nucleo comunista internazionalista
note



LA CINA SOTTO ATTACCO

aggressione alla Cina


  1. UN VIRUS AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

  2. COMPAGNI ANARCHICI CINESI AI QUALI FRATERNAMENTE, DA MARXISTI, TENDIAMO LA MANO

  3. ANCORA SUL FOCOLAIO VIRALE CONTRORIVOLUZIONARIO DI HONG KONG



1. UN VIRUS AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO

Alla fine di questa serie di interventi ripubblichiamo lo scritto del “Che Fare” (n. 61 giugno-luglio 2003) dove dicevamo la nostra sulla Sars, infezione che colpì la Cina nel 2003. Non ci si dimentichi che quattro anni prima, maggio 1999 nel bel mezzo degli attacchi che finirono il criminale lavoro di sventramento della Jugoslavia (do you remember “compagno” Marco Rizzo?), la Cina fu colpita militarmente o meglio mafiosamente “avvisata” attraverso i missili sparati dalla Nato contro la sua ambasciata a Belgrado. Che “per errore” la distrussero, con i funzionari dentro.

Esso iniziava con le seguenti parole: «Di prove, non ne abbiamo. Mettiamo nel conto anche la possibilità che il tutto si origini, “banalmente”, dalle condizioni di sovraffollamento e di incuria igienica diffuse nelle città in tumultuoso sviluppo economico…» il resto lo leggete qui in appendice. L’attuale epidemia Coronavirus è molto diversa, nel senso di molto più pericolosa e devastante dell’infezione di diciassette anni fa. Non parliamo dell’aspetto medico-sanitario del quale siamo totalmente ignoranti, ma della pressione devastante esercitata sulla Cina “grazie” allo sprigionamento di questo virus. Dentro ad un contesto economico-politico generale ed internazionale di lotta mortale fra poli “soci-concorrenti” del capitalismo mondiale. Polo nordamericano (campo democratico: “guerrafondaio”, “aggressore”) che intende difendere con ogni mezzo la sua egemonia mondiale e con ciò scongiurare l’infezione mortale della lotta di classe all’interno dei suoi confini e potenze di grande calibro capitalistico quali Cina e Russia (campo del “totalitarismo”: paesi presentati dai nostri …”campisti” come “capitalisti sociali” o in qualche modo “socialisti” nel caso della Cina, “amanti della pace”, “rispettosi del diritto internazionale” ecc.) che pretendono di metterla in discussione quella egemonia, di sicuro senz’altro decisi a rispondere a mano armata se l’egemone imperialismo democratico giunge a minacciare la loro “sicurezza” e stabilità sociale interna.

Il capitalismo mondiale, fin dentro la sua tana di Wall Street, si trova in una situazione molto più critica ed esplosiva rispetto al 1999/2003 quando ancora proprio e soprattutto la Cina-“fabbrica del mondo” poteva assicurare una produzione di plusvalore tale da mettere d’accordo (provvisoriamente) tutti i “soci-concorrenti” che di quella massa di plusvalore e di potere capitalistico vivono e lottano per spartirseli (“più equamente” lo lasciamo dire ai finti ingenui, reali imbonitori/ingannatori del proletariato).

Nel discorso sullo stato dell’Unione tenuto ai primi di febbraio, il presidente Trump ha vantato il +70% toccato dai mercati azionari Usa dalla sua elezione (dato assolutamente spaventoso, da brividi! in quanto scollegato dalla reale base produttiva): “il nostro paese prospera ed è di nuovo altamente rispettato (forse riferendosi alla borghesia stracciona di paesi come l’Albania, dove hanno eretto una statua a Bush. Trump o chi gli ha scritto il discorso finge di non vedere che persino i borghesi polacchi i quali prostituiscono la libertà polacca allo Zio d’America si sono per un momento inquietati circa la “fedeltà” dello Zio stesso, osservato il trattamento riservato ai curdi: e se domani toccasse a noi? si sono lasciati scappare di bocca taluni borghesi di Varsavia. …“Paese altamente rispettato”? Ma mi faccia il piacere!). “Le fortune dell’America crescono ed il futuro è luminoso” ha proseguito Trump annunciando inoltre stanziamenti per astronomici 2.200 miliardi di dollari in spese militari nel prossimo futuro “al fine di salvaguardare la libertà americana”.

Mentre questi ed altri dati sulla, al momento vincente, guerra di classe venivano dal presidente snocciolati, il segretario al commercio Usa, tale Wilbur Ross, rilasciava la seguente dichiarazione: “Il virus è un motivo di riflessione in più per il mondo del business, può essere un’opportunità di riportare posti di lavoro in America”. Qualcosa di più che un vigliacco avvertimento mafioso. Una spudorata dichiarazione che suona in maniera subdola come dichiarazione di guerra contro il popolo cinese che fa il paio in fatto di triviale spudoratezza con quella di Trump sui “52 siti iraniani molto importanti per l’Iran e per la cultura iraniana” messi nel mirino dei missili e dei bombardieri Usa (signori di Wall Street e del Pentagono provate a colpirne solo uno e vediamo cosa succede!) e che il popolo cinese non dimenticherà e non lascerà passare impunemente, a differenza del bombardamento subito nel 1999.

La linea d’attacco contro la Cina si muove su una duplice direttrice. Quella del colpo, pesantissimo, vibrato alla macchina produttiva paralizzata dagli effetti a catena dell’epidemia e dallo sforzo gigantesco per controllarla e debellarla; e quella del colpo politico che si intende sferrare al governo cinese cioè al “regime totalitario” indicato dall’imperialismo democratico se non come la causa del disastro, come vero impedimento a farvi fronte efficacemente. Il piano è quello di portare “il virus della libertà” fra “il popolo” del mainland cioè fra una massa di borghesi e di piccolo-borghesi cinesi, contando che esso si propaghi dalla testa di ponte Hong Kong, focolaio dell’infezione liberale-“libertaria” e democratica. Una pestilenza “pro-libertà e pro-democrazia” che può propagarsi nella società in forza di fattori assai concreti: leggiamo che i prezzi della carne di maiale cioè del bene di consumo più diffuso sono saliti dell’8,5% in un solo mese e che l’intero paniere dei prezzi degli alimentari è salito del 20,6% nel mese di gennaio.

La pressione cui è sottoposto il governo cinese, la cui suprema missione politica è il mantenimento dell’equilibrio e della pace sociale con particolare riguardo ad evitare di suscitare il movimento sociale e dunque politico del proletariato cinese (compito sin qui più che brillantemente svolto), è una pressione enorme. Lo sforzo di richiamare “tutto il popolo” (cioè tutte le classi) all’unità patriottica di fronte ad una emergenza nazionale e ad una effettiva catastrofe, sembra al momento essere sufficiente per tenere in equilibrio quello che però non potrà essere (alla lunga o invece “alla corta”?) tenuto insieme: istanze liberal-democratiche di una massa borghese e piccolo-borghese da una parte, istanze proletarie di classe (ed anti-imperialiste) dall’altra.

Il mezzo a cui giocoforza il governo cinese ha dovuto ricorrere per fronteggiare e prevenire il collasso economico e che forse (forse) lo eviterà nel breve periodo è di quelli che preparano e annunciano sicuri cataclismi economici (e a scala mondiale dato che si tratta della Cina e non …dell’Albania o dell’Argentina) e sociali (idem e qui parliamo dell’entrata in scena in grande stile del nostro soggetto di classe, della Rivoluzione proletaria cinese ed internazionale). Quale è questo mezzo dalle certe proprietà così sconvolgenti? E’ il forzato ricorso all’arma del debito. Il governo cinese ha dovuto letteralmente aprire i boccaporti ad un diluvio di liquidità iniettata a tutti i livelli nella società “per stimolare”, come dicono gli economisti borghesi, la macchina produttiva (una fra le cento misure prese in urgenza: la reintroduzione dei sussidi per l’acquisto di automobili ed elettrodomestici) e per sostenere i listini delle Borse. Proprio nel momento in cui il governo cinese stava con molta cautela operando per restringere i cordoni del credito (cioè per sgonfiare la bolla del debito), l’emergenza catastrofica coronavirus è piombata, costringendolo ad una inversione ad U. Costringendolo a fare l’esatto contrario di quanto si prefiggeva: non riduzione del debito ma somma di una montagna di debito nuovo alla montagna di debito vecchio.

Qualcuno, sempre fra gli esperti borghesi di economia e “geopolitica”, valuta questa forzata inversione a U, questo diluvio di debito, come una manna non solo necessaria alla Cina ma provvidenziale per i circuiti mondiali della finanza, per le Borse Valori di tutto il mondo. In testa quella di Wall Street i cui listini, come è noto, dipendono da quei boccaporti che debbono rimanere aperti pena la fine della festa, pena il crack. In pratica i signori delle Borse, perlomeno quelli americani, ritengono di poter brindare sulla catastrofe che si è abbattuta sul popolo cinese. Pregustando per di più l’enorme business che contano di fare quando il virus, la pestilenza “pro-libertà” “pro-democrazia”, arriverà a scardinare (nei loro sogni malati) “il regime totalitario” aprendo definitivamente i portoni dell’immensa Cina alla razzia dell’imperialismo democratico.

Si sbagliano di grosso e su tutta la linea. La guerra di classe sì attizzerà in tutta la Cina ma l’immenso paese mai cadrà “in mano straniera”, il grande proletariato cinese si lascerà vampirizzare tanto dall’imperialismo democratico che dalla sua propria borghesia nazionale.

E’ per i comunisti obbligo tracciare la linea della propria postazione politica fin dall’inizio di questa guerra di classe internazionale nella quale ormai ci troviamo, già indicata in uno (fra i tanti) “Fili del Tempo” trasmessoci da Bordiga:

«Il movimento dell’avanguardia rivoluzionaria comunista deve prepararsi alla lotta contro due travolgenti ondate “crociatiste” e “intermediste” che mobiliteranno masse di lavoratori per scopi non di classe, non di rivoluzione; da una parte perché vinca “la democrazia” del mondo libero, dall’altra perché trionfi “il socialismo” stalinista (oggi il campo dei paesi “anti-egemonia” Usa, ndr). Nello stesso tempo e sul piano della prospettiva storica, coerente a tutte le valutazioni date dal 1848 ad oggi dei grandi conflitti militari, il movimento marxista, nell’applicare ovunque la prassi disfattista e del “nemico interno”, stabilirà quale sia il male minore tra le varie possibilità: intesa fra i due gruppi, vittoria dell’uno o dell’altro. Il male minore sarà sempre la rovina del mostro di Washington». (“Bussole impazzite”, Battaglia Comunista n. 20/1951)

Tradotto in altre parole e rispetto ai brindisi, alla manna e al business pregustato dai borghesi di cui sopra, la parte comunista dentro la presente guerra di classe dichiara apertamente il suo programma strategico nel quale è inscritto, come elementare norma di salute pubblica (sanitaria ed ecologica, in breve: umana!), che il focolaio “di libertà e democrazia” localizzato in Wall Street debba essere chiuso col fuoco. Non appiccato da eroici manipoli o dai missili dei capitalisti “soci-concorrenti” ma appiccato dalla furia cieca di una massa di nostri fratelli di classe proletari degli Stati Uniti d’America. A seguire, stessa sorte per tutte le altre Borse Valori che come una corona spinata cingono e infettano il globo borghese.

Prima di passare al secondo, tonificante, capitolo un cenno sul posizionamento tenuto dall’Italia cioè dalla borghesia italiana in seguito alla pandemia cinese e alle pesanti se non catastrofiche ricadute da mettere in conto sul piano del business, con tutto ciò che ne consegue ad ogni livello (che si aggiungono, fra le altre, alla perdita di potere nell’ex “giardino di casa” – spazio vitale libico: Titanic-Italia!). Quello di Roma è l’unico Stato, insieme alla Repubblica Ceca, ad aver sospeso i collegamenti aerei diretti con la Cina (il che non impedisce il flusso di rientro che avviene attraverso scali terzi) disciplinandosi senza fiatare, in un primo momento, alla campagna di attacco dettata dallo Zio d’America. Salvo accorgersi che una smaccata politica anti-cinese può rilevarsi suicida per il capitalismo italiano e perciò provvedendo a cauti aggiustamenti di rotta tesi, come al solito, a tenere il piede in due staffe. «La Camera di Commercio italiana in Cina interviene con un documento critico sull’emergenza decretata dal governo Conte: “Potrebbe portare a un’evoluzione negativa dei rapporti bilaterali e avere un impatto sulla vita professionale e personale degli italiani in Cina, una volta che la situazione tornerà alla normalità» scrive il Corriere del 4 febbraio. E soprattutto aggiunge: «Prima o poi il virus sarà debellato, e Pechino farà i conti con i vecchi amici che si sono troppo spaventati e con gli avversari che si sono troppo agitati».

Vale per l’attuale governo di Roma quanto scritto nel “Filo del Tempo” n. 9: «Questo governo di servitori e di scagnozzi non può fare né interventismo né neutralismo, può solo eseguire degli ordini e obbedire a imposizioni e minacce. Non ha una forza di guerra autonoma da mettere in vendita speculando sul sangue dei lavoratori, oggi per dollari come ieri per sterline e per marchi, nemmeno può fare campagne basate su fantasie egemoniche o sub egemoniche conquistate con avventure di guerra. Nulla muterebbe, se la opposizione fosse al potere in questa condizione di impotenza». (“La borghesia italiana e la fedeltà nelle alleanze”, Battaglia Comunista n. 11/1949)

Serve, servirebbe, al capitalismo italiano un governo forte, autoritario. Una unione sacra di salvezza nazionale dato che qui è in gioco la stessa tenuta unitaria dello Stato di Roma come sarà chiaro quando la crisi sociale non potrà più essere contenuta e sedata. Niente di ciò sembra essere all’orizzonte. In compenso, tanto per dire e buttare in vacca cose serie e tragiche, ci è toccato di leggere documenti “per una alternativa anticapitalista” sottoscritti da un mucchio di sigle, fra cui ben due partiti “trotzkisti” ed un “Partito del Sud”… Titanic-Italia appunto.



2. COMPAGNI ANARCHICI CINESI AI QUALI FRATERNAMENTE, DA MARXISTI, TENDIAMO LA MANO

Con grandissimo piacere ospitiamo su queste pagine un pezzetto tratto dal libro “Tianxia diyu – L’inferno sulla terra” edito nel 2000, scritto da due compagni di tendenza anarchica. In esso vi è l’intervista al compagno cinese Mu Xidi, marinaio espatriato in Europa che si definisce “ex maoista che ha in realtà una fibra anarchica” e che sdegnosamente rigetta la qualifica di “dissidente” per i motivi che leggerete. Anche questa splendida dichiarazione che abbiamo l’onore di presentare ci dice di quanto il proletariato cinese, da cui essa è generata e i cui interessi storici essa esprime, sia tutt’altro che la massa beota di pecore facile da controllare e plasmare come vuole presentare la propaganda dell’imperialismo democratico.

(Ricordiamo alle giovanissime leve nostre fedeli che il marxismo genuino non è afflitto dal morbo della statolatria. Valga il Lenin di “Stato e rivoluzione” che non è affatto in contraddizione con …”lo statista” Lenin della Nep come pretende la diffusa vulgata. Non sentirete mai venire dalla bocca degli autentici comunisti le pietose e penose litanie sullo “Stato che ci ha abbandonato”, su “un vero Stato sociale” che dovrebbe fare questo o quello invece di… La prima e fondamentale divergenza rispetto ai compagni anarchici non attiene il giudizio sullo Stato come macchina di oppressione di classe, macchina odiosa senz’altro da distruggere. Ma è il punto di principio marxista secondo cui questo odioso strumento (con le sue polizie, carceri, leggi codificate ecc.) dovrà essere applicato dal proletariato, una volta strappato il potere alla borghesia, per esercitare la sua Dittatura. Potere proletario, Stato proletario, Dittatura di classe negate e rigettate come la peste dal principio anarchico).

Il marinaio e compagno anarchico cinese afferma nell’intervista: «Non si può salvare la Cina senza salvare tutta l’umanità». Fenomenale, esattissimo! La difesa accanita dall’attacco dell’imperialismo democratico che il proletariato cinese senza dubbio assumerà nelle sue mani non avrà il significato patriottico dietro al quale la borghesia nazionale cercherà di bloccare lo slancio della classe, ma sarà il segnacolo della Rivoluzione proletaria internazionale e della sua vittoria.

Giù il cappello al cospetto di simili compagni anarchici cinesi!


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copertina libro Tianxia diyu


MU XIDI: [...] Per riassumere le mie rimostranze nei confronti dei dissidenti direi che sono affetti da tre principali tare: sono democratici, affascinati dalla classe dirigente e patrioti.


XI XUANWU: Puoi essere più preciso?


MU XIDI: Sì. Comincio dalla loro rivendicazione democratica. È la rivendicazione ambigua per eccellenza. Da noi "democrazia si dice min-ciu, sovranità popolare. Detto altrimenti, reclamarla significa dire: «Abbasso la tirannia! Potere al popolo!». Fin qui niente da dire, salvo che è la stessa parola che serve a tradurre l'idea moderna di democrazia, cioè il regime parlamentare di tipo occidentale, che, come tutti sanno, passato il momento magico delle elezioni, se ne fotte della sovranità popolare. Bene, è proprio questo che essi reclamano.

Prendi un tipo come Fang Lizhi (1), il suo modello di sviluppo rimane l'Occidente. Per criticare il regime cinese, ch'egli chiama «socialista», non trova altra soluzione che confrontare, dopo una visita alla Berlino del tempo del muro, il fallimento economico di Berlino Est e il successo di Berlino Ovest (2). Lui e i suoi compari vogliono solo instaurare in Cina regimi simili a quelli occidentali. Non voglio negare che sarebbe un male minore; ma per il proletario cambierebbe qualcosa? Conoscono la vita di un operaio giapponese, coreano o di Taiwan?

Il loro progetto democratico è doppiamente illusorio. Da una parte il «benessere» democratico occidentale comporta diverse nocività e una miseria affettiva che essi fingono di non vedere. Dall'altra questo relativo benessere è possibile soltanto grazie al mantenimento dei popoli del Terzo mondo — cinesi compresi —nel loro relativo malessere. Guarda le Zone economiche speciali, citate come esempio di occidentalizzazione, perché gli operai vi sono sottomessi come in Occidente alle regole della concorrenza. Esse sono certamente un mezzo per modernizzare la Cina, in termini capitalistici, beninteso... Ma direi che questa è la loro funzione accessoria, perché il loro ruolo principale è di rendere disponibile per il capitalismo occidentale una manodopera docile, supersfruttata e inesauribile. Ti rendi conto che non una delle paia di scarpe da tennis, da basket e altro ancora che a miliardi inondano la superficie del Pianeta, e di cui gli adolescenti vanno pazzi, è fabbricata in Occidente? Esse provengono tutte dai bagni penali dell'Asia, dove milioni di piccole mani s'avvelenano col benzene tutto l'anno per incollarle come si deve, quando non muoiono in incendi spaventosi! Ma... di quale democrazia parlano i nostri dissidenti? Un mito utile solo a infiammare le folle asiatiche contro i tiranni che vi regnano. Ma a quale fine?


XI XUANWU: Ti lascio rispondere.


MU XIDI: Rimpiazzare il tiranno Jang Jieshi [Chiang Kai-shek] con il democratico Lee Teng-hui, il tiranno Marcos con la democratica Aquino, il tiranno Ne Win con la democratica Aung San Suu Kyi... Una classe dirigente con un'altra. Per la piccola incollatrice di scarpe da basket Nike o Reebok che morirà a trent'anni con i polmoni bruciati dal benzene, cambia qualcosa?


XI XUANWU: Certamente no.


MU XIDI: Vengo quindi alla mia seconda rimostranza nei confronti dei dissidenti: la loro fascinazione per la classe dirigente. Come rilevavo già prima a proposito dei miei compagni «giovani istruiti», i dissidenti cinesi, non essendo che una frangia dell'intellighenzia, si concepiscono solo come membri della classe dirigente. Certo, 0uella attuale, troppo screditata da trent'anni di terrore e di massacri di cui essi stessi sono stati vittime, ma la prossima, il ricambio, in cui si vedono già al posto d'onore, riconosciuti infine nel loro talento. D'altronde, guarda come si vantano fin d'ora di conoscere certi burocrati illuminati, pronti ad ascoltare i loro umili suggerimenti, le loro proposte concrete in vista di una gestione morbida del regime. Guarda come conoscono bene gli arcani della burocrazia, i clan che vi si affrontano, i nomi di alcuni responsabili. Guarda come sono avidi di fughe di notizie riguardanti i grandi scandali che scuotono il regime, le storie di corruzione contro le quali insorgono prima di caderci essi stessi. Ah, quanto sono lontani dal popolo di cui vogliono il benessere, da questa Cina che vogliono strappare all'arretratezza, da questo «Paese» che vogliono «salvare»!


XI XUANWU: Veniamo dunque alla tua terza rimostranza: il loro patriottismo.


MU XIDI: «Salvare la Cina!» ecco la loro parola d'ordine. Ma cosa offrono di concreto agli ottocento milioni di contadini appena usciti dal Medioevo e che hanno conservato le aspirazioni della società preindustriale? Non certo di trasformarli da un giorno all'altro in cittadini moderni, grazie a elezioni democratiche. Per i contadini non immaginano altro status che quello di manodopera di cui disporre a piacimento, di fonte infinita di plusvalore per i loro progetti di modernizzazione. Il loro patriottismo è un pio voto. Se vogliono «salvare la Cina», è per farsi un posto al sole, sulle spalle dei milioni di sfruttati che sperano di poter tenere a freno ancora a lungo. Certo anche questa idea di «salvare la Cina» è un'illusione.


XI XUANWU: Puoi essere più preciso?


MU XIDI: Non si può salvare la Cina senza salvare tutta l'umanità. L'intreccio economico tra la Cina e il resto del mondo mostra che la sorte dell'una è ormai irrimediabilmente legata a quella dell'altro. Le rivolte degli anni Venti erano più lucide delle loro eredi degli anni Novanta. Quando Deng Xiaoping e i suoi occupavano l'ambasciata cinese a Parigi per protestare contro i termini del Trattato di Versailles, individuavano un legame diretto tra le decisioni dei padroni del mondo di allora e il destino della povera Cina, per quanto essa fosse ancora largamente autarchica. E ora che è un ingranaggio fondamentale della macchina capitalistica mondiale, vorrebbero ancora «salvare la Cina»? Che crepi, la loro Cina!


1 Fang Lizhi, astrofisico, definito dai media «il Sacharov cinese». Spirito eclettico, autore negli anni Ottanta di diversi pamphlet, che gli sono valsi nel 1986 l'esclusione dal Partito. Rifugiatosi nell'ambasciata degli Stati Uniti all'indomani di Tienanmen, vi restò per un anno insieme alla moglie; infine furono autorizzati entrambi a espatriare. Il 14 settembre 1991 Fang Lizhi, venuto in Italia per partecipare a un convegno di astrofisici a Castel Gandolfo, s'incontrò con il Mostro di Wadowice. [NdT]

2 FANG LIZHI, Bringing down the Great Wall. Writing on Science, Culture and Democracy in China, Alfred Knopf, New York, 1990.


3. ANCORA SUL FOCOLAIO VIRALE CONTRORIVOLUZIONARIO DI HONG KONG

scuse per la batosta elettorale

Seconda corrispondenza che ci giunge dal compagno Alessio sulla battaglia di e per Hong Kong in seguito alle elezioni del novembre 2019. Esse hanno segnato il trionfo del campo “pro-democrazia” e “lasciato inebetite le autorità di Pechino” come hanno scritto gongolanti quelli di Asianews voce di matrice cattolica e filo-imperialista. Ammutoliti pure i nostri amici “campisti” messi in evidente imbarazzo dal democratico responso delle urne, devoti come sono a Santa Democrazia (oltreché alle artiglierie degli Stati borghesi antagonisti all’egemonia Usa). Noi non abbiamo alcun imbarazzo, essendo devoti solo agli interessi del Proletariato Internazionale ed alla sua Forza che non sortisce e non si misura dal numero di schede elettorali liberamente (o meno, non ce ne frega nulla) depositate nelle urne, sacre solo per i rincretiniti, gli imbonitori e gli oppressori di classe.

Chiariamo una cosa, altrimenti non ci capiamo. Vi è una discrepanza fra il dato elettorale riportato nello scritto di Alessio (40% per il “fronte filo-cinese”) e il dato che a noi risulta (un misero 10%) dovuta probabilmente al fatto che Pechino e i suoi organi hanno sommato a favor loro, oltre al 10 anche il 30% di astensione registrata. Un metodo truffaldino per addolcire la pillola. Detto questo, 10 o 40% nulla cambia per il nostro modo comunista di vedere ove contano l’organizzazione, l’inquadramento delle forze reali. Dovremmo saperlo bene, soprattutto qui in Italia dove un Tizio nelle elezioni del 1919 è stato ridicolizzato salvo ritrovarsi tre anni più tardi al testa del governo; e per converso il clamoroso trionfo elettorale socialista schiamazzato sempre nel 1919 si è tramutato, nello stesso arco di tempo, in disfatta. (Testo sacro di riferimento, insindacabile cioè da prendere o lasciare: “Che cosa vale una elezione” da l’Unità 16 aprile 1924, firmato Amadeo Bordiga. Si noti, ed è punto essenziale, che la Sinistra marxista alla testa del PCd’I fu allora, 1924, senza esitazione alcuna per la partecipazione alle elezioni in quanto atto di guerra di classe in quelle circostanze. Gli inviti all’astensionismo dalla “contesa elettorale” in quanto inficiata dal clima di violenze e soprusi fascisti furono recisamente respinti. Si rifletta sul punto.) Assodata la faccenda possiamo proseguire intendendoci.

Ben avendo fiutato l’aria le autorità di Hong Kong e quelle di Pechino avevano cercato di derubricare la consultazione elettorale a fatto “amministrativo” togliendogli il più possibile la valenza politica (alla Bonaccini per intenderci…). Al contrario il campo pro-democrazia, nel quale ha gettato tutto il suo peso la Chiesa cattolica locale, vescovo emerito di Hong Kong cardinal Zen Ze-Kiun in testa. Sua Eminenza ha spronato tutti alla “responsabilità civica di andare a votare” e di farlo nel verso giusto (ricorda proletario: Dio ti guarda nell’urna; il compagno Xi Jiping no!), sottolineando che: “in queste elezioni di distretto si deve tenere presente non solo di ottenere buoni servizi per i cittadini ma anche appoggiare la dimensione democratica”.

Il risultato elettorale indubbiamente certifica che una parte significativa dello stesso proletariato ultra-oppresso di Hong Kong è, piegato nello stato attuale delle cose, portato a ritenere che i suoi interessi immediati possano trovare migliore realizzazione fuori dal controllo della borghesia cinese ma invece alla dipendenza del capitalismo e dell’imperialismo democratici. Il dato elettorale fotografa e registra la posizione innaturale del proletariato di Hong Kong, separato e messo in contrasto coi fratelli di classe del mainland cinese. (E’ inutile ricordare che non vi è al momento alcuna forza politica che operi in senso contrario a tale posizionamento innaturale e in un certo senso “spontaneo” del proletariato in quanto classe “per il Capitale”)

Questa bestiale situazione è così descritta dai cattolici di Asianews:Pechino pensa che i diritti umani siano solo il mangiare, il vestire, l’abitare. Ma la gente di Hong Kong ama anche la libertà”. Come rispondiamo a questi servi cattolici del Capitale, dato che anche i comunisti chiamando i proletari alla lotta rivoluzionaria affermano necessari i sacrifici più duri e non certo facendo loro balenare la cuccagna a portata di mano? A questi servi cattolici del Capitale rispondiamo: signori, quale libertà? Quale reale spazio di libertà per il proletariato al di fuori di quella che esso riesce a strappare con il suo peso sociale e con la sua Forza dentro la società di classe? Vedetevi il recente film sudcoreano “Parasite” (a cui hanno dato l’Oscar, ne parleremo. Visione altamente consigliata e sollecitata per tutti) e rispondetevi da soli!

Incassata la botta, Pechino ha intanto perfettamente inquadrato la questione Hong Kong per quello che effettivamente è: «The city will surely become a battle zone for the great power struggle between Beijing and Washington, and it won’t stop in the short term» ossia zona di battaglia fra la potenza cinese e quella americana, una battaglia che non finirà in breve termine!, scrive il Global Times (organo del governo cinese). E lo scrive rimpiangendo i tempi in cui entrambi i contendenti borghesi e capitalisti potevano spartirsi con reciproca soddisfazione il grande business della città-stato (sulle spalle e sulla pelle del proletariato di Hong Kong e della Cina, ma questo ovviamente il Global Times non lo dice e non lo può dire).

Il governo di Pechino e i suoi controllati di Hong Kong hanno inoltre perfettamente centrato il nocciolo da cui scaturisce la loro pena: «Il Liasison Office (“l’Ufficio” che sovrintende i rapporti Hong Kong e il potere centrale e ne indirizza la politica. Ndr) si è mescolato con i ricchi e le élite cinesi della città e si è isolato dal popolo. Questo deve essere cambiato». Il potere borghese cinese scopre che a Hong Kong ci si è “mescolati troppo con i ricchi…”! Cari “compagni”, come mai? E davvero intendete cambiare questo andazzo senza intaccare il business su cui campano alla grande i borghesi di ogni razza e colore?

Tale è la tenaglia di classe, l’incudine e il martello in cui si trova immobilizzato il potere di Pechino in the battle zone di Hong Kong, usata dall’imperialismo democratico come sua testa di ponte verso il mailand cinese.

Nello scritto di Alessio troviamo che vi sia una “zona d’ombra” della quale per finire questa presentazione diciamo. Laddove, nei periodi finali, il compagno dice: “… sperare che la Cina resista è foriero di sconfitte, … tifare e sostenere lo schieramento pro-Cina è follia”.

Noi pensiamo che non si tratti affatto di “sperare” oppure no. E’ assolutamente certo che la Cina (Stato borghese) resisterà all’attacco imperialista democratico non solo nel mainland ma anche nella battle zone di Hong Kong. Solo le teste bacate e ottenebrate degli occidentali possono pensare il contrario. Non è quindi questione di “sperare” su una cosa assolutamente scontata, né di “tifare e sostenere” qualsiasi schieramento borghese.

Il punto dirimente è proprio quello che i rivoluzionari comunisti serbando la propria indipendenza politica ed organizzativa non cauzionano nessun “fronte patriottico” presunto “anti-imperialista”, in quanto impotente a battere il campo democratico pro-imperialista con il quale i borghesi pro-Cina intrattengono mille linee di contatto, vivendo entrambi sulle spalle dello sfruttamento del proletariato. Semmai i comunisti rivoluzionari debbono entrare nella “tenaglia” di cui sopra, in cui sono serrati i “pro-cinesi” che pretendono si salvare la capra (l’interesse borghese al business) e i cavoli (gli interessi di classe proletari).

Diciamo francamente che per noi di follia (criminale), dal punto di vista comunista, vi è una sola: quella di “tifare o sostenere” il fronte pro-libertà e pro-democrazia. Se anche un movimento autonomo di classe non si facesse strada fra i proletari di Hong Kong e le cose precipitassero nello scontro fra due campi borghesi, il male minore come abbiamo detto facendo nostro un antico “Filo del Tempo” sarà la sconfitta del Mostro democratico e imperialista.

Ad onta dei trionfi elettorali che gonfiano le vele alla scatenata feccia del “White Block” come lo definisce e ben descrive Alessio, è per noi certo al puro limone che questa feccia si sta scavando la fossa con le proprie mani. C’è solo da vedere chi, senza nessuna pietà, la scaraventerà dentro. Sapete il “chi” in cui noi speriamo, in questo senso è giusto dire di “sperare”…

*****

Il 24 Novembre 2019 si sono tenute le elezioni per i consigli distrettuali di Hong Kong (una sorta di consigli municipali o di distretto che si occupano della gestione delle cose comune nei quartieri, quali pulizia delle strade, raccolta dei rifiuti, ecc.) che indubbiamente hanno avuto un carattere politico in conseguenza delle proteste scoppiate ad inizio estate e che continuano tuttora.

I media occidentali ed i centri dell’imperialismo hanno salutato con grande vigore il risultato uscito dalle urne e che ha visto il prevalere delle forze “pro dem”, ossia anti Pechino. Il blocco politico DAP che sostiene il governatore Carrie Lam ne è uscito sconfitto e tutte le formazioni che sostengono le posizioni filo cinesi sono state ridimensionate. Il DAP ha conquistato la maggioranza solo in uno dei 18 consigli distrettuali.

La fanfara imperialista ha sostanzialmente inneggiato al risultato e ha chiosato con soddisfazione: lo vedete, questa è la dimostrazione che il popolo di Hong Kong tutto è con gli studenti che protestano.

Infatti, negli ultimi mesi le proteste e le mobilitazioni di massa – con il sostegno di alcuni scioperi di categoria e di settore – dell’estate appena passata sono rientrate. Le strade e le piazze vedono ora solo gli “eroici” giovanotti vestiti di nero dare battaglia violenta e barricadera contro l’autoritarismo e la polizia.

I media occidentali, mentre descrivono (rubando il termine all’immaginario delle lotte “anti globalizzazione” del decennio passato) il “black blok” studentesco di Hong Kong con accenti eroici, ci spiegano che sebbene la stragrande massa della gente ha abbandonato la piazza, tutta la popolazione silenziosa di Hong Kong tifa e sostiene i vigorosi giovanotti del movimento studentesco, seppur violento. Fiumi di parole vengono usate da questi cialtroni dei media per spiegare e giustificare la violenza dei giovanotti di Hong Kong (così come sono lungi da usare la stessa eloquenza quando si tratta di commentare le immagini gli scontri di piazza in Cile, Colombia, Bolivia Ecuador, Parigi, ecc.).

Lo vedete? Le elezioni dimostrano quanto è vero ciò che scrivevamo prima. Gli studenti sono appoggiati da tutto il popolo silenzioso.”

Al di là del risultato elettorale, che sicuramente fotografa i rapporti di forza attuali in campo, l’esito stesso non consegna un blocco pro dem compatto, mentre il numero dei voti comunque raccolti dalle cosiddette liste pro Pechino è superiore al 40%. Le diverse liste “pro dem” che hanno concorso alla contesa elettorale sono ognuna il risultato di altri piccoli sotto raggruppamenti eterogenei: vi sono organizzazioni lobbiste di zona che si muovono nelle pieghe della speculazione edilizia, comitati di cittadini che si raggruppano intorno al riccone di turno, piccole lobby di commercianti di quartiere, associazioni di categoria e a carattere assistenzialistico e sindacale, organizzazioni umanitarie direttamente finanziate dall’imperialismo e dalla CIA (quali YMCA), ecc.

Del resto, anche il cosiddetto schieramento di liste Pro Pechino e sostenitore di Carry Lam è composto dalla stessa accozzaglia di lobby più o meno grandi, direttamente legate o alla coda dei vari comitati di affari della borghesia della regione, e con la collaborazione della FTU.

Sì, il successo vi è stato per lo schieramento che và a favore dei piani dell’imperialismo, soprattutto quello targato USA e Gran Bretagna: il risultato registrerebbe uno spostamento di forza a favore della borghesia pro a stelle e strisce di contro alla borghesia pro Cina.

Ma quanto sta accadendo ci offre anche un’altra indicazione.

Le mobiltazioni e le proteste di quest’anno hanno raggiunto il loro apice improvvisamente con le manifestazioni oceaniche di giugno, luglio ed agosto, dove – seppure alla coda di una piccola borghesia manutengola e venduta all’imperialismo – le piazze sono state tracimate dalla marea plebea e proletaria di Hong Kong che non può più vivere nelle condizioni attuali.

La presenza di questa marea proletaria e plebea, seppure alla coda della borghesia manutengola, senza un suo orientamento ed una organizzazione indipendente (talvolta organizzata intorno a nuovi sindacati politicamente autonomi dal governatorato di Hong Kong e non legato alle grandi lobby finanziarie che comandano la città, ma al tempo stesso suscettibile di essere risucchiato dalle lusinghe dell’imperialismo), rappresentava comunque una presenza potenzialmente pericolosa. Pericolosa e mal vista da Pechino e da Washington.

Da quel momento c’è stata una escalation degli scontri di piazza che a fatica gli stessi network occidentali sono riusciti a spiegare come semplice risultato della repressione autoritaria imposta da Pechino. In realtà, si è assistito ad una escalation della violenza proprio da parte del blocco studentesco, che chiamerei “white block” (in fondo l’America è cristiana ed è bianca).

I reportage della BBC, della CNN ecc. e del complesso dei media occidentali hanno cercato di spiegare e giustificare le azioni violente da parte dello studentame (autentica feccia venduta all’imperialismo). Pagine di giornali, fiumi di video e foto dei principali network occidentali hanno commentato le scorribande “vandaliche” delle squadre studentesche, quasi come un atto “inspiegabile”. Insomma come giustificarle agli occhi dello “spettatore” occidentale?

Nel momento apice della mobilitazione di massa, abbiamo assistito ad un cambio di passo: la direzione borghese del movimento (collegata ai centri dell’occidente) ha alzato i toni dello scontro, puntando tutto sulla violenza di piazza che fin qui erano stati all’interno della “normalità”. Improvvise scorribande nei confronti delle quali la polizia di Hong Kong e Pechino è stata fin troppo paziente e sostanzialmente all’inizio ha lasciato fare per un lungo tratto almeno all’inizio.

I comunisti non storcono il naso di fronte alla violenza del movimento come fa il piccolo borghese, purché la violenza sia della nostra classe contro quella dei magnaccia. Purché la violenza rafforzi l’indipendenza e l’autonomia della classe. Ci interessa il contenuto di classe della violenza espressa durante una mobilitazione, quale direzione e moto organizzato ed indipendente rafforza. Non giudichiamo manutengoli dell’imperialismo lo studentame di Hong Kong perché “violento” in sé. La violenza degli studenti è a servizio dell’imperialismo proprio perché antiproletaria.

La violenza del “white block” ha agito nel senso delle necessità della classe borghese, lavorando affinché le piazze venissero svuotate da quel potenziale pericolo rappresentato dalla presenza della marea plebea. E’ servita per imporre il carattere politico di pro democrazia e anti Cina, contro le poche – seppure presenti – posizioni dissonanti al mero appiattimento pro occidentale.

Il proletariato si è ritirato dalle mobilitazioni, non perché ha capito l’antifona, non perché così si è demarcato da questa gentaglia venduta all’imperialismo, non perché “imbelle” e contrario alla violenza, ma proprio perché privo ancora di una sua visione di classe indipendente e privo di una sua organizzazione militante capace di prendere a calci nel sedere la feccia studentesca durante le giornate di agosto, in uno con la battaglia contro lo sfruttamento di Pechino e dei tentativi di manomissione dell’imperialismo.

Le azioni del “white block” studentesco l’hanno fatta da padrone: hanno agito in direzione di imporre l’egemonia del contenuto politico della rivendicazione “democratica” originaria delle proteste, che viceversa la improvvisa partecipazione di ampi settori del proletariato avrebbe potuto far tracimare in qualcosa di altro, di diverso ed indigesto.

Basta guardare il materiale dei network occidentali: Hong Kong protesters against civilians. Video di autisti degli autobus o di addetti alle metropolitane picchiati selvaggiamente dagli studenti. Passanti pestati dai manifestanti. Centri commerciali devastati ed inservienti dei negozi picchiati e trascinati via dagli esercizi. In sostanza il “white block” ha cominciato ad agire come vere e proprie squadracce fasciste bianche, attaccando i lavoratori che non incrociavano le braccia e non sospendevano il lavoro, che non si allineavano agli slogan “democratici”. Episodi di questo tipo si sono susseguiti alle fermate degli autobus e della metropolitana, negli uffici e negli esercizi commerciali.

Mentre questo accadeva la polizia di Hong Kong si è sempre guardata dall’intervenire.

Le squadracce studentesche hanno usato la mano pesante anche dentro le manifestazioni contro chiunque usava toni diversi e restii agli slogan smaccatamente "anti cinesi", o solo perché gridava in mandarino. Ci sono stati episodi in cui alcuni singoli partecipanti delle manifestazioni sono stati accerchiati, impediti di megafonare e picchiati dal “white block” studentesco (alcuni giornalisti occidentali attoniti riferiscono che le risposte ricevute a spiegazione di questi episodi fossero “settling matter privately”: ossia questioni private interne).

La piega in senso violento delle proteste ha avuto dunque un duplice risultato utile per Pechino e per Washington. La plebe proletaria priva di una sua posizione e di una sua autonomia di classe, appena affacciatasi in piazza è tornata a casa (e quale casa!!), facendo dominare in visibilità politica il contenuto politico della battaglia per la democrazia, al servizio dell’imperialismo.

Dall'altro, si è riusciti a incanalare la rabbia plebea e le attenzioni del proletariato proprio nella direzione consona a Pechino, a Washington ed ai borghesi e capitalisti di ogni dove: sua maestà il processo "elettorale" democratico. Confronto elettorale, che dietro la contrapposizione tra schieramenti pro Cina e schieramenti anti Cina, si nasconde una pericolosa via di fuga per il proletariato tutto e su cui cui l’imperialismo lavora: dividere gli sfruttati di Hong Kong e del mainland Cinese tra chi è “Mandarino” e chi è “Cantonese”. Dividere e contrapporre i proletari tra loro lungo derive etniche.

La foto attuale vede l'imperialismo intascare un piccolo successo contro il resistere del concorrente Cinese.

Sebbene ogni insuccesso, resistenza o sconfitta dovesse darsi per i piani dell’imperialismo (soprattutto quello a stelle e strisce), è accolto con piacere, per i comunisti sperare che la Cina resista è foriero di sconfitte.

Di fronte all’attuale nullità del proletariato di Hong Kong, Cinese e soprattutto di qui, tifare e sostenere lo schieramento “pro Cina” è follia.

I Comunisti sono chiamati a richiamare la marea proletaria di Hong Kong e della Cina sull’unico terreno unitario e generale possibile: non un paese, e due sistemi; bensì una classe, una lotta oltre tutti i confini contro i due sistemi, capitalistici entrambi di oriente e di occidente, e lotta senza tregua ai manutengoli dell’imperialismo.



13 febbraio 2020






APPENDICE

Un virus al di sopra
di ogni sospetto

Di prove, non ne abbiamo. Mettiamo nel conto anche la possibilità che il tutto si origini, "banalmente", dalle condizioni di sovraffollamento e di incuria igienica diffuse nelle città in tumultuoso sviluppo economico della costa cinese. Sin dal primo momento, però, la semplice localizzazione geografica delle zone più colpite dalla Sars (la Cina e il Canada francese) ci ha fatto sospettare che l’agente patogeno sia stato "regalato" da qualcuno. Da quel "qualcuno" che da tempo attribuisce ad altri soggetti (stati o organizzazioni che siano) la volontà "mostruosa" di usare le armi batteriologiche. E che è la prima potenza batteriologica del mondo.

Le notizie delle settimane successive ci hanno confermato nel sospetto. Prima fra tutte la dichiarazione dello scienziato Koleshnikov (dell’Accademia Russa delle Scienze Mediche) secondo cui il virus da cui si fa derivare la Sars può essere nato solo in un laboratorio. Quale laboratorio? E quale mano lo ha fatto uscire?

Ci si potrebbe obiettare: "È un sospetto pregiudizievole il vostro. Certo, la classe dirigente degli Stati Uniti non è composta da stinchi di santi, ma la loro dedizione alla causa del profitto non può arrivare fino a questo punto. Anche Hitler si trattenne dal superare questo confine..."

È vero che Hitler arrestò la ricerca sulle armi batteriologiche. È però altrettanto vero che, per gli Stati Uniti, casi simili a quello da noi sospettato sono già accaduti.

I precedenti

Lasciamo stare quelli da addebitare agli "antenati", come il "regalo" che nel 1763 sir Jeffrey Amherst, governatore della "Nova Scotia", inviò ai pellerossa: coperte infettate di vaiolo... Saltiamo al XX secolo. Al 1952. Alla guerra di Corea. Quando dagli aerei statunitensi furono scaricati sulla penisola coreana e sulla Cina penne di tacchino infette, insetti, pezzi di animali in putrefazione ecc. Ne derivarono peste, antrace, encefalite. Si venne a sapere più tardi che nel dicembre 1951 il segretario del dipartimento della difesa Usa aveva dato ordini che le forze armate "fossero rese pronte entro il più breve tempo possibile" per un uso offensivo delle armi biologiche e che poche settimane dopo le forze aeree avevano assicurato che tali capacità erano vicine alla realizzazione. (1)

Già allora gli Usa erano la prima potenza mondiale in campo batteriologico. Le loro ricerche si erano avvalse da qualche anno dell’esperienza di uno specialista del settore: Shiro Ishii, ex direttore del centro di produzione giapponese da cui il Giappone negli anni trenta e durante la seconda guerra mondiale trasse i microrganismi di peste, colera, leptospirosi disseminati in Manciuria e nelle zone di confine dell’ex-Urss per contaminare acque, bestiame e persone (e gli stessi soldati nipponici che li manovrarono). Al termine della guerra, Ishii non solo non venne condannato come criminale di guerra al processo di Tokio, ma fu invitato negli Usa a collaborare al funzionamento del più grosso centro di guerra batteriologica americano: Fort Detrick, dove dal 1942 venivano selezionati, prodotti e stivati in bombe o testate missilistiche germi di malattie quali peste, morva, tifo petecchiale, carbonchio... Germi provati a più riprese, "sperimentalmente", sulla stessa popolazione statunitense tra il 1949 e il 1969...

Visti questi precedenti, cosa si è indotti a pensare davanti alla seguente notizia? La Cohliomya hominovorax è un dittero che prende di mira e mantiene vive piaghe e ferite degli animali a sangue caldo, uomo compreso. L’animaletto, comunemente detto "mosca assassina", è endemico nelle aree tropicali e sub-tropicali del continente americano. Lì è rimasto confinato fino al 1989... quando la mosca venne improvvisamente segnalata in Libia. Che ne denunciò l’arrivo con capi di bestiame infetti provenienti dal continente americano... Nel giro di un anno, l’infezione si diffuse su un’area di 25mila kmq e colpì 2 milioni di capi di bestiame.

L’arma biotech

Ma questo è ancora niente.

È solo con l’invenzione delle tecniche di manipolazione genetica che la guerra biologica diventa una reale alternativa militare, come riconobbe nel 1986 un documento del dipartimento statunitense della difesa (2) Esse rendono "finalmente" possibile la creazione (in quantità adeguate!) di microrganismi sconosciuti al "nemico" e addirittura "tarati" sulle sue caratteristiche genetiche. Ne aveva già parlato nel numero del novembre 1970 della Military Review un articolo intitolato "armi etniche". L’autore dell’articolo era tale Carl Larson, capo del dipartimento di genetica umana all’istituto di genetica di Lund, Svezia. Larson spiegava come le variazioni genetiche tra le razze comportino differenze nella tolleranza a varie sostanze (3) e come un’arma biologica potesse sfruttare queste varianti genetiche e invalidare o uccidere un’intera popolazione.

Fantascienza?

Una notizia recente, tra le tante. Il 15 novembre ‘98, il London Times riportò la dichiarazione israeliana di aver con successo sviluppato una "pallottola etnica" specifica geneticamente per colpire gli arabi. Alla richiesta di confermare o meno l’esistenza dell’arma etnica, il portavoce del governo israeliano rispose: "Abbiamo un cestino pieno di sorprese che non esiteremo ad usare se avvertissimo che lo stato di Israele si trovasse sotto serie minacce". (Una parentesi: una delle osservazioni filtrate nelle scorse settimane sulla Sars riguarda la sua strana proprietà di infettare solo una parte della popolazione asiatica...)

Tutti contro la Cina!


Sulla Sars abbiamo, come detto, qualche sospetto. Ma sul fatto che questa epidemia sia stata usata, a destra e a manca, per attaccare la Cina (fregandosi le mani all’idea che la Sars sia un fattore di caos per essa), beh su questo non ci sono sospetti, bensì certezze.

Leggiamo.


"I mandarini cinesi della quarta generazione vivono oggi la peggiore crisi di identità e di credibilità dopo il massacro di piazza Tienanmen del 1989. Le conseguenze saranno, se possibile, ancora più devastanti: questa volta tutti i cinesi avvertono sulla propria pelle l’inefficienza di un sistema basato sulla burocrazia del partito unico e sui cover up. […] La verità è che il virus porterà a un terremoto sociale, politico ed economico che farà sentire i suoi effetti anche da noi."

"Suscita orrore e profondo turbamento morale la notizia venuta ieri dalla Cina, secondo cui saranno passibili di pena di morte coloro che fuggiranno dagli speciali baraccamenti sanitari dove vengono tenuti in quarantena, siano o no effettivamente malati, i sospetti ‘portatori di Sars’. Orrore per l’ulteriore ampliamento dell’uso di questo strumento giuridico nel paese che già lo usa più di ogni altro al mondo; turbamento morale perché ne sono vittime designate i più deboli di tutti, cioè i malati e i loro parenti (e certo non quelli di estrazione sociale elevata), senza neppure commettere un reato ma solo per aver disubbidito a un ordine."

E ora indovini il lettore perspicuo quale delle due citazioni è dal berlusconiano Panorama, e quale dall’anti-berlusconiano il manifesto…

Nel frattempo, nel 1996 per la precisione, gli Usa avevano già inaugurato la guerra biotech. Il bersaglio? Un paese "come un altro", "casualmente" colpito negli anni precedenti da attacchi batteriologici tradizionali (il tutto è adeguatamente documentato) con effetti alcune volte devastanti sul bestiame e la salute della popolazione. Parliamo ovviamente di Cuba (4). Il 21 ottobre 1996 un pilota di un aereo cubano vide un altro aereo che stava irrorando una qualche sostanza su una zona dell’isola. Il 18 dicembre vennero rilevati in un campo di pomodori della zona di sorvolo segni della presenza di un insetto manipolato geneticamente, il Thrips Palmi, mai prima registrato nell’isola. È un insetto originario dell’Asia, ha un ciclo riproduttivo di circa venti giorni, attacca raccolti e piante, resiste a vari tipi di pesticidi. I documenti della "Federazione degli Scienziati Americani" lo pone tra le armi biologiche. Si venne a scoprire in seguito che l’aereo avvistato il 21 ottobre era in dotazione della Casa Bianca per operazioni di distruzione delle piantagioni di droga in America Latina...

L’horror però è nel futuro. E lo fa intravvedere il documento redatto nel settembre 2000 (in vista delle elezioni presidenziali) da un think-tank di destra, il Project for the New American Century, per conto di Cheney, Rumsfeld, Wolfowitz, il fratello minore di George W. Bush, Jeb, e per Lewis Libby (il capo dello staff di Cheney). Il documento, che "consiglia" di assumere il controllo militare del Golfo a prescindere se Saddam sia o no al potere, presenta "un progetto per conservare la preminenza globale degli Stati Uniti, impedendo il sorgere di ogni grande potenza rivale, e modellando l’ordine della sicurezza internazionale in modo da allinearlo ai principi e agli interessi americani." Il documento mette in particolare sotto i riflettori la Cina, nella quale si auspica un "cambio di regime" a cui "le forze americane ed alleate" potrebbero fornire "la spinta" adeguata. Il documento parla inoltre di nuovi metodi di attacco (elettronici e biologici) e fa riferimento al mondo dei microbi, a "forme avanzate di guerra biologica in grado di prendere di mira genotipi specifici"...

Riconosciamo che nel caso della Sars nulla è ancora dimostrato, e che il nostro sospetto potrebbe risultato sballato. Comunque sia, e questo è un fatto incontrovertibile, la vicenda viene già ora usata per orchestrare una campagna d’odio contro la Cina e contro gli immigrati cinesi in Occidente. Ne sono un esempio i brani che riportiamo nel riquadro. La grande guerra che l’imperialismo prepara è sempre meno nascosta...




(1) Si trova una conferma ufficiale dell’uso dell’arma batteriologica da parte degli Usa nella guerra di Corea in una lettera che nel 1977 l’ex-direttore del dipartimento australiano agli affari  esteri John Burton scrisse a Stephen Endicott il 12 aprile 1977.

(2) Vedi ad esempio J. Rifkin, Il secolo biotech, Baldini&Castoldi, Milano, 1998

(3) Per esempio larghi segmenti della popolazione del sudest asiatico soffrono di intolleranza al lattosio dovuta all’assenza dell’enzima lattasi nel sistema digerente.

(4) Vedi i documenti disponibili all’indirizzo: http://www.afrocubaweb.com/biowar.htm




Mentre andiamo in stampa, ci viene segnalato da alcuni compagni di Indymedia un documento dal titolo "United Sars of America", nel quale si ricostruisce il carattere pilotato dell’epidemia. Il documento è disponibileall’indirizzo: www.disinformazione.it



(Che fare N.61, giugno –  luglio 2003)