Sul manifesto del 15 marzo Vittorio Agnoletto propone la sua traccia di bilancio sulla “sconfitta storica della sinistra” a pochi giorni dalla caporetto elettorale della lista Ingroia (che replica il tonfo della lista Arcobaleno) in cui non aveva trovato posto come candidato... all’ineleggibilità.
La sconfitta è ancora più bruciante per Agnoletto che la relaziona alle potenzialità espresse “all’inizio di questo millennio” dal “movimento altermondialista”.
Anche noi vedemmo nell’ondata di mobilitazioni innescata dalle giornate di Seattle di fine 1999 una premessa di possibili utili sviluppi. Giustissimo chiedersi come mai una mobilitazione di non banali contenuti e di respiro tendenzialmente internazionale si sia progressivamente eclissata. Eclissi totale, occorre aggiungere, cioè non circoscritta al mero rifluire delle oceaniche mobilitazioni di piazza (il che può anche starci), ma anche senza lascito di apprezzabili forze organizzate negli anni successivi e al presente (con buona pace di certi epigoni di cui diremo). Il che pone un problema, laddove si rammenti l’ampiezza di quel movimento e la sua iniziale capacità di denuncia onnilaterale degli sfregi insiti nei meccanismi della “globalizzazione” (in realtà del capitalismo), con un primissimo ponte di comunicazione e di (potenziale) unificazione di forze lanciato da un capo all’altro del pianeta, e tra sfruttati dei paesi occidentali e super-sfruttati dei paesi schiacciati dal “nostro” imperialismo.
Per questo ne parliamo a partire dal discorso di Agnoletto, in chiave non di polemica con lui, ma di chiarimento sulle questioni nodali, cui(perlomeno) egli fa riferimento rivendicando valori che “ci coinvolgono”.
Di quel movimento Agnoletto scrive che “non solo ha posto in discussione l’attuale sistema mondiale fondato sul dominio incontrastato dei mercati e del profitto, ma ha proposto alternative, ha alfabetizzato la nostra società sui rischi della globalizzazione..., raggiungendo un’ampiezza che non aveva paragoni nella storia recente”. Come mai – si chiede Agnoletto – questo movimento, che “ha avuto uno dei suoi punti di forza proprio in Italia”, ci consegna oggi questa bruciante sconfitta della sinistra italiana? [“Grassettiamo” i punti-chiave su cui fermare l’attenzione]
La risposta sarebbe che Rifondazione Comunista, che “inizialmente comprese le potenzialità” del movimento contro la globalizzazione, “non se l’è sentita di buttare il cuore oltre l’ostacolo”, di “compiere il salto decisivo”, di “abbandonare le sue rassicuranti identità di provenienza”, per assumere “la costruzione di un nuovo spazio politico comune”. Quel che è mancato in Italia sarebbe però avvenuto in Grecia, dal che avrebbe tratto origine “il percorso sfociato anni dopo in Syriza”. In Italia l’indisponibilità di Rifondazione avrebbe invece determinato “l’assenza di una sponda politica in grado di trasferire anche sul terreno istituzionale la radicalità delle lotte”.
Questa assenza (con quel che ne consegue di mancati trasferimenti “sul terreno istituzionale”...) sarebbe uno dei “due elementi che hanno bloccato lo sviluppo” del movimento “altermondialista”. L’altro elemento di blocco sarebbe stato “una feroce repressione che ha obbligato il movimento a modificare le proprie priorità... e che ha rotto quella formidabile unità d’intenti che teneva insieme realtà tra loro molto differenti”.
Successivamente le vittorie referendarie su acqua e nucleare affonderebbero pur sempre le radici nel movimento di Porto Alegre e di Genova, ma ormai “senza più la speranza di poter realizzare un’alternativa complessiva di sistema”. Sicché è stato Grillo a “offrire uno sbocco politico a gran parte di quelle istanze”, canalizzandole “in un progetto non immediatamente antagonista all’attuale sistema globale”, dove “l’avversario principale diventa la casta”, mentre “la questione sociale, i diritti dei lavoratori, la critica sistemica al sistema liberista risultano assenti od offuscati”. Il Movimento 5 Stelle, scrive Agnoletto, è segnato dalla “assenza di un progetto alternativo di società”, e ad esso aderiscono “giovani attenti al ’qui ed ora’, ma totalmente sfiduciati sulla possibilità di modificare l’insieme del sistema”.
L’attuale “azzeramento”, secondo Agnoletto, chiama la sinistra a ripartire dall’ “elaborazione di una idea complessiva di una società diversa, senza che un singolo soggetto (collettivo o singolo) pretenda di esserne il depositario”, ma invece “aiutando la nascita di immaginari in grado di suscitare entusiasmi verso l’ou tonos, il luogo che ancora non c’è ma che è concretamente possibile raggiungere”. Esiste quindi per la sinistra “azzerata”“l’opportunità per ripartire, a condizione di essere consapevoli delle ragioni della sconfitta”.
Del panegirico così sintetizzato facciamo salva (per prenderla in carico in tutt’altra direzione) l’istanza di un bilancio del movimento di Seattle-Genova e del suo contraddittorio riflusso (proprio quando l’imperialismo occidentale affondava il coltello delle sue aggressioni infinite contro l’Afghanistan, l’Iraq, ...).
Detto ciò, le supposte “ragioni della sconfitta” di Agnoletto non fanno che riproporre le premesse fallimentari delle proprie meritatissimamente “sconfitte” (che non ci riguardano), e – su diverso piano – dell’impasse del fronte di classe (e di lotta contro il capitalismo) tuttora lontano dal liberarsene nella appropriata direzione (e questo ci riguarda eccome!).
Essere consapevoli delle ragioni delle difficoltà (riferite non ai leader altermondialisti rimasti fuori dal parlamento, ma all’assenza di sviluppo e di sedimentazione organizzativa e alla reale scomparsa – carsica certo, ma di non breve periodo...– della spinta sociale partita da Seattle) significa innanzitutto non continuare a imbrogliare le acque farneticando su “immaginari verso l’ou tonos” e altre amenità del genere.
Ci sta bene la critica al Movimento 5 Stelle “che non ha alcun progetto alternativo di società”, ma nell’ “immaginato” e scritto di Agnoletto dove è che si troverebbero lumi un tantino più precisi su quella “critica all’insieme del sistema” la cui assenza viene imputata ai grillini?
Per noi consapevolezza significa dire che quel movimento, nonostante le potenzialità e le genuine aspirazioni scese in campo, non è stato in grado di dare corpo, programma e organizzazione a quella che è rimasta una fin troppo generica (e in ultima istanza inconsistente) “idea di alternativa” (cominciando dal fatto di non sapere/volere chiarire/affermare fino in fondo a che cosa debba essere “alternativa” “l’idea” per la quale battersi). Il bilancio da fare è che le aspirazioni non bastano se non si definiscono in adeguati programmi, in grado di sedimentare organizzazione politica (che è tutt’altra cosa da liste elettorali vincenti, e relativo incasso di onorevoli).
Ci si contentava di pensare e dire “un altro mondo è possibile”. Per noi era imprescindibile aggiungere: “senza e contro il capitalismo”. Ma si era in pochissimi a dare battaglia in questa direzione, sicché le “aspirazioni” sono rimaste ingabbiate nell’illusione (consapevolmente orientata da alcuni) di un’“alternativa” che per supporsi e proporsi per tale non riteneva e non ritiene affatto necessario (né possibile, né desiderabile per gli “alcuni” detti) dichiarare la lotta contro il capitalismo, assumendo come sufficiente, oltre che “unificante”, la denuncia del “sistema liberista”.
Ancor oggi Agnoletto ci ripropone questa sostanza, laddove “l’idea complessiva di una società diversa” (“da elaborarsi”) non solo è un punto interrogativo, ma tale si continua a ribadire ad ogni piè sospinto che debba rimanere, perché a tutti e ciascuno è fatto divieto di ritenersene “il depositario” (il che implica la cancellazione di ogni ipotesi di collettiva riconquista delle “idee di società diversa” putacaso elaborate nel corso degli ultimi 200 anni; e guai a dire “marxismo” che equivarrebbe a ritenersi “depositari”). Si dovrebbe “aiutare la nascita di idee di società diversa e di immaginari...”, ma né marxismo né putacaso altre tradizioni (anche solo approssimativamente di sinistra, così ci sembra di capire e vogliamo credere) avrebbero a che fare con questo, e chiunque volesse esprimersi non attraverso oniriche stravaganti farneticazioni ma ponendo in chiaro la necessità di definire il programma di lotta contro il capitalismo (ovvero riconquistarne l’autentica sostanza contro tutte le ri-affondazioni che gli sono state propinate) viene tacciato di “depositario”.
L’evocata “critica sistemica al sistema liberista” (tanto “sistemica” da non arrivare mai a mettere in causa il sistema stesso, n.n.), almeno lessicalmente comprensibile, è teoricamente e politicamente un guscio vuoto. Perché lo sanno anche i sassi che il “liberismo” non è un sistema, ma è la prevalente ideologia politica del capitalismo. Prevalente ma non unica, avendo il capitalismo dimostrato che il cuore del suo programma politico (preservare e rilanciare le condizioni dell’accumulazione, dello sfruttamento del lavoro, del profitto) sa adeguarsi alle avverse condizioni storiche, per definirsi all’occorrenza in programmi anche molto poco “liberisti” e massimamente segnati da “dirigismo” statalistico. Dovrebbe inoltre essere storicamente provato che, quand’anche il dirigismo statalistico a pro del capitale assuma vesti sociali, nella versione democratica new-dealistica ma non di meno in quella “nazional-rivoluzionaria” (a comprova di un programma per nulla “alternativo” che contempla la versione destrissima a tutti gli effetti accanto a quella – non meno anti- proletaria – falsamente “di sinistra”), l’unico “altermondialismo” reale che in tal modo si fucina, in assenza di un vero protagonismo di classe che sbarri la strada al capitalismo in crisi e alle sue “soluzioni”, è quello di una nuova immane carneficina distruttrice e risolutrice. “Risolutrice” dell’impasse dell’accumulazione, e con esiti da “altro mondo” per decine di milioni di umani divenuti inutili al metro capitalistico (liberista o statalista in veste sociale che sia). Qui sì che c’è stata, nell’annichilimento politico del proletariato diviso nei fronti della seconda guerra mondiale, la sconfitta di lungo periodo del suo protagonismo di classe, l’unico che abbia i numeri (se in grado di definirsi e attrezzarsi ai propri compiti) per condurre la storia umana “oltre l’ostacolo” – da un bel pezzo tale – del capitalismo.
Per noi la richiamata consapevolezza dell’eclissi del movimento che è stato chiama in causa le responsabilità di imbelli leadership (e corrispondenti “idee di alternativa”), che su potenzialità e aspirazioni reali presenti nel “movimento dei movimenti” hanno potuto far leva per merare le danze di un programma ultra-sotto-riformista, dove l’ “alternativa”, a stringere il brodo di un’infinità di chiacchiere reticenti e ambigue, sarebbe quella di un capitalismo umanizzabile su singoli specifici aspetti, ma giammai identificato come la radice sistemica e irriformabile dei mali, né conseguentemente indicato e denunciato come il nemico che l’umanità è chiamata a sbaraccare se vuole realizzare quelle potenzialità e per poter conquistare ciò a cui legittimamente aspira.
Un siffatto corso, di cui andrebbe tratto impietoso bilancio, ha contribuito all’incapacità di quella mobilitazione di restare in piedi, e quindi poi all’annichilimento politico del proletariato in un quadro drammaticamente avanzato della crisi. Il che non vale la rinuncia per quelle leadership a riproporre sotto ancor più sdrucite vesti i propri fallimenti (dalle cui responsabilità, peraltro, non escludiamo affatto certi “rivoluzionari”, finanche “ultra-marxisti”, adusi a ritagliarvisi le proprie nicchiette tattiche da “sinistra estrema” in attesa di futuri “balzi”... all’indietro).
Secondo Agnoletto la repressione di Genova “ha obbligato il movimento a modificare le priorità e ne ha rotto la formidabile unità d’intenti”.
Non sarà piuttosto che anche attraverso la repressione ci è stata buttata in faccia la realtà di cui sopra: cioè che nessuna “riforma umanizzante” – magari da discutersi democraticamente con i potenti della terra – è data, perché, quand’anche il movimento e (men che meno) le sue leadership non lo abbiano assunto nei programmi, il capitalismo ha comunque risposto sul terreno reale, quello che ha visto contrapposte in prospettiva le aspirazioni umane pericolosamente agitate in piazze tendenzialmente sempre più internazionali alla sopravvivenza stessa del proprio sistema di sfruttamento e di generale alienazione della condizione umana?
Val la pena richiamare la lettera di qualche mese fa di una manifestante di Genova pubblicata dal manifesto a commento della condanna dei dieci processati per le giornate del luglio 2001, dove si legge: “Prima di Genova mi ero quasi abituata a considerare lo scontro con la polizia come una sorta di rito. Insomma, una scaramuccia. Lì ho capito che quando gli argomenti sul piatto sono pesanti si fa sul serio, o meglio la polizia e la politica fanno sul serio. Noi non eravamo e non siamo preparati a questo. Da allora prevale la sensazione che il mondo stia andando a rotoli ma non c’è altro da fare che consolarsi con le proprie piccole cose. E’ una fuga non dalle botte, ma dalla politica. Mi spiace davvero per quei ragazzi, ma la realtà dice che in fondo sono solo fatti loro”.
Questa lettera, per quanto ci riguarda, mette a nudo un altro “elemento che ha bloccato lo sviluppo”, quello di una sconfinata tanto quanto illusoria fiducia nella democrazia in larghissima parte del movimento e finanche in ambiti dalle pose più “radicali”.
Nelle parole trascritte noi leggiamo quel che già sapevamo, e cioè che la retorica sui manifestanti che mettono in causa i propri corpi, etc. etc.... altro non era che fiducia illimitata nella democrazia, che secondo questi “antagonisti” comprenderebbe finanche il “diritto costituzionale” alla scaramuccia di piazza senza conseguenze di rilievo, con la democratica polizia preposta a questo esercizio.
La comprenderebbe a maggior ragione se nel luglio del 2001 la mobilitazione di Genova è stata sì contro il G8, ma anche contro Berlusconi appena tornato al governo insieme agli ex-fascisti, sicché il movimento di Genova poteva veramente realizzare “una formidabile unità d’intenti” aprendo le braccia alla partecipazione delle espressioni sindacal-politico-associative dell’intero arco centro –“sinistro”, già affetto da paralisi durante gli anni di “governo amico” ma desiderose ora di riprendere la piazza per il nuovo quinquennio di opposizione “movimentista” e “unitaria”.
Tutti dimentichi, ovviamente, del pre-Genova nel marzo dello stesso anno a Napoli, quando c’era ancora il “governo amico”. Allora un poliziotto all’opera nelle cariche partenopee ebbe a postare in un blog sulla rete qualcosa del genere: “brutti stronzi no-global avete assaggiato la forza dello Stato democratico e vi sta benissimo”. I poliziotti ci sputavano in faccia la verità (la forza dello Stato democratico contro i manifestanti), quando di lì a qualche mese da “sinistra” si sarebbe strillato di “sospensione della democrazia in stile cileno”... . Lo fece anche D’Alema in parlamento: a Napoli, quando era lui al governo, “la forza dello Stato democratico contro i manifestanti”; a Genova, quando ormai governava Berlusconi, la democrazia sospesa e il Cile!
Peggio ancora, poi, se anche da pulpiti disobbedienti si veniva a imputare allo Stato di aver lasciato fare i black bloc aggredendo invece i cortei autorizzati e i manifestanti pacifici. Dunque una democrazia talmente cogliona che assecondi le scaramucce rituali di quanti scendono in piazza con queste intenzioni, e che solo avrebbe il diritto (anzi il dovere) di fare sul serio contro i black bloc andandoseli a capare dove sono, dovendosi comunque astenere da ogni iniziativa violenta contro la massa pacifica e “innocente”. Illusioni amaramente servite! Noi, che in quel di Genova non abbiamo condiviso i casseurs (essendo pronti a discutere nelle assemblee, nella piazza e in ogni occasione data con chi volesse), mai siamo stati sfiorati dall’idea di pestare i piedi gridando che la polizia aveva lasciato fare i black bloc e invece si era accanita contro la massa “incolpevole”.
Emblematica la conclusione: se la democrazia non è comprensiva del rito della scaramuccia in gommapiuma e tollerata, allora arriva la fuga dalla politica, con buona pace per i condannati di Genova abbandonati al loro destino. Per parte nostra possiamo almeno dire di non aver mai concesso niente, prima durante e dopo le giornate di Genova, a questo tipo di posizioni, la cui sostanza è almeno resa esplicita nella confessione della lettrice.
Andando oltre, per ragionare veramente sugli elementi che “hanno bloccato lo sviluppo”, occorre prendere atto che il movimento “altermondialista” non ha retto politicamente quando “loro” hanno “fatto sul serio”, anche perché, pur avendo chiamato in campo e raccolto la partecipazione di molti lavoratori, non ha potuto avvalersi della scesa in campo del proletariato organizzato (decisiva invece, considerati i meriti in gioco), essendo il proletariato (ci riferiamo all’Italia in particolare) piuttosto disgregato e malconcio di suo, già allora e ancor più oggi. Quel movimento, pur essendo partito con la partecipazione e l’apporto dei portuali di Seattle, non ha poi visto la classe operaia prenderne la testa, assumerne le ragioni e l’organizzazione, dirigerne la battaglia. Per quanti già avevano “dichiarato guerra al G8” questo è evidentemente un problema ozioso. Per noi non si tratta del divieto di alzar foglia (soprattutto se aggrediti dallo Stato) finché non torni in campo la mitica classe operaia, ma neanche che questo piccolo problema possa essere bellamente omesso, se è vero – come si disse – che il programma era la “guerra al G8”.
Soprattutto, il movimento no-global non ha saputo tradurre la denuncia dei mille disastri causati dal capitalismo in denuncia del capitalismo stesso in quanto sistema, così finendo per disperdere, invece di unificare e potenziare, le mille genuine istanze da cui nasceva. Le leadership hanno potuto preservare “la formidabile unità d’intenti” delle proprie burocrazie grazie ai contorcimenti delle loro ambiguità pseudo-programmatiche, ma l’assenza dell’unico programma politico all’altezza dei meriti in gioco ha disunito e disperso aspirazioni e istanze che necessitano e oggettivamente chiedono di unificarsi in un programma di lotta mondiale del proletariato e delle classi oppresse contro il capitalismo.
Inoltre, e di questo non si scorge la minima traccia nel bilancio del portavoce Agnoletto, di fronte all’11 settembre e alle nuove aggressioni all’Afghanistan e all’Iraq, il movimento no war (come anche allora veniva appellato), che pure non aveva abbandonato immediatamente il campo scendendo ancora nelle piazze italiane fino al 2003 con numeri più che ragguardevoli, non ha però né definito né radicalizzato la posizione di mera proiezione e considerazione verso le sofferenze dei popoli dominati (rimasta tale), assumendo (come non ha fatto) lo schieramento aperto al fianco della loro lotta contro i propri imperialismi.
Questo è indubbiamente mancato e le responsabilità sono nette. Come può un movimento “altermondialista” dapprima portare in piazza le sofferenze e le rivendicazioni delle popolazioni oppresse dall’imperialismo, riempire le piazze con manifestazioni oceaniche pensando di dissuadere i propri governanti dallo scatenare ulteriori criminali aggressioni militari contro tutti i paesi che non gli si sottomettono, astenendosi però dal passo ulteriore, cioè dal rivendicare la lotta degli oppressi contro l’imperialismo come parte integrante della propria stessa lotta, tendendo a unificare le forze di una risposta unitaria (quale “alter-mondialismo” sennò?) contro la guerra globale del capitalismo imperialista contro i lavoratori e gli oppressi dell’intero globo? In assenza di questi passi, quando l’imperialismo spinge l’acceleratore della sua guerra infinita (Afghanistan, Iraq, Libano, Palestina e poi Libia, Siria, Mali, etc.), il movimento “altermondialista” non sta in piedi e sparisce con disonore. Né possono accamparsi scuse, perché la più chiara posizione di schieramento dalla parte delle masse oppresse e aggredite dall’imperialismo e con la loro lotta sul terreno ad esse imposto dal “nostro” imperialismo non esclude e anzi pretende la demarcazione più netta del nostro internazionalismo di classe da qualsiasi diverso programma più o meno “antimperialista” in campo.
Nonostante le grandi mobilitazioni no war gli imperialisti d’Occidente, dopo l’Afghanistan (2001), scatenarono nel 2003 la nuova devastante guerra contro l’Iraq, risultando inefficace il “potere di dissuasione” che risparmiasse alla massa mobilitata l’onere di radicalizzarsi in uno scontro effettivo contro il proprio imperialismo, disposto per il suo a “fare sul serio” radicalizzando con tutta la bestialità che gli appartiene l’aggressione anti-proletaria in Iraq e ovunque altrove.
Nella risacca di riflusso si posero al centro della scena (fatta sempre più di convegni para-istituzionali, omesso ogni tentativo di rilanciare una piazza non più in grado di imporsi) quei “pacifisti stile Assisi” sempre pronti ad agire da supporto al “pacifismo” – imperialista e guerrafondaio – dell’ONU, ovvero ad affettare la propria ambigua ansia di “pace” in parzialissime critiche rivolte alle aggressioni “unilaterali” degli Stati Uniti d’America e delle loro “coalizioni di volenterosi”, per garantire invece un sostanziale via libera alle guerre imperialiste che soltanto fossero “regolarmente validate dalle risoluzioni dell’ONU”. Insomma un “pacifismo” schierato con la pacificazione imperialista, purché democraticamente targata ONU.
Non staremo qui a ripercorrere tutta la china che ha visto sempre più in ombra nella “sinistra radicale” (ma poi anche in quella “rivoluzionaria”) le voci anche solo lontanamente associabili a sussulti di internazionalismo di classe e alla denuncia delle aggressioni occidentali su queste basi, per lasciare spazio (ad esempio) alla recente candidatura nella lista Ingroia del “pacifista stile Assisi” Flavio Lotti (candidatura più che coerente con il profilo generale della aspirante Syriza italica). Ci basti ricordare, andando per grandi salti ma dando efficacemente il senso di quanto sosteniamo, che la mozione congressuale della “Cgil che vogliamo” per il congresso del gennaio 2010 conteneva bensì la richiesta “di ritiro senza condizioni delle truppe italiane dall’Afghanistan”, motivando pero con queste parole: “è giunto il momento di una riflessione approfondita sulla situazione in Afghanistan. La Cgil... ritiene necessario definire una strategia di uscita del contingente italiano da quella che non si configura più certamente come una missione di pace”. Ovvero, finché c’era stato il “governo amico” di Prodi, “la missione” era stata da costoro riconosciuta “di pace” (“stile Assisi” appunto) e veniva tranquillamente votata in parlamento; salvo sostenere, una volta che a palazzo Chigi era tornato Berlusconi, che “la missione non si configura più come missione di pace”. Letto confermato e sottoscritto non solo dalla Fiom, già in piazza nel 2001 a Genova, ma anche da tantissime buone lane di “sinistri critici” e “trotzkisti” vari, immancabilmente pronti a spergiurare se stessi pur di potersi preservare le proprie nicchie all’interno della più squallida burocrazia pseudo-sinistra.
Ma il peggio doveva ancora venire ed è venuto quando non solo la parte più istituzionale del “movimento altermondialista” e del fu Social Forum, ma anche una lista lunghissima di forze e organizzazioni di “sinistra radicale” ed “estrema”, finanche “rivoluzionarie” e ultra –“marxiste”, dopo aver messo la sordina al proprio “altermondialismo” sottoscrivendo di sottecchi porcherie come quella sopra riferita, hanno invece ripreso gran voce (i “trotzkisti” al gran completo) per sostenere le “meravigliose” rivolte libica e poi siriana contro i dittatori di turno (dopo Sadddam, Gheddafi e ora Assad). Laddove il capovolgimento è di 180 gradi: nel settembre 2001 si scendeva in piazza per contrastare l’imminente aggressione militare all’Afghanistan e poi ancora nel 2003 per contrastare quella all’Iraq, ora invece non solo non si è mossa foglia di mobilitazione contro i massicci bombardamenti occidentali sulla Libia (e poi contro la replica del copione in Siria), perché, ben oltre di ciò, gli “altermondialisti” di ieri si sono schierati in grandissimo numero dalla parte dei rivoltosi libici e siriani impegnati a spodestare il tiranno in dichiarata alleanza con gli avvoltoi occidentali. Nel 2001 e negli anni successivi si era in campo come che sia contro le aggressioni dell’Occidente imperialista ai paesi arabo-islamici, ora Rossanda è venuta a proporre la costituzione di brigate internazionali da inviare al fianco dei rivoltosi libici e dei bombardieri occidentali tutti insieme impegnati alla distruzione del paese, e il manifesto, se ancora non fosse stato chiaro il proprio punto di vista, ha titolato in proposito: “Benedetta NATO” !!
Ci dicano Agnoletto e compagnia quale “movimento altermondialista” sia possibile e auspicabile su queste basi! Ci dicano se non ritengono che il sostanziale appoggio o comunque la passività degli “altermondialisti” di ieri di fronte ai nuovi capitoli della guerra infinita dell’Occidente, che dopo Afghanistan e Iraq prosegue in Libia e Siria, non equivalgano per caso al sostanziale ribaltamento delle premesse di Seattle, di Genova e di mille altre piazze mondiali di quegli anni. Chissà perché tra gli elementi “che hanno bloccato lo sviluppo” Agnoletto non annovera il fatto che la più gran parte delle forze che già scesero in piazza contro le guerre dell’Occidente sono poi finite a battergli le mani e comunque a garantirgli il via libera quando è venuto il turno di Libia, Siria, e si vedrà il resto.
La realtà è che ai “pacifinti”, sempre pronti a lasciar cadere la denuncia del proprio imperialismo, si sono aggiunti molti altri più “radicali” e “rivoluzionari” incapaci di discernere il grano dal loglio nelle cosiddette “primavere arabe”, finendo per abbandonare il campo della mobilitazione contro la guerra imperialista, anzi rischiando e concretamente finendo nel campo avverso. Sul che abbiamo ampiamente scritto e ai nostri molteplici interventi rimandiamo.
Quanto è emerso dal recente Forum Sociale Mondiale di Tunisi del 26-30 marzo scorsi, necessariamente messo alla prova dell’impatto con gli eventi recenti nel mondo arabo, non fa che confermare la deriva delle leadership “altermondialiste”, e anche delle componenti non costituzionalmente affette da sciovinismo pro-imperialista.
Al riguardo ci sembra addirittura paradossale (e significativo) che, mentre è in corso in Siria – dopo la distruzione della Libia ad opera degli stessi registi – una guerra per procura attivamente supportata dall’Occidente e da forze e governi islamici reazionari, l’apporto degli italiani si sia caratterizzato per mettere al centro del Forum di Tunisi la questione della Palestina, cui si rende un pessimo servizio usandola per omettere la presa in carico e la denuncia di quanto è accaduto in Libia e si ripete in Siria (tra l’altro con contraccolpi evidenti sulla stessa questione palestinese, pur essi omessi). Dunque, mentre la Libia è distrutta e in Siria è in atto la prosecuzione della guerra infinita dell’Occidente con mezzi al momento solo in parte diversi (senza peraltro dimenticare il Mali), il Forum Sociale Mondiale non mette l’aggressione imperialista in questi paesi al centro dell’iniziativa. Il resoconto dei Cobas, proseguendo la “formidabile unità d’intenti” con Arci e quant’altri, non riferisce di alcun dibattito, alcuna iniziativa, alcun contributo di analisi e di schieramento su quanto è accaduto e accade in questi paesi. Soprattutto non c’è neanche una parola di denuncia del governo italiano che ha concorso a bombardare la Libia e supporta i ribelli siriani, così come i militari francesi in Mali. E poiché invece le cronache del Social Forum danno conto di tensioni tra le componenti salafite che appoggiano i “liberatori” della Siria e altri tunisini che negano decisamente che la guerra per procura in Siria abbia a che fare con la loro “rivoluzione” (ritenete, compagni dei Cobas, che anch’essi “storcono il naso” sulle “primavere arabe”, o non è corretto pensare che sanno piuttosto discernere il loglio dal grano?), l’unica cosa che gli italiani hanno da dire in proposito è la penosa rivendicazione di essersi messi in mezzo per evitare lo scontro. I resoconti del manifesto e la “valutazione” messa in rete dai Cobas sono sostanzialmente in linea nel riferire sul “contributo” portato dagli italiani: nessuna denuncia dell’azione e dell’aggressione anche direttamente militare dell’Italia in Libia e Siria; generale omissione del tema, ridotto, quando comunque esplode, a contesa interna al mondo arabo, rispetto alla quale gli “altermondialisti” europei si assumono il compito di pacieri che nella contingenza “mediano” tra le parti in causa, escludendo ogni responsabilità del proprio l’imperialismo, nemmeno citato e del quale si copre l’azione a supporto della ribellione anti-Assad, sperando magari che non consegni il potere alle componenti islamiche più incontrollate (Rossanda docet).
Concludendo: nessuna ripartenza è possibile sulle sabbie mobili ri-propinate da Agnoletto.
La ripartenza è invece data nell’insopprimibile necessità di difesa degli
sfruttati e nella capacità di un bilancio serio che individui le responsabilità dei fallimenti orientando
le forze in tutt’altra direzione.
18 aprile 2013