nucleo comunista internazionalista
note




BUTTIAMO GIU’ IL GOVERNO RENZI!
E’ L’UNICO MODO PER RESPINGERE
L’ATTACCO ANTIOPERAIO!

Si va dunque verso lo sciopero generale, mentre con le manganellate agli operai di Terni i “toni forti” non sono più soltanto verbali nello scontro tra i sindacati che hanno assunto l’iniziativa (Fiom, Cgil ed extraconfederali) e il fronte padronal-governativo con quasi l’intero arco dei partiti al seguito (esclusa SEL; M5S e Lega dovranno, invece, ricollocare la propria iniziativa se veramente lo scontro sindacati/governo si imporrà al centro della scena politica: M5S potrà risultarne diviso, con una parte della base già partecipe alle mobilitazioni, mentre la leadership appare poco propensa a sbilanciarsi in questa direzione preferendo spendersi con dichiarazioni reazionarie su immigrazione e altro ...; ma anche la Lega dovrà ricalibrare la sua iniziativa che già viaggiava e viaggia a gonfie vele, e soprattutto dovrà farlo se la sua base operaia potrà essere realmente attratta da uno scontro non risolventesi in un fuoco di paglia ma condotto con una certa credibilità dalla parte nostra –nostra quanto a massa e classe mobilitantesi, non a sue direzioni –).

La Cgil ha prodotto alcuni strappi rispetto alla inerzia precedente. Stesso e più dicasi per la Fiom, che ha già indetto una serie di scioperi territoriali con partecipate manifestazioni, mentre tutte le vertenze si inaspriscono. Sono riposizionamenti significativi, se si pensa che sotto il governo Berlusconi la Cgil boicottava i conati di lotta promossi dalla Fiom, e che, successivamente, sono state entrambe a guardare lo scempio proseguito da Monti, senza variazioni di sostanza – anzi!– nell’iniziale atteggiamento verso lo stesso governo Renzi, fino alla rottura di queste ultime settimane con casus belli l’articolo 18 e il jobs act .

Per poter imprimere alla mobilitazione una direzione che sia coerente con gli interessi di classe, è necessario capire in che direzione vanno questi “strappi”, se e in che senso sono “passi avanti” e dove si vada a parare.

Le “autocritiche” di Susanna Camusso

La Camusso, nell’ammettere gli errori da non ripetere, ha detto cose che in parte sono ridicole e in parte possiamo anche credere vere in quanto effettivamente rappresentative della mentalità della leadership cigiellina sottoriformista e capitolarda di fronte ai diktat del capitale. Camusso ha più o meno dichiarato: 1) abbiamo sperato che le politiche poste in essere dai governi che si sono succeduti nel tempo potessero risolvere la situazione, che la precarietà introdotta sarebbe stata temporanea, che tutto sarebbe andato a posto e la parentesi si sarebbe chiusa; ci siamo trovati in un contesto in cui tutti ripetevano che i problemi si sarebbero risolti in questo modo e noi ci abbiamo creduto (cioè: noi direzione Cgil vivevamo e operavamo – in posizione subordinata e consenziente – nel contesto culturale e ideologico di padroni e capitalisti, partecipavamo ai gran consulti e ai convegni di industriali, banchieri, economisti, etc., e anche noi ci nutrivamo di quelle idee, di quelle aspettative di ripresa alle condizioni che transitoriamente tutti dicevano necessarie); ora però riconosciamo che queste aspettative sono andate deluse, che quelle ipotesi si sono rivelate fallaci, che queste politiche non sono niente affatto transitorie; 2) ci siamo sbagliati ancora nel ritenere positiva la mediazione politica del PD quando ha concordato alcune modifiche minime sulla riforma dell’articolo 18 del governo Monti; quella mediazione è stata solo l’antipasto dell’attacco attuale, non ha risolto e anzi ci ripropone aggravato il problema; non ri-commetteremo lo stesso errore, questa volta si va avanti e non ci fermiamo anche se il parlamento approva definitivamente la “riforma del lavoro” (cosa peraltro scontata, sicché è gioco forza ritenere non determinante nella contingenza la “mediazione” politico-parlamentare – ieri dell’intero PD rispetto a Monti oggi della sua minoranza rispetto a Renzi – pena l’annullamento di ogni idea di mobilitazione).

La Fiom ha già indetto i nuovi scioperi di categoria di novembre (sciopero nazionale con manifestazioni in due date a Milano e a Napoli) e la Cgil a breve fisserà la data dello sciopero generale. Questa volta non ci sono stati tentennamenti su questo. In piazza san Giovanni il 25/10 c’erano vari striscioni che reclamavano lo sciopero generale e l’intervento della componente cremaschiana era incentrato su questo. La piazza era pronta a reclamarlo a gran voce, ma non ce ne è stato bisogno. Sia pure senza particolare enfasi, la Camusso, con un passaggio piazzato al centro del discorso e non nell’enfasi delle conclusioni, ha detto che si sarebbe arrivati anche allo sciopero generale.

La Camusso, opaca e incolore da sempre, da ultimo ha cominciato a rintuzzare Renzi punto su punto, mentre Landini e gli altri sindacalisti Fiom erano in prima fila a prendere le manganellate sotto il ministero dello sviluppo economico. Ce n’è quanto basta per ritenere che i lavoratori possano cambiare giudizio su queste direzioni nel senso di ritenere che, inerti fino a ieri, “adesso invece si sono messi a fare sul serio”. Ciò segnala il rischio che la passività precedente, passività della stessa massa e non dei soli leaders, possa tradursi in acritica accettazione della conduzione di questi vertici. E’ un deficit da prendere in carico al più presto: accade infatti che i lavoratori discutano in prima persona come condurre la lotta laddove è a rischio il posto di lavoro, ma finora non si è visto altrettanto protagonismo sull’indirizzo da dare e su come sviluppare la mobilitazione generale contro il governo Renzi e il padronato.

Siano i lavoratori a discutere collettivamente obbiettivi e modalità della lotta!

Affinché la ripresa della piazza non si traduca in un fuoco di paglia che lasci i lavoratori in balia delle misure forcaiole dell’esecutivo Renzi è necessario rilanciare nei posti di lavoro e in ogni istanza data la discussione collettiva su obiettivi, prospettive, modalità della lotta, trattandosi di questioni centrali che non possono essere affidate a leadership fino a ieri passive e ora “svoltanti”.

Nel dire questo non perdiamo affatto di vista il dato reale da cui ri-parte la mobilitazione: non solo i vertici confederali, ma la stessa massa dei lavoratori fino all’altro ieri è rimasta attardata nella passività. Oggi sono i metalmeccanici ad aver dato inizio agli scioperi, mentre la mobilitazione del pubblico impiego è stata ancora di sabato. Significherà poi qualcosa che Cisl e Uil hanno garantito finora la consegna alle proprie truppe di inerzia per se stesse e di ostacolo alla mobilitazione altrui? Nelle categorie industriali più attive si può immaginare un senso comune di questo tipo: “Camusso e Landini non hanno fatto nulla contro Monti e Fornero, ma adesso hanno cambiato musica e noi li seguiamo”. Quanto alle altre categorie è palpabile un’effettiva distanza tra metalmeccanici, altre categorie operaie e categorie impiegatizie: è questo il portato della protratta assenza di una mobilitazione generale che avvicini e unifichi tutti i lavoratori che il capitalismo punta a tenere isolati e divisi. Per le categorie non ancora scese in lotta il senso comune si esprime più o meno con queste parole: “adesso Camusso e Landini si svegliano; come non dargli ragione sui contratti bloccati e il resto; ma che fatica seguirli: dovremo scioperare!”.

Abbiamo insomma presente che non è automatico, a maggior ragione in tempi di crisi, riposizionarsi sul terreno della mobilitazione generale (la protesta “di categoria” non è stata dismessa del tutto in questi anni). Soprattutto non è facile quando fino a qualche settimana fa la Camusso ripeteva ogni giorno che “lo sciopero è inefficace”, e queste stesse leadership, negli scioperi da esse sporadicamente dichiarati, hanno fatto di tutto per azzerare l’efficacia della lotta e disperderne ogni potenziale risultato. Proprio per questo i lavoratori hanno la necessità di prendere nelle proprie mani gli obiettivi e la conduzione della lotta: non basta scioperare, abbiamo anche bisogno di farlo con l’energia e la determinazione necessari per vincere!

La “svolta” anti-Renziana di Camusso e Landini

Cosa è successo dunque? Come si spiega che Camusso, ieri speranzosa sulle politiche di precarietà, partecipe dei consessi borghesi dove “tutti dicevano queste cose” e rapita – lei, la segretaria generale del maggior sindacato dei lavoratori – da cotanta borghese scienza, di punto in bianco cambia atteggiamento? Come si spiega che Monti già aveva ben ridotto le tutele dell’articolo 18 (allargando peraltro con la stessa legge le tutele contro il licenziamento dei dirigenti) senza suscitare le reazioni della Cgil, e ora invece, che siamo al secondo tempo della medesima operazione, si alzano le barricate? Perché ora e solo ora la Cgil scende in campo?

Noi crediamo che la leadership Cgil vede messo in discussione ben altro (dal suo punto di vista) che l’articolo 18 e per questo rompe gli indugi. Renzi sta riservando alla Cgil, e alla minoranza interna (gli ex –“comunisti” del PD) la più umiliante delle rottamazioni. Non solo ha azzerato la partecipazione dei sindacati (e della minoranza interna) alle istanze istituzionali di decisione e anche solo di consultazione. Ha poi annunciato la riforma dei patronati: cioè riduzione dei contributi statali ai sindacati. Dulcis in fundo, ha attaccato il sindacato in modo sfacciato e provocatorio, accusandolo di aver condannato i giovani alla precarietà, mentre il governo con bronzea faccia li difenderebbe. Insomma Renzi ha sferrato un attacco frontale, possiamo dire violento in quanto indirizzato a un annientamento dei suoi bersagli e comunque a una drastica riduzione del loro ruolo.

In difetto di un proletariato in piedi e in lotta contro cui scagliarsi per realizzare i propri fini (che sono quelli delle impellenti necessità del capitalismo in crisi), l’offensiva di Renzi assume i sapori della vendetta contro con quel che resta del fu-PCI (un’ombra) e della sua Cgil (qualcosa di più corposo, per quanto corpo sfibrato).

Nella frantumazione della precedente rappresentanza politica della borghesia, quella che è stata l’asse portante del sistema per l’intero dopoguerra, il PCI/PDS... e la sua Cgil si sono ritrovate ad occupare uno spazio che ora gli viene conteso e strappato dalle mani da una nuova classe politica che entra prepotentemente in campo e si proietta sulla scena futura. Un conto è aver fatto per l’intero dopoguerra i servitori del sistema, fuori – beninteso – dalle stanze di governo, ma pretendere adesso di essere diventati loro, gli ex –“comunisti”, i più diligenti rappresentanti del capitalismo nazionale (il PD di Bersani “il più fedele sostenitore di Monti...”) per una larga fetta di borghesia è in qualche modo un equivoco, se non un’onta da superare, quali che siano state le conversioni e penitenze degli ex –“comunisti” (conversioni/penitenze certamente dovute, ma non meritevoli di ricompense eccessive).

Gli Andreotti e De Mita sono stati colati a picco nel vortice di un attacco che ha azzerato i maggiori partiti italiani lasciando in piedi solo il PCI/PDS. La parte più lungimirante degli ex-democrisitani/popolar/neo-margheritini, dopo essersi aggrappati per anni alla ciambella dell’unico partito rimasto a galla, adesso quel partito se lo (e glielo) prendono (e mai più lo restituiranno) e anzi lo scagliano contro gli ex –“comunisti” e i sindacalisti corrispondenti. Quella di Renzi è una vendetta con il sapore di questi contenuti, non però una “vendetta della vecchia DC”, perché è piuttosto il regolamento di questi conti condotto da qualcosa di diverso: una DC nuova, un (tentativo di rinascita e rilancio di un) partito nazional-borghese rinnovato, senza soverchianti e mal tollerati fili di continuità con la stessa “vecchia guardia” democristiana rimasta sulla breccia ma pur essa da rottamare. E’ la borghesia che nella crisi, come già a suo tempo la DC nella fase di ricostruzione e affluenza, riprende solidamente in mano la conduzione politica, archiviando le mezze soluzioni cui è dovuta ricorrere fino ad ora (o comunque questa è la sua promessa e si vedrà): le mezze soluzioni del berlusconismo che è mancato alle sue promesse, e del PD in quanto compagine tuttora a preponderanza di nipotini di quinta generazione di Togliatti con annesso nugolo di nipotini di quinta generazione di Di Vittorio, tutti al seguito e a libro paga del servito e riverito capitalismo (senza dimenticare che Epifani e Camusso sarebbero ascrivibili alla fu minoranza socialista della Cgil, tanto per dire di come la “vecchia guardia” che ora viene spazzata via è ben altra cosa dall’ armamentario di sinistra dei tempi eroici del partito togliattiano, già esso totalmente svoltante e svoltato rispetto alla sostanza delle origini).

La rottamazione di un intero ciclo politico

A maggior ragione quello di Renzi è un attacco violento in quanto non è questione di Renzi, ma di una classe borghese che vuole chiudere i conti con quello che è stato in anni lontani l’odiato fattore kappa (riferito al peso reale sulla scena italiana di un proletariato allora organizzato politicamente e sindacalmente) e in tempi recenti comunque un intralcio di cui metabolizzare e ridurre l’ingombro eccessivo (quand’anche non manchino oggi voci discordanti dal punto di vista squisitamente borghese sul trattamento riservato da Renzi agli ex –“comunisti” e alla Cgil: si legga Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 29/10/14).

L’equivoco di un partito, il PDS/DS/PD, e della sua appendice sindacale, che per una fase transitoria di difficoltà e confusione della rappresentanza politica del capitalismo ha ostentato più credibilmente di altri equilibrio e responsabilità nazional-borghesi. Un partito che ha abiurato da quel dì le origini proletarie e comuniste sposando senza se e senza ma le necessità del capitalismo, ma che intreccia ancora, sempre meno e non più in esclusiva, la sua vicenda politica con la residua organizzazione del lavoro dipendente e la Cgil in particolare, da cui ranghi ha attinto finora un cospicuo numero di parlamentari...

L’odio antiproletario di larga parte della borghesia non risparmia strali agli “ex-comunisti” laddove intravveda nel loro agire legami ultraresiduali con sia pur slavate istanze del mondo del lavoro (o viceversa sospettose incertezze nell’assumere fino in fondo gli interessi capitalistici). Accogliendo la visita di Renzi il presidente degli industriali bresciani ha tuonato: “il sindacato oggi è un ostacolo sulla strada del rilancio dell’Italia”. Questo il grido di una borghesia che semmai accoglie positivamente il rivendicazionismo sociale della destra e della Lega, perché ne assume la valenza di battaglia politica contro il movimento dei lavoratori (pronti a cambiare atteggiamento quando oltre di questo si andasse). Scatta, invece, l’odio classista se e quando l’istanza operaia cerchi illusorio ascolto nella “sinistra” borghese (già borghese –“operaia”) che in altri tempi ha realmente intrecciato la sua storia, al riformistico livello, con quella di un movimento dei lavoratori ancora capace di organizzarsi e lottare. Quest’odio esprime la paura che quella capacità di lotta possa rimettersi in piedi e che “la sinistra”, con il suo buonismo sociale e le sue prebende statalistiche da preservarsi, possa, pur non volendolo, ri-concedergli chanche o comunque intralciare il rullo compressore di un capitalismo che deve fare strame di tutte le conquiste già ottenute dai lavoratori. Citando Reichlin – questa la continuità – Renzi presenta ai Bersani/Camusso il conto di un vero “partito del capitalismo nazionale” che è quello che governa senza e contro i “poteri di veto” del sindacato e di minoranze interne che, sia pur mollemente, intendano anche solo appesantire di qualche grammo, giammai ostacolare, la marcia militare del capitale nella crisi. Se non fosse per il ruolo giocato da Napolitano, che sembra l’unico a rapportarsi alla pari con Renzi (ancora per poco), potrebbe dirsi che con i nipotini di Togliatti siamo oggi alla replica dell’epilogo di Craxi: usato dalle classi dominanti, che ebbe a servire con abnegazione e audacia, e poi gettato via come uno straccio quando non serviva più. Come si diceva: a cosa servono i servi quando non servono più?

Quali obbiettivi perseguono le leadership di Cgil e Fiom?

Quello di vedersi riconosciuto un qualche riaffermato “ruolo istituzionale”, magari a mutate condizioni, ma comunque un ruolo riconosciuto dallo Stato. Renzi, con la questione dei contributi ai patronati, colpisce al cuore la burocrazia sindacale: la Cgil e ancor più gli altri sindacati hanno messo in piedi nei decenni carrozzoni elefantiaci, che si presentano all’appuntamento della crisi pieni di debiti e di clientele da soddisfare; senza i soldi dello Stato, ritenuti un meritato (”costituzionalmente dovuto”) compenso per i servigi resi, si aprirebbe la strada di una drastica riduzione degli apparati (dei burocrati a spasso e di un numero non indifferente di dipendenti), di un venire a galla delle mille situazioni di dissesto, di una lotta fratricida a buttarsi giù a vicenda da una barca che il governo e lo Stato abbandonano al suo destino ovvero a frantumarsi su scogli acuminati.

Renzi esclude Cgil e Fiom dal consesso politico istituzionale che conta e decide, relegandoli a un ruolo minore, puramente e strettamente sindacale, e anzi di un mero sindacalismo aziendale circoscritto alle singole vertenze e al rapporto tra singoli padroni e i loro lavoratori. Cgil e Fiom puntano ad affermare che il sindacato dei lavoratori fa invece parte di quel consesso, rivendicano l’ “importanza dei corpi intermedi” (?!) e del sindacato per il bene stesso del capitalismo.

Quali sono, con queste premesse, le concrete indicazioni di “lotta” di Camusso/Landini?

Landini si dice consapevole che il parlamento approverà il jobs act così com’è e ne deduce che “l’unico modo per migliorare quel testo è la mobilitazione delle persone” (intervista sul manifesto del 25/10/14). Affidare il risultato non alla mediazione dei parlamentari ma alla mobilitazione è un “passo avanti”, che viene però azzerato se il risultato è quello di “migliorare il testo”.

Si presenta forse il jobs act come un testo “migliorabile”, che con qualche ritocco potrebbe andar bene ai lavoratori? Certo che no. Il jobs act, senza qui ripeterne i contenuti, è un attacco frontale su aspetti decisivi delle condizioni di lavoro. Nella “visione strategica” di Landini è del tutto assente l’idea di respingere con ogni mezzo questo odioso provvedimento. Ma la lotta dei lavoratori a questo e a niente di meno deve essere indirizzata! E’ contraddittorio e avvilente lanciare una grande mobilitazione e impegnare il sacrificio dei lavoratori per “qualche miglioramento “, cioè “per tenerci il jobs act, solo un po’ modificato”. Non vogliamo dare a bere che cancellare il jobs act sia impresa facile, ma vogliamo affermare – nella contingenza e in generale – che la lotta di cui il proletariato è potenzialmente capace è per ricacciare indietro l’attacco dei padroni e non per perdere un pò di meno. Il discorso di Landini è rinunciatario, disarma la nostra lotta, la rende inefficace. Né Camusso né Landini hanno detto alto e forte che la lotta è contro il governo Renzi; ancor meno si dice che il jobs act deve essere spazzato via. Da che mondo è mondo l’offensiva antioperaia di un governo viene fermata con la lotta che ne chieda e imponga le dimissioni. Se è scontato che la delega verrà votata anche dal secondo ramo del parlamento, a maggior ragione la mobilitazione non può che assumere i contenuti che puntano a disarcionare l’esecutivo. Solo lottando con questa determinazione, quand’anche si dovesse questa volta soccombere di fronte a una forza superiore (il che è probabile, ma in nulla cambia quanto scriviamo), potremo comunque cogliere l’obbiettivo di aver reso il fronte avverso meno ricattatoriamente aggressivo contro un proletariato che abbia comunque dimostrato di sapersi battere con energia, indipendenza e lucidità politica, mettendole a frutto per gli scontri futuri.

Per la coerente affermazione e difesa degli interessi di classe dei lavoratori

Landini ripete che “stiamo facendo sul serio” e intende che si va verso lo sciopero generale. Ma oggi lo sciopero generale non basta, se la prospettiva nella quale è iscritto non è quella della coerente difesa degli interessi di classe. Con le premesse date, infatti, c’è da aspettarsi che i vertici di Cgil-Fiom si riterrebbero soddisfatti se solo la mobilitazione obbligasse il governo a qualche ritocco inessenziale del testo votato in parlamento. Cgil-Fiom non sono impegnate a respingere il jobs act, quanto piuttosto a ottenere la disponibilità del governo a concordare con esse la composizione dello scontro.

Il sindacato vuole concordare “qualche miglioramento”, e dovrà convincere i lavoratori che “più di quello non si poteva ottenere”. Per noi è assolutamente auspicabile che i lavoratori facciano saltare per sempre questi parametri capitolardi per imporre una lotta che affermi in modo intransigente gli interessi di classe e non accetti mai più di subire la programmatica rinuncia delle direzioni a difenderli efficacemente.

L’epilogo si tradurrebbe in farsa se i ritocchi concessi da Renzi fossero null’altro che modeste elemosine (come già le mediazioni ottenute dal PD sulle “riforme” Fornero). Se il sindacato le accettasse Renzi vincerebbe pur sempre la partita, avrebbe dimostrato che lottare non serve perché i lavoratori verrebbero ugualmente colpiti dall’entrata in vigore della “riforma”. Il sindacato vuole che il governo scenda a patti e lo legittimi. A tal fine è disposto ad alzare un pochino la posta, ma pur sempre in una cornice che punta a ottenere i suoi obbiettivi per poi comporre lo scontro. Non a caso dopo le manganellate Camusso ha dichiarato che “per abbassare la tensione” “basterebbe non continuare a dire che con il sindacato non si discute”. Non è forse strano che, il giorno dopo le botte, Landini si precipiti a consulto da Renzi? In piazza ha gridato contro “Leopolda e cazzate varie”, ma poi i sindacalisti sono i primi a buttare acqua sul fuoco se solo Renzi li riceve compunto nel palazzo! La Cgil ha addirittura dichiarato che “è stato fatto quel gesto che da ieri chiedevamo: scusarsi con i lavoratori ingiustamente malmenati”: invero il governo non ha chiesto scusa proprio di niente e ha solo concesso che gli operai manganellati non verranno pure denunciati. I licenziamenti della Ast sono ancora lì, sono diminuiti perché i lavoratori hanno cominciato ad accettare le uscite incentivate, ma Landini, che il giorno prima ha visto i suoi con le teste rotte, il giorno dopo si rende disponibile ai twitt con stretta di mano e alle “operazioni simpatia” volute da Renzi per “abbassare i toni”. A fronte di questi balletti i lavoratori devono imporre che la lotta è perché la Ast ritiri tutti i licenziamenti, che la lotta non è per qualche modifica ma perché non passino altre manomissioni dell’articolo 18, né i controlli a distanza, né il Tfr in busta paga a danno dei lavoratori che vengono tassati maggiormente e che domani avranno pensioni ancor più misere. Si tratta di imporre che la lotta è per far crollare questa impalcatura e non per tenerla in piedi “migliorandola”.

Un governo votato dai lavoratori e che solo ora assumerebbe la piattaforma degli industriali?

Il segretario Fiom, siccome “sta ai fatti”, continua a dire che il governo Renzi all’inizio ha fatto bene. “Stare ai fatti” per Landini ha significato dare credito al governo quando ha dato gli 80 euro e ha speso i suoi auspici per la vertenza Electrolux (per centinaia di altre vertenze rimaste senza nessuna via d’uscita per i lavoratori). Questo significa assumere un parametro di ottuso economicismo minimalistico e corporativo nella valutazione della sostanza politica di un esecutivo, che invece non può che essere politica e a 360 gradi. Significa omettere la visione e la valutazione, lasciamo perdere la denuncia, della complessiva azione politica del governo e rilasciargli patenti positive perché su due/tre singoli, limitati e circoscritti punti avrebbe fatto qualcosa di buono. La valutazione di un esecutivo non può che riguardare, invece, tutti gli aspetti e tutti gli intrecciati fronti interni ed esterni del suo agire, perché è da lì e non da occasionali 80 euro che si capisce in quale direzione si procede e se già oggi e ancor più domani il proletariato se ne dovrà difendere. Se i rappresentanti del proletariato assumessero ora e sempre il parametro di Landini, diverrebbe fin troppo facile per la borghesia disarmare il proletariato con qualche specifica e parziale concessione mentre appresta il suo generale fronte di attacco per il passaggio successivo. Landini “è stato ai fatti”. Eccoli i fatti: insieme agli 80 euro c’era la piena continuità con l’intera schifosa politica, classista all’interno e imperialista – cioè doppiamente classista – fuori dai confini nazionali, di tutti i governi precedenti (compresi il sostegno al criminale Stato israeliano che bombardava Gaza, e il mettersi diligentemente al servizio delle sanguinarie manovre imperialiste occidentali in Ucraina: non erano “fatti” questi?). Insieme agli 80 euro c’era il decreto Poletti (non erano “fatti” anche questi?). E ora insieme agli 80 euro c’è la libertà di licenziamento e tutto il resto che non necessita ripetere (e solo questi sarebbero “fatti”, mentre le leggi Fornero ancora non lo erano).

Se all’inizio aveva fatto bene, poi però Renzi “ha scelto chiaramente di fare proprie le proposte di confindustria” e così “ha aperto un conflitto nel paese che sta riducendo il suo consenso” (vedi l’intervista a Landini sul manifesto del 25/10/14). Camusso, Landini e anche il manifesto, i primi per giustificare il proprio atteggiamento verso Renzi nei primi 7-8 mesi del suo esecutivo, accreditano adesso “una svolta pro confindustria intrapresa dal premier”. Costoro devono piuttosto vergognarsi per l’apertura di credito concessa a Renzi. Un governo che sin dal primo momento si è presentato nelle assemblee confindustriali, in particolare nei proclami della neo-ministro Guidi, gridando il programma volto a vieppiù consolidare e imporre il primato assoluto dell’impresa contro tutti e tutto. Si vadano a rileggere i discorsi della Guidi: non erano quelli “fatti” sui quali prendere le misure a questo esecutivo?

No: Renzi solo ora ha iniziato a deragliare, perché adesso avrebbe fatto propria la piattaforma degli industriali. La Cgil “gli offre” però “un terreno di riunificazione, no di divisione: noi siamo in piazza per portare le nostre proposte a Renzi, fargli capire che ha bisogno dei lavoratori se vuole davvero cambiare il paese”. Il presupposto di siffatte sviolinate (per non dire leccate di...) è che la vittoria politica di Renzi sarebbe stata insieme la vittoria del sindacato e di quella parte di PD che ora lo critica “da sinistra”. Secondo Landini, Renzi è stato votato dai lavoratori e ora abbandona i suoi elettori per “dare retta agli industriali” (che, c’è da supporre, giammai lo hanno votato). Ma la Cgil “è in piazza”, “fa sul serio”, vuole consigliare Renzi e “offrirgli” la possibilità della “riunificazione con il consenso” che altrimenti perderebbe, quando invece Renzi “ha bisogno dei lavoratori”(?!). Ci metta pure tutta la foga di cui è capace, ma si renda conto Landini e chiunque altro che questo è il piagnucolamento del servitore che chiede l’elemosina al padrone che lo sta bastonando. Non si lotta rivolgendosi in questo modo al proprio nemico, che vieppiù si rafforza della untuosa sottomissione dell’avversario! Se alle cannonate di Renzi contro il sindacato (dirette non alla sola escrescenza burocratica, ma all’idea stessa dell’organizzazione di classe, soprattutto se regoli i conti con la burocrazia...) Landini fa seguire di questi baciamano al premier, allora assume addirittura significati inversi la stessa parola “dignità” che già “brilla” di vuoto negli appelli della Cgil.

A cosa deve servire la mobilitazione, a “consigliare per il bene Renzi” o a organizzare la forza del proletariato contro un aggressivo e articolato fronte antiproletario che vieppiù si prepara a colpirlo?

Ha buon gioco Renzi a rispondere con la consueta strafottenza che la piazza della Cgil “non era quella del PD, ma c’era anche gente del PD” (sul Corriere della Sera del 3/11/14). Verissimo. E non certo perché tutti gli altri fossero di SEL-Rifondazione-Lista Tsipras, o del Movimento 5 Stelle. Se i dirigenti della Cgil appartengono più o meno tutti ai partiti della cosiddetta “sinistra”, del PD o pseudo –“radicale”, e se PD (e anche SEL) hanno portato in parlamento una cospicua frotta di sindacalisti, alla base le cose stanno in tutt’altro modo. E’ finito il tempo in cui la classe operaia si riconosceva nella stragrande maggioranza e comunque prevalentemente nei partiti della sinistra ufficiale. Non si può pensare alla piazza della Cgil e dimenticare che non solo la Lega Nord ma anche gli altri partiti di destra raccolgono rilevanti consensi operai e proletari. Oggi i lavoratori sono distribuiti in tutte le collocazioni politiche date, astensione compresa. In particolare l’adesione di molti lavoratori del Nord alla Lega poggia sull’aspettativa che, dopo il fallimento della “sinistra”, ci si possa difendere sotto quest’altro più combattivo ombrello; un’adesione che non significa rinuncia a difendersi, bensì ricerca di una diversa via (quanto mai sballata e suicida) per poterlo fare veramente. Una via che politicamente passa per le simpatie ieri a Bossi oggi a Salvini, ma che sui posti di lavoro non trova il Sinpa (operazione fallita) ma pur sempre la Cgil e la Fiom. Valga per i lavoratori che votano Lega e, in modo diverso, per tantissimi altri che cercano illusorie vie d’uscita per se stessi nelle promesse del cavaliere o nelle destre più o meno radicali con consensi in ascesa (consensi in buona parte proletari).

A maggior ragione sono sballati oltre che indecorosi i piagnistei di Landini. Le cose stanno drammaticamente in tutt’altro modo e la mobilitazione dei lavoratori non si misura affatto con lo scenario di un premier incantato dalle sirene di confindustria e da ricondurre all’ovile del dialogo e del consenso con i lavoratori e il sindacato: queste sono autentiche castronerie che servono a condurre la mobilitazione in un vicolo cieco. Se Renzi è espressione dei poterei forti, come anche Camusso ha dichiarato, ne deriva che occorre piegarlo con la forza costringendolo alle dimissioni sotto l’onda d’urto della lotta di classe, se capaci ne saremo. Tutt’al contrario dello scenario di piazze di lavoratori piene di elettori del PD cui Renzi, “che ne ha bisogno...”, è invocato a dare ascolto, abbiamo che poco prima del 25 ottobre la piazza di Milano si è riempita di decine e decine di migliaia di partecipanti alla manifestazione leghista. Una partecipazione imponente, che ha visto la presenza di non irrilevanti settori di destra estrema. Questo è lo scenario reale: quello di poteri capitalistici che con il governo Renzi hanno ingranato marce ancora più spinte rispetto a quelle già accelerate di Monti, sicché a un nemico del genere non si possono opporre fanfaluche e lamentazioni; quello che vede il delinearsi, in questa situazione di attacco capitalistico e di sostanziale inerzia del proletariato (almeno fino all’altro-ieri, vedremo adesso...), di una mobilitazione reazionaria e di destra che coinvolge un congruo numero di proletari. Solo dando una battaglia vera contro il governo, potremo risultare credibili all’insieme della nostra classe disorientata e sfiduciata da decenni di arretramenti. Solo costringendo Renzi a dimettersi e l’intero padronato a incassare e ricordarsi della lezione, potremo recuperare e ri-catalizzzare sul programma di classe le tante energie proletarie già incamminate alla passività o ad attivizzarsi (illusoriamente! lo ripetiamo) sotto bandiere di destra (nazionale o sotto-nazionale a scala padana). Solo facendo veramente sul serio (non nel senso di Camusso/Landini), ovvero ricostituendo la nostra organizzazione di classe, sindacale e politica, per dare battaglia sulle nostre indipendenti posizioni, potremo regolare i conti con il governo e svuotare/neutralizzare/tenere testa ai tentativi di mobilitazione reazionari e di destra, vieppiù volti a dividere il proletariato, a partire dal terreno prescelto della canea anti-immigrati, nel tentativo di annullarne ogni capacità di azione politica per sé. Se questo non sarà, se, pur fatto lo sciopero generale, potrà dirsi che ancora una volta il movimento dei lavoratori, guidato da direzioni capitolarde e imbelli, è stato incapace di difendersi sul piano dei propri interessi immediati, oltre che politicamente nullo (come da troppo tempo accade), allora i lavoratori andranno incontro al tritacarne di governi sempre più odiosamente antiproletari, che potranno oltretutto avvalersi di movimenti reazionari che tenteranno vie suicide al carro di questa o quell’altra sirena borghese aggressivizzandosi contro quanti continuino a farsi portavoce dell’unificazione del proletariato nella prospettiva di classe (e contro il resto della propria stessa classe, id est contro se stessi, datasi la non piccola partecipazione proletaria a quegli stessi movimenti).

La lotta contro Renzi è lotta di classe contro il capitalismo!

Fare sul serio vuol dire dichiarare apertamente che la lotta per buttare giù Renzi è lotta di classe contro il capitalismo che vuole dare un altro giro di vite al suo regime di sfruttamento e oppressione, in Italia e ovunque. Non dichiarare in questo modo la nostra battaglia significa che, mentre il fronte padronal-governativo galvanizza e cementa le proprie forze con la chiarezza della sua visione e dei propri obbiettivi (il ministro Guidi ebbe sin dall’inizio a gridare davanti ad assemblee confindustriali: “basta con la criminalizzazione dell’impresa e del profitto!”; e più di recente Poletti ha detto chiaro chiaro che con le “riforme” in cantiere si tratta di rendere il lavoro “più conveniente per gli imprenditori”), invece sul versante nostro (ripetiamo: nostre sono le masse che lottano, e non le loro attuali direzioni) le forze rimarrebbero sfibrate dalla perdurante assenza di una credibile prospettiva ovvero della sola e unica prospettiva che è in grado di unificarle, rafforzarle e tenerle schierate in campo senza arretrare in una dura e lunga battaglia politica di classe.

Detto che siamo in lotta contro Renzi, ancor più forte va detto che deve essere la lotta dei lavoratori a far cadere l’esecutivo. Occorre mettere le mani avanti rispetto a una certa insofferenza di tutt’altro genere che affiora da ultimo contro il premier e i cui protagonisti potrebbero decidere di calare i propri assi per trarne le conseguenze estreme. Se una parte degli imprenditori italici con Renzi sta “vivendo un sogno”, come ha dichiarato Squinzi, c’è un’altra parte che sogna bensì come Squinzi ma poi gli sovvengono incubi per le sanzioni contro la Russia, per i danni ingenti che esse infliggono alle imprese italiane, per l’insopportabilità di un governo che si mette al servizio delle escalation provocatorie volute dagli Stati Uniti senza considerare gli “interessi nazionali”. Né questo tipo di insofferenza verso Renzi appare circoscritta all’Italia. Anche con Bruxelles sono scoccate scintille e i meriti veri non ci sembrano riguardare né i parametri sforati, né le eccessive burocrazie, quanto piuttosto la sostanza di una politica estera europea che intanto non esiste in quanto ognuno fa la sua, con l’Italia di Renzi che dà l’impressione di soppiantare i vari Stati dell’Est europeo nel compito di quinta colonna statunitense. Non a caso da ultimo ascoltiamo voci interne al PD (ci è capitato di ascoltare Boccia intervistato dalla radio confindustriale) che da un lato chiamano Renzi a trattare con la minoranza interna sui temi sociali e dall’altro lo criticano senza mezze misure sul capitolo Ucraina. Si legga poi cosa scrive sulla rottamazione sindacal-politica della “sinistra” avviata da Renzi (sul Corriere della Sera del 29/10/14, il giornale che con De Bortoli ha associato Renzi a “stantio odore di massoneria”...) quel Piero Ostellino che ha già sberleffato “la signora Mogherini” proprio sulla questione Ucraina... Per noi è chiaro, fermo tutto quanto sull’Ucraina abbiamo scritto, che nessuna sintonia può mai essere stabilita tra la lotta dei lavoratori contro Renzi e consorterie e cordate borghesi di tal genere, impegnate bensì a dare una raddrizzata alla politica estera di Renzi dal loro anti-proletario punto di vista, ma solo per poter tornare a sognare in santa pace di un articolo 18 che non c’è più e di una precarietà senza vincoli né causali.

Quale la prospettiva generale?

Dal palco di piazza San Giovanni la Camusso ha inteso, a suo modo, essere chiara. Ha spiegato che la Cgil propone “una ricetta alternativa alla formula Renzi” ovvero “un altro modo di investire le risorse”. Lo scontro sarebbe quindi tra un governo liberista che ossequia i mercati, la finanza e l’austerità europea al servizio di questi, e la “ricetta alternativa” di un governo che mette invece la patrimoniale sul 5% della popolazione più ricca e con queste risorse finanzia investimenti e crea veramente nuova occupazione.

Danilo Barbi, della segreteria confederale, ha spiegato che “è indispensabile una vera riforma strutturale. quella della finanza”; che “abbiamo bisogno di un riformismo forte, assertivo, che indichi l’obiettivo della riforma del capitalismo finanziario, del capitalismo patrimoniale del XXI secolo. Riproponendo l’obiettivo di risocializzare il mercato e di ripristinare il controllo della democrazia sulla circolazione dei capitali (dove e quando mai lo ha visto? n.n.). Riformare il potere della finanza, cambiarne il ruolo riportandolo al servizio dell’economia reale, è una vera riforma di struttura ed è necessaria per uscire dalla crisi”. Dopo che le “riforme di struttura” di togliattiana memoria hanno fornito da quel dì la conferma storica della propria inconsistenza e inettitudine a modificare sostanza e leggi del capitalismo, come anche la “denuncia” di Barbi anno 2014 dovrebbe dimostrare, dopo che lo stesso Obama ha provato a mettere qualche limite formale alla finanza di casa propria e si sa come è andata a finire (le banche americane come e più di prima hanno investito gli aiuti di stato nella speculazione fregandosene di Obama), costui ri-propina in trentaduesimo le medesime inesistenti chimere di “riforma”, che però hanno un significato ben preciso: il sindacato, costretto a mobilitare il mondo del lavoro, lo fa per cogliere i propri obiettivi, giammai per promuovere la prospettiva di classe, e per questo rinfocola a ogni passo tutte le idee più false, finanche di una finanza che docilmente si farebbe mettere la museruola, per rafforzare e tenere ben saldo l’argine di contenimento di una lotta che mai debordi dall’indiscusso capitalismo. Non a caso il “riformista forte” Barbi ha dichiarato ancora che “se il parlamento dimostrerà la volontà di discutere (riferito a una legge di stabilità che sarà approvata senza stare a sentire le barbe mosce del sindacato, n.)... la Cgil non farà mancare il proprio apporto in termini di proposte e di relazioni costruttive”. Signor Barbi: i lavoratori hanno scioperato e lo faranno ancora e tu pensi alle “relazioni costruttive” con il governo che ci attacca?!

Qualche giorno fa la piazza londinese innalzava cartelli con scritto “One solution: revolution”. Noi ne siamo fermamente convinti. Il capitalismo non si riforma ma si abbatte e il proletariato in lotta deve dichiarare e rivendicare il proprio diritto e dovere storico di farlo, così come la borghesia ha abbattuto l’ancient regime delle monarchie feudali che ostacolavano lo sviluppo della propria classe e, in quello svolto storico – da un pezzo esaurito –, dell’umanità intera. Per quanto scriviamo sull’Italia e sul mondo intero (quand’anche sempre più spesso giungano segnali positivi, da ultimo da Bruxelles...) la rivoluzione proletaria e socialista, già apparsa in anni lontani sullo scenario storico, non annuncia nuove puntate in tempi ravvicinati. Nondimeno i lavoratori necessitano sin d’ora di una prospettiva in cui inscrivere la lotta, di una visione di società umana che sono determinati ad affermare e per la quale battersi . Questa prospettiva non è quella di “una finanza e un capitalismo riformati”: i lavoratori hanno necessità di chiarire a se stessi e di proclamare che la propria lotta è contro il capitalismo, per una società che è alternativa non per come “spende le risorse e crea occupazione” invariato tutto il resto, ma perché cancella lo sfruttamento del lavoro, l’oppressione del capitale, l’alienazione imposta ovunque dalla schiavitù del profitto. I lavoratori, per poter lottare, come chiunque altro lo abbia fatto e lo faccia (si tratti di Montezemolo o di Oscar Giannino), hanno necessità di riconquistare e dichiarare il proprio manifesto politico, il proprio programma che non esce da nessun cilindro ma che esiste ed è scritto da tempo.

La prospettiva di classe necessita del proprio partito

Alla sinistra del PD è un continuo pseudo –“laboratorio” di irritanti astruserie organizzativistiche su soggettività politiche cui si dovrebbero dare i natali. Da ultimo, smaltita la sbronza per Renzi, Landini viene nuovamente proiettato al centro delle ricostituzioni in cantiere del nuovo soggetto a sinistra del PD. La ripetitività di analisi e proposte che si misurano su questo terreno, i cui protagonisti gravitano tra SEL – Rifondazione – Lista Tsipras manifesto, appelli, Albe e “movimenti sociali” vari, non cancella il fatto che questi sermoni attengono a una necessità reale, che beninteso tutti costoro tradiscono al 100%. I protagonisti citati la declinano in chiave di rinascita elettorale di una “sinistra radicale”, ma il punto reale è che non c’è bisogno soltanto di “fare sul serio” sul terreno sindacale e degli scioperi, perché è verissimo che la ripresa della lotta ha di fronte a sé il compito di ricostruire il partito della classe proletaria (che peraltro nessuno di costoro ha in mente aborrendo ogni caratterizzazione non in linea con un opportuno make-up elettorale). Ancor qui, dato atto di questa verità, torna ad essere decisiva la prospettiva: quella di Landini, per tutti i contenuti che abbiamo esplicitato, fa acqua da tutti i lati. Non è in grado di reggere un vero scontro che sia adeguato all’attacco da respingere, men che meno lo è per garantire passi in avanti in direzione della riconquista del protagonismo politico della classe e quindi del partito. A queste condizioni Renzi ha ancora buon gioco a sbeffeggiare la prospettiva dell’ennesimo “arcobaleno” cui contribuiscano anche sue minoranze interne eventualmente scissioniste (mentre intanto ha imbarcato Migliore). A queste condizioni Renzi avrebbe comunque vinta la partita: il PD non lo restituirà mai, e avrà vinto se avrà reso i detentori precedenti o imbrigliati e innocui dentro il partito o azzerati e ininfluenti fuori. Per mandarla veramente buca a Renzi e piazzare alla sua sinistra una forza – comunque riformista ed elettorale, tanto per chiarire che giammai sarebbe il partito nostro – di un certo non irrilevante peso, con la quale si dovrebbero poi fare i conti, occorrerebbe intanto guidare uno scontro sociale di ampie dimensioni per avvalersi della sua spinta reale da proiettarsi oltre le contingenze date, mentre oggi vediamo che i neo-segretari in pectore alternano equanimemente critiche e salamelecchi, scioperi e profferte di “relazioni costruttive”.

Sono questi i complessivi contenuti che devono vivere nelle mobilitazioni e nelle istanze di discussione. Quanti denunciano da sinistra le direzioni di Cgil e Fiom sono impegnati a portare questi contenuti tra i lavoratori, a dare battaglia alle leadership sindacali intervenendo nella massa più ampia che scende in piazza perché è in questo modo che si contribuisce a fare chiarezza sugli obiettivi e sulla prospettiva, e si può imporre a direzioni recalcitranti che la lotta sia condotta nel modo più efficace, che l’impegno dei lavoratori valga ad affermarne e a conquistarne gli interessi e non venga disperso al vento di inutili chiacchiere e squallidi patteggiamenti con il governo. Più che gli scioperi autoreferenziali e separati dei sindacati extra-confederali occorre organizzare l’intervento e la battaglia dei comunisti nell’unico e solo movimento dei lavoratori che ora accenna a tornare in campo, avendo la capacità di lavorare per unificarne tutte le forze. Non possiamo offrire ai lavoratori di scioperare una volta con la Unione Sindacale di Base, poi con la Cgil e poi con lo “sciopero sociale”. L’attacco che abbiamo di fronte non si risolve con una giornata di sciopero, né tanto meno con più scioperi autoreferenziali scollegati e competitivi. Occorre un’unica prolungata ondata di lotta fino a costringere governo e padroni ad arretrare dall’offensiva. Occorre portare la denuncia e la battaglia dei comunisti dentro quest’ondata unica, per garantire che la lotta vada avanti intransigente fino a conseguire i risultati e conquistare tutti gli obbiettivi di cui la nostra classe ha bisogno vitale!

* * * * *

APPENDICE:

Alleghiamo, in appendice, il Comunicato del SI COBAS NAZIONALE sulle due manifestazioni indette per il prossimo 14 novembre dai sindacati di base e dalla FIOM, in cui si esplicita la “scelta chiara ed inequivocabile” del SI.Cobas di aderire ad entrambe.

Anche se la FIOM va criticata a fondo per “il chiaro intento di arginare e controllare eventuali (possibili, anzi probabili) spinte a sinistra di settori d’avanguardia della classe operaia”, viene affermata la necessità di un intervento chiarificatore e di mobilitazione là dove si muovono le forze più rilevanti, al fine di rafforzare una prospettiva di resistenza e riscossa operaia.

Troviamo molto utile questa messa a punto, corrispondente alle nostre critiche al separatismo ed a quanto da noi sostenuto sulla necessità di un intervento il più ampio possibile sulla massa che scende in piazza, per portarvi la denuncia e la battaglia indispensabili per l’unificazione di tutte le forze in lotta.

11 novembre 2014



Verso il 14 novembre:
l’unità della lotta operaia al primo posto!

L’attacco borghese alla classe operaia e all’insieme delle classi subalterne non può che approfondirsi di fronte ad una crisi profonda del sistema dominante.

Il governo Renzi in Italia ne è un’espressione particolare, e cerca di sostituire l’antipatica egemonia berlusconiana con un “esecutivo militante” neo-liberare e allo stesso tempo populista, ma con un obiettivo ancor più esplicito che negli anni precedenti: respingere indietro la classe operaia, annientandone la composizione stabile e annichilendone le spinte alla resistenza (difesa delle conquiste storiche) e/o al cambiamento (lotta per il miglioramento delle proprie condizioni attuali)

La portata velleitaria e truffaldina di questo intento non tarda ad emergere di fronte alle naturali spinte della classe operaia stessa: le botte elargite agli operai dell’AST di Terni in piazza a Roma fanno seguito a quelle che, per esempio, i facchini subiscono ormai da tempo, senza per questo demordere dai loro intenti, anche perché, in buona parte, economicamente vincenti e politicamente importanti perché tendono ad unificare il fronte proletario.

In questo scenario di crescente resistenza si incrociano, e potenzialmente convergono, diverse spinte soggettive di classe (soprattutto sul terreno sindacale), che faticano a trovare l’unità necessaria a causa della natura burocratica e borghese delle loro direzioni "opportuniste".

In ogni caso la Fiom (baluardo ed estrema copertura a sinistra delle burocrazie confederali), reagisce all’emarginazione dei sindacati dal tavolo della concertazione fino a convocare scioperi inter-regionali dei metalmeccanici (14 novembre a Milano e 21 novembre a Napoli) con il chiaro intento di arginare e controllare eventuali (possibili, anzi probabili) spinte a sinistra di settori d’avanguardia della classe operaia indigena che rischierebbero di risvegliare l’ormai sopito spirito battagliero delle “vecchie tute blu” Se tale scenario risponde in qualche maniera alla verità, è compito del SI.Cobas  e dei sindacati di base posizionarsi adeguatamente sia in senso strategico che attraverso oculate scelte tattiche.

Tradotto in soldoni, rispetto al 14 novembre, questo significa essere costretti ad operare delle scelte tattiche adeguate, senza pensare di assumere questa scadenza nelle nostre esclusive mani ne in quelle dei lavoratori organizzati dai sindacati di base, riducendoci a mere comparse o presenze testimoniali che si delimitano all’interno di quella giornata che, a nostro parere, grazie soprattutto alla scesa in campo della FIOM (che tende a mantenere nei confini di una politica riformista gli operai) non è più eludibile e merita, viceversa, il massimo sforzo da parte nostra e degli altri sindacati di base per unificare un fronte di lotta.

In poche parole, la nostra proposta politica è quella di affermare alla necessità di unire le forze soggettivamente e oggettivamente più rilevanti, al fine di rafforzare una prospettiva di resistenza e riscossa operaia,

Se da una parte il movimento animato dal SI.Cobas, rappresenta un nuovo fattore non facilmente controllabile e quindi oggetto di particolari attenzioni da parte degli apparati repressivi dello stato, non vi è dubbio che ben altre preoccupazioni (più oggettive, volendo) produce la resistenza, seppur riformista, rappresentata dal principale sindacato di categoria (la FIOM) della più importante confederazione sindacale d’Italia (la CGIL).

Nella prospettiva di combinare dialetticamente la resistenza operaia alla sua possibile reazione offensiva, il “fattore Fiom” pesa enormemente di più della sterile autorappresentanza dovuta alla coalizione (peraltro precaria e conflittuale al proprio interno) del cosiddetto sindacalismo di base (con alla testa, come sempre, USB e CUB). E i tentennamenti e le ambiguità di Landini la dicono lunga sulle difficoltà di questa compagine che, mentre lancia lo sciopericchio di 8 ore dichiara che non è il momento di unificare il fronte dei lavoratori per una lotta più generale

Da qui la nostra scelta chiara ed inequivocabile di aver aderito allo sciopero del 14 novembre indetto dal sindacalismo di base ma stare, nel corteo di Milano, insieme ai metalmeccanici, e non ghettizzarsi nell’appuntamento di Piazza Cairoli con la minoranza (non scioperante, ma manifestante) di CUB.USB-USI etc.

Una scelta che ci attirerà probabilmente non poche critiche fra i presunti nostri amici-vicini, ma, allo stesso tempo, dovuta se vogliamo tenere fede a i nostri principi più solidi, basato cioè sugli interessi immediati e prospettici della classe operaia e non dei suoi apparati

 Dal nostro punto di vista, una scelta del genere significa senza ombra di dubbio...mobilitare! E farlo attraverso uno sciopero, fondamentalmente di categoria, capace di mettere in pratica il percorso “unitario forzato” di cui sopra e di giocare in piazza a Milano un ruolo che apparirebbe indigesto alla stessa burocrazia FIOM.

I numeri che potremo e sapremo mettere in campo, oltre alle giuste parole d’ordine capaci di far comprendere alla massa le nostre posizioni rappresentano la sfida più importante in vista di questa scadenza

COMUNICATO DEL SI COBAS NAZIONALE