nucleo comunista internazionalista
note




ARDITI DEL POPOLO
ED
ARDITI DEL POLLAIO

L’exploit elettorale del Movimento 5 Stelle sembra aver galvanizzato certi “compagni” che, in varia misura e varii modi, vi intravedono il segno di un’esplosione in qualche modo rivoluzionaria cui riallacciarsi. Chi toto corde, chi – come i CARC – riservandosi di premere, a mo’ della mosca sull’elefante, per imprimergli la giusta direzione sino alla costituzione di un “governo di emergenza popolare” cui farà immancabilmente seguito la “tappa” ulteriore (il socialismo nel nostro paese).

Non prendiamo qui in considerazione l’articolazione di queste “linee” perché è pregiudiziale – e lo facciamo in altra sede – dare una definizione nostra dello stato dell’arte, che, per quel che ci riguarda, smentisce da cima a fondo l’analisi di partenza sul fenomeno-Grillo di riferimento.

Ci interessa, invece, prender nota di una curiosa escursione nella storia del movimento comunista da parte dei soggetti in questione al fine di presentarsi sin da subito in veste concertista, antisettaria, in polemica con un precedente da esorcizzare perché in controsenso coi “compiti del presente”: l’esperienza del PCd’I di Livorno diretto dalla Sinistra. L’occasione polemica s’incentra, nientemeno, che sulla questione degli Arditi del Popolo, rispetto alla quale la Sinistra si sarebbe macchiata del peccato mortale di “schematismo dottrinario” etc. etc. Escursione notevole, che sta a significare come e quanto l’esperienza storica del passato pesi sul presente e vada pertanto ben digerita, per il presente ed il futuro. Il passato non si archivia, i suoi nodi sono sempre e più che mai attuali. Perciò merita parlarne.

In un suo documento del 15 gennaio il CARC ci insegna che chi si limita a far le pulci a Grillo e seguaci dimostra di “non aver imparato (o voler imparare?) dall’esperienza del PC(d’)I di Bordiga che consegnò il movimento degli Arditi del Popolo nelle mani dei fascisti di Mussolini (nientemeno!, n.n.) perché era un movimento contraddittorio”. Dal Cobas della scuola di Roma abbiamo sentito di recente dire che quando nell’Italia del primo dopoguerra la situazione sociale ribolliva ed incubava il fascismo “questi” (i comunisti settari di Bordiga) “che hanno fatto? Hanno fatto la scissione e poi, dopo aver fatto la scissione, niente mai andava bene. Così non andavano bene gli Arditi del Popolo. E così ha vinto il fascismo”. Diamo atto a costoro che trattandosi di un corpo docente sono esentati dallo studiare la storia, visto che il loro compito è “insegnare”.

Ma se qualcuno di costoro, anziché ripetere stancamente, delle trite litanie togliattian-staliniste volesse davvero passare al vaglio la storia vera, ne avrebbe bastanti occasioni.

Sulla questione degli Arditi del Popolo è uscita di recente “una messa a punto storiografica” (La leggenda nera degli Arditi del Popolo, nell’opuscolo Dall’antifascismo proletario alla Resistenza tricolore) firmata dall’instancabile Dino Erba, che consigliamo a tutti di leggere per la completezza ed inattaccabilità della sua puntualizzazione “storiografica” (e non solo). Da questo studio risulta in tutta evidenza che l’effimera meteora dell’arditismo in questione “assume contorni circoscritti nel tempo e di limitato spessore organizzativo. Fu un’esperienza che si concluse nel giro di pochi mesi, dal giugno al novembre del ’21”. Non solo: “la causa del declino risiedeva negli stessi presupposti politici dell’iniziativa, rivolta al puro ripristino delle garanzie democratiche, in un momento in cui la borghesia italiana le abbandonava”, in stretta connessione col nittismo sostenitore di tale iniziativa. Di più: tra il personale dirigente del movimento c’erano sin dall’inizio delle zone oscure, a cominciare da quel Vittorio Ambrosini che ritroveremo poi fascista (“di sinistra”) sin nel secondo dopoguerra tra le fila del MSI per arrivare a quell’Eros Vecchi “figlio di un altro ardito, Ferruccio – uno squadrista della prima ora –, che, in Francia, riuscì ad infiltrarsi nel PCI e provocò poi l’ondata di arresti del 1930”.

Ciò significa che questo movimento (che, all’apice della sua parabola, poté contare quasi 20 mila aderenti) fosse semplicemente da ignorare o buttare (o...consegnare nelle mani dei fascisti, come – senza un minimo di pudore – scrive il CARC)? Niente affatto, e tale non fu in nulla e per nulla l’atteggiamento del PCd’I, come poi vedremo. Solo che, intanto, il PCd’I aveva già costituito di suo un apparato militare di difesa (e, ove possibile – come avvenne, ad esempio, a Trieste, di offesa) non solo rigidamente inquadrato militarmente, ma anche e in primo luogo politicamente. Questo apparato mai si ritrasse da una lotta comune con gli Arditi del Popolo ove fosse possibile (e Dino Erba ce lo testimonia a fondo), ma badando bene a preservare la propria duplice autonomia: sul piano politico, contro la linea semplicemente demolegalitaria dell’arditismo, assolutamente incapace di rispondere all’aut aut dell’ora (o rivoluzione o controrivoluzione); sul piano militare con il rifiuto di consegnare le milizie comuniste combattenti a stati maggiori assolutamente improponibili. Una linea di condotta posta in atto, ad esempio, anche nei fatti di Sarzana, dove i fascisti furono duramente battuti da un triplice concorso di forze: una pattuglia di carabinieri comandata dal tenente Jurghens (ancora libero dall’obbligo di mostrarsi “nei secoli fedele”... al fascismo), gli arditi e le milizie comuniste. Ciò che fa scrivere a Sergio Zavoli (vedi Nascita di una dittatura, Torino, SEI, 1973): “Sarzana dimostra che quando la violenza si scontra con la volontà di resistere della forza pubblica, la legalità può essere garantita”, pag. 101). La storia dimostra il contrario: la forza pubblica dello Stato è stata totalitariamente garante dell’“illegalità” fascista in tutto il prosieguo dello scontro di classe.

Una testimonianza inoppugnabile ed... insospettabile, sempre nel libro di Zavoli, quella di Terracini: “L’Internazionale condannò quel nostro atteggiamento, che non fu solo di Bordiga; io rivendico la responsabilità di tutto il gruppo dirigente, di cui anch’io facevo parte. Fummo spinti a quella presa di posizione dalla preoccupazione (che tuttora ritengo ancora ,a distanza di tempo, fosse allora valida) che ogni commistione di carattere organizzativo avrebbe aperto il partito, appena costituito, a influenze politiche dall’esterno, e nello stesso tempo avrebbe indebolito la disciplina dei militanti, che invece doveva rimanere fermissima in tutti i loro campi di attività” (pagg. 100-101). Ed è grazie a questa disciplina che il PCd’I poté continuare a resistere politicamente e militarmente anche dopo l’esaurirsi della meteora degli Arditi e ad onta dei “patti di pacificazione” firmati il 3 agosto del ’21 tra fascisti, PSI e CGL. Già: proprio quel PSI da cui l’Internazionale aveva promosso la scissione per poi pentirsene con un totale ribaltamento di linea accontentandosi infine di imporre al PCd’I l’unificazione coi “terzini” serratiani, per l’innanzi passati al tritacarne, per ingrossare le file del partito in Italia (ingrossamenti pari al quasi zero in cambio di un annacquamento fatale del suo carattere di partito comunista rivoluzionario).

E veniamo ai documenti del partito in merito alla questione (cfr. la Relazione del CC per il 2° Congresso, Roma 1922):

“Resta risolta una prima questione: quella della resistenza da opporre al fascismo. (...) Il PC deve sostenere la resistenza con tutti i mezzi possibili e dichiarare che è giusto e utile adoperare contro il fascismo gli stessi suoi mezzi offensivi, passando ad organizzare la preparazione e l’impiego di tali mezzi (...) e sviluppando poi quel vasto lavoro di inquadramento di cui abbiamo già detto dal punto di vista organizzativo. Un secondo problema fondamentale tattico era quello della misura in cui si poteva collaborare con altri partiti proletari che prendevano atteggiamento antifascista, e che dettero luogo al sorgere, in episodi del luglio 1921, di formazioni di lotta dette “arditi del popolo”. La Centrale dette decisamente la disposizione che il nostro organismo di inquadramento dovesse restare affatto indipendente dagli arditi del popolo, pur lottando a fianco di questi, come è molte volte avvenuto, quando si avessero di fronte le forze del fascismo e della reazione. Le ragioni di questa tattica non furono di ordine teorico e pregiudiziale, ma essenzialmente pratiche e ben connesse ad un attento esame della situazione e delle eventualità a cui nell’uno e nell’altro caso si andava incontro, soprattutto in base ad informazioni riservate, assunte coi mezzi di cui si disponeva, intorno agli «arditi del popolo» e al loro movimento. L’azione di un organismo militare ed il suo indirizzo successivo, data la grande unità ed accentramento organizzativo che esso deve avere, e quindi la poca mutevolezza della sua gerarchia dirigente, assume accentuandoli i caratteri che ha quella degli organismi politici: non è indipendente dal suo “programma” ossia dalla piattaforma su cui sorge e raccoglie adesioni. (...) Tutte le ragioni (...) stanno a dimostrare che non si poteva fare un utile lavoro nel seno degli arditi del popolo, e che a un certo punto questi si sarebbero immobilizzati in una posizione tale da immobilizzare chiunque non disponesse di una organizzazione inquadrata indipendentemente. (...) Questa differenza di scopi su cui sorgeva la organizzazione degli arditi del popolo rispetto alla nostra consisteva nel loro obiettivo, comune a quello dei socialpacifisti, di arrivare ad un governo che rispettasse la libertà di movimenti del proletariato sulla base del diritto comune, evitando la fase della lotta contro lo Stato, anzi prendendo posizione contro chiunque turbasse la cosiddetta civile lotta d’idee tra i partiti. Quindi nessuna impostazione di un simile organo di lotta sulla base non solo della risposta al fascismo, ma della lotta rivoluzionaria portata contro lo Stato borghese, e poi della solida formazione di un’organizzazione militare del potere proletario. (...) L’organizzazione non muoveva dal basso, ma muoveva da un centro che tendeva a monopolizzare il controllo dell’unione proletaria. Si era in una situazione di ordine parlamentare per cui conveniva ad una parte dei partiti borghesi di governo frenare il fascismo che minacciava di diventare non un mezzo della politica complessa della borghesia, ma un organo fine a se stesso, per lo stesso enorme sviluppo che aveva preso. L’opposizione degli arditi del popolo coincise con l’interregno tra i gabinetti Giolitti e Bonomi. (...) La pratica sta a dimostrare che casi di minore resistenza proletaria si ebbero dove i nostri per fretta o poco disciplina si erano messi sul terreno degli arditi del popolo. (...) Nel caso che un ministero di colore nittiano si fosse formato, gli arditi del popolo potevano divenire una forza illegale del governo legale, e non tanto per tenere a freno l’arbitrio delle bollenti squadre fasciste, quanto per intervenire quando domani fosse risultato che gruppi di proletari si organizzavano per provocare un’azione rivoluzionaria contro lo Stato governato dal ministero di sinistra e magari in collaborazione coi socialisti. (...) I nostri criteri sono così poco settari che riteniamo che, fermo restando le differenze e le barriere organizzative che ci separano da ogni altro movimento, è possibile realizzare in quel senso una collaborazione sul terreno pratico con i sindacalisti e anarchici, e con alcuni elementi socialisti di sinistra (...) Ma questa tattica deve essere condotta ad occhi aperti con sangue freddo senza le disperate impazienze di chi sogna i successi della politica proletaria sotto gli aspetti romanzeschi dei terni al lotto o dei contratti col diavolo. Qualche eccesso di rigidismo sulle linee della nostra dottrina e del nostro saldo bagaglio programmatico non nuocerà certo ad evitare delusioni e passi falsi, se è cosa ben diversa dal cieco settarismo il senso della disciplina e della fierezza che i militanti del nostro Partito stringe attorno alla comune bandiera”.

Questa chiara impostazione del problema, tutt’altro che riducibile ad una sorta di autoclausura settaria (come ben si vede dal richiamo alle azioni comuni a vasto ventaglio rivendicate dal partito), può essere messa in causa solo alla condizione di ripudiare la stessa prospettiva rivoluzionaria in nome di tappe demoprogressive da conseguire in alleanza con settori “avanzati” della borghesia. Ed allora andrà bene sì il ripudio della rottura di Livorno, del “settarismo” di Bordiga (e Lenin), l’embrassons-nous con tutti i cosiddetti “progressisti” (sino, oggi, al grillismo).

E’ divertente constatare che i nostri critici si affannino a cambiare le carte in tavola attaccandosi alla “leggenda nera” togliattian-stalinista sugli Arditi del Popolo per proporre una sorta di equiparazione tra quel fenomeno a partecipazione proletaria armata (fatte tutte le tare di cui sopra), comunque capitalizzabile dal Partito Comunista (come si dimostrò poi col fatto che molti anarchici “quando l’organizzazione (degli Arditi) si disgregò, non esitarono a collaborare con le squadre comuniste”, citiamo da D. Erba), e il M5S, dei cui svolgimenti “arditi” restiamo in attesa. E’ il destino di chi non ha proprie gambe su cui camminare e si acconcia a far da zecca su quelle “possenti” altrui.

Compito a casa per domani: ripassatevi i capitoli di storia, ragazzi!

29 marzo 2013