nucleo comunista internazionalista
note



Sulla “coalizione sociale” di Landini

Una proposta reticente e ambigua sui contenuti e sulla prospettiva

La “coalizione sociale” di Landini giunge dopo l’approvazione del jobs act e il trionfo sul sindacato, sfidato e piegato da Renzi tra il plauso e l’incoraggiamento degli industriali. Cgil e Fiom gli hanno opposto una “resistenza” a dir poco inconsistente. Delle “sinistre radicali” (parlamentari e non) neanche parlarne: esse hanno disperso al vento ogni residuo lascito di presenza organizzata nella società e ne resta solo qualche futile apparizione nei talk show televisivi e nel “gossip politico”.

Al netto delle responsabilità di siffatte direzioni, resta il dato di una mobilitazione rimasta ben al di sotto del minimo necessario contro provvedimenti che hanno colpito a fondo l’insieme del proletariato. I lavoratori che fanno riferimento al sindacalismo confederale hanno risposto più che timidamente alla chiamata di Fiom-Cgil-Uil, senza “pressioni dal basso” per imporre che si facesse sul serio. Non hanno potuto risollevare le sorti né lo sciopero della Usb, meritevole ma chiuso nella sua parzialità (quando non si dovrebbe perdere occasione per dare battaglia nella massa chiamata in piazza dai confederali orientandola verso la prospettiva di classe), né lo “sciopero sociale” del 14 novembre, utile e incoraggiante iniziativa a patto che il cartello di forze promotrici non perda di vista i suoi coefficienti effettivi e orienti i passi ulteriori verso l’unità di lotta del proletariato abbandonando ogni bolsa autoreferenzialità.

Jobs act: una battaglia persa
senza mettere in campo una lotta vera

Se questo è lo stato dell’arte della battaglia sul jobs act, al segretario Fiom che annuncia adesso la “coalizione sociale”, chiediamo di “non raccontare balle” e di dire se è mai possibile che misure antioperaie della portata del jobs act possano essere efficacemente contrastate mettendo in campo un solo sciopero generale, stiracchiato e tirato alle lunghe, quale è stato quello del 12 dicembre!! Ancora una volta uno scontro importante si è concluso con una indecente bolla di sapone. La classe lavoratrice non ha saputo presentare ai vari Camusso-Landini-Barbagallo (e Furlan innanzitutto) il conto della loro nullità per rimettere al centro la necessità di una lotta vera che ridia senso ed efficacia allo sciopero di classe. Se nel prosieguo i coefficienti di “opposizione” rimanessero questi, l’arrogante spavalderia di Renzi diventerebbe lo standard e i capitalisti riuscirebbero a programmare la discesa di fasce sempre più ampie di lavoratori nel baratro aperto dalla crisi. Nella proposta di Landini è assente ogni riferimento e ogni bilancio su questi macigni e questo significa che il suo marchio di presentazione è l’ambiguità, per una idea, in sé giusta, di “coalizzare e unire le forze”, cui difetta però il riferimento all’unico cemento della possibile unificazione, che è la determinazione a condurre una vera lotta di classe contro il capitalismo. Noi non diamo alcun credito a leadership sindacali che neppure nell’escalation antiproletaria da Monti a Renzi (senza dimenticare gli altri) hanno trovato le ragioni e riconosciuto la necessità di uscire dalle schermaglie dello scontro formale (il loro standard abituale), per impegnarsi a organizzare uno scontro vero che puntasse a piegare con la lotta, e comunque a contrastare efficacemente, il nemico di classe. Se non c’è questo (e questo non c’è stato), le manifestazioni del sabato con sventolio di rosse bandiere restano fuochi di paglia.

Né si venga poi a dire che “lo sciopero del 12 dicembre è stato solo l’inizio” e che “la lotta contro il jobs act prosegue” (con la contrattazione che dovrebbe recuperare quanto il governo ci ha sottratto, con le cause legali, con il referendum, ricorrendo alla giustizia europea, etc.). Che Renzi andasse dritto all’approvazione dei decreti delegati era nel conto, ma questo significa che era necessario disarcionare Renzi con la lotta. I lavoratori non scioperano per esprimere disappunto su una legge sgradita o fare cattiva pubblicità al governo, ma per impedire concretamente che le proprie condizioni regrediscano rinsaldando con la lotta la propria unità e facendo valere il proprio peso politico sulle decisioni che li riguardano.

Né si venga a dire che la Fiom ha fatto precedere lo sciopero generale del 12 dicembre dal proprio sciopero di categoria con due manifestazioni a Milano e Napoli. Sappiamo che la Fiom, anche questa volta come già in passato, si è spesa più delle altre categorie, ma sappiamo anche che lo ha fatto con contenuti di disarmante debolezza e contraddittori fino al ridicolo. Altro che ritiro del jobs act e dimissioni dell’esecutivo sui quali andare a misurare le forze! Landini è andato ripetendo in ogni occasione che il governo Renzi non stava mantenendo la sua promessa di cambiamento, che, se all’inizio aveva fatto bene, poi però aveva sposato la piattaforma di Confindustria, in tal modo stava perdendo il consenso dei suoi elettori lavoratori, sicché il sindacato scendeva in piazza per consigliare il governo affinché tornasse sulla buona strada e recuperasse il consenso di cui aveva bisogno per realizzare un cambio vero... . Quello di Landini è stato il lamento di chi ha accreditato in Renzi il “governo del cambiamento”, buono in sé e presuntamente “amico del movimento sindacale”, e che, di fronte alla evidentissima opposta realtà, svilisce la necessaria lotta a piagnisteo con il quale illudersi ancora di poter “consigliare” Renzi, “caduto in errore perché ammaliato da Marchionne e Squinzi”, e di riconquistarne l’amicizia. Discorsi del genere, a dispetto della foga declamatoria di Landini, trasudano subalternità al capitalismo, quando invece lo si dovrebbe denunciare e combattere a viso aperto, a maggior ragione se Renzi sfida apertamente i lavoratori e sbeffeggia il sindacato.

Jobs act: una legge che attacca a fondo il proletariato,
non una “svolta epocale”

Detto ciò, noi non siamo di quelli che pensano che dopo il jobs act di Renzi “tutto è cambiato e nulla sarà più come prima”, né muove da qui la nostra denuncia delle politiche fallimentari di Cgil e Fiom. La classe operaia si organizzava e lottava benissimo anche prima del 1970, e dopo la legge 300 ampie fasce di proletariato hanno continuato a fare i conti con le delizie della precarietà del lavoro nel capitalismo senza dover attendere la corsa alla generalizzazione della precarietà aperta dal “pacchetto Treu” nel 1997 (si pensi al lavoro nell’edilizia, alle imprese sotto i 15 dipendenti, al lavoro in appalto e in nero, alle condizioni riservate al proletariato immigrato, alla precarietà imposta dal mercato con il taglio dei cosiddetti “rami secchi” quand’anche riferiti a posti “tutelati”). Indubbiamente le “riforme” di Renzi segnano in profondità il mondo del lavoro. Ma non è chiaro dove vadano a parare i discorsi di quanti dicono che “dopo il jobs act il mondo del lavoro per come lo abbiamo conosciuto non esiste più” e, parlando genericamente in nome del lavoro precario, posano a profeti di “nuove vie e nuovi percorsi” senza in realtà tracciare alcuna prospettiva credibile (corti circuiti del genere segnano lo “sciopero sociale”, senza nulla togliere al suo “nocciolo” riscattabile, a condizione che...).

Noi continuiamo a credere che il campo di lotta oggi eluso dai lavoratori che non si sono mobilitati con l’energia necessaria per fermare la marcia di Renzi (soprattutto le categorie impiegatizie, con la Cisl che ha potuto addirittura rivendicare del buono nel jobs act) verrà invaso domani dalla ripresa di iniziativa cui i lavoratori saranno infine costretti per reagire all’insopportabilità di una catena di ulteriori “riforme” già in calendario nell’agenda borghese. Lo sfruttamento senza limiti né tutele è il volto reale del capitalismo, come lo conosce la classe operaia del mondo intero e come lo ha già conosciuto e torna ora a conoscerlo l’intero proletariato delle metropoli, andandosi a chiudere la parentesi di sfruttamento mitigato di cui ha potuto beneficiare nel ciclo di sviluppo (combinato e diseguale) del secondo dopoguerra. L’unificazione della lotta proletaria a partire da condizioni lavorative diversificate è il passaggio obbligato imposto dal capitalismo, ed è decisivo battere il corporativismo bancarottiero di leadership sindacal-politiche compromesse con le politiche di frammentazione della condizione operaia, che hanno concorso a scaricare sulle nuove generazioni il peso maggiore del giro di vite imposto dal capitale. Le barriere che dividono e mettono in competizione i lavoratori, come il passato ci insegna, potranno essere nuovamente travolte solo dalla scesa in lotta del proletariato.

Difesa degli interessi di classe e politica proletaria:
due facce della stessa medaglia

La proposta di Landini non va in questa direzione: essa esprime a suo modo la necessità che la classe lavoratrice metta in campo una sua politica, ma lascia sfacciatamente senza risposte fin troppi punti decisivi affinché una petizione del genere, si dia le gambe per camminare e correre.

Innanzitutto non c’è nessuna politica dei lavoratori che non si basi sulla difesa coerente degli interessi di classe, ed è proprio questa che è mancata e manca. Questo va rinfacciato a Landini, che dapprima non ha portato fino in fondo la lotta dei metalmeccanici Fiom contro il governo Berlusconi e a difesa del contratto nazionale di lavoro (riappacificandosi con la Camusso e preferendo puntare sulla carta elettorale e l’auspicata “coalizione di sinistra” PD-SEL, dove imbucare Airaudo); quindi ha condiviso l’assenza di una risposta di lotta contro le mazzate di Monti (soltanto tre ridicole ore di sciopero contro le misure Fornero, con la lotta di classe di fatto archiviata e poi sostituita dalla “piazza maestra” del 12 ottobre del 2013, dedicata – di sabato – ad appassionati comizi sui pregi infiniti della costituzione repubblicana); infine ha inscenato un’opposizione formale a Renzi, subendo il jobs act senza dare l’adeguata battaglia, e ne vedremo il seguito. Se è vero che “la lotta sindacale necessita di una sponda politica”..., certo non è possibile darsi a costruire “sponde politiche” dopo aver ridotto a ininfluente testimonianza la lotta per difendere gli interessi di classe attaccati dal capitalismo. Abbiamo ben presenti le difficoltà attuali, né sottaciamo il dato aggiuntivo dell’isolamento in cui si sono trovati i metalmeccanici e la Fiom quando in passato hanno fatto qualche tentativo in questa direzione. Oggi le lotte si danno con una certa molto relativa determinazione a livello categoriale, o aziendale quando è in gioco il posto di lavoro. Gli attacchi antioperai degli ultimi decenni volti a disarticolare l’unità materiale e politica della classe operaia non sono andati a vuoto. Se la difesa degli interessi di questa o quell’altra azienda o categoria appaiono più a portata di mano, i lavoratori hanno perso fiducia nell’efficacia della lotta quando sono in gioco gli interessi generali comuni all’intera classe: è questa fiducia che occorre riconquistare e gli scioperi formali come quello del 12 dicembre vanno nella opposta direzione!

In secondo luogo la politica dei lavoratori o si ancora alla prospettiva del comunismo o semplicemente non esiste, e inevitabilmente il proletariato va a dividersi accodandosi ai più diversi programmi borghesi in campo. Chi crede che sia possibile un’opzione borghese illuminata e “di sinistra”, ancorata alla difesa della costituzione e all’antifascismo o ad altre illusioni di “riforma” che non mettono in discussione l’esistente dato (“un altro modello di sviluppo” di produttivismo virtuoso che metta a guinzaglio la finanza, oppure “eco-compatibile”, oppure l’ “uscita dell’Italia dall’Europa e dall’euro” come supposto programma “rivoluzionario e di classe”, e quant’altro...), misurerà sempre di più come queste opzioni non sostanzino un credibile richiamo alla lotta, non siano in grado di unificare le frammentate forze proletarie, né di impedire che settori sempre più consistenti vengano catalizzati da tutt’altre sirene che si presentano con contenuti di una radicalità (deviata) più credibile (si veda il seguito operaio e proletario di una Le Pen o di un Salvini).

Non c’è “coalizione sociale” né politica dei lavoratori
senza ancoraggio alla prospettiva di classe

Quanto a prospettiva, Landini si richiama al trito ritornello di un capitalismo virtuoso basato su investimenti (pubblici e privati), ricerca, innovazione, sana produzione, etc. e agita su questi tasti un generico “cambiamento” ostentato a gara con Renzi! Essendo questa la prospettiva, la “coalizione sociale” sarà (lo diciamo senza rallegrarcene) l’ennesimo buco nell’acqua partorito dalle cosiddette “sinistre radicali” e ora dalla “sinistra sindacale e sociale” di Landini.

“Sinistre” sufficientemente squalificate: già al carro di Prodi, che se le teneva come strumento della passivizzazione operaia e “nota di folklore”, poi in auspicata “coalizione” con il PD di Bersani (già “fedele” supporter di Monti!), e ora “alternative” al PD di Renzi (ma pur sempre ad esso qui e là alleate a livello locale: altra alchimia da gestire con qualche sapiente prestidigitazione). Queste “sinistre” sono i rimasugli di un corso politico che, avendo rotto da tempo i legami con il programma di classe, è incapace anche solo di concepire un ri-orientamento in quella direzione, e continua ad agitare generici riferimenti alla “giustizia sociale”, ai “diritti costituzionali” e quant’altro, senza minimamente mettere in discussione l’orizzonte di un capitalismo tutt’al più riformabile ma pur sempre con le sue leggi e le sue indiscusse compatibilità da rispettare e all’interno delle quali far quadrare le proprie filosofie. L’attuale situazione di crisi mina alla base pastoie del genere e costoro si contorcono in prospettazioni auto-contraddittorie e inconcludenti alle quali i lavoratori non assegnano credibilità (come anche certificano i ripetuti fiaschi elettorali). Ora anche la coalizione di Landini alimenta questo genere di dissertazioni enigmatiche su cosa dovrebbero fare i cocci rotti della “sinistra che fu” per riconquistare un peso specifico (più o meno dichiaratamente elettorale). Tutti costoro escludono sia di ri-orientare la barra verso il programma di classe e la prospettiva del comunismo, sia la necessità del partito. Landini si allinea, con le sue specificità, a questo standard.

Ai “costituenti e coalizzatori di nuove sinistre” vorremmo ricordare che se il riferimento al comunismo, con i suoi noti corollari di dittatura del proletariato, abbattimento del capitalismo, etc., li spaventa, li fa sorridere o inorridire, allora non resta ad essi che bersi fino in fondo il calice dell’esistente capitalismo e dismettete pose di “radicalità” senza contenuti. Il comunismo sarebbe fallito? No, il comunismo è stato sconfitto quando la borghesia è riuscita a contenere e battere il suo assalto (con epicentro Germania) nei primissimi anni ’20 dello scorso secolo. A fare fallimento e naufragare nella vergogna degli attuali epigoni D’Alema e Migliore (e dei corrispondenti sindacali) che consegnano e reggono il gioco a Renzi, è un intero corso politico che, dopo quella sconfitta, ha abbandonato il programma di classe, mentre il comunismo veniva relegato a sfondo sempre più sfocato e in dissolvenza. In questo corso politico, quello di Togliatti e Di Vittorio, il proletariato si è lungamente identificato, perché nella fase di affluenza del capitalismo poteva tenersi i suoi riferimenti puramente ideali al socialismo mentre intanto era possibile conseguire qualche concreto miglioramento all’interno della democrazia borghese. Oggi però non c’è più un capitalismo espansivo dal quale lucrare qualcosa per i lavoratori, c’è un capitalismo in crisi avanzante che somma di giorno in giorno a loro carico tutte le disgrazie che derivano dai suoi irrisolti antagonismi. Il programma di avanzamento nella democrazia non ha più spazi né credibilità. O torna in campo il programma del comunismo autentico e della Rivoluzione oppure sulla scena restano soltanto le opzioni della borghesia e il suo odioso sistema di sfruttamento.

Quale “rappresentanza” e “soggettività politica”?

In terzo luogo non è data politica della classe operaia senza che la classe operaia riconquisti il proprio partito. Landini parla di “rappresentanza” e “soggettività politica” dei lavoratori da ricostruire, ma scantona ed anzi respinge il tema del partito.

Possiamo concordare che la soggettività evocata da Landini esprima (quando si esprima sul serio!) una questione politica, ma proprio a condizione che essa non rappresenti solo una semplice sommatoria di “bisogni sociali” immediati slegati da un filo comune e da una comune prospettiva politica. La sua capacità di “pesare” politicamente richiede precisamente che la grande varietà dei singoli (ed “autonomi”, secondo una certa logica) “bisogni” e sotto-movimenti si proietti sulla scena come forza politica in grado di accentrare e dirigere le mille spinte che vi si esprimono in termini di partito. Altrimenti non resta che buttare sul piatto una serie di cahiers de doléances da trasmettere... a chi? Alla contrattazione sindacalese con partiti e parlamenti “obbligati” al loro ascolto ed alla loro soddisfazione? Il non-partito degli “arrabbiati” landiniani si troverebbe così fatalmente condannato a misurarsi con dei partiti e dei poteri borghesi veri rieditando le vecchie consuetudini sindacali tradizionali coi risultati che ben sappiamo.

Ciò che propone Landini è, in sostanza, un movimento, anzi un insieme di variegati ed autonomi movimenti da cui sia esclusa l’impronta politica necessaria di partito (partito anticapitalista per il rovesciamento del sistema borghese di dominio, se le cose hanno un senso). E questo come risposta preventiva a quanti, nell’ ”estrema sinistra”, continuano – tra mille esiziali contraddizioni – a porre la questione politica centrale, che o è di partito comunista o non è. La sua promessa è che “sarà la sua coalizione sociale a cambiare il paese più di Renzi” (!!). Una coalizione esplicitamente acefala che, gratta gratta, come per il passato, affida la speranza di rivincita su Renzi non ad una lotta per il potere, ma ad una sorta di “cambiamento (riformista) dal basso” del “paese” o, più esplicitamente, ad una futura partecipazione al superenalotto elettorale quando in questo campo si sia in grado di trovare l’ ”interlocutore” adatto a farsi carico dei “bisogni” espressi dalla base.

Quest’ultima è, in buona sostanza, la posizione di quei politici di partito alla Rifondazione che aderiscono alla coalizione landiniana con l’espresso tentativo di trasformarla in piattaforma di una nuova rappresentanza parlamentaristica all’interno del sistema da “migliorare”. Anche per la Camusso “allo stato attuale non esiste più una forza politica ’rappresentativa’ delle esigenze dei lavoratori ed essa andrà ricostituita sulla base di una nuova ’coalizione sociale’ “, salvo che “a ciò non è chiamato il sindacato che, per sua definizione, non può rappresentare alcun tipo di ’cinghia di trasmissione’ col... comunismo, ma deve continuare a fare il proprio ’autonomo’ mestiere contrattualista” (come cinghia di trasmissione reale con le deputate rappresentanze parlamentari con cui interloquire stando al suo posto). Posizione coerente (con la premessa che nega ogni protagonismo politico di classe del proletariato) e (a questa stregua) un tantino più seria del gira a vuoto landiniano.

Necessità del partito

I “neo-costituenti di sinistra” sono gli epigoni di una storia che ha dapprima azzerato e poi consegnato a Renzi le spoglie del fu PCI, partito “operaio” – borghese a largo (e pesante) seguito di massa proletario estintosi come tale alla fine di un lungo ed obbligato percorso “riformista” di inserimento nelle leve del sistema capitalista sotto il peso “oggettivo” di una crisi da cui era ed è impossibile uscire per le vecchie vie di un utile do ut des concertativi. Questa ingloriosa fine viene registrata oggi dagli “estremo sinistri” che vi avevano aderito e l’hanno accompagnata sino al suo esito mortale. Ma, anziché mettere in causa i motivi fondanti di questa catastrofe, essi presumono di farvi fronte accantonando la questione del partito. Se quel partito ha “deragliato” (in realtà stando perfettamente sul suo binario obbligato), si tratterebbe di cancellare l’esigenza di un vero partito comunista all’altezza dei suoi compiti trovandovi dei succedanei “sociali” senza testa e nerbo.

Rifondazione tentò a suo tempo una “virata a sinistra” che, di fronte all’inevitabile tracollo del vecchio PCI, cercasse di rieditarlo tal quale riscattandone l’ ”eredità” perduta (come e perché?). Sappiamo come è andata a finire. E il buon Bertinotti, al termine della sua squallida parabola, prendendo atto del fallimento di tale prospettiva, ha sistematizzato le cose ricavandone la lezione che non un partito, ma il “movimento” doveva essere il nuovo soggetto del “cambiamento” senza più mai le obsolete strutture di un vero e proprio partito (anticaglia ottocentesca!), senza più mai alcuna velleità di “assalto al Palazzo d’Inverno” per il potere proletario, ma come “articolato” insieme di rivendicazioni dal basso di cui la società avrebbe fatto da spugna ricettiva. E questo è diventato oggi il modello d’obbligo.

Anche a noi dell’allora OCI è toccato sentirci suonare dall’interno questo tipo di musica: che cosa volete voi, piccola insignificante forza “partitista”? ”Sostituirvi” dall’esterno all’irresistibile marcia del movimento, o dei movimenti?

Perciò guai a chi tentasse di uscire da questa logica riproponendo “vecchi schemi” partitici (di cui non si critica l’inconsistenza interna, ma la semplice – irrinunciabile – proposizione di partito in quanto tale). E sulle pagine del quotidiano Manifesto possiamo ben assistere ad un’infinità di cinture di castità anti-partito in nome di un “nuovo modello” partecipativo ed autoreferenziale di tipo movimentista. Il cui esito è sin d’ora certo: o un accartocciamento delle pur effettive e persino preziose spinte “autonome dal basso” o la sua riduzione ad un ennesimo carrozzone elettoralesco “rappresentativo” o le due cose assieme. Per un certo periodo ha fatto scuola il “modello Syriza” (o Podemos, in fase d’attesa), di cui già conosciamo perfettamente gli esiti col tentativo, fallito, di rieditarlo anche qui in casa nostra (e la colpa del fallimento viene ancora una volta imputata a certi “partitisti” non rassegnati ad auto pensionarsi, e non, come sarebbe il caso, proprio al modello in questione). Col che precisamente si mandano a pallino le reali spinte antagoniste venute alla luce nella società e l’esigenza di fondo che esse esprimono del necessario “costituirsi del proletariato in classe e quindi in partito” (e scusateci il richiamo al vecchio obsoleto Marx!).

Unificare le forze di classe sul piano della lotta al capitalismo!

Landini e chi con lui vanno perciò incalzati sulla coerenza del programma di “coalizzare e unire le forze” senza attenderne da essi lo svolgimento già segnato in anticipo e dando anzi ad esso battaglia. “Coalizzare e unire le forze” deve intendersi nel senso di unificare le forze nella lotta e di unificare innanzitutto tutte le forze che già stanno o sono disposte a scendere su questo terreno. Questo significa che i sindacati autorganizzati che già hanno scioperato contro il governo Renzi, la coalizione che ha dato vita allo “sciopero sociale”, i settori proletari che si mobilitano e scendono in lotta sui più diversi terreni (ad esempio i proletari occupanti di case, i lavoratori immigrati che lottano per il permesso di soggiorno, la necessaria ripresa di mobilitazione contro le guerre imperialiste cui l’Italia partecipa, etc.) devono rilanciare ai lavoratori metalmeccanici la proposta di “coalizzare e unire le forze” sul piano della lotta, e ai vertici Fiom la sfida a dare seguito a quanto hanno detto. Noi staremo in campo perché questo accada, contribuendo a reali passaggi in avanti nella discussione collettiva per comuni iniziative di lotta tra quanti finora hanno lottato separatamente, mai dismettendo la battaglia volta a demarcare che è questa l’unificazione che serve, che occorrono sia l’intransigente difesa e affermazione degli interessi di classe attaccati dal capitalismo e sia l’elaborazione di un distinto punto di vista proletario su tutti i temi che ci riguardano e quindi una visione generale e una prospettiva di alternativa al capitalismo che sorreggano e orientino l’azione e la battaglia di classe. La quale ha ad oggetto la denuncia onnilaterale del capitalismo e il coerente raccordo di ogni passaggio organizzativo e di lotta alla prospettiva dichiarata del socialismo. A tal fine occorrono sedi dove incontrarsi e discutere avendo presente la necessità della riconquista del partito di classe quale fattore imprescindibile ed essenziale se veramente si vogliono prendere in carico le necessità dichiarate.

21 aprile 2015