (con rilevante partecipazione proletaria) che in Iran travolse lo Scià di Persia, il Mubarak filo-occidentale di allora.

Le cautele che gli imperialisti occidentali mostrano oggi, nel cercare di precostituire le condizioni di un trapasso politico in Tunisia ed Egitto che non riservi ad essi amare sorprese, trovano fondamento proprio nel precedente iraniano. In tal senso non devono incantarci più di tanto i richiami dei rappresentanti occidentali che sulle prime “non disturbano” affatto la repressione feroce dei propri manutengoli locali e poi, quando hanno visto che essa non è sufficiente per sedare la piazza, intonano ammonimenti “per le riforme democratiche” e “contro la repressione di chi manifesta pacificamente” (contro polizie ed eserciti che ti sparano addosso), cercando di preservare proprie soluzioni di ricambio di un assetto di poteri, interni ed esterni, che possano essere accettati dalla massa.

In realtà è bene ricordare che negli sviluppi del 1979 iraniano furono proprio le cancellerie occidentali ad accreditare e favorire, come ultima spiaggia e una volta viste bruciare tutte le altre soluzioni ad esse ben più gradite, la carta dell’islam politico e del movimento sciita come estremo baluardo contro un’insorgenza sociale e proletaria che, nel cuore del Medioriente e dell’Asia, minacciava in profondità l’ordine capitalistico, in Iran e non solo. E dunque fu poi il movimento sciita a reprimere, spalleggiato in questo dall’imperialismo, lo sviluppo ulteriore della lotta e dell’organizzazione politica di classe in Iran.

Ne ha fatto seguito un governo islamico dai tratti che abbiamo definito propri di un antimperialismo reazionario. Una lezione, quella iraniana, che, repetita juvant, non ci induce minimamente ad accreditare le cosiddette rivoluzioni verdi che oggi in Iran occhieggiano all’Occidente. Così come chiariamo ancora che nulla hanno a che vedere le attuali sollevazioni del Maghreb né con “i muri crollati nel magnifico ’89”, né con le cosiddette rivoluzioni verdi/arancioni di ritorno o con le piazze Tien-An-Men che inalberano a propria bandiera i simboli dell’Occidente “contro la dittatura”. Questi accostamenti, che campeggiano sui “nostri” rotocalchi borghesi, tradiscono soltanto le preoccupazioni e le aspettative interessate degli imperialisti di casa nostra, insieme agli sviluppi da essi agognati e al cui esito (di sonora sconfitta del moto delle masse) essi brigano con tutte le loro forze.

Una lezione quella iraniana che sì invece ci rammenta quanto sia proibitivo il cammino del proletariato nei paesi dove esso è doppiamente oppresso (dai poteri capitalistici interni e dall’imperialismo), ove difetti la lotta di classe vera nella metropoli che lanci un segnale di presenza e protagonismo sul terreno di un reale internazionalismo di classe, così rompendo quell’isolamento che troppo spesso si è rivelato drammatico per il proletariato che in quei paesi ha coraggiosamente ingaggiato con le proprie forze la battaglia di classe.

Ora in tutto questo noi vediamo che, per la prima volta dopo molto tempo (e sono passati altri 30 anni dallo stesso 1979), ma attraverso questa incubazione che c’è stata, incubazione sotterranea ma molto importante, molto lenta ma – almento per noi che non ci limitiamo all’immediato – visibile, noi vediamo che le masse si ripresentano, ora, in azione.

In che modo lo fanno? Nel modo in cui possono farlo, è evidente! Non immaginiamoci assolutamente che siamo alla vigilia di una rivoluzione socialista. Però siamo in presenza di una massa popolare che si rende protagonista nelle strade. Massa popolare: usiamo questo termine nel modo esatto, cioè una grande massa proletaria che già esiste in Tunisia e soprattutto in Egitto e una massa di non sfruttati che soffrono delle condizioni interne ed esterne del capitalismo in questi due paesi e negli altri paesi a venire (né ci facciamo impressionare più di tanto dal fatto che i più attivi nella protesta sembrerebbero i settori appartenenti a un ceto medio, più istruito e anche in parte occhieggiante alla “modernità” occidentale; questi infatti sicuramente sono i più organizzati e con più mezzi, oltre che gli interlocutori “naturali” dei nostri cronisti, ma dubitiamo fortemente che appartenga ad essi la forza che sta creando qualche serio problema all’assetto dato della dominazione imperialista in Nord-Africa e Medioriente, e si vedrà...). Masse che quindi entrano in campo e chiedono la soddisfazione dei propri bisogni ed il cui primo bisogno è quello di contare, cioè di avere un potere.

Ora questo potere noi sappiamo che non si prefigura immediatamente come l’immagine di un potere socialista, di un potere di classe immediato che si pone come la rivoluzione proletaria, che anche se ci fosse dovrebbe scontrarsi, in paesi come la Tunisa e l’Egitto, con i problemi del socialismo in un paese solo, per di più molto arretrato con tutto quel che ne consegue. Non è questo il fatto, epperò è il fatto importante che per la prima volta noi vediamo queste masse che dopo molto tempo si muovono. La stampa dice che si muovono “immediatamente”, “spontaneamente”, e invece per noi questo “immediatamente” e “spontaneamente” vuol dire sotterraneamente, da tempo, necessariamente da tempo e quindi con la possibilità che quanti si mobilitano si riconoscano, si incontrino. Non si tratta semplicemente di quelli che mugugnano al caffè, perché invece si trovano nelle piazze insieme, perchè sentono di essere parte di una stesssa classe, di uno stesso strato, si danno anche degli organi embrionali di rappresentanza, etc.

Noi sappiamo che nella situazione che si presenta adesso non abbiamo la possibilità che ci sia il grandissimo ricambio che tutti si sognerebbero, anche perché nel frattempo noi abbiamo visto la funzione degli Stati Uniti. I quali, dopo aver caricato Mubarak, adesso sono facili a scaricarlo, dopo avergli dato la regola del massimo leader della democrazia adesso gli danno quella dell’antidemocratico massimo. Ciò in quanto contemporaneamente preparano il terreno ai loro sostituti, si tratti dell’El Baradei di turno che si presenta di punto in bianco in Egitto o degli altri ancora che si presumano successivamente più adeguati a cogliere il favore delle masse. Sostituti che ovviamente per una parte delle masse possono anche andare transitoriamente bene, purché si levi di mezzo il Mubarak. Si tratta sempre però di un transitoriamente, nel senso che queste masse scese in campo non è pensabile che immediatamente possano accettare come soddisfacente di per sé la soluzione di ricambio che arriva dall’esterno, quella magari confezionata a Washington o nelle centrali euro-americane. Perchè queste masse hanno provato a scendere in campo, a pesare, ad avere un loro ruolo e questo ruolo oggi, sintentizzando, significa dire (in effetti non lo dicono: lo diciamo noi): “non possiamo prendere il potere, non abbiamo nessun programma socialista, in cambio però vogliamo essere rappresentate come controparte, come qualcosa che pesa sui destini nostri, quelli che ci arrivano addosso”. Questa petizione sostanzialmente affermata con la lotta è un dato di fondamentale importanza.

Volgendo lo sguardo al nostro passato, noi abbiamo sempre scritto, dal tempo delle tesi della Terza Internazionale, del secondo congresso e del congresso di Baku, della decisiva questione della saldatura delle lotte nazional-coloniali con le lotte del centro, quindi della saldatura periferia-centro (per quanto questo non piaccia a qualcuno educato al fatto di una malinteso “rispetto reciproco”, per cui non si può trattare di periferia nessuno, perché tutti siamo centrali). Da questo punto di vista la questione della saldatura è stata allora magnificamente impostata su delle basi anche effettive materiali, ovvero quelle della rivoluzione russa vincente, della possibilità di rivoluzioni che si diffondevano e che la rivoluzione si diffondesse anche in Europa, se non vincente epperò pesante, e quindi delle lotte dei paesi coloniali, semi-coloniali, etc.. E tutto ciò, per i motivi che ben sappiamo, è andato allora a pallino. Come non manca di rammentarci ad ogni passo il filisteo di cui sopra.

Al quale però contrapponiamo che oggi, per i motivi che sappiamo altrettanto bene, nel sistema del capitalismo globalizzato (sistema unitario, che non significa uguale dappertutto) abbiamo, ora per la prima volta, anche e finalmente, il fatto che le condizioni della rapina capitalista si ritorcono anche al centro, nel senso di un deprezzamento, di una compressione delle condizioni dei lavoratori degli stessi centri, e quindi l’inerzia che c’era stata in passato nei confronti delle lotte di liberazione nazionale, che non ci riguardavano, che potevano restare “fatti loro”, perché intanto noi si stava bene, si cresceva, ci si guadagnava, si potevano incrementare i nostri salari, etc., tutto questo va sparendo. E dunque siamo veramente alla vigilia (vigilia non immediata, perché la cosa sarà molto lunga, difficile, ardua e noi non la facciamo assolutamente facile) del fatto che, come diceva Lenin, i due pulcini della stessa chioccia comincino ad incontrarsi, a riconoscersi tra loro come pulcini della stessa covata.

Questo il punto fondamentale.

16 febbraio 2011