nucleo comunista internazionalista
note



TUTTI “CHARLIE HEBDO”
O TUTTI (NOI) COMUNISTI?

La carneficina consumatasi ai danni della redazione di Charlie Hebdo, più alcuni estranei ad essa, rappresenta senz’altro un episodio dell’attuale barbarie “globalizzata”.

Noi non abbiamo alcun dubbio nel sostenere la più ampia ed assoluta libertà di stampa, ivi comprese le peggiori (se vogliamo) posizioni in urto con le nostre: non ci adonta in alcun modo l’attacco reazionario alle posizioni classiche del marxismo su cui qualsiasi soggetto dell’attuale putrescente società ha il “diritto” di sputazzare (salvo che noi, quando e se ne avremo la forza, gliele faremo inghiottire e vomitare). La questione è di forza e non di regole statutarie. E questo vale per ogni altra questione attinente al “libero diritto d’espressione”. Perciò stiamo dalla parte di chi rivendica a qualsiasi e qualsivoglia tendenza a dire la sua infischiandosene di tutte le “regole” imposte da una purchessia autorità “statuale”. Dunque: Charlie Hebdo abbia pure il diritto assoluto di dire la sua (e noi la nostra) senza limiti ad esso imposti da qualche autorità statuale o checchessia. E, sotto questo aspetto, noi ci schieriamo apertamente a suo favore. Si può benissimo non sottoscriverne nulla, ma difenderne l’esercizio della “libertà d’espressione” sul piano delle “idee”. Qualcuno l’ha voluta colpire a suon di kalasnikov e ciò non ci induce a pentimenti sull’altrettanto, e per noi, assai più valido diritto alla replica, forza contro forza, che non sempre si giocherà a suon di platonici confronti di opinioni e men che mai quando si daranno decisivi scontri materiali di classe, ma ci induce ad una considerazione di fondo se e come essa abbia avuto in questo caso un senso positivo, cosa che noi neghiamo.

Charlie Hebdo nasce da una costola di tipo “situazionista” della “sinistra” francese, sin dai tempi di Hara Kiri, espressione di un sessantottismo francese molto imbevuto di spirito “illuminista” fondamentalmente legato alla tradizione borghese chauvine francese, nonostante tutti i suoi richiami “libertari”: a noi, detentori della Ragione, il diritto di trattar tutti gli altri da fessi. Rispetto all’Islam esso si è sempre mosso sotto il segno del “superiore” diritto della cultura e della tradizione laico-illuminista francesi che ne fanno un “incidente” interno non troppo raccomandabile rispetto ai parametri “nazionali”. L’Islam vi è sempre stato visto come una sorta di regressione rispetto al “razionalismo” francese così come, va detto, il cattolicesimo (e un po’ meno l’ebraismo: chissà come e perché; forse perché – come ha suggerito un ragazzo arabo della banlieu parigina – se il giudaismo fosse stato trattato alla stregua dell’Islam la rivista sarebbe stata rapidamente chiusa). Ciò in nome dei “lumi”, estranei alla Dea Ragione (Cristo ha subito sulle sue pagine degli affronti non secondi al povero Maometto), e, sempre sulla stessa linea, non si è mancata occasione di irridere ai poteri istituzionali interni con tanto di “smerdamento” del sarkozismo etc. (che certamente se lo meritavano) ma semplicemente per questioni di “stile”. Piccolo particolare da non trascurare: i sussulti volterriani di Carlie Hebdo contro l’“oscurantismo” coranico ha avuto il suo non commendevole seguito nell’irrisione verso i “dittatori” arabi colpiti dalle nostre granate (vedi il caso libico, con tanto di “umorismo” sul Gheddafi martirizzato dalla nostra civiltà!).

Fermiamoci qui all’Islam, che sta al centro del problema attuale. Per ragioni storico-materialistiche il conflitto di “idee” non è mai pervenuto ad una coscienza delle strutture condizionanti la società e, quindi, dell’attuale situazione materiale dell’Islam concreto oggi nel mondo. Gli islamici? Dei medioevali ritardatari sui tempi della nostra civiltà (che pure ci è passata, e spesso non tanto bene, ammesso che la sua attuale civilisation “laica” borghese brilli per eccellenza). Non aveva neppure tutti i torti il povero Vauro quando inveiva contro “vignette violente” cui era logico supporre “risposte violente” (ovviamente senza evocare sparatorie in risposta ad esse). Sì, l’attuale mondo islamico si presenta in ritardo rispetto ai nostri parametri di “civiltà” borghese e non rappresenta ad essa una adeguata risposta alternativa rispetto ai tempi. Ma le ragioni di ciò stanno ben poco nella “natura” dell’Islam. E’ questione storica di tempi e modi di un riscatto storico che come altri esempi (vedi la Cina, uscita fuori dalla precedente sua arretratezza grazie ad una vera rivoluzione) può e deve essere colmato. Senza ed oltre il vetusto modello coranico tradizionalista? Questo è certo. E senza dimenticare mai che quel ritardo è stato da noi occidentali ben alimentato grazie ad un’operazione colonizzatrice oppressiva di cui Charlie Hebdo volentieri si dimentica, ma su cui sarebbe bene da parte degli interessati non piangersi sempre addosso per giustificare il proprio arresto al punto di partenza. Come abbiamo scritto in precedenza l’Islam attuale abbisogna di una sua “riforma protestante” in senso strutturale (e non di idee religiose astratte; e basti guardare a cosa si riduce certo protestantesimo USA al servizio del capitale di cui rappresenta il travestimento “ideale”... biblico) così come, se vogliamo, la nostra riformata tradizione cristiana ha bisogno di un ulteriore salto. Al termine di esso né Corano né Vangeli (o Torà), ma una posizione proletaria di classe che ne faccia materialisticamente strame. E questo è quanto spetta a noi, che non ci dichiariamo “siamo tutti Charlie Hebdo”, ma... Charlie Marx.

Fa ridere l’affermazione sbandierata dall’attuale “laicismo” francese (ed oltre...) secondo cui è primario il diritto di ciascuno di esprimere la propria posizione in nome della libertà di espressione. Valga un solo caso: il diritto dei cosiddetti “negazionisti” di porre dei dubbi sulla realtà della Shoah, che viene punita per legge come antisemitismo e, del pari, le analisi di alcuni studiosi, non proprio sprovveduti, che imputano lo scatenamento della seconda guerra mondiale all’imperialismo anglo-americano, e questo quanto ad analisi storica – più o meno condivisibile, certo! –, senza alcuna caccia all’ebreo od accensione ritardata di qualche altra camera a gas. Ed allora dovremmo dire: siamo tutti Faurisson e Mattogno, tanto per metterci alla pari. Nel frattempo prendiamo nota che l’attore Deiudonné viene imputato in Francia di “apologia del terrorismo” per essersi smarcato dalla marcia pro – Charlie Hebdo per i suoi chiari significati reazionari, e questo dopo che gli era stato proibito uno spettacolo reo, al solito, di “antisemitismo”. (Nella nostra iperdemocratica Italia è in vigore il delitto di “offesa al capo dello Stato”, altra bella trovata!) Ma se è proibito toccare alcuni nervi scoperti del sionismo sia pure da saggisti storici (quand’anche dubitabili) non altrettanto lo è per l’anti-islamismo di peggior conio. La “logica” (astratta) avrebbe voluto che, adottando lo stesso criterio, si fosse messo un freno legale agli sputtanamenti anti-islamici di Charlie Hebdo. Noi stiamo su una linea anticensoria in tutti i casi in oggetto. Libertà di stampa, libertà di espressione nostra (ed altrui). Il Manifesto, tanto per dirne una, approva una censura “costituzionale” e ne rifiuta l’altra. Pura schizofrenia, e, da questo punto di vista, avrebbe ragione il mussulmano che invoca per Maometto lo stesso rispetto imposto per la Shoah.

Da parte di certi difensori della libertà di opinione (a senso unico) si scopre che il Corano, come prontamente ha affermato Magdi “cristiano” Allam, invita alla guerra santa contro di noi (cosa che ben “ci” meriteremmo se condotta su un certo altro piano, quello della lotta di classe) mentre ne sarebbero indenni i nostri vecchi e nuovi testamenti: e ognuno può andare tranquillamente a verificare sulle fonti, e sui fatti. Una guerra “santa” assai sporca è in atto da tempo da parte dell’Occidente contro le popolazioni islamiche insanguinando tutta un’estesa area di cui non “ci” frega per nulla la religione. Ultimo episodio quello di Gaza con una caterva di morti di ogni genere  – bambini in prima linea – per cui non c’è stata qui (e neppure da parte islamica!) una mobilitazione di sdegno e “fermezza” anche solo paragonabile in termini minimali a quella della miriade di “cittadini” pronti a dichiararsi “siamo tutti Charlie Hebdo”; dichiararsi “siamo tutti gente di Gaza” risultava evidentemente molto più difficile, per non dire “fuori luogo”: non sono affari “nostri”!

L’attuale “sinistra” (moderata od estrema che sia) ipotizza che l’azione dei terroristi islamici non rappresenti in realtà nulla di “veramente islamico”, ma, anzi, sia rivolta contro l’Islam buono di casa nostra, pressoché totalitariamente con noi compatibile: gli islamici buoni che sarebbero a favore della piena libertà di coscienza religiosa e mai si sognerebbero di tirare in ballo il delitto di apostasia, femministi sfegatati od anche pro-gay di ferro e magari gran consumatori di alcolici e carne di porco Qualche deficiente ha addirittura “spiegato” come essa non sia che il frutto di un’operazione “sionista” od “imperialista”, per compromettere l’Islam che, di per sé, starebbe a noi vicino. L’ISIS? Una sorta di nemico dell’Islam “buono” con cui staremmo pacificamente convivendo. In realtà c’è “un certo Islam” che si rivolta contro l’Occidente. Male? Anzi, malissimo, ma la rivolta c’è e con tutta una sorta di buonissime ragioni. A questo Islam, storicamente determinato a muoversi contro la “nostra” tradizione colonialista, si vorrebbe rispondere con l’affermazione del “nostro” primato di “civiltà”, quello che nel Medio Oriente ci vede da protagonisti-padroni in nome di una “civiltà” al cui guinzaglio stiano le masse arabo-islamiche ed i propagandisti “da estrema sinistra” del “vero e buon islamismo” a tanto concorrono.

I suddetti dementi (e reazionari al fondo) ipotizzano anzi che l’ISIS sia una creatura direttamente creata in provetta dalla CIA e dal sionismo. Al Baghdadi? Un tipaccio anti-islamico addestrato dal Mossad, il tutto a partire dall’“inganno” dell’11 settembre. E’ certamente vero che l’Occidente ha di fatto armato un certo islamismo reazionario dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria etc. etc. e se ne è servito per colpire od abbattere dei “regimi” in qualche modo velleitariamente “indipendenti” (Saddam Hussein, Assad, Gheddafi) cancellandone ogni traccia di modernità e... laicismo “illuminato” e riducendoli a livello di clan autofagici su cui lucrare per imporre un nuovo dominio da “colonialismo termonucleare”. Ma l’operazione gli è scappata in ogni caso di mano e un certo Islam combattivo ne chiede oggi un regolamento di conti. In che termini? Quelli che sappiamo: un rifiuto dell’Occidente in nome di un propria autorità statuale in grado di cancellare i vecchi confini imposti dall’imperialismo, ma con gli occhi illusoriamente rivolti all’indietro, ad una presunta rinascita di un Califfato medievalista (illusione che il dominio globale del sistema capitalismo a scala mondiale si incaricherà da subito di “ridimensionare”) “caritatevole ed incorrotto” imperniato su regole di vita coraniche antidiluviane, e così si potrebbe finalmente fare a meno dei “regimi” di cui sopra, colpevoli non di mancata rivoluzione democratico-borghese sino in fondo, ma di asservimento ai modelli occidentali (già: nei suoi aspetti positivi però!). Che queste bandiere possano esercitare un fascino potente verso settori della massa islamica, ovunque posizionata nel mondo, si spiega con la concomitanza di due fatti fondamentali: l’irresistibile richiamo ad una riscossa del mondo islamico vilipeso ed in catene e la fragilità di una risposta adeguata alla bisogna in termini di classe da parte di esso (ciò che ben spiega l’inconcludenza, quando non i risvolti reazionari, di certe “primavere arabe”). Il secondo elemento in questione non ci farà in nessun caso dimenticare il primo: noi siamo a favore di un Islam cattivo, ma correttamente orientato, il che molto dipende da noi, dalle metropoli, e non di un Islam “integrato” da servo entro il nostro sistema. Ci siamo spiegati a sufficienza?

A CHE PUNTO STIAMO?

Il sentimento “popolare” di orrore e ripulsa nei confronti della carneficina consumatasi a Parigi e quello di una risposta da dare necessariamente ad essa era scontato e del tutto legittimo “di per sé”. Ma l’ipermarcia di massa, con tutto il codazzo di prese di posizione “dottrinali” che l’ha accompagnata e seguita (in particolare “a sinistra”, compresa quella “estrema”) dimostra solo il trionfo del richiamo alle nostre “sacre istituzioni” e relativi “valori” di cui sono stati ottimi registi i poteri borghesi occidentali. Per il momento tutto ciò va di pari passo con le più larghe attestazioni di “fratellanza” nei confronti del mondo islamico “buono”, ma di conserva con una sfegatata mobilitazione di union sacrée per la prosecuzione e l’intensificazione della guerra all’Islam schiavizzato chiamato a ribellarsi. Nel frattempo, però, sta crescendo – in relazione a ciò – uno strisciante sentimento chauvin anti-islamico “senza se e senza ma”, e, ove dovessimo assistere ad ulteriori episodi “terroristici”, ne misureremmo subito la progressione esponenziale.

Da parte sua, il “mondo islamico” all’interno dei nostri paesi si riduce ad un mutismo servile privo di qualsiasi prospettiva liberatrice, mentre frange via via più estese di esso sono indotte a cercare “altrove” (e, purtroppo, la scelta è quella che è) una via d’uscita.

Spetta a noi Charlie Marx proporre la nostra soluzione internazionalista di classe capace di battere qui la cappa di piombo guerrafondaia dell’Occidente e proporre al mondo arabo-islamico oppresso la prospettiva di una comune battaglia emancipatrice capace di vere “primavere arabe” e “primavere occidentali” rimettendo assieme i due pulcini spaiati di una stessa chioccia, per dirla con papà Lenin. In assenza – al presente – di numeri in grado di dar corpo ad essa prendetela come una dichiarazione d’intenti, un programma, ma su questo occorre incardinarsi sin d’ora rifuggendo da tutte le scorciatoie sin qui intraprese sin da troppi “compagni” nel tentativo di riparare ai danni prodotti dall’imperialismo a suon di “convivenza”, “multiculturalismo”, “capacità d’ascolto” e baggianate simili. Ciascuno al suo posto!

14 gennaio 2015



APPENDICE

Non dispiaccia a Basso Michele se pubblichiamo un altro suo intervento con cui concordiamo.
Ci limitiamo soltanto ad evidenziare alcuni punti che riteniamo di particolare rilievo.

Le radici marxiste dell’antimperialismo proletario

Al tempo del Manifesto di Marx ed Engels non esisteva ancora l’imperialismo moderno, eppure le sue posizioni teoriche e le esperienze del 1848 – 49 furono una guida insostituibile sia durante l’ottobre rosso sia nelle lotte contro il colonialismo. Nel cap. IV leggiamo:

"I comunisti rivolgono la loro attenzione soprattutto alla Germania, perché la Germania è alla vigilia d’una rivoluzione borghese, e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite, e con un proletariato molto più evoluto che non l’Inghilterra nel decimosettimo e la Francia nel decimottavo secolo; perché dunque la rivoluzione borghese tedesca può essere soltanto l’immediato preludio d’una rivoluzione proletaria."

L’intreccio tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria è chiarissimo.

Appena caduto il potere feudale, rivolgere le armi contro la borghesia, e questo varrà anche per quella forma di rivoluzione democratica che è la rivoluzione anticoloniale.

La Germania allora era un paese arretrato, dove vigeva ancora l’ancien régime, ma cattedratici di tutto il mondo hanno sempre sostenuto che Marx ed Engels si aspettavano la rivoluzione soltanto dall’Inghilterra, e che fu Lenin a porre per primo il problema della rivoluzione socialista in un paese arretrato. Mandiamoli a rileggersi il “Manifesto”!

Questo tema venne sviluppato nell’ “Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti” del marzo 1850 (ristampato nel 1853 insieme con l’opera di Marx “Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia” e poi ripubblicato da Engels). Si tratta di un vero e proprio progetto rivoluzionario, in cui viene denunciato il tradimento già consumato della borghesia ed è previsto quello futuro della piccola borghesia. Quando vi si parla di comitati rivoluzionari in contrapposizione a quelli democratici, di guardia proletaria, di governo rivoluzionario provvisorio, chi legge è vittima della suggestione, perché sembra di sentir parlare di Soviet, di dualismo di potere, di guardie rosse. Alle battaglie comuni contro reazione e borghesia segue uno scontro continuo con la piccola borghesia, alla quale si cercano di imporre con la forza soluzioni sempre più ardite: “...quando i piccoli borghesi proporranno di acquistare le ferrovie e le fabbriche, gli operai dovranno reclamare che tali ferrovie e fabbriche siano confiscate dallo stato puramente e semplicemente, senza risarcimento, come proprietà di reazionari... Se i democratici proporranno esse stessi un’imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per un’imposta così rapidamente progressiva, che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello stato, i proletari reclameranno che lo stato faccia bancarotta...”

Lo scritto termina con le parole “Rivoluzione in permanenza”. Molte posizioni di Lenin e di Trotsky sarebbero impensabili senza questo precedente. La rivoluzione borghese che trascresce in comunista, non si ebbe nella Germania del 1848, ma si verificò in Russia con l’Ottobre rosso. I menscevichi, invece, non ne vollero sapere, la rivoluzione borghese doveva portare al potere i liberali, la situazione, secondo loro, non era ancora matura perché il proletariato potesse avere una funzione indipendente. Ponevano un muro invalicabile tra le due rivoluzioni, negavano la possibilità alla rivoluzione di trascrescere da democratica a comunista.

E’ chiaro che un proletariato che giunge al potere in un paese arretrato non può dar vita ad una economia socialista senza l’aiuto di paesi avanzati, ma può spazzare via ogni residuo precapitalistico e accorciare, mediante le espropriazioni, il capitalismo di stato, la cooperazione, certi processi di accumulazione e concentrazione che in Inghilterra, ad esempio, durarono centinaia di anni. Con l’aiuto dei paesi avanzati, se la rivoluzione si estende a questi ultimi, può incamminarsi sulla via del socialismo.

Era il progetto di Lenin, tragicamente interrotto, il che non vuol dire archiviato definitivamente dalla storia. Prima di diventare classe dominante a livello mondiale, la borghesia subì sconfitte, repressioni, restaurazioni dopo sue provvisorie vittorie. Un tale percorso accidentato è inevitabile anche per il proletariato.

Sulla possibilità di condurre rivoluzioni anticoloniali in funzione antimperialista si basavano le tesi del II Congresso dell’Internazionale comunista sulla questione nazionale e coloniale, mal digerite da Serrati e Graziadei, le posizioni portate a Baku da Zinoviev, quelle sulla questione nazionale contenute nelle tesi della Sinistra comunista nel Congresso di Lione del 1926, gli articoli di Bordiga del dopoguerra (si pensi a “Oriente” del febbraio 1951).

Affermare la possibilità della trascrescenza di lotte anticoloniali in rivoluzioni socialiste non significa assegnare alla borghesia o ai contadini piccoli proprietari compiti socialisti; anzi, dopo la cacciata dell’imperialismo bisogna subito rivolgere le armi contro la borghesia locale.

Non è possibile confondere la posizione del II Congresso dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale e coloniale con l’indiscriminata alleanza con tutti coloro che si autodefiniscono nemici dell’imperialismo.

Nelle rivoluzioni anticoloniali in Africa e in Asia non fu possibile alcuna rivoluzione in permanenza perché ai colonialismi europei subentrò lo strapotente imperialismo americano. Uno dei motivi per cui bisogna dirigere la propria lotta soprattutto contro gli USA e la Nato, perche il crollo della principale roccaforte incrina l’intero sistema. Ma non si otterrà nulla senza un collegamento reale col proletariato statunitense.

Una sintesi dell’impostazione comune ai comunisti, da Lenin a Trotsky a Bordiga, si può ritrovare nelle tesi di Lione dell’ala sinistra del Partito Comunista d’Italia (1926), tesi apprezzate anche da Trotsky: “Questione nazionale. Anche sulla teoria del movimento delle popolazioni nei paesi coloniali di taluni paesi eccezionalmente arretrati, Lenin ha apportato una fondamentale chiarificazione. Anche prima che siano maturi i rapporti della moderna lotta di classe sviluppati tanto dai fattori economici che da quelli importati nell’espansione del capitalismo, si pongono delle rivendicazioni che sono risolubili solo in una lotta insurrezionale e con la sconfitta dell’imperialismo mondiale.

Quando queste due condizioni si verificano in pieno la lotta può scatenarsi nell’epoca della lotta per la rivoluzione proletaria nelle metropoli, pur assumendo localmente gli aspetti di un conflitto non classista, ma di razza e di nazionalità.

Nella impostazione leninista restano tuttavia fondamentali i concetti della dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario, e della suscitazione, non mai del ritardo o della obliterazione, della lotta di classe negli ambienti indigeni, della costituzione e dello sviluppo indipendente del partito comunista locale.

L’estensione di queste valutazioni dei rapporti a paesi in cui il regime capitalistico e l’apparato statale borghese sono da tempo costituiti rappresenta un pericolo, in quanto sotto tale aspetto la questione nazionale e l’ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato...”

Preso nel suo isolamento, un paese può essere considerato immaturo per lo sviluppo della lotta di classe moderna, ma la crescente integrazione dell’economia mondiale porta persino gli abitanti di villaggi asiatici o africani a subire gli effetti dell’ingerenza delle multinazionali, e a sentire la necessità della ribellione. Si può entrare nella lotta di classe, sia perché si è proletari, sia perché si è capito che la propria caduta nel proletariato è ineluttabile.

Torniamo a Marx. Il Marx scienziato de “Il Capitale” non è in contraddizione col Marx rivoluzionario, che non abbandona le posizioni del ’48, ma le sviluppa, come si vede dagli scritti sulla Russia tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta. Di fronte al dilemma se la Russia fosse condannata inesorabilmente a seguire la via capitalistica o avesse la possibilità di evitarla, basandosi su un rinnovamento in senso moderno della Comune agricola rispose: “ ...se la Russia continua a battere il sentiero sul quale dal 1861 ha camminato, perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo, e subirà tutte le peripezie del regime capitalistico” “... se la Russia aspira a diventare una nazione capitalistica alla stessa stregua delle nazioni dell’Europa occidentale, e negli ultimi anni si è data un gran daffare in questo senso, essa non lo potrà senza prima aver trasformato buona parte dei suoi contadini in proletari: dopo di che, presa nel turbine del sistema capitalistico, ne seguirà, come le altre nazioni profane, le leggi inesorabili. Ecco tutto. Ma, per il mio critico, è troppo poco. Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico – filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo”. “La chiave di questi fenomeni sarà facilmente trovata studiandoli separatamente uno per uno e poi mettendoli a confronto; non ci si arriverà mai col passe-partout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema e d’essere superstorica”. (1)

Niente di comune, quindi, col un rigido determinismo meccanicistico. Marx non poteva escludere a priori una rivoluzione che evitasse alla Russia il passaggio attraverso l’inferno capitalistico. A qualcuno, saltare una fase dello sviluppo storico può sembrare un’assurdità, ma se si riflette sul fatto che certe regioni del Borneo sono passate direttamente dalla fase dell’uomo cacciatore – raccoglitore a quella del capitalismo, senza attraversare sistemi economico sociali intermedi, come il sistema asiatico di produzione, o il feudalesimo, e che qualcosa di simile e accaduto in molte parti dell’Africa, forse si comincia a capire cosa intendeva Marx. D’altra parte, questo avviene in tutti i campi: nei villaggi africani non si passa dall’analfabetismo alla penna d’oca o alla macchina da scrivere meccanica, ma direttamente alla tastiera del computer. E le industrie introdotte dal capitale americano, europeo, giapponese... nei paesi meno sviluppati sono spesso più tecnologicamente avanzate di quelle esistenti nella metropoli. Ci sono, al contrario, paesi ricchissimi di capitali, come l’Arabia Saudita, dove molti aspetti della rivoluzione borghese, come l’emancipazione della donna, non si sono mai attuati. E in molti altri paesi, non solo in Asia e Africa, questo problema si è aggravato. Chi sostiene che i comunisti non dovrebbero occuparsi di queste questioni perché sono specifiche della rivoluzione borghese dimostrerebbe di non aver capito assolutamente la complessità della società e della lotta politica.


NOTE

1) Da una lettera di Marx alla redazione dell’ Otečestvennye Zapiski, fine del 1877. Nel volume “India, Cina, Russia”, uscito nel 1960, si trovano articoli e lettere di Marx ed Engels, tradotti da Bruno Maffi, che forniscono un quadro chiaro delle loro posizioni sulla Russia. Le lettere si trovano anche nelle edizioni Lotta comunista delle Opere di Marx ed Engels, continuazione di quella degli Editori Riuniti. La documentazione, quindi, è a disposizione del lettore italiano da circa 65 anni. Questo non impedisce che, ogni tanto, qualche studioso borghese e anticomunista scopra “l’altro Marx”(è il caso di Ettore Cinnella) come se certi scritti fossero inediti per l’Italia.


Basso Michele


24 dicembre 2014




Riproponiamo l'articolo "Le cause storiche del separatismo arabo", pubblicato sul  n. 6/1958 di "Programma Comunista"



LE CAUSE STORICHE
DEL SEPARATISMO ARABO

Non è la prima volta che ci occupiamo delle cause della scissione araba. Soprattutto dobbiamo ricordare al lettore l'articolo «La chimera dell'unificazione araba attraverso intese fra gli Stati», che pubblicammo su questo foglio l'anno scorso, nel n. 10. Si era da qualche giorno concluso nel sangue il moto antimonarchico di Giordania. Tutti ricordiamo lo svolgersi di quegli avvenimenti. Il successo ottenuto dal despotello di Amman, sostenuto dalla VI Flotta USA e dalle tribù del deserto, contro il movimento pan–arabista appoggiato dall'Egitto, non segnò soltanto una svolta nella politica interna della Giordania, in quanto provocò l'aperta rottura tra le monarchie arabe (la Giordania e, con essa, l'Iraq e l'Arabia Saudita) e le repubbliche che conducono l'agitazione nasserista nell'Islam (Egitto e Siria).

L'ultima scissione

La scissione determinatasi in occasione della crisi giordana si è pienamente appalesata in questi giorni con la proclamazione della Repubblica Araba Unita che federa l'Egitto e la Siria. Ad essa si contrapponeva immediatamente la Federazione araba sorta dall'unione dell'lraq e della Giordania. Per chi segue gli avvenimenti del Medio Oriente, le nuove invenzioni costituzionali non rappresentano un imprevisto. Esse vengono a confermare che la scissione araba continua più aspra e spietata che mai. L'unificazione araba attraverso intese tra gli Stati continua ad essere una vana chimera. Per attuarsi essa deve seguire vie diverse; non può affidarsi a modifiche dell'ordine costituito esistente, ma al contrario al suo totale capovolgimento. Cioè, deve seguire la via rivoluzionaria.

Questione importante è vedere quale movimento politico è in grado di addossarsi il tremendo compito della guida della rivoluzione araba. Ma non possiamo almeno per ora occuparci di essa, essendo necessario studiare anzitutto le cause storiche che impediscono il realizzarsi dell'unificazione statale dei popoli d'Asia e d'Africa che parlano l'arabo. Non pretendiamo di esaurire in queste poche righe un così imponente lavoro, e neppure di stenderne il piano completo, ma soltanto di trattare, e neppure in maniera definitiva, i grandissimi problemi che sono ad esso connessi.

Innanzi tutto, come va posta la questione? Noi pensiamo che si può farlo solo in tali termini:
«Quali fattori storici impediscono la formazione di uno Stato nazionale arabo, favorendo il perpetuarsi del nefasto sub–nazionalismo degli artificiali Stati arabi odierni, e agendo in senso opposto alle tendenze unificatrici che sgorgano dalla comunanza della lingua, dall'origine razziale e delle tradizioni che distinguono popoli che abitano l'Africa settentrionale, dal Marocco all'Egitto, e l'Asia occidentale, dalla penisola del Sinai al Golfo Persico?».

Chi crede di rispondere a tale quesito facendo risalire all'imperialismo capitalista tutte le cause della scissione che strazia il cosiddetto mondo arabo dà una visione incompleta del fenomeno. E si capisce benissimo il perché, se si pensa che la divisione e la «balcanizzazione» della nazione araba si verificò molto prima che sorgesse l'imperialismo. In effetti, le antiche tribù che irruppero fuori dell'Arabia a seguito della rivoluzione religiosa sociale di Maometto, e conquistarono le loro sedi attuali in Asia e in Africa, non riuscirono praticamente a costituire una nazione ad onta dei legami di sangue e di cultura. Soltanto per breve tempo il Califfato riuscì a imporre l'autorità di un potere centrale sull'immenso impero islamico. Dire, pertanto, che la divisione degli arabi è un effetto della dominazione imperialistica non è esatto. È vero, invece, che la dominazione imperialistica ha potuto perseguire i suoi fini proprio sfruttando i potenti fattori storici che, dal secolo X, impediscono l'unificazione degli arabi.

In altre parole, per spiegare la causa immediata della soggezione degli arabi all'imperialismo capitalista, dobbiamo ricorrere alle lotte intestine che si manifestano nella esistenza di numerosi Stati e Staterelli arabi, diversamente dimensionati ma egualmente impotenti a sottrarsi alla morsa dello sfruttamento e dell'oppressione imperialista. Ma spiegare la disunione solo con l'intervento imperialistico sarebbe incorrere in una tautologia. In realtà, le cause della divisione araba sono collegate intimamente alla stessa epopea della conquista musulmana.

Il ciclo passato

Il maomettanismo, codificato nel Corano, fu l'ideologia della rivoluzione sociale delle popolazioni nomadi del deserto, dedite all'allevamento del bestiame in periodi normali come all'esercizio della razzia, che si levarono contro lo potente oligarchia mercantile imperante nella Mecca. Gli allevatori di bestiame – i beduini – e i piccoli agricoltori costituivano, all'epoca della predicazione di Maometto, la stragrande maggioranza degli abitanti della penisola arabica. Su di loro si ergeva la dominazione di classe dei mercanti della Mecca, che monopolizzavano il commercio marittimo attraverso il Mar Rosso e i trasporti carovanieri che collegavano il retroterra coi porti della costa, quando non operavano addirittura il congiungimento per via di terra, lungo il Sinai, delle correnti commerciali dell'Europa e dell'Asia. Nelle loro mani si concentravano tutte le ricchezze, non escluse le derrate alimentari, che le tribù nomadi, quando la siccità decimava gli armenti, erano costretti ad acquistare a prezzi esorbitanti. Esempio non raro nella storia delle rivoluzioni, Maometto era un «transfuga» della classe dominante passato nel campo della rivoluzione, essendo stato – fino all'Egira – un ricco mercante della potente tribù dei Coreisciti.

Per le speciali condizioni storiche in cui si svolse, la rivoluzione maomettana non poté essere che una applicazione in dimensioni collettive della razzia beduina, cioè una forma inferiore di espropriazione della ricchezza. La «guerra santa» islamica fu, in origine, una guerra sociale contro l'usura e la prepotenza della ricchezza. Ma la rivoluzione, uscita vittoriosa dalla guerra sociale, avrebbe potuto raggiungere le sue finalità solo a condizione di trasformarsi in un feudalismo agrario, come avevano fatto in Europa i conquistatori barbari che avevano rovesciato l'Impero romano. A ciò si opponevano le stesse condizioni naturali del paese, per gran parte desertico. Nella storia dell'Islam i1 deserto ha una parte di primaria importanza, e ciò prova come siano le condizioni materiali a «plasmare i destini» dei popoli, come amano esprimersi certuni.

La rivoluzione che aveva acceso la guerra civile tra gli arabi non poté arrestarsi allorché le schiere islamiche conquistarono e unificarono, sotto la guida del «Profeta», la loro patria atavica: l'Arabia. Non potendo raggiungere all'interno le sue finalità essendo rimasti in molti, combattenti rivoluzionari della prima ora e nuovi convertiti, ad essere esclusi dal bottino, fu giocoforza forzare i confini degli Stati confinanti. Così, la «guerra santa» maomettana assunse sotto i suoi successori – i Califfi – le forme di una invasione barbarica, che fu impetuosa e irresistibile perché sul suo cammino si ingrossava di tutti gli oppressi e gli sfruttati. Costoro si convertivano con entusiasmo alla nuova religione, infiammante ideologia rivoluzionaria che chiamava a sé gli umili e i poveri, e respingeva con apocalittiche maledizioni i ricchi e gli usurai. La tremenda eruzione sociale invase e sommerse in breve tempo i due grandi Imperi che in Oriente perpetuavano tradizionalmente, contro i «barbari», la funzione già svolta da Roma in Occidente, cioè l'impero bizantino e l'impero persiano sassanide. Vere «galere di popoli» e sedi della più raffinata dominazione di classe, essi si opposero invano alla conquista musulmana. Formidabile esempio di come Stati possenti ed antichi, ma conservatori, possono essere piegati da altri Stati di formazione recente o addirittura in via di formazione, ma resi invincibili dal furore rivoluzionario che li spinge!

In pochi anni, dal 632, data della morte di Maometto, al 720, la conquista musulmana si estese ad un territorio immenso. Dai Sind (la regione sudorientale del Pakistan attuale) esso andava fino al di là dei Pirenei. L'impero persiano sassanide ne era rimasto distrutto, l'impero bizantino enormemente mutilato. L'Asia Minore, la Siria, la Palestina, l'Egitto romano, il Maghreb erano perduti per Bisanzio. La monarchia visigota di Spagna veniva cancellata via e spariva nel nulla, il plurisecolare impero sassanide, comprendente l'Iraq e l'Iran attuali fino all'Amu–Daria, crollava fragorosamente e le sue antiche città, come Bagdad, diventavano i centri della nuova civiltà del Corano. Una immensa rivoluzione trasformava il mondo. Tanto più sorprendente, riflettendo a ciò, appare l'incapacità degli arabi, conquistatori magnifici, a crearsi uno Stato nazionale.

Sotto questo aspetto gli arabi rappresentano forse un caso unico fra i popoli conquistatori. I mongoli, ad esempio, riuscirono a fondare imperi molto più vasti che quello musulmano, ma occuparono per poco i territori conquistati, finendo col ritirarsi nella patria di origine o restando etnicamente assorbiti dalle popolazioni autoctone. Gli arabi, invece, riuscirono a sovrapporsi alle popolazioni assoggettate, anzi a trasformare in loro patria i territori conquistati; ma fallirono in pieno nel tentativo di superare il loro particolarismo barbarico e darsi un reggimento politico unitario, uno Stato nazionale. Ciò doveva ritardare di molto, lo vediamo oggi, lo sviluppo storico dell'Africa e del Medio Oriente.

A dire il vero, ci fu un tempo in cui parve che la tendenza unitaria dovesse prevalere nell'incandescente mondo islamico, e fu l'epoca che vide il Califfato passare nelle mani della dinastia degli Omeiadi (660–750). Sotto costoro l'Islam raggiunse la massima estensione territoriale, poi cominciò l'ineluttabile declino. Gli Omeiadi, divergendo alquanto dall'ortodossia politica coranica, tentarono di liquidare il separatismo, profondamente legato alle tradizioni di un popolo che aveva vagato per secoli nel deserto non conoscendo altra forma di convivenza sociale che la tribù nomade ribelle ad ogni forma di costrizione che non fosse quella esercitata dalle forze della natura. Fu un esperimento appena abbozzato. Il grande disegno politico di una monarchia nazionale, assoluta ed ereditaria, poggiante su una burocrazia militare e civile che assicurasse al centro del potere un controllo regolare sull'immenso impero, doveva fallire miseramente. Sulle tendenze accentratrici e nazionali dovevano prevalere le forze dell'atavico anarchismo beduino. Il primitivo comunismo tribale, collettivista all'interno e anarchico verso l'esterno aveva permesso ai nomadi del deserto, allevatori di pecore e di cammelli e implacabili razziatori di carovane e di villaggi contadini, di travolgere l'aristocrazia mercantile della Mecca. Aveva fornito l'alimento di una fanatica fede e di un coraggio favoloso alla rivoluzione maomettana. Ma operò negativamente quando, uscite le milizie islamiche dall'Arabia e conquistato l'immenso impero, si trattò di dare ad esso un assetto politico che ne assicurasse la continuità.

Qualcuno può meravigliarsi che noi attribuiamo al primitivo comunismo beduino una certa influenza negativa. Ma, per i marxisti, il comunismo non è un idolo al quale non si possono rivolgere che laudi. Esiste un comunismo primitivo che segna l'uscita della specie umana dallo stato bestiale della sua esistenza, e in quanto tale è una rivoluzione di incommensurabile importanza, forse la più grande di tutte le rivoluzioni. Consociandosi, l'antropoide divenne uomo. Quale maggior omaggio il marxismo può rendere al comunismo primitivo? Tutto ciò che esiste, e esisterà ancora, tra il comunismo primitivo e il comunismo moderno è, per il marxista, un'infame ma necessaria parentesi nell'esistenza della specie.

La rovinosa scissione tra Sciiti e Sunniti, cioè tra la vecchia guardia del maomettanismo che aveva accompagnato il Profeta nella sua emigrazione – la «egira» – dalla Mecca a Medina e gli innovatori, doveva far crollare per sempre le ancora fragili strutture dello Stato nazionale arabo. La dinastia degli Abbassidi che si impadronì nel 745 del Califfato, scacciandone gli Omeiadi, fu ridotta ben presto al rango di quelle monarchie feudali che la troppa potenza e lontananza dei feudatari svuota di ogni autorità effettiva. Il Califfo si ridusse al grado di mero capo della religione islamica, quasi privo di potere temporale. Lo smembramento dell'impero fu rapido e irrimediabile. Già qualche anno dopo il rivolgimento dinastico gli esuli omeiadi scampati alle vendette del partito vincente si rifugiavano in Ispagna e vi fondavano un emirato indipendente. In seguito, anche il Maghreb e l'Egitto si resero praticamente indipendenti dal governo di Bagdad. All'inizio del secolo l'involuzione è completa. Il Califfato si è ridotto a governare, e neppure direttamente, sul solo Iraq; l'Islam è diviso tra numerose dinastie più o meno indipendenti, lo Stato nazionale arabo appare meno che un sogno.

La mancanza di uno Stato nazionale arabo foggiato sul modello delle monarchie nazionali che si stavano formando in Europa, ebbe conseguenze storiche di importanza colossale. È agevole pensare che uno Stato nazionale arabo, saldamente costruito, avrebbe potuto impedire le vittorie riportate dalle Crociate. Non è da quell'epoca che l'Europa acquista una supremazia sull'Africa e le si oppone? Se poi si considera che i colpi inflitti alla potenza araba dagli eserciti crociati gettarono le premesse della rovinosa invasione dei Mongoli e, in seguito, della conquista degli Ottomani, si ha un quadro completo delle ripercussioni negative che la mancata unificazione degli arabi ebbe sulla storia di tre continenti.

Volendo uscire dal campo delle congetture e restare sul terreno storico, emerge, dallo studio del ciclo storico degli arabi, una conclusione che può sembrare quasi ovvia. Per l'incapacità a fondare uno Stato nazionale, gli arabi divennero da conquistatori conquistati, e furono tagliati fuori dal progresso storico, cioè condannati a restare nel fondo del feudalesimo mentre gli Stati d'Europa si preparavano ad uscirne per sempre e acquistare in tal modo la supremazia mondiale.

Ora possiamo spiegarci agevolmente le cause storiche della caduta degli arabi sotto il giogo della dominazione imperialistica. Sappiamo, cioè, che a mantenere l'attuate stato di disunione e di impotenza degli arabi, che è la condizione del perpetuarsi dello sfruttamento imperialistico, concorrono due ordini di cause: le secolari tradizioni conservatrici all'interno, l'ingerenza straniera dall'esterno. Che significa ciò, in sede politica? Significa che il mondo arabo deve addossarsi il tremendo compito di una duplice lotta: la rivoluzione sociale e la rivoluzione nazionale, la rivolta contro le classi reazionarie che tramandano tradizioni ormai superate e controgli occupanti stranieri. Soltanto una vittoria riportata in entrambi questi campi può assicurare il trionfo dell'unità araba dall'Oceano Atlantico al Golfo Persico.

Il gioco dell'imperialismo

Seguitando nella via intrapresa, la «balcanizzazione» degli arabi arriverà alle estreme conseguenze. Gli arabi si mureranno sempre più entro Stati prefabbricati, cioè fabbricati dall'imperialismo e dai suoi agenti, Stati ammorbati da una miseria deprimente, avviliti da una insuperabile impotenza, che consumeranno la loro inutile esistenza nella lotta intestina. Allo stato attuale esistono non si sa quanti blocchi inter–arabi. Alle due federazioni rivali che si contendono le adesioni degli altri Stati (i siro–egiziani sono riusciti ad ottenere il voto dello Yemen, gli irakeno–giordani sono ancora alla fase di corteggiamento dei sultanati del Golfo Persico), minaccia di aggiungersi – e contrapporsi! – la Federazione del Maghreb, caldeggiata da Maometto V e da Burghiba, che dovrebbe comprendere il Marocco, la Tunisia e l'Algeria, quando questa otterrà l'indipendenza. Ma già si sa, dai discorsi anti–nasseriani di Burghiba, che la progettata Federazione è orientata a favore dell'Occidente e contro il pan–arabismo. Sono poi da annoverare gli Stati doppiogiochisti come l'Arabia Saudita, il Libano, la Libia che hanno un sorriso per la Lega Araba (perché mai la tengono, ancora in piedi?) e due sorrisi per il Dipartimento di Stato.

Ma l'imperialismo non dorme sonni tranquilli. Le allarmate invocazioni al «pericolo russo», le romanzature delle «infiltrazioni russe» nel Medio Oriente e nel Maghreb servono a nascondere il vero timore. Ciò che veramente temono le borghesie europee, e con esse l'imperialismo americano, è un effettivo progresso del movimento di unificazione araba. Avete mai pensato alle enormi conseguenze che la formazione di uno Stato unitario arabo comporterebbe? Essa segnerebbe la fine della dominazione colonialista in tutta l'Africa, non solo nell'Africa araba, ma anche nel resto del continente abitato da popoli di razzo negra, che è percorso da profondi brividi di rivolta. I miti che la classe dominante si fabbrica mirano a inculcare nelle menti delle classi oppresse il pregiudizio della inanità della lotta contro l'ordine vigente. Ebbene, chi può misurare la gigantesca portata rivoluzionaria che avrà il crollo del mito della superiorità della razza bianca?

Spezzettati in diversi staterelli, divisi da ignobili questioni dinastiche, divorati vivi da manigoldi dei monopoli capitalistici stranieri che volentieri cedono larghe fette dei profitti petroliferi, invischiati nelle mortifere alleanze militari dell'imperialismo, gli Stati arabi non solo non incutono timore agli imperialismi ma servono da pedine nel loro gioco diabolico. Ma che avverrebbe se gli arabi, superate le disunioni suicide, riuscissero a fondare uno Stato nazionale abbracciante tutti i territori africani e asiatici abitati da popolazioni arabe? Avremmo soltanto il risveglio dell'Africa intera? No, otterremmo, noi tutti che militiamo nel campo della rivoluzione comunista, ben altro. Otterremmo di assistere alla definitiva, inappellabile condanna a morte della vecchia Europa, di questa fradicia, corrotta, micidiale Europa borghese, impastata di reazione e di fascismo più o meno camuffato, che da quarant'anni è il focolaio inesausto della guerra imperialistica e della controrivoluzione.

Perciò siamo per la rivoluzione nazionale araba. Perciò siamo contro i governanti degli Stati arabi i quali o perseguono apertamente finalità separatiste e reazionarie (le monarchie mediorientali) o mirano ad un superficiale riformismo e alla collaborazione con l'Occidente (Burghiba, Maometto V). Né possiamo, come fanno i comunisti di Mosca, appoggiare incondizionatamente il movimento pan–arabo di Nasser, perché in esso c'è troppa zavorra reazionaria invano mascherata da un abile gioco demagogico. Lo Stato nazionale non sarà fondato da costoro. Ognuno di essi ama posare a campione dell'Islam. Ma il loro islamismo sta a quello dei compagni di Maometto come il cristianesimo dei cattolici sta a quello degli agitatori delle catacombe.

da "Programma Comunista" n. 6/1958